Erianthe Diana Cobraus; born in 1997, 26 yo; mother of Eiríkr (2 yo) and Freyja (1 yo); deals with Lucifer Morningstar; OC with some info taken here and there.
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𝟏𝟒.𝟎𝟐.𝟐𝟑
❛ WRITING CHALLENGE Marzo ❜
Day 9. — Scrivi un testo breve, il genere a tua scelta, ispirato da un'immagine presente nella galleria del tuo cellulare. — from sticky note. San Valentino la giornata dell'amore e sicuramente in molti la celebrano come giornata di cene per due, percorsi spa, prenotazioni d'albergo, viaggi. Non per lei, non per quella giovane testa matta che di quella giornata al massimo si ricordava di essersi sempre ingozzata di cioccolatini ricevuti e mai ricambiati. Al massimo chiedeva: perché? E dall'altra parte balbettavano qualcosa come "m-m-m-i p-p-iaci". E lei scuoteva la testa, come a voler dire loro povero te, ringraziava per i cioccolatini, puntualmente li rifiutava e puntualmente loro li lasciavano nelle sue mani. Non che il passare del tempo l'avesse cambiata, quella era una giornata come tante altre, al massimo usciva a fare un picnic con gli amori della sua vita: i cani in precedenza, i suoi figli e le due persone che avevano iniziato a condividere una vita con lei dopo. Cosa poteva farci quindi se non immortalare quel regalo come fosse un momento idilliaco. Sapeva non ci fosse nulla di organizzato quel giorno, probabilmente sarebbe rimasta in casa solo per essere una mamma a tempo pieno con i suoi bambini, non a caso al suono del campanello di prima mattina la sua fronte parve corrucciarsi. Non appena vide il fattorino notò subito la sua espressione, non era al solito super noiosa, come se stesse consegnando la medesima cosa per la 31esima volta, la sua espressione era tutto fuorché normale, anzi, pareva starsi trattenendo dalle risate da più ore, paonazzo com'era. Con la sua voce traballante chiese della giovane per una firma prima di uscire una specie di mazzo gigante, non c'era un solo fiore in quella composizione e non stentava a credere la reazione del fattorino, di sicuro era uno dei mazzi più strani che si potessero vedere girare quel giorno. Compatì il povero uomo per quella follia assolutamente inconcepibile, doveva essere stato folle per quel povero uomo che ignorava il suo deficit. Le era bastato uno sguardo per capire da chi provenisse e non appena firmò il tutto dovette contare fino a duemila, attendendo che il fattorino riprendesse la sua strada per poter implodere in una risata fragorosa trattenendo a stento le lacrime per quanto fosse divertita dalla situazione. Divertita ma pur sempre appagata dal pensiero finissimo che aveva avuto nei suoi confronti e ovviamente fiera di non essersi conformata neppure in quel giorno. Era un mazzo sì, ma di verdure di ogni tipo, con annessi bastoncini di cannella a mo' di decorazione, peperoni, funghi, anice stellato, verdura mista da parte di qualcuno che sapeva perfettamente che i fiori non erano esattamente il suo forte. Ogni singolo fiore ricevuto durava il tempo di un battito di ciglia, perfino quelle finte erano capaci di disintegrarsi, era uno degli inside jokes che ripeteva di continuo quello. Non c'era nulla da dire, per una che quella giornata neanche sapeva come celebrarla se non trattando i suoi pargoli come futuri re e regina, aveva avuto il suo attimo di gloria, con una dimostrazione assai generosa d'affetto.
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𝐀𝐦𝐚𝐫𝐞 𝐪𝐮𝐚𝐥𝐜𝐮𝐧𝐨 𝐯𝐮𝐨𝐥 𝐝𝐢𝐫𝐞..
❛ WRITING CHALLENGE Marzo ❜
Day 8. — Racconta la tua prospettiva sull'amare qualcuno. Iniziando il testo con: “Amare qualcuno è/vuol dire..”. — from sticky note.
𝗡𝗼𝘁𝗮: Lo so che la consegna dovrebbe esser fatta in prima persona, però questa è esattamente la prospettiva di Erianthe scritta di mio pugno, spesso ha detto la sua su questi argomenti. Siccome io sono stronza ed essendo questo un canale dove io racconto di Erianthe, non dove Erianthe si racconta, ho arbitrariamente deciso di scriverlo come autore esterno. Spero possiate perdonare l'audacia (aka spero lo faccia Tevvoplayer). Amare qualcuno vuol dire...e che ne poteva sapere lei con certezza cosa volesse dire, lei che dell'amore aveva una così variopinta concezione che agli occhi degli altri risultava quasi strana, assurda. L'aveva sempre detto che non trovava differenza alcuna nel dimostrare amore ai suoi genitori tanto quanto lo dimostrava ai cuccioli di terrier del vicino di casa. O al cavallo che andava a trovare ogni domenica mattina. Amare qualcuno non doveva per forza avere una definizione statica nella sua concezione, voleva dire esserci, esserci per quella persona e non soltanto con la presenza, ma anche con l'assenza se necessario, sapere quando interrompere una discussione, capire quando sarebbe stato il caso di mettere un punto per poter affrontare il tutto a mente serena. Lasciare gli spazi, fondamentali. E non si limitava a dimostrarlo con un unica persona, a lei non piaceva quel genere di distinzione, neppure riusciva ad immaginare un più o un meno in quel contesto. Si dava all'esperienza in toto, senza privarsi di nulla. Che poi si chiamasse affetto, amore, emozione, istinto, qualsiasi nome gli si voglia dare, di quello non ne aveva la benché minima cura. Se doveva etichettare qualcosa, indubbiamente era qualcosa da posare in dispensa o nella cartella, fra un pennello e l'alto o un colore e l'altro. Quante volte se l'era sentito dire: "ma quello di cui parli tu non è amore". E allora s'era pure conformata all'idea di non sapere manco cosa fosse lei, l'amore. Ma perché poi doveva pensare che loro avessero ragione e lei fosse quella in torto? Chi lo diceva che amare dovesse riguardare solo gli esseri umani e non un cielo stellato, chi lo diceva che per amare qualcuno questo dovesse unicamente confinare in un'unica persona, perché se lei provava esattamente le stesse cose non poteva dare quel nome che altri le dicevano "no, si ama solo una persona". Perché?
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𝐅𝐨𝐫𝐠𝐢𝐯𝐞 𝐦𝐞 𝐟𝐚𝐭𝐡𝐞𝐫, 𝐟𝐨𝐫 𝐈 𝐡𝐚𝐯𝐞 𝐬𝐢𝐧𝐧𝐞𝐝.
❛ WRITING CHALLENGE Marzo ❜
Day 5. — Scrivi un testo breve, non importa il genere, con questi tre elementi: una memoria inviolabile / una cicatrice sul corpo / rabbia crescente . — from sticky note. Ha delle lesioni sulle ginocchia, sui gomiti, le croste di evidenti strisciate contro un pavimento per nulla liscio; in altri contesti si sarebbe messa a ridere al pensiero di qualche caduta, magari una delle sue tipiche cadute, una di quelle che nemmeno si era pentita di aver fatto perché aveva scalato un muro o s'era arrampicata per dare da mangiare ad uno dei falchi che si appollaiavano nell'albero di fronte casa. In altri contesti certo; a vedere quelle invece sentiva un senso di rabbia crescente, mista tuttavia ad uno ben pressante di inadeguatezza. Continui flash la riportavano indietro le annebbiavano la vista, si rivedeva cadere come fosse di piombo, vuoto, poi di nuovo delle voci, vuoto, le mani sulla sua pelle, vuoto, il mugugno uscito dalle sue labbra in protesta, vuoto, la furia delle sue urla, l'immobilità del suo corpo. Lanciò di colpo il grosso album di disegno che teneva fra le mani. Da giorni non faceva altro che stare seduta sul davanzale della finestra a disegnare, a provarci. Il carboncino finì contro la porta sporcando quel colore della vernice tenue come fosse una macchia indelebile, una macchia che sarebbe rimasta a vita in quella distesa di colori freschi e pastellati. Fissò quelle ferite con sdegno, provandolo poi per sé stessa ripensando a quanto non era neppure riuscita a guardare in faccia i suoi familiari, da figlia indegna quale si sentiva. Li aveva delusi su più fronti. Loro, che si erano sempre mostrati presenti, lei era riuscita a farsi sdegnare. Non era riuscita nemmeno a chiedere scusa, non osava guardarli, non osava avvicinarsi a loro. Non avrebbe mai sopportato il loro sguardo deluso. Quale senso aveva la sua vita a quel punto, miserabile come s'era ridotta? Present days. Passò una mano sulla pancia super piena, Erianthe, fissando con un sopracciglio alzato il piatto ancora pieno del padre. La cucina americana era troppo grassa a detta sua, "troppo grasso che cola qui", diceva. Allungò il braccio come a dirgli di mangiare o l'avrebbe preso lei, ma suo padre afferrò quel braccio come fosse un cimelio prezioso, delicato come stesse toccando cristallo. Lasciò che le dita tracciassero quelle rette parallele sul braccio, segni di un passato turbolento, di una mente in difficoltà. « Quando tua madre ti trovò in quella vasca, quel giorno ho sentito anche io come una ferita che mi ha lasciato una cicatrice sul corpo o addirittura sul cuore stesso. L'idea di svegliarmi e non trovarti, Erianthe, ha segnato profondamente la mia vita sai? Come puoi vivere bene sapendo che tua figlia ha la convinzione di essere odiata da suo padre, che mai l'avrei guardata deluso dalle sue scelte? Mi sono sentito un fallito, fallito come uomo, come padre. Avrei dovuto ascoltarti anche se parlavi in silenzio. » Suo padre non era mai di grandi discorsi ma ogni tanto sbucava con certe frasi che l'ammazzavano come ben poche cose, nella maggior parte dei casi la faceva ridere come nessuno riusciva, ma c'erano attimi in cui sentiva ogni parte del suo essere spezzarsi. Chiuse gli occhi sentendo l'insormontabile crisi di pianto sbucare fuori, sedette sulle sue gambe affondando il viso contro il suo petto come faceva da bambina, in quella memoria inviolabile che aveva di lui. Come aveva potuto fargli passare attimi così angoscianti? Il resto aveva ben poca importanza, era solo la sua "piccola guerriera" inconsolabile come quando rientrava in casa dopo aver sbucciato un ginocchio o aver perso lo slittino preferito.
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❛ WRITING CHALLENGE Marzo ❜
Day 4. — Racconta di un affetto a te caro dal punto di vista di un suo nemico/antagonista, se non esiste: inventalo. — from sticky note. 𝐕𝐚𝐦𝐩𝐢𝐫𝐞 𝐦𝐚𝐬𝐪𝐮𝐞𝐫𝐚𝐝𝐞.
