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SMS: i pensierini di Piersa Calo
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piersacalo · 5 years ago
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Animazione/12: I Dinamite
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I Fratelli Dinamite (Nino Pagot, 1949)   Un film più importante che bello, "I fratelli Dinamite" �� la prima animazione italiana proiettata sugli sgangherati schermi di una nazione appena uscita, rovinosamente, dalla guerra. Per corollario, è anche il primo film italiano a colori. Fissato il paletto che lo rende, già solo per questo, un’opera seminale e prima pietra di una cinematografia che non ha prodotto nel tempo quanto sembrava promettere, i Dinamite è una storia avvincente, sia in senso diegetico sia storicamente: la loro genesi incerta, l'anteprima a Venezia, e la prima proiezione, durante il Natale del 1949, fallimentare. Che si tratti del primo film animato italiano è stabilito dal marchio SIAE di deposito: il numero 672 del 1947. Il suo concorrente, "La rosa di Bagdad" di Anton Gino Domeneghini, numera invece 799, e l’anno è il 1949. Entrambi furono proiettati in anteprima durante la Mostra del Cinema di Venezia del 1949; entrambi erano arrivati sani e salvi in porto, o meglio in laguna, dopo le ovvie disavventure legate alla Guerra, tant’è che, in luogo di una data di produzione, essi esibiscono una cronologia, misurando la quale ne risulta che il film dei Pagot fu iniziato dopo e finito prima (1943-1947), mentre quello di Domenighini iniziò prima e fu registrato dopo (1942-1949). Tale tempismo rende il giusto tributo ai Pagot, autori di maggiore caratura, di un’opera decisamente più complessa, fortemente nazionale nei contenuti, più legata a usi, costumi, idioletti e architetture nostrane, che si contrapponevano all’ennesima variazione sul tema, pertanto molto gradevole, delle "Mille e una notte", in una Bagdad orgoglio di un mondo esotico e magico, non ancora bombardata a tappeto. La complessa famiglia Pagot, Nino in primis e suo fratello Toni, supportati più avanti dai figli di Nino, Marco e Gi(na), focalizza interesse sugli esperimenti animati già dagli anni ’30, e nel 1938 i due fratelli fondano una loro casa di produzione che, nel periodo bellico, è impegnata giocoforza a produrre animazione di propaganda di un regime ormai condannato. Grazie a tale patto, però, i Pagot ebbero la possibilità di continuare i loro lavori, le loro ricerche, gli studi sui carachter design che si sostanziarono nel mediometraggio "Lalla, piccola Lalla" (terminato nel 1946). La biondissima tenera e paciocca bambina con la testa grande e la calzamaglia, insieme a Paolino (lo studente secchione) e al cicciottello senza nome, li ritroveremo attori non protagonisti del nostro film. Ancora: in quel periodo, i Dinamite rischia di vedere la luce come cortometraggio che avrebbe avuto il nome del protagonista, Tolomeo. In effetti, oltre alla sostituzione del singolo con un trio, il film si strutturerà in episodi, anche abbastanza difformi tra loro. Per questa prima produzione italiana, i fratelli Pagot si avvalgono dell’opera di un già adulto Osvaldo Cavandoli: il padre della mitica "Linea" è un ventisettenne che qui muove i suoi primi passi come intercalatore. A dar manforte si affiancano Osvaldo Piccardo e Ferdinando Palermo, quest’ultimo nel doppio ruolo di capo-animatore e responsabile del sincrono. In ultimo, abbiamo cura di ricordare un personaggio normalmente dimenticato o nel migliore dei casi sottovalutato, quel Giuseppe Piazzi che ha sicuramente composto tutte le musiche del film e che è depositario SIAE sia degli arrangiamenti delle canzoni popolari veneziane utilizzate nell’ultimo episodio, sia di tutti i testi delle canzoni originali presenti lungo tutta la storia, assegnazione che nei titoli di testa è appannaggio di Palermo. Siccome è bello fare giustizia, soprattutto di personaggi poco baciati dalla fortuna, ho riportato qui un sunto dei frutti dell’investigazione di Marco Bellano, cui rimando la lettura del saggio, in bibliografia. Tale dilungarsi non è solo desiderio di giustizia: vuole riconoscere il ruolo centrale della musica in questo film che, senza i testi, gli arrangiamenti e le partiture di Piazzi sarebbe stata povera cosa. E ora, il film. L’età dell’oro? Quella che Bendazzi, nella sua monumentale opera definisce come "l’età dell’oro" dell’animazione mondiale, il periodo 1928-1951, in Italia ne è appena la culla, quel 1949 già prossimo al declino, dopo una totale indifferenza e i primi passi in una Nazione in guerra. I Dinamite, come già ricordato, fu pensato come un cortometraggio. Un’idea comprensibile, in un momento storico confuso, con mezzi scarsissimi e la cui unica possibilità di commercializzazione "pronto cassa" era rappresentata dall’abbinamento di un corto a lato di un lungometraggio, possibilmente interpretato di divi "in carne e ossa", sia pur ingessati dall’autarchia e dal moralismo bellico. Il passaggio storico, dalla censura all’invasione nordamericana i cui echi, le Star e il Jazz, non erano ignoti a una minoranza "colta" e sovversiva, comunque poco rappresentativa delle grandi masse, provocò un terremoto sul quale con grande difficoltà si muoveva un’opera marchiata da un passato da dimenticare e, paradossalmente, troppo moderna. È pur vera che tale invasione fu temperata dalla stagione del Neorealismo (che fece illudere addirittura un’invasione al contrario), ma il confronto tra lo splendore del technicolor, su cromie cangianti e agili, arricchite da musica e canti, poco si addiceva ala poetica de "la vita così com’è", in rioni popolari, distrutti dalle bombe e governati dalla fame. Tale discrasia aggiunse un ulteriore biais che si sostanzierà nel flop commerciale del 1949, e nel dimenticatoio presso cui il film sarà costretto fino al suo restauro. A onor del vero, nel 1971 fu provato un lancio televisivo, nell’ancora sperimentale Rai2: "I fratelli Dinamite" è trasmesso in prima serata, naturalmente in b/n. Bisognerà attendere il 2004, l’anno del restauro curato dalla Cineteca Italiana e vari sponsor, quando infine, da due vecchissime copie in nitrato, sarebbe stata tirata una versione luccicante che inaugura la LVI Mostra di Venezia. E siamo a oggi, con le copie in DVD e gli streaming a portata di mouse. Siamo in tre! In realtà siamo in sei, i sei episodi che ripercorrono la vita di Din, Don e Dan, i pestiferi Dinamite, da appena nati all’adolescenza, fino a quell’atto finale con cui, "dopo aver lambito l’Inferno", si saranno assicurati un posto in Paradiso. Riassunto così, il film sembra invitare a toccar ferro, lasciando immaginare che la fine della storia coincida anche con la fine di quelle tre giovanissime vite. Non era certo questa l’intenzione dei Pagot, ma una certa deriva "deamicisiana", a volte, sembra farsi prendere la mano, come questo finale patetico-ammonitore che fa il paio con la terribile reprimenda del bidello al secchione Paolino, che per poco non si era lasciato irretire dai pifferi infernali (inutilmente, ci cascherà comunque). Il tono bonario ma deciso, insieme patetico, supplichevole e intimidatorio del brav’uomo lo accostano più decisamente al libro Cuore che alla saggezza pedante del Collodi, e il tono di questi due piccoli episodi ricordano le pagine strappalacrime della malattia