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“Silenzio in Liguria”
Scade flessuosa la pianura d’acqua.
Nelle sue urne il sole Ancora segreto si bagna.
Una carnagione lieve trascorre.
Ed ella apre improvvisa ai seni La grande mitezza degli occhi.
L’ombra sommersa delle rocce muore.
Dolce sbocciata dalle anche ilari, Il vero amore è una quiete accesa,
E la godo diffusa Dall’ala alabastrina D’una mattina immobile.
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Fernando Pessoa, A Little Larger Than the Entire Universe: Selected Poems
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Tabaccheria
Non sono niente. Non sarò mai niente. Non posso voler essere niente. A parte questo, ho dentro me tutti i sogni del mondo.
Finestre della mia stanza, della stanza di uno dei milioni al mondo che nessuno sa chi è (e se sapessero chi è, cosa saprebbero?), vi affacciate sul mistero di una via costantemente attraversata da gente, su una via inaccessibile a tutti i pensieri, reale, impossibilmente reale, certa, sconosciutamente certa, con il mistero delle cose sotto le pietre e gli esseri, con la morte che porta umidità nelle pareti e capelli bianchi negli uomini, con il Destino che guida la carretta di tutto sulla via del nulla.
Oggi sono sconfitto, come se conoscessi la verità. Oggi sono lucido, come se stessi per morire, e non avessi altra fratellanza con le cose che un commiato, e questa casa e questo lato della via diventassero la fila di vagoni di un treno, e una partenza fischiata da dentro la mia testa, e una scossa dei miei nervi e uno scricchiolio di ossa nell'avvio.
Oggi sono perplesso come chi ha pensato, trovato e dimenticato. Oggi sono diviso tra la lealtà che devo alla Tabaccheria dall'altra parte della strada, come cosa reale dal di fuori, e alla sensazione che tutto è sogno, come cosa reale dal di dentro.
Sono fallito in tutto. Ma visto che non avevo nessun proposito, forse tutto è stato niente. Dall'insegnamento che mi hanno impartito, sono sceso attraverso la finestra sul retro della casa. Sono andato in campagna pieno di grandi propositi. Ma là ho incontrato solo erba e alberi, e quando c'era, la gente era uguale all'altra. Mi scosto dalla finestra, siedo su una poltrona. A che devo pensare? Che so di cosa sarò, io che non so cosa sono? Essere quel che penso? Ma penso di essere tante cose! E in tanti pensano di essere la stessa cosa che non possono essercene così tanti! Genio? In questo momento centomila cervelli si concepiscono in sogno geni come me, e la storia non ne rivelerà, chissà?, nemmeno uno, non ci sarà altro che letame di tante conquiste future. No, non credo in me. In tutti i manicomi ci sono pazzi deliranti con tante certezze! lo, che non possiedo nessuna certezza, sono più sano o meno sano? No, neppure in me... in quante mansarde e non-mansarde del mondo non staranno sognando a quest'ora geni-per-se-stessi? Quante aspirazioni alte, nobili e lucide -, sì, veramente alte, nobili e lucide -, e forse realizzabili, non verranno mai alla luce del sole reale nè troveranno ascolto?
Il mondo è di chi nasce per conquistarlo e non di chi sogna di poterlo conquistare, anche se ha ragione.
Ho sognato di più di quanto Napoleone abbia realizzato. Ho stretto al petto ipotetico più umanità di Cristo. Ho creato in segreto filosofie che nessun Kant ha scritto. Ma sono, e forse sarò sempre, quello della mansarda, anche se non ci abito; sarò sempre quello che non è nato per questo; sarò sempre soltanto quello che possedeva delle qualità; sarò sempre quello che ha atteso che gli aprissero la porta davanti a una parete senza porta, e ha cantato la canzone dell'Infinito in un pollaio, e sentito la voce di Dio in un pozzo chiuso. Credere in me? No, nè in niente.
Che la Natura sparga sulla mia testa scottante il suo sole, la sua pioggia, il vento che trova i miei capelli, e il resto venga pure se verrà o dovrà venire, altrimenti non venga. Schiavi cardiaci delle stelle, abbiamo conquistato tutto il mondo prima di alzarci dal letto; ma ci siamo svegliati ed esso è opaco, ci siamo alzati ed esso è estraneo, siamo usciti di casa ed esso è la terra intera, più il sistema solare, la Via Lattea e l'Indefinito.
(Mangia cioccolatini, piccina; mangia cioccolatini! Guarda che non c'è al mondo altra metafisica che i cioccolatini. Guarda che tutte le religioni non insegnano altro che la pasticceria. Mangia, bambina sporca, mangia! Potessi io mangiare cioccolatini con la stessa concretezza con cui li mangi tu! Ma io penso e, togliendo la carta argentata, che poi è di stagnola, butto tutto per terra, come ho buttato la vita. Ma almeno rimane dell'amarezza di ciò che mai sarà la calligrafia rapida di questi versi, portico crollato sull'Impossibile. Ma almeno consacro a me stesso un disprezzo privo di lacrime, nobile almeno nell'ampio gesto con cui scaravento i panni sporchi che io sono, senza lista, nel corso delle cose, e resto in casa senza camicia.
(Tu, che consoli, che non esisti e perciò consoli, Dea greca, concepita come una statua viva, o patrizia romana, impossibilmente nobile e nefasta, o principessa di trovatori, gentilissima e colorita, o marchesa del Settecento, scollata e distante, o celebre cocotte dell'epoca dei nostri padri, o non so che di moderno - non capisco bene cosa -, tutto questo, qualsiasi cosa tu sia, se può ispirare che ispiri! Il mio cuore è un secchio svuotato. Come quelli che invocano spiriti invoco me stesso ma non trovo niente.