Che stolti. E dire che aveva sentito un paio di suoi simili alla corte del Re (non il suo di Re) essere provenienti da quella organizzazione da quattro soldi, solduncoli direbbe lui. Era troppo anziano per poter giovare di quella marmaglia di individui, non si sarebbe neppure sprecato per quella gente, lui, dall'alto dei suoi millenni nonostante l'eterno aspetto di un giovane trentenne. Ne erano passati di anni, loro erano quelli che sapevano, ma nel corso degli anni non si erano mai azzardati a tanto, loro rimanevano sempre in disparte quelli del Talamasca, non si intromettevano mai. Diverse faccende poi li avevano portati a farsi padrone della "quiete umana". Ed era certo che il suo atteggiamento avrebbe destato molte attenzioni, ma era solo una piccola parte di un grandissimo piano; compreso il prendersi gioco di quel vecchio che credeva di avere un accordo con lui. Lui Roshamandes, figlio dei millenni che prendeva accordi con un volgare umano. Doveva essere proprio stolto, accecato dal potere ed intimorito dal suo imminente appuntamento con la morte. Mi restano 3 mesi da vivere, gli aveva supplicato di trasformarlo. Non c'era migliore occasione che prendersi agi che solitamente non avrebbe avuto. Era sul punto di andarsene, lasciando ai suoi "scagnozzi", l'occuparsi di quei cinquanta decerebrati che pensavano di poter far fuori uno come lui solo perché in pieno giorno, se non fosse stato per il forte richiamo che lo teneva bloccato in quel posto. Era come afrodisiaco, dolce più del miele, l'odore più raffinato e forte che avesse mai sentito. Sonja, l'aveva chiamata quell'uomo al suo fianco, e dal modo in cui la guardava si vedeva fosse tutto per lei, sguardo che lei ricambiava con una punta in più d'affetto. Si sentì quasi offeso da quell'affronto, come poteva guardare in quel modo un tale essere inutile, avrebbe annientato quella luce dai suoi occhi. Distruggere quei due sarebbe bastato a movimentare la giornata. L'avrebbe lasciato per ultimo lui, quell'eunuco che pensava di avere le grinfie sulla donna che sarebbe diventata sua, lasciandolo a guardare come avrebbe spento la vita di quella che probabilmente era l'unica gioia della sua vita. Con i suoi occhi sovrannaturali seguiva quella figura ballerina, elegante nella sua tenuta da killer. Bellissima poiché fragile. Avrebbe potuto schiacciarla fra due mani, ma aveva intenzioni ben diverse per lei, era il suo trofeo. C'avrebbe danzato, fianco a fianco con la morte stessa. Sonja, ripeté accarezzando con la lingua ogni lettera.
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𝐃𝐨𝐧'𝐭 𝐬𝐥𝐞𝐞𝐩.
❛ WRITING CHALLENGE Marzo ❜
Day 2. — Scrivi un testo breve, non importa il genere, con questi tre elementi: una tempesta di pioggia / un vecchio pianoforte / dormire profondamente. — from sticky note. Non ricordava con precisione quando accadde, era solo certa di aver smesso di dormire profondamente da quando aveva smesso di chiedere aiuto ai suoi genitori per allacciarsi le scarpe, anzi, forse aveva già smesso di farlo ancor prima di capire cosa significasse la vita stessa. E non c'era verso di far cambiare le cose; c'aveva provato a prendere sostanze che le conciliassero il sonno dalle più leggere alle più pesanti; a tal punto da vivere in una costante bolla attorno alla sua mente, dimenticandosi perfino a quale nome rispondesse. Così come aveva provato a resistere alle visioni agghiaccianti, esile e minuta bloccata in un letto troppo grande per lei. Alla fine aveva preso a farci l'abitudine; il corpo s'era dimenticato cosa fosse dormire - non che alle volte quelle membra pesanti non le chiedessero pietà. L'affaticamento, la spossatezza, la stanchezza li sentiva tutte come parti integranti del suo essere. Eppure di riuscire a vagare per intere notti in mondi ovattati, quello non era contemplato per la sua natura, mai. Viveva quei scarsi momenti di sonno passeggeri, come una nave in mezzo all'oceano e non nel lento sciabordio, docile che ti culla. Era più simile ad un continuo ballare durante una di quelle terribili tempeste di pioggia nella notte, sperduta senza un briciolo di terra alla quale appigliarsi. Scaraventata in acqua, la percezione era pressappoco la stessa, come se quel mare burrascoso la inghiottisse senza lasciarla respirare, un peso nel petto che le avrebbe impedito di risalire su, verso la superficie, nella speranza di un vago aiuto. Le sembra di stare urlando; le bolle le escono dalla bocca, ma nulla cambia. Nulla di tutto ciò è vero, è solo l'ennesimo sogno, l'ennesimo tentativo di riposo. Nulla di vero. Anche se la fronte impregnata di sudore avrebbe potuto far pensare uscisse davvero da quell'esperienza. Non le restava che scrollarsi di dosso la sensazione, affondando ogni singolo timore in un paio di auricolari. Gli occhi chiusi mentre le orecchie vengono accarezzate dal suono di una docile melodia provocata da tasti d'avorio, immagina le dita di antichi compositori scorrere su quei tasti, immagina quel vecchio pianoforte nella salone, ed è subito pace.
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𝐃𝐢 𝐮𝐧𝐚 𝐬𝐨𝐬𝐭𝐚𝐧𝐳𝐚 𝐞𝐬𝐭𝐫𝐚𝐧𝐞𝐚.
❛ WRITING CHALLENGE Marzo ❜
Day 1. — Scrivi e racconta la tua personalità come se stessi parlando da un punto di vista esterno, quindi in terza persona. — from sticky note Non s'era mai conformata all'idea stessa d'essere come gli altri, a partire da primi passi compiuti si capiva. Erianthe, suo padre amava quel nome gli era rimasto impresso dal viaggio fatto con la moglie, aveva adorato i templi, la cultura annessa e da quando l'aveva sentito s'era innamorato di quel suono esotico, che poi non era mai riuscito a replicarlo come dovuto. Era strana lei fra le vie di Bergen con un nome che non aveva nulla a che fare con quei suoni, non c'erano nomi legati a divinità ne nomi comuni, che poi di comune non avesse neppure l'animo quello si sarebbe scoperto poi. Era silenziosa come ben poche cose, da neonata, anche in questo contesto totalmente fuori dal comune, non la si sentiva piangere lei, no, ogni tanto sua madre doveva controllarla per accertarsi fosse viva ed anche quando piangeva aveva quel suo strano modo di piangere, spalancando la bocca in una smorfia, gli occhi pieni di gocce, lucidi di affronto, ma nessun suono così esasperante riusciva ad uscire da quella bocca. Era proprio nel suo mondo. Un mondo che riuscì a trascinarsi dietro lungo il suo cammino, aveva strane voglie lei per essere una bambina, non chiedeva ne pretendeva mai nulla, giocava con le pinze per il bucato e l'erba, non voleva bambole, chiedeva di andare a vedere i falchi delle montagne. Ogni tanto diceva: "papà andiamo a tuffi" oppure "mamma io cucina io cucina". Ma che fosse esageratamente estranea a tutte le norme questo col tempo divenne quasi una certezza, conformarsi proprio non era per lei, era come un universo a parte, fatto di una consistenza diversa, fatto di un mondo tutto suo, sconfinato ed infinito.
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𝐏𝐄𝐑𝐅𝐄𝐂𝐓 𝐈𝐌𝐏𝐄𝐑𝐅𝐄𝐂𝐓𝐈𝐎𝐍 — 𝐄𝐩𝐢𝐬𝐨𝐝𝐞 𝐩𝐢𝐥𝐨𝐭 - 𝐏𝐚𝐢𝐧.
| Nota player: ho deciso arbitrariamente - un po' per una questione di semplicità, un po' per puro piacere - di lasciare che questi stralci di pensieri vengano scritti come se la coscienza di Rian si rivolgesse a lei dandole del tu. Non ho specificato nei primi perché non ero sicura di mantenere la stessa forma stilistica, però mi piace, quindi ve la tenete così. 𝐏𝐄𝐑𝐅𝐄𝐂𝐓 𝐈𝐌𝐏𝐄𝐑𝐅𝐄𝐂𝐓𝐈𝐎𝐍 – ❝ 𝖠 𝗉𝖺𝗂𝗇𝗍, 𝖺 𝖽𝗂𝗌𝗍𝗈𝗋𝗍𝖾𝖽 𝗋𝖾𝖺𝗅𝗂𝗍𝗒 𝗈𝖿 𝗐𝗁𝖺𝗍, 𝗆𝖾, 𝗍𝗁𝖾 𝗉𝖺𝗂𝗇𝗍𝖾𝗋 𝗐𝖺𝗇𝗍𝗌 𝗒𝗈𝗎 𝗍𝗈 𝗌𝖾𝖾; 𝖺 𝖿𝖺𝖽𝖾𝖽 𝗌𝗆𝗂𝗅𝖾 𝗂𝗇 𝖺 𝖼𝗋𝗎𝖾𝗅 𝗆𝖾𝖺𝗇𝗂𝗇𝗀 𝗈𝖿 𝗍𝗁𝖾 𝗅𝗂𝖿𝖾. ❞ ❝ I’m gonna lift you up into the light that you deserve. ❞ Quando è stato? Te lo ricordi? Quando hai finalmente detto basta a tutto? Certo che lo ricordi. Eri poco più che una lattante cresciuta, poco più che un essere insignificante trasandato, eppure, qualcuno è riuscito a scavare oltre quella coltre di putrido per scovare una parvenza di anima inviolata. Lo ricordi bene quel giorno, da quel momento ogni giorno sollevavi la testa dal cuscino per uno scopo ben preciso. Uno scopo che ti hanno messo nelle mani come il più antico dei segreti. No, non stai ridendo, perché lo sai bene quante volte sei dovuta cadere, quante volte il tuo sangue misto al sudore si è riversato in quei tappeti formatori. La tua via non era mai stata così chiara come in quel momento. Sei sacrificabile, certo, ma di un valore inestimabile, che trascende ogni tipo di livello. Trascende il tempo. Trascende la realtà conosciuta come tale. Trascende il senso comune di ogni forma di vita umana. Trascende perfino l’ideologia di umanità stessa. Non è stato semplice, per questo non sorridi adesso guardando i passi che hai fatto, non hai nulla per la quale sorridere è stata una strada piena di macerie, di vite distrutte – vite o non vite. Ma non è quello che hai sempre voluto? Far sì che la tua parola avesse finalmente una ricognizione, far sì che possa essere ascoltata con i giusti metodi? Non puoi semplicemente fermarti a guardare i traguardi che hai ottenuto sollevandoti così tante volte che la morte stessa ha deciso di farsi innumerevoli giri pur di non affrontarti? No, non puoi. Perché sai che non finirà mai. Avrai sempre qualcosa puntato sulla tua testa, che ti schiaccia, che ti farà sentire stremata, che ti preme contro il pavimento freddo. Quel pavimento dalla quale solo all’ultimo, infine, riuscirai a sollevarti, arrancando e afferrandoti con qualsiasi appiglio con le unghie. Quello ti rende ciò che sei, prima di ogni cosa. Sei una combattente, e lo sei sempre stata, addestrata a superare gli ostacoli fisici o mentali che siano.