del Muratorino, o l’agonia della Piccola Vedetta Lombarda. Come ricordato, il nostro film attinge, a piene mani ma declinando a modo suo, al lungo patrimonio della tradizione culturale italiana, di cui fa parte anche quel libro angoscioso. Altre referenze, più brillanti, più oggettive, le vedremo in corso d’opera. Conviene perciò ritornare ai sei episodi, e alla loro strutturazione. Nel primo episodio, i tre fratelli sono ospiti in barca dello zio ubriacone in cerca dell’Eldorado, l’isola del Rhum di cui è ghiotto, e con cui allatta i tre neonati. L’impossibilità di tenere la barra dritta e il sopraggiungere di una tempesta causano un naufragio i cui soli sopravvissuti, a cavallo di una cassa di rhum che farà anche da alimento, sono appunto Din, Don e Dan. La corpulenza dello zio-capitano imprime da subito una costante del cinema dei Pagot: essa designa personaggi negativi, al massimo ambigui, come lo zio snaturato, il bidello angosciante, fino a Satana in persona. L’ondeggiamento della cinepresa sui "cel" in tempesta, oggi, fa un po’ sorridere, ma la resa in technicolor delle sfumature delle onde, e del movimento che esprimono, ricordano decisamente le grandi opere di Hokusai, che ai Pagot potrebbero esser state note, se non addirittura approvate dalla censura in quel tempo in cui Giappone e Italia, pur avendo idee vaghissime una dell’altra, erano state alleate. Ricordiamo infine che esiste un legame affettivo tra la famiglia Pagot (Marco e Gi in verità) e il Grande dell’animazione, quell’Hayo Miyazaki che in "Porco rosso" chiamerà proprio Marco Pagot il suo eroico aviatore. Il secondo episodio è quello più calligrafico, per qualcuno anche il più gradevole, ma di certo il meno interessante. Potrebbe essere una classica produzione Disney: in pochi si accorgerebbero dello scambio. L’isola deserta, abitata da animali fantastici e policromi, ha tutte le caratteristiche dell’Eden, bella, felice, pacifica. Maiali-pipistrelli, uccelli multicolore, alberi delle salsicce, frutti mielosi e una mucca (o forse una bufala) che lecca amorevoli i tre bimbi nudi, dal ventre prominente e che sembrano essi stessi dei putti, piccoli angioletti. L’idillio si muove tra inquadrature pensate come pittura a olio, maestose e definitive, splendenti di technicolor e statiche: un indugio sulla bellezza che è più un indice della povertà dei mezzi e dei fondali. Il gorilla, che si muove con cadenze jazz e conosce, lui solo, il linguaggio umano, allieta gli abitanti con jonglerie che divertono tutti, anche i bambini spesso usati come palle da giocoliere. L’idillio è rotto dall’arrivo di un "comitato scientifico inglese", preannunciato dall’indizio delle sue civili orme di scarpe che schiacciano fiori e piante mentre, metodicamente e con un certo gusto dell’arte di impacchettare, cinquanta anni prima di Christo (l’artista), fanno incetta di ogni forma vivente, timbrata con le destinazioni d’uso, dallo zoo alla pellicceria. Il salvataggio della bufala, destinata alla macelleria, provoca la cattura dei tre bimbi, per mano dell’ineffabile miss Chloè, retino in mano e didietro all’aria. Tale episodio non aggiungerebbe granché alle grandi produzioni Disney, in special modo quelle degli esordi, focalizzate sul mondo animale prima dell’azzardo, che si rivelò un grande successo, di "Biancaneve". Una grandezza giustificata, sia dai grandi mezzi a disposizione, sia da una "grammatica" dettagliatissima, che riusciva a inglobare anche il remotissimo, dal punto di visto spaziale e ideologico, utilizzo asincrono della musica, teorizzato da Ejzenstejn-Alexandrov-Pudovkin, e che nel nostro episodio non notiamo. Ma lo ritroveremo più avanti. Il terzo episodio è di tipo frequentativo. Serve a introdurre i fratelli nella società civile, già cresciuti e nel loro character design definitivo, segaligni, naso lungo, viso regolare, rivestiti da seminaristi, e ancora pestiferi, intenti a suggere sigari più grandi di loro e a leccare la marmellata dal pavimento. Si tratta di una interlocuzione necessaria, utile a sorvolare su alcune evidenti discrasie: sono italiani o inglesi? Sono imparentati con Chloé, sorella di "zio Rhum", o sono stati trovati e adottati? Tutto sommato, poco importa. Pinocchio Così potremmo rinominare il IV episodio, quando il film, finalmente, decolla. L’eterno conflitto tra il pessimismo della volontà e l’ottimismo della ragione, tra l’educazione severa e il Paese del Bengodi, è attaccato da tre direttrici che lo faranno, letteralmente, esplodere. Esse sono: l’eversione collodiana, la polisemia musicale, il citazionismo. Din, Don, Dan, in perenne formazione di squadriglia, che unita come un mecha giapponese assume le forme e la cazzimma di un gallo, sembrano andare volentieri a scuola. Ma, di fronte ai loro amichetti Paolino, Pierino, Lalla e il cicciottello, già catturati dai pagliacci, non esitano a mettersi nel sacco con le proprie mani. La fuga verso l’Inferno, su di un cavallo sempre più inscheletrito durante il galoppo, e che molto ricorda quello del "Nosferatu" di Murnau, fa intraveder loro le nebbie della desolazione si cui si agitano i fantasmi dei sette vizi capitali, imbrigliati di terrore e disgrazia, come ferocemente li descrisse Dante, e che sono il benvenuto alla dimora di Satana, un corpulento (cattivo, "senza pietà") collezionista di bambini che ama rivestire di fattezze animali che danno loro la fisionomia e il comportamento. E così, il già non sveglissimo cicciottello, diventa un maialino, nel mentre Pierino, il suonatore di zufolo, è ancora affascinato dai suoni jazzati e batte i piedi accompagnandone il ritmo, salvo sfuggire alla cattura grazie alla sua agilità, e far partire la rivolta, perfezionata dai Dinamite. Sale in cattedra l’eversione collodiana, di cui fu magnifico interprete Carmelo Bene che con la sua sola voce diede anima a questo fannullone, lazzarone, incantato solo dalla Bellezza superficiale, e sempre in ritardo coi pentimenti. Se possibile, i Pagot si spingono oltre, fino all’esplosione dell’Inferno. È la loro maniera di procedere: gettando l’esca del paternalismo deamicisiamo, essi stanno già confezionando i botti, lustrandone la miccia, facendo brillare l’acciarino. La colonna sonora segue sincronica gli avvenimenti: i pagliacci cercano di irretire gli studenti con pifferi e cembali molto contenuti che poi diventano melliflui, incantatori, e riducono i corpi umani in serpenti privi d’ossa e di volontà, infine rapiti. Pur essendo tipici strumenti dionisiaci, sono usati in tutt’altra guisa, non pazzo entusiasmo ma sottile opera di convincimento, tuttavia efficaci, elegantemente sinuosi. Il diavolo è invece un melomane, ha una debolezza per la musica che lo rende "buono", e perciò imbelle. Le musiche che lo commuovono sono ordinarie canzoni popolari, ma anche un cluster di note atonali pestate a casaccio dal suo fido gatto che cerca disperatamente di liberarsi dalla forchetta che lo tiene inchiodato al pianoforte. Il vocabolario di Satana si rivela una collazione di brani e arie tratte dalla Traviata, dall’Orfeo, dalla Norma, dal Rigoletto, fino all’omaggio alla Carmen, quando, inferocito, si trasforma in un toro alla carica, elegantemente schivato dalle sottane di Din, Don, Dan. Trionferà lo spirito giocondo: la musica Il V e il VI episodio a una prima occhiata non sembrano distinguersi nettamente. L’impressione è di