Mi avvicino alla finestra e vedo la strada con assoluta nitidezza. Vedo le botteghe, vedo i marciapiedi, vedo le vetture passare, vedo gli esseri vivi vestiti che s'incrociano, vedo i cani che anche loro esistono, e tutto questo mi pesa come una condanna all'esilio, e tutto questo è straniero, come ogni cosa. Ho vissuto, studiato, amato, e persino creduto, e oggi non c'è mendicante che io non invidi solo perchè non è me. Di ciascuno guardo i cenci e le piaghe e la menzogna, e penso: magari non ho mai vissuto, nè studiato, nè amato, nè creduto (perchè si può creare la realtà di tutto questo senza fare nulla di tutto questo); magari sei solo esistito, come una lucertola cui tagliano la coda e che è irrequietamente coda al di qua della lucertola.
Ho fatto di me ciò che non ho saputo, e ciò che avrei potuto fare di me non l'ho fatto. Il domino che ho indossato era sbagliato. Mi hanno riconosciuto subito per quello che non ero e non ho smentito, e mi sono perso. Quando ho voluto togliermi la maschera, era incollata alla faccia. Quando l'ho tolta e mi sono guardato allo specchio, ero già invecchiato. Ero ubriaco, non sapevo più indossare il domino che non mi ero tolto. Ho gettato la maschera e dormito nel guardaroba come un cane tollerato dall'amministrazione perchè inoffensivo e scrivo questa storia per dimostrare di essere sublime. Essenza musicale dei miei versi inutili, magari potessi incontrarmi come una cosa fatta da me, e non stessi sempre di fronte alla Tabaccheria qui di fronte, calpestando la coscienza di esistere, come un tappeto in cui un ubriaco inciampa o uno stoino rubato dagli zingari che non valeva niente.
Ma il padrone della Tabaccheria s'è affacciato sulla porta e vi è rimasto. Lo guardo con il fastidio della testa piegata male e con il disagio dell'anima che sta intuendo. Lui morirà ed io morirò. Lui lascerà l'insegna, io lascerò dei versi. A un certo momento morirà anche l'insegna, e anche i versi. Dopo un po' morirà la strada dove fu stata l'insegna, E la lingua in cui furono scritti i versi. Morirà poi il pianeta che gira in cui tutto ciò accadde. In altri satelliti di altri sistemi qualcosa di simile alla gente continuerà a fare cose simili a versi vivendo sotto cose simili a insegne, sempre una cosa di fronte all'altra, sempre una cosa inutile quanto l'altra, sempre l'impossibile, stupido come il reale, sempre il mistero del profondo certo come il sonno del mistero della superficie, sempre questo o sempre qualche altra cosa o nè una cosa nè l'altra.
Ma un uomo è entrato nella Tabaccheria (per comprare tabacco?), e la realtà plausibile improvvisamente mi crolla addosso. Mi rialzo energico, convinto, umano, con l'intenzione di scrivere questi versi per dire il contrario. Accendo una sigaretta mentre penso di scriverli e assaporo nella sigaretta la liberazione da ogni pensiero. Seguo il fumo come se avesse una propria rotta, e mi godo, in un momento sensitivo e competente la liberazione da tutte le speculazioni e la consapevolezza che la metafisica è una conseguenza dell'essere indisposti.
Poi mi allungo sulla sedia e continuo a fumare. Finche il Destino me lo concederà, continuerò a fumare. (Se sposassi la figlia della mia lavandaia magari sarei felice.) Considerato questo, mi alzo dalla sedia. Vado alla finestra. L'uomo è uscito dalla Tabaccheria (infilando il resto nella tasca dei pantaloni?). Ah, lo conosco: è Esteves senza metafisica. (Il padrone della Tabaccheria s'è affacciato all'entrata.) Come per un istinto divino Esteves s'è voltato e mi ha visto. Mi ha salutato con un cenno, gli ho gridato Arrivederci Esteves!, e l'universo mi si è ricostruito senza ideale ne speranza, e il padrone della Tabaccheria ha sorriso.
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I Wandered Lonely as a Cloud Launch Audio in a New Window BY WILLIAM WORDSWORTH
I wandered lonely as a cloud That floats on high o'er vales and hills, When all at once I saw a crowd, A host, of golden daffodils; Beside the lake, beneath the trees, Fluttering and dancing in the breeze. Continuous as the stars that shine And twinkle on the milky way, They stretched in never-ending line Along the margin of a bay: Ten thousand saw I at a glance, Tossing their heads in sprightly dance. The waves beside them danced; but they Out-did the sparkling waves in glee: A poet could not but be gay, In such a jocund company: I gazed—and gazed—but little thought What wealth the show to me had brought: For oft, when on my couch I lie In vacant or in pensive mood, They flash upon that inward eye Which is the bliss of solitude; And then my heart with pleasure fills, And dances with the daffodils.
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Chi sogna di più, poesia di Fernando Pessoa
Chi sogna di più, mi dirai Colui che vede il mondo convenuto O chi si perse in sogni?
Che cosa è vero? Cosa sarà di più La bugia che c’è nella realtà O la bugia che si trova nei sogni?
Chi è più distante dalla verità Chi vede la verità in ombra O chi vede il sogno illuminato?
La persona che è un buon commensale, o questa? Quella che si sente un estraneo nella festa?