❝ I wanna take your pain into myself, so you won’t hurt. ❞
La ricordi quella sensazione; quando la mente cominciava ad estraniarsi, vacillando in un mezzo status di coscienza e non coscienza. La ricordi come una fievole luce di salvezza – seppur quel gesto, infine, ti ha condannata ad un’eterna dannazione. Ricordi perfettamente quando le tue pagine erano interamente inserite da rabbia irrisolta. Parole scritte furiosamente con quell’inchiostro nero pece come il vuoto profondo lasciato al posto dell’anima lacerata: “vorrei solo che qualcuno mi lasciasse parlare” dicevi. Oramai è passata. Quando sei giunta all’apice della tua disperazione hai finito per fare l’unica mossa che ti rimproveri, ma che alla fine ti è servita per essere ciò che sei. Esatto, lo sai, è superata. Oramai quella necessaria voglia è finita, oramai il tuo unico pensiero è quello di vivertela al meglio; ne è passato di tempo da tuo urlo d’aiuto silenzioso al tuo incarnare ed immedesimare l’aiuto in sé. Eppure, non è cambiato molto, non è così? Non è forse vero che è di quello stesso dolore che hai perso che ti nutri? Hai finalmente lasciato andare il tuo; eppure, non fai altro che ritornarci come se non potessi farne a meno. Ti fai forza sul concetto di “obbligo necessario” per una questione che ti preme, perché per tua stessa ammissione “è il mio lavoro, è il mio compito”..ma questa è solo una maschera costruita a modello per coprire la nuda e cruda realtà Rian. La verità è che tu ti significhi nel possibile dolore altrui, tu ti nutri di quel possibile dolore perché credi di averne bisogno. Ma nessuno ha mai detto che sia tuo compito gestire le loro emozioni neppure certificate, nessuno ha mai detto che tu debba patirne le loro sofferenze sebbene queste non esistano neppure. Il tuo compito è quello di nascondere e celare determinate verità, sì, ma di queste verità, nessuno ha mai chiesto a te di fartene carico. Sei tu, che puntualmente, pensi a cosa potrebbe essere, a cosa potrebbe accadere…Dovresti semplicemente lasciare che esse siano. Sei confinata in quella tua malsana idea che il mondo non sia pronto ad affrontare e quindi tu ti fai carico del peso del mondo, ed è di questo che hai veramente bisogno. Di sentirti utile, di sapere che il tuo carico emotivo serva a qualcosa..ma lo sai bene: non serve a niente. Perché nessuno sa cosa fai. Non potrai mai vedere il sollievo negli occhi delle persone, ne potrai mai sentire quelle stesse ringraziarti perché loro non sanno neppure da cosa tu le stia proteggendo. Ed in cuor tuo non lo sai neanche tu.
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𝐏𝐄𝐑𝐅𝐄𝐂𝐓 𝐈𝐌𝐏𝐄𝐑𝐅𝐄𝐂𝐓𝐈𝐎𝐍 — 𝐄𝐩𝐢𝐬𝐨𝐝𝐞 𝐩𝐢𝐥𝐨𝐭 - 𝐒𝐨𝐮𝐥.
❝ 𝖳𝗁𝖾 𝗆𝗈𝗋𝖾 𝗂𝗇𝖿𝖾𝖼𝗍𝖾𝖽, 𝗋𝖾𝗃𝖾𝖼𝗍𝖾𝖽, 𝗒𝗈𝗎 𝖿𝖾𝖾𝗅 𝖺𝗅𝗈𝗇𝖾 𝗂𝗇𝗌𝗂𝖽𝖾 𝗂𝗍. ❞ Immobile. Statica come una fermo immagine di una pellicola antica con striature bianche a significare cicatrici pericolose. Ma è il mare in tempesta che dirompe all’interno. Non è forse l’emblema di una molteplice procedura di situazioni che ti hanno significata? Lo sai come si dice, che col tempo ogni male svanisce. Ma nessuno ti ha mai detto che quel male svanisce perché sbiadisce l’essenza. Sbiadisce il tuo io. Lo riesci a toccare con mano quel filo che da rosso vivido diventa pian piano di una sfumatura rosastra fino a divenire invisibile, una linea tesa di nulla. Da dietro i tuo occhi osservi quella gente, loro ti fissano, protesi verso di te, sanno che potresti crollare da un momento all’altro e quindi stanno lì, pronti, con le mani protese, ma nei loro sguardi non vedono ciò che vedi tu. Ogni riflesso non è ciò che vedono, vedono una fantasmagorica copia dell’involucro che ti contiene, ma tu vedi quella forma amorfa, ripiegata su sé stessa, marcia – una macchia nera nel candore della tua pelle. Cos’è che vedi? Cos’è che ti angoscia? È proprio quell’immagine di te stessa con l’espressione vuota, pelle nera come divorata dalla peste, simulacro della tua più intrinseca ideologia di marcio. Sola come mai prima d’ora sei stata. Quel sorriso evanescente, paradosso della tua realtà, non fa altro che spaventare ancor di più. Spegni man mano ogni forma di umanità, riducendoti in un ammasso di membra sciolte, animate unicamente dalla linea del tempo che prosegue, che ti spinge a respirare per non destare sospetti. E dentro la morte ti ha già pervasa. ❝ 𝖳𝗁𝖾 𝗐𝗈𝗋𝗅𝖽’𝗌 𝖺 𝗅𝗂𝗍𝗍𝗅𝖾 𝗆𝗈𝗋𝖾 𝖿𝗎𝖼𝗄𝖾𝖽 𝗎𝗉 𝖾𝗏𝖾𝗋𝗒𝖽𝖺𝗒. ❞ Cosa ti aspetti? Lo sapevi, sapevi che non avresti mai dovuto affidare niente al caso, il mondo, tutto il suo contorno, non è mai stato destinato a trionfare, solo a perire. Una devoluzione della coscienza umana che ha toccato l’apice e la sua caduta nel momento stesso in cui ha capito che con una lancia poteva ferire. Che cosa ti aspettavi? Comprensione? Ridi. Così convulsamente da creare spasmi dovuti al groppo celato che tieni in gola, a tutta quella rabbia, tutta quella furia che tieni nascosta, comprensione, cosa vuoi che comprendano. La colpa è sempre tua: quando sbatti, perché hai deciso di passare proprio da quel punto; quando ti affoghi, perché hai mangiato qualcosa che non dovevi; quando sanguini, perché tu, tu sola hai deciso che l’immagine di marcio che vedi non è in linea con ciò che consideri vita. E quindi è tua la colpa, ogni cosa si ricongiunge a te. Che tu rimanga a osservare tutto come un indegno spettatore di uno scenario rocambolesco, ha poca importanza, perché sei tu che fissi il tuo corpo venire mutilato, senza degnarti di interrompere quella pellicola. Tu, l’hai fatta partire. Fissi ora il vuoto, torturando i fili delle garze che ricadono dai polsi e le maniche della maglia logora che indossi da giorni, perché da giorni non alzi neppure la testa dal cuscino, incapace di affrontare la realtà.
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𝐒𝐡𝐨𝐰 𝐲𝐨𝐮𝐫 𝐭𝐫𝐮𝐞 𝐬𝐞𝐥𝐟.
Every inch of me is trembling but not from the cold. Something is familiar like a dream I can reach but not quite hold. I can sense you there like a friend I've always known..I'm arriving and it feels like I am home. I have always been a fortress, cold secrets deep inside, you have secrets too but you don't have to hide.
Show yourself, I'm dying to meet you. Show yourself it's your turn...are you the one I've been looking for all of my life? Show yourself I'm ready to learn..ah-ah..ah-ah...
(𝑎ℎ-𝑎ℎ, 𝑎ℎ-𝑎ℎ-𝑎ℎ)
I've never felt so certain, all my life I've been torn but I'm here for a reason could it be the reason I was born? I have always been so different, normal rules did not apply. Is this the day? Are you the way, I finally find out why? Show yourself I'm no longer trembling. Here I am I've come so far. You are the answer I've waited for all of my life, oh, show yourself let me see who you are....Come to me now, open your door, don't make me wait one moment more. Oh, come to me now! Open your door! Don't make me wait one moment more!
𝐖𝐡𝐞𝐫𝐞 𝐭𝐡𝐞 𝐧𝐨𝐫𝐭𝐡 𝐰𝐢𝐧𝐝 𝐦𝐞𝐞𝐭𝐬 𝐭𝐡𝐞 𝐬𝐞𝐚..(𝑎ℎ-𝑎ℎ, 𝑎ℎ-𝑎ℎ..).. 𝐓𝐡𝐞𝐫𝐞'𝐬 𝐚 𝐫𝐢𝐯𝐞𝐫..(𝑎ℎ-𝑎ℎ, 𝑎ℎ-𝑎ℎ..).. 𝐅𝐮𝐥𝐥 𝐨𝐟 𝐦𝐞𝐦𝐨𝐫𝐲..(𝐌𝐞𝐦𝐨𝐫𝐲, 𝐦𝐞𝐦𝐨𝐫𝐲)
𝐶𝑜𝑚𝑒, 𝑚𝑦 𝑑𝑎𝑟𝑙𝑖𝑛𝑔, ℎ𝑜𝑚𝑒𝑤𝑎𝑟𝑑 𝑏𝑜𝑢𝑛𝑑.. I am found!
𝑆ℎ𝑜𝑤 𝑦𝑜𝑢𝑟𝑠𝑒𝑙𝑓! 𝑆𝑡𝑒𝑝 𝑖𝑛𝑡𝑜 𝑦𝑜𝑢𝑟 𝑝𝑜𝑤𝑒𝑟. 𝐺𝑟𝑜𝑤 𝑦𝑜𝑢𝑟𝑠𝑒𝑙𝑓 𝑖𝑛𝑡𝑜 𝑠𝑜𝑚𝑒𝑡ℎ𝑖𝑛𝑔 𝑛𝑒𝑤. 𝑌𝑜𝑢 𝑎𝑟𝑒 𝑡ℎ𝑒 𝑜𝑛𝑒 𝑦𝑜𝑢'𝑣𝑒 𝑏𝑒𝑒𝑛 𝑤𝑎𝑖𝑡𝑖𝑛𝑔 𝑓𝑜𝑟 all of my life (𝑎𝑙𝑙 𝑜𝑓 𝑦𝑜𝑢𝑟 𝑙𝑖𝑓𝑒)..𝑜ℎ, 𝑠ℎ𝑜𝑤 𝑦𝑜𝑢𝑟𝑠𝑒𝑙𝑓..𝑦𝑜𝑢.. » . . . Che le sue notti non fossero mai tranquille, lo sapeva perfino il pulviscolo vagante per l'aria. Tuttavia, mai qualcosa l'aveva perseguitata così tanto a lungo. Certo, le capitava di ripercorrere giorno per giorno la stessa visione, ma la maggior parte delle volte o era per rendere chiaro ai suoi occhi cosa doveva aggiustare, o erano ricordi ancora troppo indelebili. Qualcosa si era sbloccato dopo il racconto narrato dal suo capo, qualcosa l'aveva scossa fin dal profondo, e da quando aveva messo piede nella capitale Ceca non l'aveva più abbandonata. Conosceva perfettamente la legenda, oramai ne aveva studiato ogni singolo passo, ogni singola stesura giunta a loro, ma sembrava ci fosse qualcosa ancora di celato, qualcosa che doveva essere rivelato. Ogni notte vedeva le due gemelle dai capelli rossi, vedeva come venivano orrendamente abusate, mutilate ed infine separate l'una dall'altra. Sentiva le urla strazianti della cieca, urlava il nome della gemella che avevano reso muta, tagliandole di netto la lingua. Rivedeva sempre le stesse cose eppure ogni notte v'era un tassello in più. Ogni sogno era costantemente accompagnato da una voce, sconosciuta, non avrebbe potuto collegarla a nessuno di conosciuto. Le diceva di seguirla, di trovarla e nonostante fosse una lingua a lei estranea era come se parlasse direttamente alla sua anima. "Tu puoi riuscirci" le ripeteva, e mentre lo faceva lo scenario cambiava, sembrava attraversare epoca dopo epoca. Donne molto simili spuntavano una dopo l'altra - vedeva il netto proseguire del tempo, ma alle spalle vi era sempre quella donna ferma ed immobile, una pelle così chiara da poter sembrare una statua, e se non fosse stato per i capelli rosso fuoco, ricci ed indomabili e gli occhi color giada puntati nei suoi avrebbe tranquillamente pensato di avere a che fare con qualche strano scherzo della memoria.