essere comunque a Venezia, prima a teatro (e il grasso, cattivo, poliziotto, si esprime in effetti con tale accento) e poi nel più glamorous Carnevale del Mondo. Tant’è, la divisione torna utile per considerare il V episodio come quello della musica, dispiegata al suo massimo. Il casus belli diventa un contrabbasso, il regalo ricevuto da Gesù Bambino per aver sconfitto il Diavolo. Amanti dello strumento, si propongono a una serissima orchestra di concerto borghese, che fa ala a un pianista sentimentale, ammirato dall’alto del suo palchetto da una innamorata e avvenente fanciulla. L’attrito dell’episodio è introdotto da una fortunatissima canzoncina scritta da Piazzi ed eseguita off-air a commento dei tre fratelli che estirpano le barbe e i capelli dei "passatisti parrucconi" in nome della Gioia, Futura Umanità. In groppa al loro strumento, che così ricorda le fattezze della loro amica bufala, salvata e poi perduta, si dirigono ottimisti nel teatro, certi di essere assunti. È indubbio che tema e svolgimento della canzoncina hanno, nel dopoguerra, creato qualche imbarazzo a un Paese che da regio-fascista si risvegliò, nell’arco di tre anni, repubblicano-democratico. L’eco futurista, le ampolle dannunziane, i coretti à la Lescano, erano senza dubbio un mobilio da confinare in cantina, più che da esibire nei cinema. In effetti, l’interesse del film consiste anche in questo, riflettere su una transizione che formalmente fu velocissima, ma che nei fatti ebbe i suoi momenti, e che non si poteva certo cancellare con un colpo di spugna. Come sia, il trio entra nel Teatro delle Muse, dove il celebre pianista Paskuarosa terrà il suo solito, memorabile concerto. Come nella migliore tradizione Disney, l’azzimato artista è destinato a scapigliarsi, diventare tutt’uno con la sua musica sentimentale. In panoramiche e carrelli in avanti si crea il "feeling" tra l’orchestra, in basso, e i palchi, in alto, dove le masse ondeggiano fino a quasi cadere, e dove la bella è raggiunta da fiori, baci e artifici vari che percorrono autostrade di piante, alberi, intere foreste che mettono in comunione i cuori in lacrime degli ascoltatori e quello in tumulto dell’esecutore. Se i corpi tremano, l’architettura del teatro resta immobile, come una bomboniera i cui elementi di arredo sembrano, ognuno, delle golose caramelle che sudano miele. Almeno finché non arriveranno i Dinamite, con questo strumento già di suo problematico: ingombrante e nato come accompagnamento, esso ha inaugurato vita nuova col Jazz, in cui si produce spesso in assolo poco adatti alle orecchie delicate, e che introducono, danno la carica, anche alla canzoncina dello spirito giocondo. Sardonico e insieme ipnotico, tale strumento sarebbe sicuramente piaciuto a Euripide nel mentre sceneggiava "Le Baccanti". Ancora peggio: il detto contrabasso non ha la semplice mira di essere accettato, ma prolifera come un virus: prima contagia il pianoforte suonato coi piedi, alla maniera di Jerry Lee Lewis; poi attacca tutti gli altri, attraverso lo scambio degli spartiti che crea quell’effetto tipicamente cartoonesco per cui il violino che segue la partitura del cello diventa esso stesso un cello suonato maldestramente da un violino: "Musica moderna!", sentenzia la giovane dama del palco che, nella sua assoluta mediocrità di gusto, ha assolutamente ragione. Ancor più evocativa, più avanti, è l’ulteriore rivoluzione ormai prossima, quella elettrica, qui suggerita dall’impianto luci che fulmina una maestosa e impassibile arpa fino a trasformarla nello scheletro di un dinosauro gobbo, "passatista". Il teatro dell’Arte - Le canzonette E infine arriviamo al Carnevale. L’episodio, dopo Collodi, l’opera lirica, Dante & De Amicis, (per tacere del Futurismo), si arricchisce di due ulteriori tasselli che avrebbero, insieme agli altri, potuto concorrere alla genesi di un cinema di animazione italiano più prestigioso di quanto sia effettivamente diventato. Essi sono la Commedia dell’Arte, con le sue maschere e psicologie, e la canzone popolare. Questa è protagonista, attraverso gli arrangiamenti del Piazzi, delle esibizioni canore dei concorrenti al titolo di "Dogi del Carnevale", padroni assoluti "fino al Giorno del Giudizio". L’esibizione che precede quella dei Dinamite è eseguita in una tinozza sulla laguna da tre fresconi che modulano falsetto, baritono e tenore non solo nella vocalità ma anche negli strumenti, come una delle migliori gag degli "Amici miei", molti anni dopo. Con minor fortuna, affondano. I Dinamite, scorrettamente, si affidano al playback de "La biondina in gondoleta", mimandone i trasporti emotivi che coinvolgono un pubblico trasognato che li incorona vincitori. Inseguiti e portati in trionfo da mille maschere compatte e multilineari che vanno su e giù per le calli, esprimono le vertigini di un Otto Volante, quando l’adrenalina ti ordina solo di fuggire. Saggia decisione, poiché l’entusiasmo delle masse si trasforma in una caccia senza quartiere quando i fratelli ordinano, come primo atto legislativo della tirannia loro assegnata, di sospendere le feste "fino a quando non si sarà ritrovata la bambola perduta" di una bambina in lacrime sul sacrato di San Marco. La resa grafica di colori, linee e cerchi, non muta la grafica di un tumulto che resta disordinato, possente e esplosivo, in cui la bellezza non è simmetria ma l’improvviso disvelarsi, quando tre vecchi "parrucconi" sono in realtà (oppure si trasformano in) tre leggiadre fanciulle. Una differenza strutturale con le ordinate parate di maschere e travestimenti dei grandi autori dell’Estremo Oriente, tra i quali ricordiamo almeno Oshii Mamoru in "Ghost in the Shell- Innocence" e Satoshi Kon in "Paprika". Il ritrovamento della modesta bambola di pezza sul fondo della laguna, armati di mattone appeso al collo e candela per far luce, ha infine successo grazie alle indicazioni di un vecchio pesce che comprende solo il giapponese, e risponde in veneziano. Sicché, con questa buona azione, i Dinamite si sono guadagnati il Paradiso. Più che una Pietra Miliare, "I Fratelli Dinamite" fu la Prima Pietra di un'animazione che non molto fece, fa, tesoro delle loro intuizioni. Rimandiamo ad altre analisi per rivedere gli sviluppi di quelli che furono i loro eredi, da Cavandoli al Mattotti, via i Bozzetto, Luzzati, Gibba, Gavioli, Manuli, che meriterebbero tutti una trattazione autonoma. Bibliografia - Animazione, Giannalberto Bendazzi, vol.1, UTET 2017 - Storia del cinema d’animazione, Gianni Rondolino, Einaudi 1974 - «Oh… Musica moderna!» Hollywood, satira e "modernismo" nella musica di Giuseppe Piazzi per I fratelli Dinamite, Marco Bellano per la rivista "Cabiria", n.178, set./dic. 2014, qui in pdf
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piersacalo · 6 years ago
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Anime 011: Mind Game
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Mind Game (Masaaki Yuasa, 2004)