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Icarus
he si sia avvertita la necessità di celebrare una giornata per la vita è drammatico. Non dovrebbe essere ovvio schierarsi tenacemente a favore della vita? L'ovvio, ahinoi, non esiste più e come diceva Chesterton: «Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate». Eppure dovremmo aver ormai imparato che il valore della vita si afferma proprio là dove quest'ultima è compromessa. Si rimane incantati di fronte all'Icaro di Henry Matisse, una sagoma in volo, tutta nera ma con il pulsare prepotente di un cuore rosso rubino. Soltanto un uomo in carrozzina, e già segnato dalla morte, poteva dipingere un inno alla vita così! Henry Matisse a settantacinque anni, mentre il mondo si dibatteva tra gli orrori della guerra e della shoah, combatteva una sua personale battaglia a causa di un delicato intervento subito per tumore all'intestino che lo aveva ridotto quasi alla paralisi. In tale frangente gli fu chiesto di esprimere qualcosa sul Jazz ed egli dipinse il volo ardito di Icaro (VIII illustrazione nel libro "Jazz". Museo Matisse di Nizza). L'immagine è una delle venti lastre da lui create per illustrare un libro sul Jazz. L'opera, datata tra il 1944 e 1947, fu realizzata in una tecnica, il papier decoupè, affine al collage. Non potendo più dipingere, Matisse, scelse questo modo di esprimersi perché lo obbligava a una semplificazione della forma e otteneva un “rilievo” che rimandava, sia pure lontanamente, alla scultura. Icaro è un uomo d'ombra che in un cielo d'alabastro canta in volo la gioia del vivere. Ma come può gioire un uomo così? Non è una goffa sagoma, negazione della luce e del colore? E come può un siffatto uomo volare? Eppure vola nella calma assoluta del suo esserci. Vola nella gratitudine del sentimento religioso che gli fa ardere il cuore. Sì, è un uomo d'ombra e vola in un infinito abitato da stelle lucenti. Esse ardono come soli nel Cielo di Dio, abitano l'Infinito e non lo sanno. Le stelle sono inconsapevoli, ma lui, l'uomo, pur così oscuro è abitato – non abita – dal desiderio d'Infinito. La sua carne è opaca, ma nel cuore gli arde il fuoco luminoso dell'Amore. Ecco che cosa, dentro l'uomo, testimonia il palpito dell'eternità: l'amore. Quel desiderio di totalità appagante che alberga nel cuore di tutti: credenti e non credenti, giusti e peccatori, uomini, donne e bambini di ogni razza cultura e fede. Noi tutti siamo goffi, come l'Icaro di Matisse. Siamo uomini d'ombra e ci è difficile volare, dobbiamo addirittura batterci per difendere il regalo meraviglioso della vita. Eppure, se per un attimo fossimo capaci di lasciarci andare nel Cielo dell'eterno scopriremmo quanto forte sia l'ardimento del cuore che desidera l'infinto. L'uomo de-sidera: sì! Il cuore "spinge" verso le stelle, verso gli spazi siderali. Matisse lo ha descritto bene: la forma arcana e primordiale di quest'uomo, dice bene l'abbandono fiducioso del suo volo. Se lo contempli, a lungo, lo sguardo viene risucchiato da quel nero ebano e ti trovi, per un attimo, prigioniero della forma. Come Icaro sperimenti il limite del tuo volo, ma non per molto. Come un lampo il vermiglio del cuore impressiona la tua retina e tutto si dilata. Rimbalzi nel gioco dei primari: rosso, giallo, blu, quintessenza della luce che promette la totalità. Sì, l'uomo è limite ma nel suo cuore canta grato al Cielo la promessa dell'Eternità. Questo dovremmo ricordare sempre di fronte alla vita minacciata: non c'è limite umano che possa imprigionare la certezza che ci viene dall'amore che ci arde in cuore: il nostro destino è l'eternità.
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Di solito s’interpreta Icaro che portato dalla sua euforia volò sempre più in alto, non prendendo sul serio le parole del suo padre, finiendo in tragedia. Interpretazione dunque moralistica e pedagogica. Icaro è ancora senza esperienza. Si gioca ancora la bellezza del mondo e della vita, non guardando tanto alle conseguenze.
Il volo attraverso il mare è simbolo di una vita difficile. L’uomo deve astenersi ai comandamenti di Dio, della natura, della vita. Dedalo nel ruolo di Dio, che istruisce e vorrebbe salvare, far felice. Simbolico anche il suggerimento di Dedalo di non muoversi troppo basso strisciando l’umido dell’acqua di mare ma neanche troppo alto bruciandosi ai raggi del sole. L’uomo creato da Dio con intelligenza eppure vulnerabile non deve perdersi nell’abisso culturale e spirituale della tentazione, però neanche essere orgoglioso e egoista e guardare dall’alto gli altri. Così la filosofia degli stoici ed anche la spiritualità sana della tradizione millenaria del cristianesimo.
Matisse aggiunge un momento lirico – Icaro ha toccato le stelle (non il sole!) quasi giocando con loro da compagno. I piedi son servono più. Un’esperienza di felicità in questa vita fugace e transitoria. Un po’ Romeo e Giulietta!
Di solito oggi si preme su istruzione, lavoro, sicurezza, tempo libero, salute, bellezza, successo. Icaro è ancora giovane, dunque vale ancora il rischio, la sfida, il pericolo, il gioco. Almeno per quell’unica volta il suo cuore batté forte, ardente – il materialista questo non potrà capirlo mai. Trasfigurazione sul monte Tabor – poi il Calvario. Apice di felicità e batticuore dal quale si potrà vivere a lungo.
In questa variante ci impressiona la striscia nera sul cielo azzurro, che fa spiccare la figura bianca di Icaro. Il suo cuore arde di coraggio e allegria.
Lui ha seguito con grande coerenza la sua stella, ma un nefando destino lo trae nella morte - così potremmo tentare una spiegazione.
Però il suo cuore vive, la sua giovane vita era riempita di fortuna e ricchezza umana, perchè i suoi sogni furono realizzati, perchè giocando toccò alle stelle.
Mehr Infos:
https://www.kunst-meditation.it/it/arte-moderna/matisse-icaro/
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Le poesie più belle di Rabindranath Tagore
Io desidero te, soltanto te
Io desidero te, soltanto te il mio cuore lo ripeta senza fine. Sono falsi e vuoti i desideri che continuamente mi distolgono da te. Come la notte nell’oscurità cela il desiderio della luce, così nella profondità dalla mia inconscienza risuona questo grido: ”io desidero te, soltanto te”.