𝐂𝐚𝐢𝐫𝐨, 𝐄𝐠𝐲𝐩𝐭 - 𝐀𝐮𝐠𝐮𝐬𝐭 𝟐𝟎𝟐𝟏
« Non ho idea di dove mi trovo. » Fu quello il pensiero di realizzazione. Continuava a ripetersi che era certa che pochi attimi prima stava attraversando la landa desertica in compagnia di una ciurma di persone. Il secondo dopo erano come scomparse. Volatilizzate nel nulla. Non v'era alcuna anima viva nel raggio di km visibile ai suoi occhi, probabilmente qualcuno la stava pure cercando ma - ovviamente - la sua vita non poteva essere dettata dalla normalità, doveva avere a che fare necessariamente con la sfiga più assoluta ed il cellulare non dava più segni di vita da quando si erano addentrati nel deserto. Era quasi tentata di rimanere ferma in quel punto appena raggiunto prima di morire sotto il sole cocente, tuttavia. non poté fare a meno di animarsi quando vide finalmente una figura muoversi nella sua direzione. Parve una vera folle nel richiamare l'attenzione della figura, ma questa pareva ne vederla ne sentirla. Comprese di stare letteralmente uscendo di senno quando quest'ultima la trapasso da parte in parte. Come se non esistesse realmente. Era il caldo, si disse, il caldo aveva cominciato a mandarle allucinazioni. Eppure, quasi come se all'improvviso fosse diventata visibile, la figura arrestò i movimenti. Voltò il capo nascosto e attese la giovane. Era chiaro che se fosse stata una persona ragionevole, lucida, si sarebbe messa a ridere. Ma qualcosa, nel profondo, la spinse a seguire quella figura-ombra. Magari era il suo stesso subconscio che le stava dicendo: seguimi idiota che ti porto dagli altri. Non avvenne mai nulla di tutto ciò, ebbe come la sensazione di camminare a ritroso nel tempo più che nello spazio. Man mano che avanzava poteva vedere le rovine prendere forma originaria. Fu allora che la figura che aveva seguito tolse il cappuccio. La donna aveva dei capelli rosso fuoco, occhi color giada, ma dalle sue labbra non si udiva nulla se non un lieve rantolo. La giovane cercava di interagire con l'essere assolutamente estraneo, ma dalla sua non riceveva altro che sguardi, l'espressione sofferente, indicò un murale come se le stesse dicendo di leggere. Effettivamente si poteva leggere chiaramente, era una rappresentazione scenografica, come spesso accadeva, riconobbe la figura in quella scenografia ed ebbe un sussulto nel dire quel nome mentalmente. Accanto a lei vi era una seconda donna, quasi identica, entrambe tenevano un'infante. Le gemelle. La figlia. 𝑀𝑦𝑟𝑖𝑎𝑚. Il nome le uscì quasi in un sospiro e tutto cambiò radicalmente. Accanto a lei si ergeva un'immensa statua, ma oltre lei v'era anche una folla di turisti pronti a scattar foto. La figlia che la cieca crebbe osservandola a distanza, così come i suoi figli ed i figli a venire. Myriam era la chiave di quei sogni. Ma perché tormentassero lei ancora doveva comprenderlo.
« Rian...ma cosa fai ferma qui? Gli altri sono andati avanti di mezzo km andiamo. »
Se non altro, era tornata sul pianeta terra. Più confusa di prima e sempre più curiosa.
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𝐅𝐚𝐜𝐢𝐧𝐠 𝐭𝐡𝐞 𝐮𝐧𝐤𝐧𝐨𝐰𝐧.
« 𝑎ℎ 𝑎ℎ 𝑜ℎ 𝑜ℎ...𝑎ℎ 𝑎ℎ 𝑜ℎ 𝑜ℎ I can hear you but I won’t, some look for trouble while others don’t. There’s a thousand reasons I should go about my day and ignore your whispers which I wish would go away..oh.. 𝑎ℎ 𝑎ℎ 𝑜ℎ 𝑜ℎ You’re not a voice, you’re just a ringing in my ear and if I heard you - which I don’t - I’m spoken for I fear. Everyone I’ve ever loved is here within these walls, I’m sorry, secret siren, but I’m blocking out your calls. I’ve had my adventure, I don’t need something new I’m afraid of what I’m risking if I follow you...into the unknown, into the unknown...into the unknown. 𝑎ℎ 𝑎ℎ 𝑜ℎ 𝑜ℎ What do you want? ‘Cause you’ve been keeping me awake, are you here to distract me so I make a big mistake? Or are you someone out there who’s a little bit like me? Who knows deep down I’m not where I’m meant to be? Every day’s a little harder as I feel my power grow, don’t you know there’s part of me that longs to go...Into the unknown? Into the unknown..into the unknown... 𝑎ℎ 𝑎ℎ 𝑜ℎ 𝑜ℎ...𝑎ℎ 𝑎ℎ 𝑜ℎ 𝑜ℎ Oh oh oh..are you out there? Do you know me? Can you feel me? Can you show me? . . . Where are you going? Don’t leave me alone, how do I follow you into the unknown? »
Sapeva perfettamente di non stare impazzendo. Aveva da sempre avuto quella capacità innata di risolvere questioni in sonno, erano come schemi che le apparivano durante le ore notturne, ogni step una nuova risoluzione. Sapeva di starsi avvicinando a qualcosa, lo sentiva come se la stesse richiamando a sé. Doveva solo capire che cosa fosse.
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𝐓𝐡𝐞 𝐑𝐞𝐜𝐤𝐨𝐧𝐢𝐧𝐠, 𝐚𝐭 𝐥𝐚𝐬𝐭.
𝑀𝑌 𝐻𝑂𝑃𝐸 𝐼𝑆 𝑂𝑁 𝐹𝐼𝑅𝐸, 𝑀𝑌 𝐷𝑅𝐸𝐴𝑀𝑆 𝐴𝑅𝐸 𝐹𝑂𝑅 𝑆𝐴𝐿𝐸 24th of May, 9.30 a.m. – Los Angeles. All’inizio non sai mai quale sia il giusto compenso per le proprie azioni. Si sceglie di andare sempre avanti perché è la cosa più giusta da fare. O almeno così dicono. Non avrebbe mai compreso quale fosse la soglia fra una scelta giusta ed una sbagliata, in che misura avrebbe potuto decretare una cosa del genere? Sbagliato? Cosa è sbagliato? Si sarebbe potuto risolvere tutto con un semplice proiettile sparato di netto fra gli occhi ma in quanti avrebbero considerato le sue azioni giuste? Nessuno, forse. Aveva ricevuto una chiamata improvvisa da Los Angeles mentre calpestava la sabbia finissima delle spiagge bianche delle Maldive. Sapeva esattamente per quale motivo fosse richiesta la sua presenza al dipartimento di polizia e non aveva potuto fare a meno di pensarci da quando aveva fatto ritorno alla città degli angeli. Era perfettamente consapevole del fatto che avendo riferito al suo diavolo custode quel singolo nome che era riuscita ad ottenere, avrebbe agito immediatamente. In effetti avrebbe dovuto pensarci prima. La consapevolezza di entrare in quell’edificio sapendo che attraversato il corridoio avrebbe visto in faccia volti sconosciuti ma che ancora marchiavano i suoi sonni con incubi le dava una mezza scossa. Come se improvvisamente il suo corpo si muovesse per la quantità d’adrenalina in corpo. Fu come se non fosse passato un solo giorno. Non appena li vide in fila la sua mente ritornò di colpo a quella notte; li ricordava tutti, uno per uno, prima che succedesse il tutto. Li aveva visti in occasioni differenti quella sera e non aveva idea di cosa avessero in mente. Non c’era un solo volto privo di abrasioni o graffi. Era certa che anche quella non fosse opera del fato. Si limitò a seguire gli ordini per deporre le informazioni ma il suo corpo le stava suggerendo soltanto di scappare da quel luogo il prima possibile. Troppe armi. Troppi modi per dar vita ai suoi sogni.
𝐼'𝑀 𝑇𝑅𝑌𝐼𝑁𝐺 𝑇𝑂 𝑅𝐸𝐴𝐶𝐻 𝐻𝐸𝑅 𝐼 𝐹𝐸𝐸𝐿 𝑇𝐻𝐴𝑇 𝑆𝐻𝐸 𝑌𝐸𝐴𝑅𝑁𝑆 24th of May, 6.15 p.m. – Los Angeles. In qualche modo era riuscita a sopravvivere a quell’incontro. Nessuno sapeva niente, gli unici ad esserne a conoscenza erano lei stessa e l’artefice. E non aveva neppure idea di cosa dover dire al riguardo. Aveva come quel ferro in gola che le diceva che era giusto che fosse finita in quel modo. Eppure, ancora non era soddisfatta. Non sentiva di poter tirare sospiri di sollievo, sentiva come un blocco pesante sul petto che le impediva di respirare. Glielo dicevano sempre. Concentrati sui respiri. Contali uno per uno e lascia che tutto il malessere fluisca via ad ogni respiro emesso. 1… 2… 3… 4… Per quanto contava quella sensazione non spariva, la gola stretta in una morsa. Boccheggiando contro sé stessa e quella sua parte sadica che godeva nel vederla ridursi in quel modo. Lo sapeva. Lo sapeva che era tutto un gioco mentale e che avrebbe potuto interrompere in qualsiasi momento quella sensazione. Ma la sua indole troppo debole e la sua rabbia troppo forte. Lo vedeva, quel suo doppio. Una perfetta copia di sé con l’espressione furiosa che la teneva in alto e per il collo. “ Insulsa – immonda creatura. Non meriti l’aria che respiri. ” 𝑆𝐻𝐸’𝑆 𝐿𝑂𝑆𝑇 𝐼𝑁 𝑇𝐻𝐸 𝐷𝐴𝑅𝐾𝑁𝐸𝑆𝑆 𝐹𝐴𝐷𝐼𝑁𝐺 𝐴𝑊𝐴𝑌 27th of May, 6 a.m. – Los Angeles. Non aveva idea di come fosse sopravvissuta all’intensità di quei giorni, prima il riconoscimento, successivamente l’incontro con la psicologa tanto suggerita. Doveva ammettere che era stata di una bravura ineccepibile, ma a quale prezzo. Le rivelazioni alla quale era giunta l’avevano fatta crollare in un limbo senza fine. Davvero sentiva quel rimorso schiacciante poiché sapeva che poteva evitare il tutto? Ma significava privarsi di godere una bella serata di divertimenti...perché avrebbe dovuto farlo? Aveva le forme di una fanciulla nel fiore dei suoi anni, tuttavia, l'intelletto di chi la vita l'aveva rosicata fino all'osso. La sua curiosità genuina l'aveva portata a porsi domande fin da subito. E ne aveva di domande. "Perché io?" "Perché a me?" "Perché questo dolore?" "Perché lo devo sentire?"
Dolore. Ah. Il dolore era diventato normale sentirlo. Quel dolore che nessuno si prendeva in carico di ascoltare perché troppo impegnati a non accorgersene. Eventualmente era diventato normale cacciarlo via affondando nell'abisso, allontanando qualsiasi ragionamento lucido.
Aveva sentito chiaramente quella risata profonda, eppure non c'era nessuno in quella stanza spoglia. Erano solo lei apparentemente inerme, distesa in un letto mentre la sua mente vagava riproponendo il susseguirsi di quelle immagini accompagnate dalle sensazioni più orribili: mani che si trascinavano lungo il suo corpo, fra i capelli. Dita invisibili che si insinuavano dentro ogni parte del suo corpo. Gli occhi spalancati, consapevole di essere sveglia ma intrappolata.