Osaka, vigilia del Campionato del Mondo. Lo scippo della fidanzata e dei biglietti della partita si risolve in un match all'ultimo sangue tra Buddha e la Yakuza. Il primo lungometraggio di Masaaki creò un profondo sconcerto. Di buona reputazione ma di nessuna fama, e di scarsa gavetta, il giovane Yuasa aveva messo in piedi una storia complessa e strutturata laddove i suoi sodali del Jikken Eiga, il "cinema sperimentale", di natura vivace e fieri dei pochi mezzi a disposizione, esaurivano la carica creativa alle soglie dei cortometraggi, parecchio apprezzati dalla critica ma di nullo valore commerciale, sia per le classiche difficoltà di proiezione sia per il fisiologico ermetismo di piccoli gioielli condensati e perciò ellittici. Per poter mettere insieme pranzo e cena, gran parte di questi artisti hanno lavorato, negli "anni zero", per la televisione, che ben volentieri li accoglieva al patto di non deragliare da una canonica poetica mainstream, di contenuto valore artistico e culturale. Yuasa no. La sua gavetta dura poco e tra un cartello iniziale, un SMS in maiuscoletto recitante "La tua vita è il risultato delle tue sole decisioni", e una truka-avviso ai naviganti "Questa storia non è mai finita", mette insieme 103 minuti di racconto, un racconto poco focalizzato sulle figure attanziali, sui climax e sul canonico inizio-intreccio-fine, un racconto totalmente affidato ai suoni e alle immagini. In effetti, c'è un solo modo per aggirare lo sconcerto: affidarsi a quel "Mind Game" messo lì in bella mostra, titolo addirittura di un'opera che non descrive il suo contenuto ma la sua struttura, un puzzle, un rompicapo, l'avversario del "Mind Fucking" che manipola e indirizza, svia lo spettatore dal mondo delle possibilità, dalle immanenze della vita e del suo svolgersi. Fin dall'incipit non sarà possibile ignorare la visione, improvvisa, di Astro Boy, il robot senziente creato dalle matite del "dio del manga", Osamu Tezuka, nel lontano 1952, che regola l'orologio al polso prima di lanciarsi in uno dei suoi epici scontri cui non assisteremo, ma di cui avremo apprezzato appieno la padronanza di sé e dei suoi mezzi. O sospenderemo lo sguardo su di una margherita declinata in pop-art, che gira come la ruota della fortuna, una corolla che porta inciso sul velluto bianco dei petali il titolo del film, che gira in tondo, senza direzione, in eterno ritorno. Oppure resteremo sospesi nell'incapacità di afferrare, dopo trent'anni di prigionia nel ventre della balena, il senso del "sushi che gira", una carne cruda eppure inerte, morta, che fa bella mostra di sé sui tavolini girevoli dei sushi-bar newyorkesi più alla moda. E infine comprenderemo le sfumature, quegli scarti di significato tra due azioni formalmente simili, quella del gigante Atsu, il killer della Yakuza che sta per stuprare Myon e perciò le solleva la gonna, e quella così simile, in flashback, del bambino Robin Nishi alla bambina Myon, prima vittima e adesso complice, con le stesse mutandine verdi offerte allo sguardo di un gioco innocente, come aveva fatto Belmondo in un altro esordio (ancor più clamoroso), quello di Godard in "À bout de souffle" (1959), quando solleva la gonna vaporosa a una sconosciuta che passeggiava tranquilla sugli Champs Èlys��es: un gioco, a game. Piccole agnizioni, fulminee, che si accostano a lunghe sequenze gratuite, che scavano invece di procedere, affinché parole e azioni siano definite nella loro consistenza. Nishi (Kôji Imada) è un ventenne con già due sogni sulle sue fragili spalle: sfondare come mangaka, autore di fumetti, e impalmare Myon (Sayaka Maeda), il suo grande e unico amore. Troppo timido e rinunciatario per piegare la realtà a suo vantaggio, vive di monologhi interiori e fantasie cromatiche che esistono solo nella sua testa (mind) e che, spesso, lo fanno scoppiare in accessi di ira verbale che sconcertano i co-protagonisti della storia, ignari, al contrario di noi spettatori, di quanto per nulla apatico sia il suo cuore tumultuoso. Myon mal sopporta l'arrendevolezza del suo eterno fidanzato che, nonostante tutto, ama e, forse esasperata, forse speranzosa in una reazione, annuncia le sue prossime nozze con un giovane poco brillante ma solido, forte, rassicurante, addirittura sorridente. La mestizia dello scacco matto si annuvola nel piccolo ristorante di famiglia della ragazza, in cui la sorella maggiore cucina e serve, mentre il padre, un dongiovanni ubriacone e senza remore morali, beve e prova simpatia per quel giovane imbelle. Il dongiovanni però questa volta l'ha fatta grossa: ha scippato a Atsu, l’animalesco yakuza soprannominato "il Maradona del Kanai", la giovane fidanzata e i biglietti per un match dei Mondiali di calcio. In effetti siamo nel 2002, l’anno dei Campionati in Corea del Sud/Giappone, e a Osaka c’è aria di festa e di eccitazione, probabilmente il match doveva essere quello tra il Giappone e la Tunisia (14 giugno, 2-0 per il Giappone). Atsu, che non riconosce il vecchio dongiovanni, perde completamente la testa e sta per stuprare Myon quando questa chiede aiuto a Nishi, paralizzato dal terrore e tremante, rinunciatario come sempre, che però ottiene la curiosità di Atsu che gli si appressa, gli punta la pistola tra le chiappe, spara. Il film a questo punto poteva finire così, l'ennesimo cortometraggio in qualche modo abortito. Questa volta però, il giovane che mai è riuscito a esprimere qualcosa in tutta la sua vita si sveglia. Alter-ego dichiarato di Yuasa, pur portando nome e cognome dello scrittore del romanzo, Nishi riesce, in una settantina di minuti diegetici a esprimere quello che ha represso per venti anni: esordisce litigando con Dio in persona (!?), poi si improvvisa badass da action-movie con tanto di inseguimenti a rotta di collo, fino all'imprigionamento e all'epifania di tutte le possibilità che la vita offre a ogni singolo uomo, anche il più insignificante, e che si esauriscono per mancanza di tempo cinematografico, sicché "questa storia non ha mai fine". Da un punto di vista strettamente sinottico la storia è tutta questa, trenta minuti di conglomerati di atomi che fanno, dicono, sognano, subiscono, e altri settanta minuti in cui ogni descrizione sarebbe (è stata) parziale, fuorviante, infine: inutile. Più sensato, al contrario, ci sembra l'inventario di una enorme stanza dei giochi (game) arredata con gusto eteroclito tra le pieghe mucotiche della balena, in uno stile caotico e policromatico, un museo pop-art in cui tutto è dispiegato e nulla è spiegato: estetica kawaii (carina, gradevole) affiancata senza soluzione di continuità alle lolicon, grottesche raffigurazioni di labbra, seni e fianchi che ledono la dignità della Natura Indifferente, quella vecchia balena che ospita senza pretese un vecchio rassegnato da trent'anni, e i tre giovani appena arrivati, ma che da subito, nell'oscurità, nell’umidità di un ventre materno che non si dischiuderà mai più, riscoprono, tutti, la bellezza senza scopo del cielo blu e delle nuvole bianche. È in questo museo vivente, ricco di anfratti, sgabuzzino di culture, sviluppato in una architettura sghemba ma fluida, molle come il più molle dei marmi, rosa, viscido, segnato dal tempo biologico ma sempre durissimo e invalicabile, tanto verticale quanto orizzontale, panoramico e disteso, espressionista e psichedelico, che prende vita il Superflat (super-piatto), l'estetica agglutinante che pressa e compatta le espressioni artistiche destinate al mercato di massa: anime, manga, grafica, design, dj-ing, e le belle arti, pittura e scultura in primo luogo, che realizzano, tutti quanti, i feticci ostentati e branditi dal "mondo Otaku", "una testimonianza della vuotezza superficiale della cultura di consumo giapponese", e che rappresenta, oggettivamente, la Fame Antropologica della Bestia.