Come la tempesta cerca fine nella pace, anche se lotta contro la pace con tutta la sua furia, così la mia ribellione lotta contro il tuo amore eppura grida: ”io desidero te, soltanto te”.
Chi sei tu, lettore
Chi sei tu, lettore che leggi le mie parole tra un centinaio d’anni? Non posso inviarti un solo fiore della ricchezza di questa primavera, una sola striatura d’oro delle nubi lontane. Apri le porte e guardati intorno. Dal tuo giardino in fiore cogli ricordi fragranti dei fiori svaniti un centinaio d’anno fa.
Nella gioia del tuo cuore possa tu sentire la gioia vivente che cantò in un mattino di primavera, mandando la sua voce lieta attraverso un centinaio d’anni.
Non mi accorsi del momento
Non mi accorsi del momento in cui varcai per la prima volta la soglia di questa vita
Qual fu la potenza che mi schiuse in questo vasto mistero come sboccia un fiore in una foresta a mezzanotte?
Quando al mattino guardai la luce, subito sentii che non ero uno straniero in questo mondo, che l’inscrutabile, senza nome e forma mi aveva preso tra le sue braccia sotto l’aspetto di mia madre.
Così, nella morte, lo stesso sconosciuto m’apparirà come sempre a me noto. e poichè amo questa vita so che amerò anche in morte.
Cogli questo piccolo fiore
Cogli questo piccolo fiore e prendilo. Non indugiare! Temo che esso appassisca e cada nella polvere.
Non so se potrà trovare posto nella tua ghirlanda, ma onoralo con la carezza pietosa della tua mano e coglilo.
Temo che il giorno finisca prima del mio risveglio e passi l’ora dell’offerta.
Anche se il colore è pallido e tenue è il suo profumo serviti di questo fiore finché c’è tempo e coglilo.
Morte del bambino
Era vivo, rideva, camminava e giocava. Natura, prendendolo che hai avuto? Tu hai milioni di uccelli colorati, foreste, stelle, oceani, il cielo infinito. Perché l’hai strappato dal seno della madre, l’hai nascosto in seno alla terra e l’hai ricoperto di fiori?
O Potente Natura di miriadi di stelle e di fiori, hai rubato un bambino! S’è forse ingrandito il tuo tesoro infinito? Hai così aumentato d’un granello La tua felicità? Eppure, un cuore di mamma, immenso come il tuo, con la perdita del bambino ha perduto tutto!
Non celare il segreto
Non celare il segreto del tuo cuore, amico mio. Dillo a me, solo a me, in segreto. Tu che sorridi tanto gentilmente, sussurralo sommessamente, il mio cuore l’udrà, non le mie orecchie.
La notte è fonda, la casa è silenziosa, i nidi degli uccelli son coperti di sonno.
Dimmi tra lacrime esitanti, tra sorrisi titubanti, tra dolore e dolce vergogna, il segreto del tuo cuore!
Come una regina
Senza parlare sei arrivata come una vera regina, di nascosto hai posato i piedi dentro l’anima.
Donna
Donna, non sei soltanto l’ opera di Dio, ma anche degli uomini, che sempre ti fanno bella con i loro cuori. I poeti ti tessono una rete con fili di dorate fantasie; i pittori danno alla tua forma sempre nuova immortalità. Il mare dona le sue perle, le miniere il loro oro, i giardini d’ estate i loro fiori per adornarti, per coprirti, per renderti sempre più preziosa. Il desiderio del cuore degli uomini ha steso la sua gloria sulla tua giovinezza. Per metà sei donna, e per metà sei sogno.
Non abbandonarti
Non abbandonarti, tienti stretto, e vincerai. Vedo che la notte se ne va: coraggio, non aver paura. Guarda, sul fronte dell’oriente di tra l’intrico della foresta si è levata la stella del mattino. Coraggio, non aver paura.
Son figli della notte, che del buio battono le strade la disperazione, la pigrizia, il dubbio: sono fuori d’ogni certezza, non son figli dell’aurora. Corri, vieni fuori; guarda, leva lo sguardo in alto, il cielo s’è fatto chiaro. Coraggio, non aver più paura.
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“La danza” di Matisse e la selvaggia violenza espressiva del colore
Oggi, 6 maggio, è la giornata mondiale del colore. Per celebrarla, analizziamo uno dei dipinti più celebri di Henri Matisse, La danza, un omaggio al colore e alla sua violenza espressiva.
Tre colori per un vasto pannello di danza: l’azzurro del cielo, il rosa dei corpi, il verde della collina
Henri Matisse, il maestro del colore
Henr Matisse è una delle figure chiave del Modernismo francese. Raggiunse la fama come esponente di spicco del Fauvisme. Il movimento prendeva il nome dal termine “fauves” (bestie feroci), coniato per indicare la “selvaggia” violenza espressiva del colore, caratteristica dei questi pittori. Oltre a Henri Matisse, si ricordano André Derain, Georges Braque, Raoul Dufy e Maurice Vlamimck. Nel corso della sua carriera artistica, Matisse fu influenzato dagli impressionisti Manet e Renoir, dal puntinista Seurat e dai post impressionisti Cézenne e Gauguin. Strinse, inoltre, una intensa e duratura amicizia con Pablo Picasso.
La danza
La danza fu commissionata a Matisse dal ricco collezionista d’arte russo Sergej Sukin per la propria residenza privata. Nel dipinto, le cinque danzatrici si muovono in modo irregolare, ma armonico, secondo uno schema compositivo ovale. Le due danzatrici in primo piano non si toccano, ma si protendono l’una verso l’altra quasi a voler chiudere il cerchio del girotondo. Ne “La Danza” emerge la musicalità e la visione emozionale e vitalistica di Matisse, in cui oggetti e figure non vengono indagati, ma sentiti ed accostati armoniosamente in quella gioia di vivere cara all’artista.