Erano anni che non attraversava più quelle notti, era riuscita a diminuire la frequenza delle nottate trascorse in quella maniera e a quel punto si era lasciata convincere di provare a vivere una normalità che però non avrebbe mai fatto parte della sua vita. Le era bastato interrompere la sua solita routine che il suo cervello automaticamente aveva ripreso la sua via per la follia. Avere la consapevolezza di stare attraversando un incubo e non avere la possibilità di lasciarlo, sentendosi ingabbiata all'interno di esso. Percependo secondo per secondo la sua lucidità andare ad infrangersi contro la completa perdita del senno. Sovrastata dall’orribile sensazione di un’immensa distesa d'acqua che non le permetteva di respirare, inchiodata in quell'istante di odio che fa rivoltare lo stomaco e venir voglia che tutto finisca, consapevole di stare rivivendo avvenimenti passati ma sentendoli ancora sulla pelle.
Soltanto quando comprese di poter appigliarsi a quel filo invisibile della sua ragione alla fine riuscì a vedere finalmente ciò che circondava realmente quel corpo, le parve di cadere di piombo nel suo letto, come se stesse cadendo dall'alto di un grattacielo. Eppure, non si era mossa di un millimetro. Era solo la sua mente ad aver viaggiato proiettandosi in un limbo senza fine. Non sentiva più i sussurri o le mani che le toccavano i capelli, che sfioravano la pelle del suo corpo. Non sentiva quel peso che la schiacciava contro il letto costringendola a sentire ogni singola sensazione. Costringendola a ricordare il suo dolore.
𝐼’𝑀 𝑆𝑇𝐼𝐿𝐿 𝐴𝑅𝑂𝑈𝑁𝐷 𝐻𝐸𝑅𝐸 𝑆𝐶𝑅𝐸𝐴𝑀𝐼𝑁𝐺 𝐻𝐸𝑅 𝑁𝐴𝑀𝐸 4th of June, 7 p.m. – Los Angeles. Erano stati giorni senza pausa. Per sua fortuna il lavoro l’aveva rapita e l’unica cosa che le interessava era riuscire ad impegnare la mente giorno dopo giorno. C’era pure riuscita fino a quando non ricevette una chiamata. Non si preoccupò troppo di leggere l’assenza di identità, perfino a lavoro spesso utilizzavano identità nascoste per rintracciarla. Di conseguenza non perse troppo tempo nel rispondere presentandosi con il suo nome in codice. Goldie. Ah, più ci pensava più le veniva l’orticaria. L’unica cosa positiva che aveva quel nome era la sua presenza anche nel film Sin City. Inizialmente sentì solo silenzio, ma anche lì non si preoccupò troppo, nuovamente parlò al telefono con tono spedito, anche se vagamente distratto per via del suo intento nel cucinare la cena. Stava giusto trascinando il piatto con l’insalata sul tavolo quando finalmente sentì la voce dall’altro capo del telefono, non era certo il suo lavoro e non avrebbe mai capito con chi aveva a che fare. Al suo orecchio arrivò semplicemente il suono distorto che la informava semplicemente di stare attenta, che il nome mancante era giunto nella città. Inizialmente si limitò ad aggrottare la fronte senza capire neppure cosa stesse dicendo, convincendosi avessero sbagliato numero. Più volte si chiese a cosa potesse riferirsi. Insisté nel chiedere informazioni, pregando che chiunque vi fosse dall’altra parte non riattaccasse immediatamente. Chiese più volte che cosa volesse dire alla voce misteriosa fino a quando improvvisamente rispose unicamente con un solo nome. Una persona normale sarebbe andata immediatamente a denunciare l’accaduto, ma da quando lei era una persona normale? Non poté fare a meno di rimuginare su quel nome. Non aveva idea di chi potesse essere non le suonava neppure familiare. Ma soprattutto perché qualcuno le aveva dato quell’informazione?
𝑀𝑌 𝐻𝐸𝐴𝑅𝑇 𝐼𝑆 𝐹𝑅𝑂𝑍𝐸𝑁 𝐼’𝑀 𝐿𝑂𝑆𝐼𝑁𝐺 𝑀𝑌 𝑀𝐼𝑁𝐷 11th of June, 8.40 a.m. – Los Angeles. Avrebbe perso il lume della ragione a forza di scervellarsi per quel nome, aveva fatto tante di quelle ricerche per giorni di fila che oramai la sua cronologia aveva soltanto quel nome che figurava. Oramai aveva acquisito qualsiasi nozione che riguardasse quella persona misteriosa ma non v’era nulla che potesse collegarlo alla sua persona. Ovviamente non si sarebbe mai data per vinta; aveva spulciato ogni informazione riguardo quella persona e cosa assai strana ad un certo punto le informazioni sembravano non andare più indietro negli anni e nessuno sembrava aver mai pubblicato foto con questa entità, né un profilo social accessibile. Naturalmente, contemporaneamente si era comportata anche in maniera del tutto disinvolta agli occhi degli altri per la celebrazione della festa di compleanno. Nessuno si sarebbe accorto di nulla, perché come sempre avrebbe tenuto tutto sigillato nella sua mente, come ogni pensiero sulla sua esistenza. E oltretutto, non era ancora pronta a rinunciare a forse l’unico attimo di normalità in mezzo a quel caos. Era sul punto di rinunciare qualsiasi ricerca in merito a quel nome fino a quando non comprese di avere a che fare con una vera e propria intuizione mentre si dilettava con uno stupido gioco di parole. Quel nome. Il nome che aveva ricercato con smania non era altro che un anagramma. Probabilmente utilizzato per rifarsi una nuova vita. Improvvisamente parve sbloccarsi un mondo di fronte ai suoi occhi. Quel volto. Quel volto che per anni aveva visto come punto fermo. Sentì ribollire il sangue nelle sue vene, una rabbia profonda ed un odio mai provato attanagliarle le viscere. Oh, ricordava quel professore. Le aveva fatto tante di quelle ripetizioni quando al liceo il suo unico interesse era quello di scoprire la verità dietro le cose e non le storielle sui libri. La conosceva. Sapeva che sarebbe andata a quella festa e probabilmente aveva architettato il tutto consapevole della ragazzina che era. 𝐻𝐸𝐿𝑃 𝑀𝐸, 𝐼’𝑀 𝐵𝑈𝑅𝐼𝐸𝐷 𝐴𝐿𝐼𝑉𝐸! 15th of June; 3.30 a.m. – Los Angeles. Per giorni non riuscì a chiudere correttamente gli occhi e godere di sonni ristoratori. Nonostante avesse trascorso del tempo piacevole nel corso delle sue giornate quel pensiero la tormentava, la svegliava nel cuore della notte e ancor di più le portava un odio tale da farle percepire qualsiasi cosa in maniera distorta. Si era concentrata sul lavoro, infilandosi principalmente dentro il suo ufficio. Non tollerava provare quelle emozioni a causa di terzi, non le concepiva e ancor di più le trovava sbagliate. Chi era quell’essere per farla stare in quel modo? Come osava influire così tanto nella sua vita. Era ovvio che lo facesse da quel dannato giorno, ma la mancata conoscenza era riuscita a non destarle troppi problemi. La scoperta di quel dettaglio invece era stata la chiave per risvegliarle dentro quella parta assopita. Quella parte che con fatica era riuscita a incatenare dentro sé. Svegliatasi nel cuore della notte in preda all’ennesimo incubo, si limitò a proseguire le sue ricerche pur di impegnare il tempo rimasto prima di dare il via alla nuova giornata. Stava scorrendo l’ennesimo articolo, il nome oramai limpido nella sua mente; il volto indimenticabile sebbene fosse meno maturo all’epoca. Le venne in mente l’incontro recente avvenuto con la psicologa. Le rivelazioni sui suoi sogni, la capacità di descriverli così perfettamente senza provare pena alcuna ed improvvisamente perse il totale controllo della ragione. Impulsi ben più carnali si fecero largo nella sua mente, guidandola nella scelta più avventata che potesse prendere. Senza comprendere cosa stesse facendo lasciò la sua abitazione e salendo sulla sua monovolume si avviò in direzione della dimora dell’uomo. Non le importava se avesse avuto figli, moglie, relazioni, famiglia che avrebbe pianto, il suo obbiettivo era uno ed uno soltanto: vendetta. Giusta o sbagliata che fosse. Non ebbe alcuna difficoltà a trovare il posto designato. Per una giornata intera aveva studiato quei tragitti, qualsiasi strada da poter intraprendere e a quell’ora della notte le strade erano deserte. Nessuno l’avrebbe fermata. Neppure le volanti minacciose che probabilmente pattugliavano i soliti locali in cerca di ubriachi per strada. Non seppe se in un certo senso il fato era con lei, ma senza neanche volerlo il suo obbiettivo era seduto in una delle panchine esterne. Teneva un bicchiere in mano e nell’altra una sigaretta ridotta al filtro. Per quanto l’adrenalina la spingesse a muoversi con passi sempre più veloci, l’istinto le disse di proseguire quella marcia con passi lenti, quasi come se stesse annunciando l’arrivo alla sua preda. Non dovette neppure arrivargli alle spalle. Anzi, voleva che la guardasse dritta negli occhi. Che vedesse bene in faccia il volto di chi avrebbe spento la sua inutile vita. Regnava un’insolita quiete, accompagnata solo dai blandi rumori della notte. Notando l’ombra l’uomo alzò lentamente il viso, portandolo ad un’inclinazione tale da potergli permettere di vedere chi avesse di fronte. Inizialmente parve fremere alla vista di quella canna puntata dritta contro la sua fronte. Ma successivamente parve quasi rassegnato alla sua sorte. « Me lo dicevo. Sembra un film. Troppo artistico per sembrare vero, ma nonostante i miei sforzi per sparire dalla circolazione, alla fine sei arrivata. L’ho sempre sostenuto tu fossi una persona troppo intellige…» « Taci. Risparmia il fiato. Dove andrai ti servirà. Che tu sia dannato per l’eternità. Non hai alcuna ragione per vivere la vita che vivi. Non meriti di vivere. » « ...in un certo senso, Erianthe, ho temuto l’arrivo di questo giorno, ogni giorno per sette anni. Sapevo saresti tornata da me come l’angelo della morte. » « Oh, non ci saranno angeli per te. » « Non sei qui per ricevere delle scuse…fa ciò che devi. » Non seppe bene cosa mosse la giovane donna, avrebbe potuto essere lo sguardo di sfida dell’uomo che pacatamente finiva il suo scotch nel bicchiere. Oppure la calma con la quale aveva pronunciato quelle parole. Forse si aspettava un passo falso, forse pensava di avere di fronte la ragazzina che avrebbe ceduto di fronte alla sua rassegnazione. Rimase per diversi istanti ad osservare quel volto, il mezzo sorriso vittorioso per l’attesa della donna senza pensare che in realtà quello sarebbe stato il suo ultimo respiro. Accadde in una manciata di istanti come se non provasse alcun timore per la pistola puntata contro la sua testa l’uomo decise di fare un passo avanti. Le parve di vivere quella scena come fosse una spettatrice, seguirono solo tre colpi secchi silenziati e due secondi dopo si ritrovò il corpo esanime addosso quasi come se volesse aggrapparsi alla donna. Lo sguardo vitreo ed impassibile mentre il rosso cremisi si disperdeva nel pavimento, lasciandola infine a reggere una pistola che ancora fumava nella mano e nell’assoluto visibilio parve ridere di sollievo. 𝐼 𝐶𝐴𝑁𝑁𝑂𝑇 𝑅𝐸𝑉𝐼𝑉𝐸 𝑊𝐻𝐴𝑇’𝑆 𝐴𝐿𝑅𝐸𝐴𝐷𝑌 𝐷𝑅𝑂𝑊𝑁𝐸𝐷 𝑆𝐻𝐸 𝑊𝑂𝑁’𝑇 𝐶𝑂𝑀𝐸 𝐴𝑅𝑂𝑈𝑁𝐷 15th of June; 6.30 a.m. – Los Angeles.