Fondato da Murakami Takeshi, ha tra i suoi esponenti di spicco Morimoto Koji che, a capo dello Studio 4°C, ha non solo prodotto il film ma ne ha pure diretto l'animazione. A Morimoto è doveroso ascrivere una buona parte del successo di "Mind Game". Egli è, tra le tante cose, il regista di "Magnetic Rose", il primo, straordinario episodio di "Memories" (1995), il progetto collettivo e sviluppato in tre parti con la supervisione di Otomo Katsushiro. La sceneggiatura di "Magnetic Rose", tra l'altro, è opera di Satoshi Kon. Morimoto ha inoltre diretto "Beyond", da molti considerato il più riuscito degli episodi di "Animatrix" (2003).
Non ne esce comunque sminuito il lavoro e il talento di Masaaki che già dalla sua opera prima dispiega attitudini e una precisa poetica. Come è facile constatare spulciando la sua filmografia, Yuasa costruisce i suoi mondi in apnea: si tratti di tè ("The Tatami Galaxy", 2010), di alcol ("The Night is Short, Walk on Girl"), o di figure leggendarie ("Lu over the Wall", 2017), fino all'azzardo del liquido spermatico ("Devilman Crybaby", 2018) il suo elemento è liquido, una tavolozza fluida in cui i colori brillano (come sulla pelle viscida delle rane, altro suo atout), le prospettive si dinamizzano fino a distruggersi, e in cui, muoversi al suo interno, è allo stesso tempo camminare, correre, nuotare, volare. Lo si intuisce dalla celebre sequenza al cospetto di Dio, realizzato con la CGI. Nishi è morto, la sua sagoma perde colore e consistenza, il terrore ne svuota il corpo attraverso fiumi di lacrime. Di fronte, un Dio multiforme e proteiforme, coacervo delle forme e delle forze del corpo e dello Spirito, solo in apparenza indifferente alla sofferenza umana, capace addirittura di piangere anche Lui, di abbracciarlo. Nella sequenza ipercinetica che offre all'uomo una possibilità, Egli fluttua liberamente nel vuoto fallacemente rivestito da tendaggi, monitor di Commodore 64, e schermi che riproducono il colpo di pistola fatale da decine di punti di vista, come un VAR calcistico. In effetti, codesto Dio è un incrocio azzardato (sincretico forse) del Dio cristiano e del Buddha, quello che si realizza infine nel Nirvana, il Nulla attraverso cui ci si libera di tutte le sofferenze; ma se la sintesi religiosa pare azzardata, quella del Vuoto Fluttuante è una invenzione (cinetica) di grandissimo spessore. Di converso, il congiungimento carnale di Nishi e Myon si scioglie in un acquerello contrappuntato dalla immagini in rotoscope di una locomotiva che marcia a tutta birra alimentata da una caldaia che sputa fiamme nel mentre i due corpi si fondono come lava (e non è, la lava, l'acqua del fuoco?) e si tengono stretti e indivisibili su ogni superficie, reclinata, declinata, strapiombi, ponti di legno, acqua salata, fino a fluttuare anche loro, non come Dio ma come due farfalle incollate. La realizzazione tecnica di queste sequenze esemplari ha abbisognato di un uso indistinto di animazione classica, in cel, Computer Graphic e Rotoscope, che coinvolge anche i protagonisti, i cui doppiatori hanno dovuto prestare faccia e corpo in numerose sequenze, e che hanno determinato un character design poco definito e spigoloso, tagliente, quasi abbozzato. In questa sarabanda di vuoto e di liquido, l'arte più astratta in assoluto, la musica, la fa da padrona. Essa si dispiega come un a sé stante, raramente commento, più spesso accompagnamento, rinforzo, contrappunto e infiorettatura. Decisamente notevole il pianoforte di Yōko Kanno che in "Rhapsody" fonde la "Hungarian Rhapsody" di Franz Liszt e la "Spring Song" di Felix Mendelsshon come accompagnamento in contrappunto dei minuetti nella pancia della balera messi in figura dai quattro inquilini. Al contrario, "Viva!", una samba, è di difficile collocazione: essa fluttua tra i ritmi che muovono il bacino e le melodie che formano il groppo in gola, e ci accompagna nel finale, quando si manifesta la "malinconia inevitabile" dell'immanenza, delle possibilità più o meno realizzabili e realizzate e che, con la stessa mestizia inevitabile, ci saranno mostrate nelle stanze "dei quattro tatami e mezzo", nel finale della serie "The Tatami Galaxy".
Il film è disponibile su Netflix Qui il film sottotitolato in inglese su YT Qui la colonna sonora
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piersacalo · 6 years ago
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Anime 010: Inosensu
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"Ghost in the Shell - L'attacco dei cyborg (Oshii Mamoru, 2004)
 "Ghost in the Shell - L'attacco dei cyborg" è il sequel del capolavoro di Mamoru Oshii, "Ghost in the Shell" A distanza di nove anni Oshii Mamoru riporta sul grande schermo la mitica Sezione Nove che molti interrogativi aveva lasciato e tanti cuori aveva infranto attraverso la sua eroina, il Maggiore Kusanagi Motoko. Il gruppo è ancora capitanato dall’astutissimo Aramaki, un apparentemente innocuo vecchietto con i capelli orizzontali, l’atletico Batou e la recluta Togusa, l’unico quasi umano della squadra che di sintetico ha solo una espansione del cervello. Siamo nel 2034 e la struttura si occupa delle stesse delicatissime faccende che già ci erano note ai tempi del Maggiore. Maggiore che è ufficialmente dispersa/latitante, libera nella Matrice dopo essersi fusa con il Signore dei Pupazzi, una Intelligenza Artificiale che è anche senziente. Il Maggiore è sparita con cose che non le appartengono, a cominciare da quella macchina da guerra che è il suo corpo cibernetico ma soprattutto l’hard disk che rappresenta la sua memoria e quindi la storia stessa di questa struttura top secret.
Un nuovo caso è al vaglio di Aramaki. Le Ginoidi, cyborg femminili "dotati di organi non necessari" (quelli necessari al sesso insomma), invece di “una botta e via” hanno ammazzato i loro clienti e chiunque si fosse trovato nei paraggi.Comprendendo la lista uomini politici e di pubblica sicurezza, c’è il rischio che si tratti di terrorismo, competenza della Sezione Nove. Batou e Togusa partono con le indagini che presto conduce ai responsabili, con una velocità e una astuzia che insospettisce il giovane Togusa al quale sale il dubbio che Batou sia guidato da qualcuno. E su chi sia quel qualcuno si fa presto un’idea.