L’uso del colore
Qui si coglie la forza del segno pittorico, monocromo, che definisce il contorno delle figure. Si usano soltanto tre colori: il rosso per i corpi, il blu per lo sfondo, il verde per il terreno. Ma questa linea, invece di separare ogni figura dallo spazio, diviene parte del ritmo che caratterizza la composizione.
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“Il mio sguardo è nitido come un girasole”
Fernando Pessoa ci regala una poesia che suggeriamo di leggere. “Il mio sguardo è nitido come un girasole” è una poesia scritta nel 1914. Fa parte di una collezione “Il Guardiano di greggi“ composta da più di 30 poemi, sotto l’eteronimo di Alberto Caeiro: il suo grande Maestro spirituale. Un personaggio completamente inventato, animato da un’ispirazione dalla matrice quasi divina, o forse sarebbe meglio dire mistica che per Pessoa rappresenta il detentore assoluto della verità primitiva, privo delle sovrastrutture religiose e intellettuali.
Ciò che colpisce della poesia di Pessoa è che sembra scritta per affrontare la ripartenza dopo i giorni di isolamento dovuti alla pandemia da Coronavirus. “Il mio sguardo è nitido come un girasole” ci avverte che “E quel che vedo in ogni istante, è quello che mai prima io avevo visto, e me ne accorgo molto bene…”
Pessoa, guardare alla vita con maggiore ingenuità
Nella Lettera sulla genesi degli eternomini, del 13 gennaio del 1935, nella quale Pessoa rispondeva all’intervista del critico amico Adolfo Casais Monteiro, Pessoa scrive che Alberto Caeiro “insegna a disapprendere: ossia a disimparare, liberandosi della filosofia, della metafisica, frutti perniciosi del pensiero, che non hanno portato a nulla, in un momento in cui l’epoca dimostra il completo crollo di ogni certezza e verità.”
Un invito quindi ad affrontare la vita in modo più semplice, più naturale, più istintivo. Ripulirsi dalle sovrastrutture può aiutare a vedere ciò che ci circonda in modo più ingenuo, più immaturo, con “lo stupore essenziale, che avrebbe un bambino se, nel nascere, si accorgesse che è nato davvero…”
“Il mio sguardo è nitido come un girasole” – Fernando Pessoa
Il mio sguardo è nitido come un girasole. Ho l’abitudine di camminare per le strade guardando a destra e a sinistra e talvolta guardando dietro di me… E ciò che vedo a ogni momento è ciò che non avevo mai visto prima, e so accorgermene molto bene. So avere lo stupore essenziale che avrebbe un bambino se, nel nascere, si accorgesse che è nato davvero… Mi sento nascere a ogni momento per l’eterna novità del Mondo…
Credo al mondo come a una margherita, perché lo vedo. Ma non penso ad esso, perché pensare è non capire… Il Mondo non si è fatto perché noi pensiamo a lui, (pensare è un’infermità degli occhi) ma per guardarlo ed essere in armonia con esso…
Io non ho filosofia: ho sensi. Se parlo della Natura, non è perché sappia ciò che è, ma perché l’amo, e l’amo per questo perché chi ama non sa mai quello che ama, né sa perché ama, né cosa sia amare…
Amare è l’eterna innocenza, e l’unica innocenza è non pensare…
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Un inno in difesa della libertà, aiutandosi l’un l’altro. E’ questo il significato del Discorso all’Umanità di Charlie Chaplin, che l’attore pronuncia alla fine del film Il Grande Dittatore, capolavoro della storia del cinema. Il discorso rappresenta un manifesto per un mondo migliore, tanto da essere scelto da Lavazzaper la sua nuova campagna di comunicazione.
Una nuova umanità
Il Discorso all’Umanità di Charlie Chaplin rappresentava già in principio ad un appello potente a favore del risveglio della sensibilità individuale. Charlie Chaplin scrisse e diresse il film “Il Grande Dittatore” nel 1940. Proprio quell’anno Hitler era salito al potere, la Seconda Guerra Mondiale era iniziata da appena un anno e il mondo non poteva ancora immaginare l’orrore dell’Olocausto.
Le parole del discorso di Charlie Chaplin oggi assumono un forte valore comunicativo, l’auspicio di una ripresa e di una nuova umanità che faccia del progresso, della sostenibilità e della tolleranza le basi sulle quali fondare un nuovo rinascimento. Un inno universale che invita gli uomini a difendere la terra e la libertà che si sta pian piano recuperando.
Il Discorso all’Umanità di Charlie Chaplin
Parole continuano a commuovere per la loro bellezza e la loro forza. Ecco il testo del Discorso all’Umanità di Charlie Chaplin.
“Mi dispiace. Ma io non voglio fare l’imperatore. No, non è il mio mestiere. Non voglio governare, né conquistare nessuno; vorrei aiutare tutti se è possibile: ebrei, ariani, uomini neri e bianchi. Tutti noi, esseri umani, dovremmo aiutarci sempre; dovremmo godere soltanto della felicità del prossimo. Non odiarci e disprezzarci l’un l’altro. In questo mondo c’è posto per tutti: la natura è ricca, è sufficiente per tutti noi; la vita può essere felice e magnifica. Ma noi lo abbiamo dimenticato. L’avidità ha avvelenato i nostri cuori, ha precipitato il mondo nell’odio, ci ha condotto a passo d’oca a far le cose più abiette.