La realizzazione delle sue azioni non avvenne mai in tempo. Si ritrovò con le mani tremanti, la pistola caduta ai suoi piedi e la pozza di sangue in aumento. Non credeva di poter avere quella forza. Eppure, si era macchiata anche di quel crimine. Rimase per diversi istanti immobile, osservando con estremo sdegno il volto dell’uomo che anni prima aveva orchestrato il tutto. Quell’uomo che l’aveva sempre aiutata. Sentì il forte impulso di dover rimettere ogni singolo fluido rimastole in corpo. Cosa fare a quel punto? Non aveva idea di cosa dovesse fare. Tornare a casa in quelle condizioni sapeva bene di non poterlo fare; raggiungere la sua famiglia sarebbe stato fuori discussione. Li avrebbe macchiati dello stesso identico crimine. Si accorse di correre a predi fiato senza neppure comprendere cosa stesse facendo il suo corpo. Stava solo correndo verso quella direzione che il corpo le indicava, senza mai fermarsi o voltarsi. Le strade cominciavano a divenire sempre più chiare per via del sorgere del sole e non appena i suoi piedi si fermarono per farle riprendere fiato, comprese che il suo subconscio aveva agito ancor prima che potesse farlo lei stessa. La gente brulicava fuori dal locale dopo una notte di alcol e danze sfrenate. Ma era corretto invischiarlo in quella situazione? Che altro avrebbe potuto fare? Consegnarsi? Raggiunse l’entrata del night club ormai familiare, non si preoccupò neppure di frenarsi di fronte agli sguardi sconcertati della gente, percorse d’un fiato la strada in direzione dell’ascensore che avrebbe portato all’attico. Non aveva idea di cosa avrebbe trovato lì dentro. Probabilmente qualcuno dormiente, o forse già pronto per affrontare la giornata. L’unica cosa che sapeva era che in quel momento desiderava unicamente crollare. Sentì il campanello che annunciava l’arrivo nell’attico e fra tutti gli scenari quello era l’unico che non si aspettava. Forse avrebbe dovuto però. Aveva mosso solo pochi passi raggelandosi non appena sia il proprietario dell’attico, sia l’ospite dalla chioma bionda si voltarono di scatto puntando i loro sguardi sulla sua figura.
« Io..è stato tutto…troppo…tutto veloce..io..l’ho ucciso. »
Esalò solo quelle ultime parole prima di crollare sulle ginocchia, esausta, madida di sudore e ricoperta di sangue.
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𝐂𝐑𝐔𝐄𝐋 𝐒𝐎𝐍𝐀𝐓𝐀 𝐈𝐍 𝐄-𝐅𝐋𝐀𝐓 𝐌𝐀𝐉𝐎𝐑
Non era la prima volta che metteva piede in edifici come quelli, non aveva avuto mai un buon rapporto con quel tipo di cose. Tuttavia, non avrebbe mai potuto negare quanto meno un tentativo. Era forse la sua indole di eterna curiosa ad averle fatto alzare la cornetta per chiamare la donna e fissare l’appuntamento – sotto suggerimento ben ardito. I muri asettici, tutto ciò che le si palesava davanti gli occhi azzurri erano perfettamente posizionati al centimetro, le porte distanziate dagli esatti centimetri. Le ricordava la vecchia stanza visitata più e più volte arrivando ad una conclusione che sentiva di aver raggiunto ancor prima della donna che avrebbe dovuto prenderla in cura. Era tutto fin troppo identico. Cosa avrebbe potuto dirle di diverso? Era sul punto di girare i tacchi e ripercorrere la strada a ritroso. Sapeva avrebbe ricevuto delle occhiatacce per quel gesto, la prima che avrebbe ricevuto era proprio di fronte il portone dell’edificio, in attesa di un riscontro dalla bionda. E se l’avesse guardata male probabilmente sarebbe scappata correndo di nuovo dentro. Non sapeva esattamente perché le veniva sempre quel moto di sconforto, non aveva idea del perché si sentisse così codarda tanto da andare via. La sequenza sembrò durare un’eternità, sebbene non furono che pochi istanti, aveva appena dato le spalle alla porta dello studio quando senti il classico rumore della porta aprirsi e dal suo interno una melodia ben nota si propagava, arrivandole dritta a penetrare il cervello stesso, facendole così arrestare il passo. Si costrinse, dunque, a voltare l’intera figura in direzione della porta trovando una donnina di un’età neppure troppo alta; ad occhio e croce poteva sembrare quanto sua madre. I capelli biondi raccolti in una crocchia composta, a differenza dei suoi che invece ancora erano impregnati del caldo umido californiano. Ecco, l’aveva colta in flagranza di reato. Un reato nei confronti della sua stessa salute mentale – forse.
« Tu devi essere il mio prossimo appuntamento…lo so, i muri non invitano a rimanere, ma prego, accomodati. » « Sì…ahm..le porto i saluti di Lux…Esh..Potrebbe ecco..evitare di far cenno alla mia quasi fuga? » « Quale fuga? Io non ho visto niente. »
Non le aveva neppure rivolto uno di quegli sguardi scocciati, come probabilmente avrebbe fatto uno qualsiasi degli altri psicologi, psichiatri, terapeuti che aveva visto, aveva semplicemente sorriso con la gentilezza che ci si aspetta da una completa estranea e fatto strada all’interno del suo studio. Vide la donna prendere posto sulla poltroncina di fronte ad un tavolinetto; non aveva penna, neppure un blocco sulla quale appuntare cose, si era semplicemente seduta attendendo la giovane ragazza. La bionda, d’altro canto, rimase per diversi istanti sulla soglia osservando l’interno dello studio estremamente curato, la musica all’interno scorreva così come qualche pianista scorreva le dita sul piano replicando l’originale autore. A differenza dei muri spogli quello sì era un invito assai accogliente per una persona come lei. Ed eccolo il momento che attendeva; oh, quella sonata in Eb maggiore di Haydn, nell’apice del suo splendore, quel preludio a qualcosa di piacevolmente tormentato con le scale e gli arpeggi ed un ritorno alle note iniziali prima di puntare alla vera essenza. Quel passo furioso, e così carico di pena, un continuo trascinarsi verso note sempre più gravi. Scosse la testa un paio di volte prima di accorgersi che la donna la stava osservando, probabilmente in attesa di una qualche risposta che non aveva neppure sentito.
« Mh? Diceva? » « Io non ho parlato. Ma ammetto sia stato illuminante vedere quanto fossi immersa in quella melodia. » « Quei tre minuti, quei precisi minuti sono un po’ la perfetta descrizione della mia stessa vita. » « Ed è una cosa brutta? » « Dipende. Quanto è brutto sprofondare ed esserne, fondamentalmente, la causa? » « Credo dovresti cominciare dall’inizio.. »
Cominciare dall’inizio. E come avrebbe potuto essere abbastanza chiara per definire un inizio? Esisteva un inizio? Sono nata, sono cresciuta? La verità è che non vi sarebbe stata alcuna risposta esaustiva a quella domanda, non aveva memoria di quando fosse cominciato tutto quel male che si trascinava addosso. Cominciò semplicemente con l’elencare ogni cosa cominciando con quello che aveva subito sette anni prima quella notte di luglio, per poi continuare con un elenco di fattori scaturiti e non. Un elenco di sensazioni ben descritte, senza preoccuparsi di quali espressioni potesse fare; inizialmente le parve quasi come se stesse cercando in tutti i modi di impedirsi di alzarsi e correre via. E quante volte avrebbe voluto farlo lei invece. Le parlò apertamente dei suoi disturbi alimentari, dal mangiare fino allo sfinimento per poi rimettere, al non voler assumere più alcun cibo. Proseguì con i disturbi del sonno e le sue paralisi, raccontando apertamente diversi episodi marchiati sulla pelle, del tentativo di porre fine alla sua vita. Non mancò di parlarle di quanto invece la sua famiglia l’adorasse e quanto lei adorasse loro, di quante gratifiche le dava la sua carriera e nonostante tutto di come costantemente non riuscisse a trovare un reale posto dove potesse dire di stare bene. Come sempre la sua anima non sarebbe mai stata contemplata lì, sentiva come se qualcosa non la lasciasse vivere in pace.
« Come ti fa sentire il fatto che dopo anni quegli uomini sono stati finalmente presi? » « Sono grata, ma non cambierà mai ciò che hanno fatto. » « Quindi non ti senti appagata. » « No..non è....io.. »
Come avrebbe potuto esprimere a parole quel moto di sentimenti che le incendiava ogni fibra muscolare, ogni singola cellula del suo esile corpo. Come avrebbe potuto dare voce ai suoi pensieri senza farsi guardare con estremo sdegno? Eppure. Alla fine si accorse di non preoccuparsene completamente. Avrebbe accettato qualsiasi commento.
« No, sono ore che parlo di quanto sia necessario risollevarsi, di quanto la vita sia un bene prezioso eppure le loro...» « Le loro cos’hanno? » « Ho qualcosa dentro me, qualcosa di malsano che mi spinge a volerli vedere brutalmente disintegrati. No, non mi accontenterei di vederli marcire dietro delle volgari sbarre; per notti - per notti intere - ho sognato di farmi i bagni nel loro stesso sangue, dottoressa. Per intere notti mi vedevo ergermi in piedi, ridendo delle loro orribili mutilazioni, ridere sui loro cadaveri. Forse sono solo pazza, anzi no, sicuramente lo sono. Ho lasciato ogni parvenza di sanità mentale quella notte. » « Oppure sei solo arrabbiata, perché forse una vocina dentro di te continua a ripeterti che avresti potuto evitarlo. » Ecco, il passo di Haydn che risuonava nelle sue orecchie, magicamente trascinandola giù insieme a quelle note gravi, il preludio verso la fine. Una fine che avrebbe trovato comunque un piacevole risvolto sinfonico in note ben lontane dalla pesantezza iniziale, giungendo ad un ritorno agli arbori soavi e deliziosi. Le parve di sorridere perfino, come se quell'arpeggio le tirasse i muscoli. « Oh no, non è per questa ragione che io sono adirata con me stessa, no, credo di averlo capito in effetti adesso, perché provo tanta rabbia nei miei confronti. E no, non è per una scelta così normale come gioire di una festa per ragazzi..no. » « Converrai con me che la vendetta non porterà a nulla; ciò che è stato non cambierà. » « Oh ma lo so, dottoressa. È solo che mi farebbe stare infinitamente meglio. »
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𝐓𝐚𝐥𝐚𝐦𝐚𝐬𝐜𝐚: 𝐚𝐧 𝐡𝐢𝐝𝐝𝐞𝐧 𝐏𝐥𝐚𝐜𝐞
𝑻𝑯𝑬𝒀 𝑴𝑨𝑲𝑬𝑺 𝒀𝑶𝑼 ↴ 𝑨 𝑸𝑼𝑰𝑻𝑬 𝑪𝑳𝑬𝑽𝑬𝑹 𝑳𝑰𝑩𝑹𝑨𝑹𝑰𝑨𝑵; ❝ 𝑀𝑦𝑠𝑡𝑒𝑟𝑖𝑒𝑠 𝑢𝑛𝑓𝑜𝑙𝑑 - 𝐴𝑙𝑙 𝑡𝘩𝑒 𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑒𝑠 - 𝐿𝑒𝑔𝑒𝑛𝑑𝑠 𝑡𝘩𝑎𝑡 𝑤𝑒'𝑟𝑒 𝑡𝑜𝑙𝑑; 𝑊𝑒 𝑤𝑎𝑡𝑐𝘩 𝑡𝘩𝑒𝑚 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑡𝑜 𝑙𝑖𝑓𝑒. ❞ 𝟤𝟢𝟣𝟨; 𝖮𝖼𝗍𝗈𝖻𝖾𝗋 𝗍𝗁𝖾 𝟣𝟧𝗍𝗁.