Oshii gira il sequel di un capolavoro evitando di cadere nelle facili trappole dell’auto-celebrazione e del didascalismo; così questo secondo capitolo si integra col primo e si completa, a cominciare dal cambio di punto di vista il cui testimone passa dalla bella Motoko al pragmatico Batou. Dopo tutto, i due episodi del film non sono altro che una storia d’amore non dichiarato tra due macchine che, peggio degli umani, parlano due lingue totalmente diverse. Oshii ha avuto anche la felicissima idea di lasciare la briglia sciolta al compositore Kawai Kenji la cui colonna sonora prende spesso le redini del gioco e costruisce con le animazioni di Oshii dei piccoli capolavori in formato videoclip. Prova ne è
l’arrivo dei due detective alla Frontiera Nord
, vista prima dall’alto in uno scenario post-apocalittico e solcata da frotte di gabbiani per poi far abbassare l’inquadratura che segue in plongée una sorta di processione carnescial-religiosa introdotta da un elefante riccamente bardato cui seguono maschere, vascelli, guerrieri, demoni e ballerini che procedono con lentezza davanti una folla muta e incappucciata. È una sequenza totalmente gratuita, di "tono" e non di "trama", che si può espungere senza creare buchi nella sceneggiatura ma che si lascia lì dov’è semplicemente perché rende l’idea, mostrandola anziché dicendola. Il tratto di Oshii è molto netto e la palette cromatica addirittura esplosiva. Tali inserti, disseminati lungo tutto il film, vanno a bilanciare le visioni oggettive dell’occhio cibernetico di Batou, le immagini a media-bassa definizione dei filmati di sorveglianza, le radiografie degli scanner piazzati un po’ ovunque, insomma tutto quel corredo di visioni fredde e geometriche cui fanno da contraltare queste immagini di un mondo non più a colori ma già colorato e dalle forme sinuose anziché regolari. Prova ne è il cane di Batou, un cameo quasi onnipresente di Gabriel, il Basset Hound di Oshii, con le lunghe orecchie, la tendenza alla pinguedine che risalta sulle sue gambette corte e l’indole perennemente impigrita, insomma l’antitesi stessa delle dinamiche slanciate e potenti degli organismi cibernetici. Le messe in quadro di Oshii sono molto profonde e riccamente dettagliate sicché non stupisce che i tempi di realizzazione dei suoi film siano molto lunghi. Se il soggetto apparente del film è il (cyber)sesso, sottotraccia scorre una storia d’amore, struggente perché mai confessata neanche a se stessi, quella tra Batou e Kusanagi che nei loro dialoghi danno l’impressione di dover squarciare un velo troppo resistente prima di potersi comprendere appieno. Ce lo mostra lo sguardo imprevedibile, quasi irrazionale, del Maggiore che spalanca gli occhi azzurrissimi mentre la telecamera si avvicina in un primissimo piano che mette in evidenza la ghiera del loro obiettivo svelando così la loro natura artificiale. È lo stesso velo che in altri contesti e in altri tempi i poeti frammettevano tra il loro ardore e la donna e che poco si differenzia da questa frase detta in uno dei dialoghi: "Le ginoidi sono costruite a immagine e somiglianza non della donna ma della sua idealizzazione". Allora restano i segni "ottusi", irriducibili ma sostanzialmente marginali, potenti di implosione: quando Batou mette un giacchino sul corpo nudo di Kusanagi (una scena già vista nel primo episodio) riusciamo a percepire questo focolaio di amore che Batou si nega e Kusanagi si impegna a disconoscere. Dopotutto, se la scena iniziale del primo episodio è la genesi del Maggiore,
in questo secondo sono due i cyborg che nascono e infine si baciano
. Le visioni post-apocalittiche con le dominanti cromatiche nero-bianco-dorato esploso, ricordano molto da vicino la palette di Dalì cui si rende omaggio anche attraverso "La donna in fiamme", la cui sensualità è rappresentata dai cassetti che ci fa vedere
nelle ginoidi dilaniate dalle armi potentissime di Batou
.
"Ghost in the Shell 2: Inosensu" (tradotto abbastanza arbitrariamente in "L’attacco dei cyborg") tocca temi poetici e filosofici, quando è messa in crisi ogni operazione di reminiscenza in quanto spesso fallace (nel film è un’arma di intrusione nei ricordi dei nostri eroi) ma è attraverso la prima, la poesia, che Batou e il Maggiore si rincontrano: per trovare scampo gli uccelli salgono in alto nei cieli e i pesci si calano nella profondità del mare. Lì, memore di come Kusanagi metteva alla prova se stessa e la sua discussa umanità, lasciandosi andare come un sommozzatore col rischio di non riuscire a più riemergere, che la ritroverà anche se lei, tutto sommato, era sempre stata accanto a lui. L’ultima sequenza sembra un arrivederci e, trattandosi dell’amore, scorre anche un brivido: Togusa torna a casa dopo la missione e porta alla figlioletta una bambola. Essa ha lo stesso sguardo del maggiore Kusanagi Motoko.
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piersacalo · 6 years ago
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Anime 009: The Lego Movie
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The Lego Movie ( Phil Lord, Chris Miller, 2014)
Emmet è un modesto operaio edile, uno dei tanti che, grazie all’irrinunciabile libretto delle istruzioni, è capace di assemblare grattacieli nella città di Bricksburg. Faccia anonima e poco caratterizzata, i suoi stessi colleghi hanno serie difficoltà a descriverlo tanto è banale: un perfetto mattoncino nella folla che, suo malgrado, diventa eroe di un’avventura più grande di lui. L’avventura ruota intorno alla lotta tra le forze dell’ordine (il presidente della Octan e del mondo, Lord Business, e il fedele poliziotto bipolare Poliduro/Politenero) contro quelle della creatività polimorfa dei mastro-costruttori, una sorta di consorteria muratoria guidata dal saggio e cieco Vitruvius e che dispiega il meglio degli asset Lego-Warner Bros, dal cavaliere Oscuro alla sua fidanzata dark, Lucy Wildstyle; da Superman a Hello Kitty: dinamici e ottimisti, geniali e pasticcioni, ingenui ed egoisti di cui Emmet sarà condottiero che farà la differenza. E la differenza consiste nel’adottare una strategia imprevedibile e vincente: si uniscono, mettono da parte il proprio smisurato Ego tanto che il misantropo e leggermente misogino pipistrello che lavora solo con pezzi "neri, al massimo grigi ma molto scuri" si trova gomito a gomito con Uni-Kitty, la regina del glitter. "The Lego Movie" è una sintesi fluida e significante di Stop Motion, CGI e Live-Action (attori in carne e ossa). La Stop Motion si lega perfettamente ai percorsi obbligati dei bottoncini il cui movimento è giocoforza discreto, impossibile da fluidificare. È la CGI, l’immagine generata al computer, a mettere letteralmente le ali sotto i piedi dei suoi eroi nel mentre il Live-Action si inserisce nella trama con la Domanda delle Domande: la bellezza dei Lego è nella stasi, una sorta di scultura, arte plastica, che gli adulti tendono a rafforzare in modo irreversibile con la famigerata colla fissatutto oppure è legata al linguaggio astratto, alla narrazione che i bimbi di tutti i tempi e di tutto il mondo formalizzano sotto forma di sceneggiatura di battaglie campali e guerre di mondi