Abbiamo i mezzi per spaziare, ma ci siamo chiusi in noi stessi; la macchina dell’abbondanza ci ha dato povertà; la scienza ci ha trasformato in cinici; l’abilità ci ha resi duri e cattivi. Pensiamo troppo e sentiamo poco. Più che macchinari, ci serve umanità. Più che abilità, ci serve bontà e gentilezza. Senza queste qualità, la vita è violenza, e tutto è perduto. L’aviazione e la radio hanno riavvicinato le genti.La natura stessa di queste invenzioni reclama la bontà dell’uomo, reclama la fratellanza universale, l’unione dell’umanità. Perfino ora la mia voce raggiunge milioni di persone nel mondo, milioni di uomini, donne, bambini disperati. Vittime di un sistema che impone agli uomini di torturare e imprigionare gente innocente. A coloro che mi odono, io dico: non disperate, l’avidità che ci comanda è solamente un male passeggero. L’amarezza di uomini che temono le vie del progresso umano, l’odio degli uomini scompare insieme ai dittatori. E il potere che hanno tolto al popolo, ritornerà al popolo. E qualsiasi mezzo usino, la libertà non può essere soppressa. Soldati! Non cedete a dei bruti! Uomini che vi sfruttano! Che vi dicono come vivere! Cosa fare! Cosa dire! Cosa pensare! Che vi irreggimentano! Vi condizionano! Vi trattano come bestie! Non vi consegnate a questa gente senza un’anima! Uomini macchina, con macchine al posto del cervello e del cuore. Voi non siete macchine, voi non siete bestie, siete uomini! Voi avete l’amore dell’umanità nel cuore. Voi non odiate coloro che odiano solo quelli che non hanno l’amore altrui. Soldati! Non difendete la schiavitù! Ma la libertà!Ricordate, Promettendovi queste cose dei bruti sono andati al potere: mentivano, non hanno mantenuto quelle promesse e mai lo faranno. I dittatori forse son liberi perché rendono schiavo il popolo. Allora combattiamo per mantenere quelle promesse! Combattiamo per liberare il mondo, eliminando confini e barriere! Eliminando l’avidità, l’odio e l’intolleranza! Combattiamo per un mondo ragionevole; un mondo in cui la scienza e il progresso, diano a tutti gli uomini il benessere. Soldati! Nel nome della democrazia siate tutti uniti!“
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Giuseppe Ungaretti. Mi tengo a quest’albero mutilato
È il verso che apre la poesia I fiumi, di Ungaretti. Il titolo ha, come per gli altri testi poetici di Il porto sepolto, un sottotitolo relativo al luogo e alla data di composizione: in questo caso, Cotici il 16 agosto 1916. Un titolo, un luogo, una data: la poesia come parola che accoglie la situazione, ovvero la fisicità del tempo e la visibilità dello spazio, ed è a partire da questa presenza che prende movimento il sentire, oltre che la pronuncia del sé. Che può essere un sé tumultuante o quieto o indecifrato. Cotici è località prossima a San Michele del Carso, teatro di guerra, dunque di trincee, di notti insonni, di assalti nel fumo del fuoco nemico e amico, di caduti, di feriti. Questi e altri versi del Porto sepolto sono scritti, come racconterà il fante Ungaretti, su foglietti: “cartoline in franchigia, margini di vecchi giornali, spazi bianchi di care lettere ricevute”, ma anche, come dirà ancora, “pezzetti di carta strappati agli involucri delle pallottole”. Foglietti conservati via via nel tascapane, e consegnati un giorno al giovane tenente Ettore Serra (fu costui, in una licenza, a stampare quei versi, a Udine, sul finire del 1916, in un’edizione di 80 esemplari). Nella successiva guerra mondiale, nel corso della Resistenza, un altro poeta, René Char, nel maquis in Provenza, scriverà anch’egli i suoi versi su foglietti casuali: nascosti, prima della notturna partenza in volo per l’Algeria, negli anfratti di un muretto a secco, i versi saranno poi recuperati, e avranno il titolo di Feuillets d’Ypnos. Li tradurrà in italiano Vittorio Sereni.
Il primo verso di I fiumi, Mi tengo a quest’albero mutilato, apre la scena della desolazione, la scena del terreno di guerra, con il disegno di due figure congiunte, appoggiate l’una all’altra in un prima o in un dopo della furia bellica, in una sorta di momentanea sospensione del tempo tragico, che però manderà via via, lungo i versi, i suoi cupi bagliori. Due figure, dicevo: il mi che delinea la presenza di un corpo – il corpo che prende la parola – e l’albero che si mostra nella sua nudità offesa, nella sua mutilazione, corpo d’albero che in quanto anch’egli vivente è dalla guerra ferito, come altri corpi umani che sono fuori dalla scena. Un appoggio – tenersi a un albero – ma anche una solidarietà con un elemento della natura che qui, in questo suo mostrarsi ad apertura di scena, raccoglie come in un emblema il dolore della guerra, il dolore di tutti i corpi dilaniati o feriti nella guerra. Il mi e il questo di un primo verso endecasillabo rinviano a un altro primo verso del poeta più amato da Ungaretti, quel Leopardi che insieme a Mallarmé è stato all’origine della stessa vocazione alla poesia: “Sempre caro mi fu quest’ermo colle”. Sia il mi sia il questo, un riflessivo e un deittico, come è accaduto nell'Infinito leopardiano, si rifrangeranno come un’onda nel resto della poesia, a dire sia la presenza corporale da cui muove la parola poetica sia la presenza forte e la prossimità del visibile da cui muove il rapporto con l’oltre. In Leopardi questo oltre è l’odissea di una rappresentazione impossibile, e tuttavia tentata, dell’infinito nel pensiero; in Ungaretti questo oltre è l’altrove che nel vuoto del sentire spalancatosi col tragico prende la forma dell’appartenenza a quel che è lontano e che, inattingibile, è memoria e figura sensibile: i propri fiumi, ai quali è un fiume prossimo, il fiume della guerra, l’Isonzo, a rinviare.