« Eldrian, basta con queste idiozie. Goldie, c'è qualcosa che voglio mostrarti, vieni.. »
Non avrebbe mai compreso determinati meccanismi, una cosa l'aveva capita; pure fra di loro utilizzavano quegli assurdi nomignoli per non rivelare troppe informazioni. In un certo senso lo apprezzava, Goldie, se non fosse stato banale quanto la nascita del nome stesso. Quale avrebbe potuto essere un buon nome in codice per una bionda? Ovviamente Goldie. Era stato un uomo ad aver parlato, ad aver interrotto il battibecco con una superiore per via delle sue uscite fuori binario. Un uomo di un certo spessore lì dentro, quello che avrebbe potuto definirsi un capo se solo quel tipo di organizzazione ne avesse avuta uno; a quel richiamo la donna occhialuta sbuffò pesantemente in direzione della bionda girando i tacchi per tornare da dove era venuta. Quanto a lei si apprestò a seguire il passi dell'uomo lungo i corridoi dell'edificio, raggiungendo quello che sicuramente era il suo studio o forse un museo in scala, era ricco di reperti, artefatti, dipinti, sculture e non solo. Non appena raggiunse una parete lasciò che la bionda rimanesse ad osservare un grande bassorilievo. Era indubbiamente autentico ed era un miracolo che si fosse preservato così; perfino la Stele di Rosetta non poteva vantare una tale manifattura conservata così bene.
« Che cosa vedi? » « Babilonia; parliamo del 6000 a.C. più o meno. » « Giusta osservazione; cos'altro? » « Inflazioni...ha incisioni tipiche della tecnica egizia, ma è chiaramente appartenente ad una cultura babilonese. » « Precisamente; non ti sembra strano? » « Signore, con il dovuto rispetto, c'è qualcosa di non strano? » « Acuta, ma tagliente. Esiste una legenda dietro questo bassorilievo; quante figure vedi? » « Sono...sei?..No. Sette..sono sette. » « Cosa ti ha portato a correggerti? » « La donna con il volto striato, ha il ventre gonfio, è incinta. » « Lascia che ti racconti questa legenda. Narra di due gemelle Mekare e Maharet, si dice vivessero in quella cittadina chiamata Uruk e che fossero in grado di parlare con gli spiriti; v'era una giovane regina salita al potere in Egitto, che le volle al cospetto poiché voleva mettere il loro potere in prova. Quel che non si sarebbero mai aspettate è che uno spirito fu più agile e prese possesso del corpo della regina, questo le diede una forza inimmaginabile. Si creo una specie di duplice patto; da un lato lo spirito che finalmente aveva un corpo, dall'altro la regina che oramai lo aveva interiorizzato aveva acquisito una potenza inimmaginabile. Terrorizzata dalle gemelle e della loro capacità le condannò. Vennero torturate; a Mekare, la più abile con gli incantesimi ma anche la più restia a prestare servizio, le strapparono la lingua così da non poter più compiere incantesimi; ma a Maharet, a Maharet toccò la sorte peggiore. La regina ordinò alla sua fedele guardia di violentare la giovane ragazza sotto gli occhi di tutti, e solo dopo aver terminato, di sbarazzarsi di entrambe. La guardia, che aveva prestato fedele giuramento alla nuova regina non poté tirarsi indietro e dunque agì sotto gli occhi di tutti. Ma non riuscì a compiere del tutto gli ordini ricevuti, mostrandosi compassionevole nei confronti delle gemelle chiese così alla sua regina di tenerle prigioniere dove non avrebbero potuto minare alla sua vita. Mossa dal rispetto che nutriva nei confronti della guardia la regina acconsentì. I problemi giunsero nuovamente quando Khayman venne a sapere che la giovane Maharet avrebbe avuto un figlio da quell'unione. La regina, contrariata ordinò quindi di porre fine alla loro discendenza, tuttavia la sorte fu ben diversa. A Maharet vennero strappati gli occhi dalle orbite così che non potesse guardare mai più chiunque stava più in alto di lei. Le gemelle scomparvero dalla circolazione; non si seppe più nulla e tuttavia della sua prole si registra una discendenza longeva, decisamente longeva. Ogni volta che ascolto questa legenda noto qualcosa di bizzarro....molte similitudini, perfino, e a te? » « ...Sì...c'è qualcosa che non mi quadra di bizzarro....come ha fatto la regina a farsi sfuggire la prole? Insomma, se ho ben compreso di quale legenda stiamo parlando. » - Ecco....Ecco perché nessuno potrà mai cacciarti da qui anche se lo farei volentieri con tanto di sonoro calcio nel posteriore...non smetti mai di far lavorare quel tuo cervello. »
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𝐏𝐥𝐚𝐲 𝐝𝐞𝐚𝐝
𝑵𝑬𝑭𝑬𝑳𝑰𝑩𝑨𝑻𝑨 (𝗇.) 𝗐𝗁𝗈 𝗅𝗂𝗏𝖾𝗌 𝗐𝗂𝗍𝗁 𝗁𝖾𝖺𝖽 𝗂𝗇 𝗍𝗁𝖾 𝖼𝗅𝗈𝗎𝖽𝗌 𝖽𝗈𝖾𝗌𝗇'𝗍 𝗈𝖻𝖾𝗒 𝗌𝗈𝖼𝗂𝖺𝗅 𝖼𝗈𝗇𝗏𝖾𝗇𝗍𝗂𝗈𝗇; ♊︎ 𝐴𝑆𝐶𝐸𝑁𝐷𝐴𝑁𝑇 ♏︎
❝ In spite of all the refinements of civilization that conspired to make art--the dizzying perfection of the string quartet or the sprawling grandeur of Fragonard's canvases--beauty was savage. It was as dangerous and lawless as the earth had been eons before man had one single coherent thought in his head or wrote codes of conduct on tablets of clay. 𝐵𝑒𝑎𝑢𝑡𝑦 𝑤𝑎𝑠 𝑎 𝑆𝑎𝑣𝑎𝑔𝑒 𝐺𝑎𝑟𝑑𝑒𝑛. ❞ July 2014 Freddo. Ogni cosa percepita rimandava al gelo, nonostante l'intorpidimento cominciava a sentire la mano gelida del clima norvegese. Le ombre sfocate cominciarono a prender forma più omogenea, così come i suoni cominciavano ad esser più nitidi. Non c'era alcun frastuono, e intorno a sé non era più così buio. I chiarori mattutini le diedero la spinta utile per spostarsi da quella posizione. Non appena provò ad alzarsi una fitta dolorosa le colpì il bassoventre, provò talmente tanto dolore da cedere nuovamente supina sul terriccio fin troppo umido. Tentò svariate volte di sollevarsi, fino a quando quelle fitte non diventarono sempre più sopportabili e man mano che il cielo si schiariva comprese stesse per albeggiare, tuttavia a circondarla era un luogo estraneo. Non appena riuscì a mettersi in piedi, abbassò lo sguardo sulla sua figura, una serie di segni le riempivano le gambe, in particolar modo le caviglie, le cosce, le braccia e i polsi, sentiva un dolore bruciante in tutto il cuoio capelluto. Stordita mosse un passo indietro, fino al notare una macchia scura, un misto di sangue e terra mischiato al fogliame verde. Tenendosi i brandelli del vestito rimastogli addosso riuscì a percorrere una decina di passi prima che un volto preoccupatissimo invadesse il suo campo visivo, la squadrò da capo a piedi, protendendo le mani nella sua direzione come a volerle dire di star tranquilla. Non appena il giovane comprese cosa le fosse successo, la sua espressione da preoccupata divenne furibonda, ma nella premura dei suoi gesti era chiaro non fosse lei l'oggetto della sua furia. Dall'altro lato, lei non mostrò nessuna emozione, si limitò ad indietreggiare da quelle braccia, sbarrando gli occhi, un'azione che la fece sentire in colpa nel momento stesso in cui percepì un profondo senso di tristezza nelle parole dell'uomo. - Mamma! L'ho trovata! - Disse, consapevole che forse sarebbe stata l'unica che avrebbe fatto avvicinare, inclinò il viso Chi? Stava per chiedere. Perché quella cosa che camminava non era la sorella che era abituato a vedere, non era niente, non era neanche una persona era un involucro di schifo. Neanche un minuto dopo si sentì avvolta da una coperta, due braccia la tenevano per sorreggerla ed indicarle la strada. La chioma bionda di sua madre le carezzava il viso, e in condizioni normali avrebbe abbassato il suo e le avrebbe detto che aveva un buon odore, come era abituata a fare, ma in quel momento il suo corpo non era neppure animato. Osservava tutto dall'esterno, come se non abitasse più quel corpo, come se non lo sentisse più suo. Avanzando sempre più quello che le destava flash dei ricordi della notte precedente, scorse con la coda dell'occhio una luce lampeggiante, non l'era sfuggito nemmeno suo padre sbraitare contro le forze dell'ordine. Ripeteva frasi come "Voi mi dovete dire chi è stato! Non mi interessa!" ma sarebbe servito a nulla. Sapere. A che serviva sapere. Dopo quella che le sembrò un'eternità, raggiunse finalmente l'auto, sua madre le sistemò la coperta ed in quel preciso istante comprese perché il terreno sottostante dove si ritrovò fosse umido. Non era la classica umidità, sembrava irrigato; cocktails pensò inizialmente, o qualcuno c'aveva semplicemente fatto i suoi bisogni, ma quella chiazza rossa le salì di colpo facendole contorcere lo stomaco al pari delle fitte provate. Sentii come la gola in fiamme; una sensazione che aveva spesso provato; il mix di sangue e sperma sul suo vestito dilaniato era lì come promemoria della notte trascorsa, ma non vi fu verso di una sola lacrima. Schifo. Schifo. Schifo. Nient'altro che schifo.
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𝐃𝐞𝐥𝐢𝐜𝐚𝐭𝐞 𝐅𝐫𝐚𝐠𝐦𝐞𝐧𝐭 𝐨𝐟 𝐋𝐢𝐟𝐞.
| Disclaimer - vi saranno riferimenti a scene di stupro e autolesionismo. Se non vi piacciono queste cose andate avanti.
Delicate fragment of life.