che l’animazione traduce in pura e semplice (neanche tanto) dinamica? Il paradosso tra il creato e il generato funge da vertigine della mise en abyme in cui i piani narrativi si intrecciano e si compenetrano e ricorda da vicino in special modo gli choc emotivi dei "Toy Story". Il tono resta però seriamente giocoso, come è nella natura stessa del Lego, testimoniata dal coinvolgente leit-motiv, una hit che ricorda molto da vicino l’immediatezza infantile della gloriosa italo-disco: Everything is Awesome! (in italiano: È meraviglioso!) per la quale il compositore Shawn Patterson ha ottenuto una nomination agli Oscar. Concepito come un film d’azione, "The Lego Movie" è totalmente sprovvisto di ritmo perché procede a una sola velocità, a tavoletta. Le panoramiche sembrano seguire non il principio del cerchio col suo limite dei 360 gradi ma danno l’impressione di cineprese montate su spirali virtualmente infinite e solo nel finale riusciremo a comprendere perché esse assumono come punto di vista dominante il plongée, la visuale dall’alto come fossero non telecamere ma touch screen che qualcuno sta non solo guardando ma fors’anche dirigendo. La necessaria e vitale espirazione dell’anidride carbonica, i rari momenti di riflessione, sono affidati al Live-Action, ai conflitti generazionali padre-figlio da cui tirare fuori l’immancabile lezioncina morale. Così, il mondo dei Lego assume una impresa che, agendo sottotraccia, è ancora più complessa della guerra che mette in atto; nella volontà di integrare i tanti mondi che ha rappresentato, crea un multiverso di cui l’operosa Bricksburg è solo il punto di partenza e attraverso dei varchi iniziatici si proietta nell’Old West, negli scenari più abissali de "Il signore degli anelli", nelle traiettorie di "Star Wars", nei pascoli di Hello Kitty fin nei resort del Paese dei Cucù sorvolando sulle gradite confusioni di forme e composizioni e dandosi come unica regola il rispetto della palette multicolore ma fredda. Lo stile e la vertigine del cinema di Christopher Nolan è ricorrente e non solo a causa di Batman ma nella disinvoltura della messa in scena dell’arco spazio-temporale, rincorso a perdifiato come era stato in "Inception". La porticina tra l’animazione e il Live-Action si manifesta con la stessa atmosfera rarefatta e metafisica di "Interstellar" anche se è impossibile stabilire se gli sceneggiatori hanno avuto la possibilità di vederlo in tempo utile. Il pulotto mezzo buono-mezzo cattivo è una riuscita parodia di Duefacce, l’alleato-antagonista di Batman, che usa la faccia come una lavagna su cui operare a freddo. Se nel film di Nolan, però, l’intento era quello di marcare gli stati emotivi in un senso più profondo di dolore e solitudine, qui i primi piani (in special modo quelli di Emmet) sono architettati prendendo come riferimento l’immagine rassicurante delle Emoticon: l’incarnato giallo e la semplicità stilistica dei tratti primari dei personaggi Lego, il sorriso e gli occhi, sono effettivamente degli Smile. L’unica occorrenza di un senso di desolazione è, al contrario, divertente: la magistrale visione del cervello di Emmet che, peggio del microbo in dotazione a Homer Simpson, è una enorme distesa di mattoncini grigio-chiaro vuota, una tabula rasa al netto di un suo sogno eversivo, il suo sogno in quel cassetto troppo grande che è la sua testa: Emmett vorrebbe costruire il prototipo della sua Idea, un divano a castello per poter vedere tutti insieme la TV, magari la lynchiana sit-com di culto che si chiama "Dove sono i miei pantaloni?". Homer Simpson ne sarebbe stato orgoglioso, meglio: geloso. E così la titanica operazione del "Lego Movie" (tre anni di lavorazione, una precisione maniacale dei più minimi dettagli) arriva in porto in pompa magna. Il sequel, previsto in sala nel 2018, è già in lavorazione e integrerà nella nuova storia anche i Duplo, i mattoncini dei più piccini. Il nodo mai sciolto riguardante il loro destinatario d’uso rimane ironicamente senza risposta: sono essi un’ingegneria in scala e irrimediabilmente adulta? O, più semplicemente, fa fede quello che c’è scritto su ogni scatola e sono quindi "vietati" ai maggiori di 14 anni? Il dubbio resiste e d’altra parte non potevamo certo pensare che Lego avesse la minima voglia di affrontarlo: a che pro? Limitare la fetta di mercato? Così, la prima battuta del film è quasi uno choc: "Copritevi le chiappe!" – ammonisce Vitruvius, lasciandoci tutti un po’ di stucco. D’altra parte, la censura statunitense scatta implacabile solo per questioni legate al sesso, non sul linguaggio né sulla rappresentazione della violenza. I cartoon americani puntano decisamente sull’amoralità militante di Homer Simpson, l’irrequietezza anale (nel senso freudiano) di Bart o quella romantico-letteraria di Lisa fino al cinismo politically incorrect de "I Griffin" e "American Dad". E i Lego continueranno imperterriti a far litigare genitori e figli. Dopotutto, litigare è comunque comunicare…
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piersacalo · 6 years ago
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Anime 008 - The Skycrawlers
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The Skycrawlers - I cavalieri del cielo (Oshii Mamoru)
In un futuro imprecisato e un luogo indefinito, due signorie delle guerra, la euro-giapponese Rostock e l’americana Lautern, si combattono con la sola forza aerea. Il conflitto pare in perenne equilibrio talché l’equilibrio pare lo scopo del conflitto. Per tutti, tranne che per il maggiore Kusanagi che comanda uno degli stormi con la forza e la convinzione di una vittoria finale. Per chi segue il cinema di Oshii Mamoru, il nome Kusanagi fa subito venire un brivido. Non sembra una semplice omonimia col maggiore Kusanagi Motoko. Lo si capisce dalla sua prima apparizione, una bambina quasi perfettamente uguale a quella del finale di "Ghost in the Shell" e alla bambola che Togusa regala a sua figlia nel finale di "Ghost in the Shell: Inosensu" cui rimanda soprattutto nel suo sguardo a occhi spalancati e ambigui. In effetti, i tre anime hanno molti punti in comune, a partire dallo stesso tipo di attacco: nel primo Ghost l’incipit è un sorvolo aereo della città prima dell’attacco del maggiore Motoko; il secondo riprende lo schema e introduce l’attacco di Batou; ne "I cavalieri del cielo" assistiamo a un vero e proprio duello aereo. In tutti i tre casi, a missione compiuta partono le sigle, tutte composte da Kawai Kenji. In una prospettiva temporale, invece, Kusanagi Suito potrebbe essere la genitrice di Motoko perché l’ambientazione del film (che diventerebbe un prequel) è un futuro più prossimo rispetto ai due Ghost come si inferisce dai soggetti in azione: nei Ghost sono già dei cyborg; nel film in oggetto sono protagonisti invece i Kildren, uno status intermedio, ambiguo e non facilmente riconoscibile salvo la totale aderenza al modello umano esclusa la bizzarria di non riuscire a crescere oltre l’adolescenza e di non poter morire se non in battaglia aerea. Cosa effettivamente siano e chi essi siano si scoprirà man mano che il film procede. Kusanagi Suito, qualunque cosa sia, si distingue per