Il suono del primo verso dà rilievo alla presenza dell’albero, posto al centro: l’accento sulla quinta (la a di albero), ritenuto perlomeno inconsueto dalla tradizione dell’endecasillabo, mostra subito che sulla misura metrica prevale il ritmo, e questo in relazione con un dire che dà alla parola la sua evidenza di segno: segno di un’interiorità immaginativa e riflessiva. Ma ecco la strofa cui appartiene il verso:
Mi tengo a quest’albero mutilato
abbandonato in questa dolina
che ha il languore
di un circo
prima o dopo lo spettacolo
e guardo
il passaggio quieto delle nuvole sulla luna
Il “mutilato” è seguito, nel nuovo verso, da un altro participio, “abbandonato”, riferito al soggetto che parla: per tutta la poesia il tempo verbale del compimento designa un movimento verso la quiete, verso lo stare o il riposare, che è sottrazione, o desiderio di sottrazione, al tumulto incessante e distruttivo dell’agire bellico (“disteso”, “riposato”, “accoccolato”, “chinato”, ecc.). Alla guerra che è cancellazione del vivente, della sua percezione, e della singolarità corporea e senziente – le ultime pagine di Der Zauberberg di Thomas Mann descrivono con grande efficacia questa abolizione dell’umano nell’assalto che muove dalla trincea –, alla guerra la poesia oppone un corpo che riconosce e nomina il proprio sentire, i propri gesti, e leva lo sguardo sulla scena e sul paesaggio: qui, un notturno lunare che illumina non le rovine ma un amaramente fantasticato circo “prima o dopo lo spettacolo”. In questa scena il racconto del poeta nomina le azioni che indicano, con lentezza d’abbandono, il ritrovamento del proprio corpo, la ripresa della percezione di sé, sottratta, per poco, alla gelida e delirante astrazione della guerra. Una percezione che muove dalla contiguità con la natura: una descensio, un’abolizione dell’io, un farsi reliquia e sasso, che dischiudono la sacralità di una ritrovata appartenenza di sé come vivente nella vita del fiume. All’opposto di quel che accade nella poesia di D’Annunzio, in cui il vivente è di volta in volta affermazione di un io panico che mima la metamorfosi (“d’arborea vita viventi”), in Ungaretti il senso del vivente è attinto a partire dall’abbandono dell’io in una temporanea quiete (una sorta di Gelassenheit, direbbe un lettore in vena di filosofare), ed è per questo che il ritrovamento di sé, nel circo desolato che è la dolina, è raffigurato con il passo magico dell’acrobata sull’acqua:
Stamani mi sono disteso
in un’urna d’acqua
e come una reliquia
ho riposato
L’Isonzo scorrendo
mi levigava
come un suo sasso
Ho tirato su
le mie quattr’ossa
e me ne sono andato
come un acrobata
sull’acqua
Un fiume, un corpo: il soldato ha dimesso i suoi “panni /sudici di guerra”, si è chinato e disposto “come un beduino /…a ricevere il sole”, ha tentato la consegna di sé alla percezione di un’armonia con l’elemento naturale, si è lasciato accarezzare, anzi intridere, dalle “occulte / mani” del fiume. Ed è questa resa, questa collaborazione con la natura – per sospendere, almeno per poco, il tragico della guerra – che apre la teca della memoria e libera il sentimento del legame, ma anche mette in moto un nostosfantastico che è ritrovamento delle radici, dell’infanzia, della giovinezza: “Ho ripassato / le epoche / della mia vita // Questi sono / i miei fiumi”. Le mani di un fiume sul corpo di un soldato sottratto al delirio della guerra hanno “regalato” la felicità (“la rara /felicità”) di un rammemorare che è un trascorrere di nomi – nomi di fiumi – percepito come succedersi di stagioni e insieme di segni lasciati sulla pelle del proprio sentire. L’anafora, la ripetizione del “questo”, inaugura la litania dell’appartenenza, la declinazione della memoria, la scansione del tempo, del tempo nominato nell’intimo della propria singolarità: “Questo è il Serchio”, “Questo è il Nilo”, “Questa è la Senna”. Il tempo immemoriale dell’origine legato alla terra (“gente mia campagnola”), il tempo dell’infanzia (“ardere d’inconsapevolezza”), il tempo della giovinezza, che è tempo di un cammino difficile verso la conoscenza di sé (“e in quel suo torbido / mi sono rimescolato / e mi sono conosciuto”).
Il “questo” dell’albero mutilato, quella sua presenza che nella desolazione della dolina era emblema della ferita, del vivente ferito, ha aperto la catena dei deittici che portano altre figure, quelle dei fiumi, e, con i fiumi, le morte stagioni. “Questi sono i miei fiumi /contati nell’Isonzo”: il trascorrere dell’acqua sul corpo liberato dai panni del soldato è l’onda di una memoria che è esperienza di una nostalgia (“Questa è la mia nostalgia”), cioè esperienza del dolore per un ritorno impossibile (nostos – algos). E, allo stesso tempo, ritrovamento, nella parola della poesia – nella sua energia che dà presenza e vita – di un sé che, sottratto al furore e all’astrazione violenta della guerra, è relazione di un vivente con il vivente della natura e con il vivente che pulsa in ogni gesto, o parola, rammemorante.
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La carne è triste, ahimè, e ho letto tutti i libri
Whaterhouse, Miranda, the tempest
È un verso di Mallarmé, che nella sua lingua suona: La chair est triste, hélas! Et j’ai lu tous les livres. Apre Brise marine (Brezza marina), poesia scritta dal poeta nel 1865, a ventitré anni. Un verso, dunque, della prima stagione del poeta, una stagione ancora tutta segnata dall’entusiasmo per le Fleurs du maldi Baudelaire (la cui seconda edizione era uscita nel 1861). La poesia è infatti in dialogo con alcuni famosi fiori baudelairiani come Parfum exotique, o L’Invitation au voyage , o La Musique.