July 2014
Non aveva ancora capito nulla della vita; aveva solo diciassette anni. Una bambina. Di quella serata non avrebbe mai più avuto un ricordo di risa, balli e divertimenti o la spensieratezza di quell’età. In quel preciso istante, non ricordava neppure quando le sue amiche si fossero volatilizzate nel nulla, lasciandola vagare fra un bicchiere e l'altro. Stava cominciando a pensare di aver commesso un grave errore ad andare a quella festa e l'aveva compreso - sempre troppo tardi, nonostante gli avvertimenti delle sorelle maggiori. Stufa di quella condizione preferì allontanarsi e lasciarsi alle spalle l'abitazione adibita a sala per feste, per poter così raggiungere l'auto delle amiche. Si sarebbe chiusa lì dentro ad ascoltare musica decente ed avrebbe aspettato lì dentro il resto della ciurma. O almeno, questi erano i piani originali. Si sarebbe attenuta a quello se non avesse improvvisamente perso l'uso delle gambe. Non riusciva neanche a capire cosa le stesse succedendo, ma improvvisamente si sentiva come animata da due persone. Da un lato quella parte dentro che voleva avanzare e che cercava di farle muovere tutti i muscoli, dall'altra c’era quella forma inerme che si era accasciata sui gradini e se ne stava lì seduta. Il bicchiere ricolmo di un liquido rosato - odorava di fragola, quando l'aveva preso? E chi glielo aveva dato? Ah, come le faceva male perfino pensare a cose banali. Sentiva la testa scoppiare e la vista non era messa meglio. Urlava aiuto ma il suo corpo pareva essere diventato un fantoccio di carne. Cosciente - senza esserlo. Stava vivendo una paralisi? In quel momento? Oh, no. Oh, non in quel momento. Provò a chiudere gli occhi, sperando di svegliarsi da un momento all'altro ma il suo corpo non funzionava. E poi li sentì. Non aveva idea di quanti fossero, vedeva solo le ombre, alte ombre su di lei, vedeva le macchie bianche dei loro sorrisi divertiti. Cosa volevano da lei? Percepì come uno spostamento, il suo corpo venne improvvisamente sollevato, e solo dopo comprese che qualcuno la stava trascinando via - forse finalmente si erano accorti della sua assenza, magari le amiche preoccupate avevano chiesto aiuto. Era qualcuno che la stavano aiutando? Forse la stavano portando da qualche parte all'interno dell'abitazione. Aveva una visuale pessima da lì, ammesso e concesso che non vedesse solo una massa di luci che si muovevano a rilento. No. Non l'avevano portata dentro. Non erano venuti per aiutarla e sperava che nessuna delle persone che conosceva fosse artefice di quel misfatto. L’aria divenne più fredda per quanto fosse possibile nella notte. La musica sempre più distante e nella sua incoscienza era invece più vigile di mille altre volte. Non sentiva più il freddo del pavimento, c’erano solo fili d’erba che le accarezzavano la pelle delle gambe nude. Era un tocco che le dava la scossa, come se tutto il corpo le si fosse addormentato. Ogni sensazione triplicata per via di quelle micro-punture. C’erano un paio di mani tener ferma una caviglia, altre le strappavano i vestiti, altre ancora le spalle, sentiva le loro risate ovattate e i versi d'eccitamento ancor prima di capire che cosa stessero facendo o forse lo sospettavano. Voleva urlare ma non aveva neanche la capacità di aprire la bocca per un semplice farfuglio. A farlo erano solo quegli occhi azzurri gonfi e pieni di lacrime. Sentiva ogni cosa, eppure non riusciva neanche a muoversi. Dentro urlava e scalciava ma i bastardi avevano pensato a tutto. L'avevano drogata e in quel tripudio di schifo e miseria avevano deciso di puntare alla ragazzina. Otto mani che scivolavano lungo il suo corpo, toccando ogni centimetro della sua pelle candida, lasciando scie incancellabili di sporcizia e sudiciume. Scalfita dalle mani luride su ogni parte del suo corpo. Il velo più intimo squarciato senza remore. Non bastò mai era come sapere di stare morendo senza mai avere la soddisfazione di farlo. E vennero una, due, tre, quattro volte. E di nuovo, finiva uno e cominciava l'altro. Come pregava in nome di quel Dio che l'aveva abbandonata lì, in quello scempio. Pregava di morire. Pregava di sentire quella sensazione di intorpidimento tipico dell'incoscienza prendere possesso di lei perennemente. Quando rinvenne non ricordava neppure quale fosse il suolo calpestato sotto i suoi piedi magri e nudi, sentiva solo un peso sul petto che opprimente. Eppure, non ricordava per quale motivo. Sapeva solo che quel macigno le schiacciava i polmoni, comprimendoli fino ad impedirle di respirare. Era come sommersa da una nube tossica. Respirando zolfo e boccheggiando in cerca di aria o di uno spiraglio di luce. Ed era nuda. Completamente nuda.
After 6 months. Non si capacitava del perché puntualmente dovevano riportarle la mente a quella maledetta notte – non trovava neppure il nesso di andare a sedersi in quel divano; sapeva esattamente cosa non andasse in lei. Non era qualcosa che avrebbero potuto curare le chiacchiere. Non era qualcosa che avrebbero potuto curare, non c’era ancora un modo per tornare indietro nel tempo.
- Erianthe? -
Perché si ostinavano tutti a farla uscire dalla sua bolla? Adorava vagarci, perdersi nel nulla ed estraniarsi da ogni forma di vita terrena. Il suo essere non sentiva fosse contemplato in quel contesto e non voleva starci - a quel momento. Eppure, c'era per forza qualcuno - qualcosa - che la teneva ferma sul divanetto di pelle marrone. Spostò lo sguardo di fronte e finalmente riuscì a vederlo; il volto corrugato della donna occhialuta che la fissa con espressione truce. Di nuovo starà pensando che il suo silenzio fosse una banale scappatoia per non rispondere. Ma la realtà è che non saprebbe neppure come rispondere, e cosa avrebbe dovuto dirle alla fine? Davvero avrebbe trovato altre valide ragioni per la quali una persona volesse farla finita? Ragioni che non avessero a che fare con il suo stato d’animo?
- Mh. Cosa vuole sapere dottoressa? Ho già risposto. -
Per l'ennesima volta da quando aveva messo piede in quel posto la donna le chiede per quale motivo ha sentito la necessità di ridursi esangue dentro una vasca da bagno, con la fronte corrucciata come a voler dipingere tutto il suo disappunto per quel gesto oltraggioso. Le aveva detto: è un peccato mortale, la vita è un dono. Perfino Seneca avrebbe trovato del pathos in quella scena che aveva attuato nel bagno della sua casa. Dove sua madre l’aveva trovata solo svenuta. Forse il drammaturgo latino avrebbe approvato la sua messa in scena e forse si sarebbe fatto una risata a fine atto. Ma quello che aveva vissuto ne quanto stesse vivendo non era trama di un qualche suo libro, i suoi adorati libri unica valvola di sfogo; quella era la sua realtà, e per davvero quella dottoressa le stava chiedendo perché mai avesse agito agito in quel modo. Se solo avesse aperto bocca si sarebbe guadagnata l'ennesima occhiata misera di pena. Non la voleva la loro pena. Voleva vivere nella sua bolla immersa in un mondo idilliaco dove ancora poteva indossare abiti bianchi senza sentire la vergogna dell'indegno.
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𝐂𝐚𝐫𝐨𝐮𝐬𝐞𝐥
𝐑𝐈𝐃𝐄𝐒𝐂𝐄𝐍𝐓 𝐒𝐎𝐋𝐈𝐋𝐎𝐐𝐔𝐘; ♊︎ 𝐴𝑆𝐶𝐸𝑁𝐷𝐴𝑁𝑇 ♏︎ ᅳ C'è sempre un momento della giornata in cui il sole sta ancora risplendendo vigoroso sebbene in un angolo remoto del cielo un pallido spicchio di luna spunta già pieno di coraggio. È in quegli attimi che la sua mente perdeva consistenza, osservando con devozione quella mite prova d'amore che la Luna compie. Lei è lì, al suo fianco. C'è sempre. Solo che lui brilla troppo forte per accorgersene.
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𝐖𝐞𝐢𝐠𝐡𝐭 𝐨𝐟 𝐭𝐡𝐞 𝐰𝐨𝐫𝐥𝐝
𝐈𝐑𝐈𝐃𝐄𝐒𝐂𝐄𝐍𝐓 𝐒𝐎𝐋𝐈𝐋𝐎𝐐𝐔𝐘; ♊︎ 𝐴𝑆𝐶𝐸𝑁𝐷𝐴𝑁𝑇 ♏︎ ᅳ Forse sgozzare qualcuno sarebbe stato più semplice. Che cosa serviva in fin dei conti? Nervi saldi, una lama decente e via, di lame ne aveva, e di certo di esperienza nella pratica ne aveva. Taglio netto lungo la gola e probabilmente Sweeney Todd l'avrebbe assunta per i lavori extra. Di i nervi saldi per la lama pressata contro la pelle c'era anche abituata, ne aveva i segni delle cicatrici rimasti indelebili come prove da un non troppo lontano passato. Forse era quello che avrebbe fatto chiunque al suo posto nel vedere l'aspetto che si rifletteva sullo specchio della camera in affitto ad Oslo; il riflesso di una giovane fanciulla spezzata. Non era certa di cosa provasse nell'osservare il corpo di quella che pareva essere un'estranea riflessa nello specchio: entrambi gli occhi tumefatti, le labbra ed il viso gonfi, il resto del corpo livido. Era arrabbiata con se stessa, odiava con ogni fibra del suo essere quella debolezza che aveva dimostrato, incapace di reagire in tempo - di nuovo - nonostante i corsi di autodifesa. Era furiosa con sé per essersi lanciata di peso in quella trappola, nella speranza potesse servire a distrarla dal dolore lancinante al petto che aveva ricevuto poco tempo prima. Per quieto vivere si era decisa a lasciarsi tutto alle spalle, per il momento, cercando di essere una normale diciannovenne nel pieno della sua vita. Ma quando mai le cose avrebbero potuto essere così semplici per lei? Non le bastarono tutte le distrazioni lavorative, neppure le uscite con quell'unica ancora che aveva incontrato e che l'aveva raccolta come fosse un tesoro prezioso, non le bastarono i giorni di veglia a rimuginare sul vissuto, non le bastarono i suoi rimproveri silenti nel ricominciare a marchiare il suo sorriso di un sorriso sinistro. Vagava con la mente senza sosta, riscoprendo la voglia - la sete - di vendetta che prendeva il corpo inzuppandolo come si farebbe con un biscotto nel tè pomeridiano. Vagava talmente tanto che ad un certo punto perfino il corpo aveva preso a muoversi senza sosta, ripercorrendo a ritroso gli stessi passi che aveva percorso quel pomeriggio, abbindolata da un volgare idiota che probabilmente aveva un mazzo di rose per ogni donna che incontrava camminando, era così impresso nella mente che l'aveva ritrovato allo stesso bar, mentre rivolgeva le stesse menzogne che aveva rivolto a lei alla povera mal capitata. Se fosse stata una persona ragionevole avrebbe potuto girare i tacchi immediatamente, lasciando opzione di scelta a quella ragazza ingenua come lo ero stata lei, ma l'impeto la costrinse a rimanere. Si avvicinò all'uomo lasciando che la sua ingordigia per il suo corpo prendesse il sopravvento, lo stolto credeva di averla in pugno, ma l'unico pugno percepibile era quello in pieno stomaco che aveva appena ricevuto, un colpo assestato così repentinamente da non avergli dato scampo. Sorprendentemente neppure il suono delle sue preghiere sembravano placarla mentre le sue budella si contorcevano stilettata dopo stilettata. Non seppe quale fine fece, lo lasciò lì, inerme, con respiro mozzo. Non avrebbe mai più rivisto quel riflesso nello specchio. Quella sarebbe stata l'ultima volta.
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