Un primo verso che, accanto ad altri primi versi delle poesie più enigmatiche o complesse di Mallarmé, è diventato memorabile (almeno presso i cultori di poesia). Il primo verso e l’ultimo verso sono per un poeta soglia e congedo di un’avventura nella lingua, con la lingua; ispirazione, azzardo, risonanze e rifrangenze possibili di senso si raccolgono nell’incipit o nell’explicit: come il ventaglio del nostro sentire si fa denso e talvolta impetuoso nell’occasione della partenza e dell’addio. Alcune poesie restano appunto memorabili per il primo verso, altre per l’ultimo. Ma è più spesso nel primo verso che si può avvertire l’energia di una lingua la quale, muovendo dal silenzio, porta con sé la musica del senso, il miracolo della congiunzione inseparabile di senso e suono. È nel primo verso che l’ispirazione mostra quella soglia dove affida l’ebbrezza del sentire, dell’immaginare inatteso e del pensare alla tecnica e alla fatica della composizione. Ispirazione e lavoro, insieme, diceva Baudelaire della poesia.
E Valéry, che di Baudelaire e di Mallarmé si sentiva discepolo ed erede, diceva che il primo verso è un dono, tutto il resto è lavoro.
Una divagazione d’apertura. Per dire che questo primo verso di Brise marine, come altri delle poesie che più affannano i traduttori (per esempio Le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui) nella memoria dei lettori si è come staccato dal corpo del poème e ha avuto un suo solitario cammino. L’effetto di sorpresa del verso, al di là del fatto che diventa sorgente delle figurazioni successive, sta nell’aver portato in una contiguità inattesa la riscrittura di una citazione evangelica (Gesù nell’orto del Gethsemani: “Tristis est anima mea usque ad mortem: sustinete hic et vigilate mecum”, Matteo, 26, 38) e l’affermazione di un sapere esaustivo, compiuto ("e ho letto tutti i libri"), un’affermazione che così come è formulata mostra tuttavia la distanza dalla sapienza. Inoltre nella citazione evangelica c’è un’infrazione, un’opposizione: all’anima, alla sua tristezza, si sostituisce la carne, la sua tristezza. Tristezza che nessun sapere può mitigare, nessun libro consolare. Nel cuore del verso una sorta di pausa o cesura teatrale, un’esclamazione scenica: hélas!
Un intervallo che dà al verso una postura declamatoria, una sorta di preventivo diaframma nei confronti del desiderio di fuga e di libertà marina, o marinaresca, di cui diranno i versi seguenti. Il verso è un verso-annuncio, la dichiarazione di uno stato d’animo al quale può seguire l’efflorescenza di immagini convocate a definire il desiderio d’avventura che il mare suggerisce. Desiderio di partenza. È dalla soglia di questo primo verso che prende il via, dunque, una delle poesie di Mallarmé più esplicitamente baudelairiane: la noia e il sogno dell’altrove, la prigionia dei sensi e il viaggio per mare, il cielo interiore chiuso e plumbeo e il cielo esteriore solcato da uccelli ebbri, l’addio e l’ignoto di cui il mare è custode, la partenza e l’abbandono al vento che fa veleggiare verso lontananze ignote.
Ma il lettore sente che l’esercizio poetico ai margini delle Fleurs du mal ha già in sé uno slancio che annuncia un singolare e proprio cammino. Ecco i primi versi negli alessandrini del giovane Mallarmé, ai quali seguono i versi di una mia vecchia traduzione in endecasillabi italiani (alla centralità dell’alessandrino nella poesia francese corrisponde la centralità dell’endecasillabo nella nostra poesia, ma i due versi hanno misure e timbri e movimenti ritmici diversi; sicché la scelta dell’endecasillabo italiano privilegia in questo caso non l’equivalenza metrica e ritmica ma un'analogia di tradizione poetica, ed è consapevole di dovere in qualche modo prosciugare la narratività teatrale del verso alessandrino francese):
La chair est triste, hélas! Et j’ai lu tous les livres.
Fuir! Là-bas fuir! Je sens que les oiseaux sont ivres
D’être parmi l’écume inconnue et les cieux!
Rien, ni les vieux jardins reflétés par les yeux
Ne retiendra ce cœur qui dans la mer se trempe
…
La carne è triste e ho letto tutti i libri.
Laggiù fuggire! Ascolto uccelli ebbri
del volo tra la schiuma e i cieli. Niente,
non i giardini negli occhi specchiantisi,
mi tratterrà dall’avvolgente mare
…
Niente, non il chiarore di una lampada notturna che illumina un foglio bianco, né l’immagine di una donna che allatta il figlio può trattenere il poeta dal viaggio, o almeno dal suo impetuoso desiderio: “… Steamer balançant ta mâture, / Lève l’ancre pour une exotique nature!” (… Alberatura che ondeggi / salpa ora verso esotici paesaggi). Eco del “Levons l’encre” che apre l’ultima strofa del Voyage di Baudelaire. Annuncio della sestina che chiuderà Le cimetière marin di Paul Valéry, con il vento che si leva e l’invito ad affrontare la vita, anche lì in una sorta di ebbrezza per un’odissea interiore che la figura del mare sollecita e sempre rappresenta, in quanto, lo aveva scritto ancora Baudelaire, il mare è “un infinito diminutivo”, un “infini diminutif”.
Diremmo, pensando al “mare” che chiude L’infinito leopardiano: figura prossima e visibile e dicibile di un infinito altrimenti irrappresentabile e incomprensibile nel pensiero. La poesia di Mallarmé si chiude con l’invito, anche questo tutto baudelairiano, ad ascoltare il canto dei marinai. Una poesia, come lo sono del resto altre coeve quali Soupir o Tristesse d’été – che appartiene a un primo tempo di Mallarmé. Un indugio sul motivo dell’altrove e della lontananza da parte del poeta che poi si sospingerà più di ogni altro sui confini estremi del linguaggio, nel confronto aperto con il suo limite e il suo oltre.
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