almeno due particolari: è l’unica a vivere interrogandosi sulle cose invece di ignorarle o compierle ritualmente e ha una figlia (che non si chiama Motoko ma Mizuki) che ha avuto con Jin-Roh, il pilota scomparso misteriosamente e che è sostituito dal protagonista del nostro film, Kannami. Una terza affinità che appare nei tre film è, infine, il ghost che "stricto sensu" sarebbe il fantasma, figura aleggiante nel nostro film e non si tratta solo di Jin-Roh, e il suo senso lato di "sede dello spirito o meglio della coscienza umana" come ebbe a definire Cartesio la ghiandola pineale, vale a dire la più protetta materia umana, incuneata tra i lobi del cervello, oppure quella più inaccessibile, rivestita dal titanio, che i cyborg chiamano appunto ghost. Tutti i nostri eroi hanno comunque un rapporto molto complicato con la loro esistenza, sempre messa in dubbio, in una curiosa sciarada che mette insieme Cartesio e Camus, largamente citati in tutti i tre episodi. Se tre indizi fanno una prova, possiamo parlare infine di una trilogia. Spiazzamenti Nel film, gli elementi esteriori, le facce innanzitutto, non hanno nulla di giapponese: esse sono caucasiche. La stessa Suito assomiglia sì a Motoko, è lei, nella frangetta nera con gli occhioni che la fanno tanto "canone anime" ma il suo corpo è pre-puberale, manca di qualsiasi tensione sessuale, quell’eccesso di curvature col quale l’animazione giapponese rappresenta in gran parte l’adolescenza tentatrice, quella che noi europei abbiamo confinato nella quasi unica figura della Lolita di Nabokov e del corrispondente film di Kubrick. L’architettura, ancor di più, è di struttura squadrata e desolante, non pende come quella estremo-orientale e molto ricorda l’Oshii in trasferta in Polonia, dove ha girato "Avalon". La brughiera, entro cui scorazza l’immancabile Gabriel, il bassotto di Oshii, (non) è tagliato all’irlandese ed è molto presente in inquadrature basse come contrasto al preponderante e inquieto cielo. Battaglie in cielo Il nostro immaginario, da Hiroshima a oggi, è fortemente incentrato sull’immagine della forza aerea il cui compito si limita in realtà alla ricognizione-intercettazione oppure al bombardamento di obiettivi sensibili in quasi totale sicurezza per poi tornare alla base come un lavoro di concetto. Da questo punto di vista, la tele-guida dei droni ne rappresenta una evoluzione anche un po’ inquietante, di cui magari un giorno Oshii si occuperà. I combattimenti sono semmai dominio degli elicotteri d’assalto i quali si svolgono in uno spazio spurio, a mezz’aria e puntando a terra e sono una realtà così cruenta da essere poco documentata. “I cavalieri del cielo” è al contrario una storia di combattimenti aerei a quota medio-alta i cui piloti non per nulla sono cavalieri. Guidano, si destreggiano, sparano dalle mitragliatrici. I loro sono aerei a doppia elica, quelli degli scontri cavallereschi di inizio 900. La memoria va ai pionieri ante-seconda guerra mondiale e alla rappresentazione che ne volle fare Howard Hughes ("Gli angeli dell’inferno", 1930): quattro anni di produzione, 560 ore di negativo, quattro milioni di costo, cinque telecamere aggiuntive chieste in prestito a Samuel Goldwyn (o almeno questo dice Scorsese in "The Aviator", 2004). Difficile dimenticare l’anime di Miyazaki, "Porco rosso" di ambientazione italiana e fascista ma narrato al modo dei pionieri con tanto di combattimenti a colpi di chiavi inglesi in alta quota. D’altra parte il cielo, nel film di Miyazaki, è statico con nuvole grasse come bomboloni e spesso perde il confronto con il Mediterraneo che, ai suoi piedi, la vince in fascino. Nel nostro film è invece protagonista, come fosse una serie di Luigi Ghirri. In una storia che è indeterminatezza e coazione ripetitiva, l’intro è una sorta di mozzafiato: un duello aereo sembra avere in un solo secondo spazzato via la quiete degli elementi e ha spappolato le nuvole che si sono allargate a macchia e confuse col cielo nel mentre due aerei ne fronteggiano un terzo e il terzo si distingue come l’unico elemento dominante, evocato prima di essere visto in un solo particolare straniante: una pantera serica serigrafata sulla carlinga. È Il Professore e contro di lui si perde sempre. La sigla iniziale sembra così il finale di un film che non abbiamo visto o che, meglio, andremo a rivedere circolarmente. La de-saturazione dei colori e gli elementi messi in disordine sono appena contrastati dalle tracce delle mitragliatrici e dai globi delle esplosioni di un arancione a più sfumature che le rendono molto simili al fuoco reale, se reali possono definirsi i traccianti della contro-aerea irakena nella prima guerra televisiva del mondo, quella del Golfo atto I. Inferno in Terra In una storia che è alternanza meccanica tra vita a terra e guerra in cielo, il gioviale Naofumi Tokino è l’unico personaggio portatore sano di adrenalina (gioia e paura), tra l’eloquenza flemmatica di Kannami, il piglio autoritario di Kusanagi e l’acidità centellinata della "mamma" (il meccanico che si occupa degli aerei). Non a caso viene ricordato Camus, il filosofo per il quale gli avvenimenti che fanno una vita non sono altro che registrazioni di vanità destinate alle sconfitta. Per quanto bambini, i Kildren non sono incoscienti ma semmai fin troppo consapevoli del loro destino che attendono bevendo e fumando in ogni momento e aspettando il turno della loro morte come un gioco sicché la Morte è nient’altro che il Professore che nel suo status di semi-divinità si manifesta con singole qualità e mai per intero: la pantera nera rampante, le incursioni fulminee, l’urlo disperato che lo evoca appena un secondo prima di soccombere. Eppure Kusanagi, in una missione suicida, ne sopravvive perché tenere testa all’Iniquo è un sogno vecchio dell’Umanità. Quando non sono in missione, il corpo-piloti si ritrova al "Daniel’s Dinner", un perfetto non-luogo in cui un vistoso gestore ebreo fa da moderatore tra il mondo-Kildren e gli adulti, i beneficiari della guerra eterna, quella che assicura la Pace (qui i riferimenti ai tempi nostri si sprecano). In realtà il pacifico signor gestore, come nelle migliori tradizioni del Witz, sembra anche il procuratore del bordello che ci porta alla ribalta la gioviale Kusumi che fa coppia con il gioviale Tokino e l’indecifrabile Foko che dopo esser stata compagna di Jin-Roh si lega immediatamente all’appena arrivato e come lei indecifrabile Kannami. Figura riuscitissima, Foko si distingue in una storia dominata dagli "stati psichici" per una sua sospensione pneumatica, di totale assenza rispetto alle cose del mondo e ai suoi dolori. La civetta stilizzata e ad ali aperte che sfoggia sul petto, la fanno insieme creatura della notte e persona cara alla dea della Sapienza, essa stessa sapiente. Foko, si scoprirà, ha avuto il ruolo di sensale tra Jin-Roh e Kusanagi, da cui è nata una bambina: ha insomma giocato una sua carta che sarà probabilmente un’altra storia. Così, arriviamo finalmente al bordello (malvisto dalla "mamma", come impone il suo ruolo) e vi si accede infatti tramite una selva oscura, sterzando bruscamente dalla diritta via in una stradina sterrata e ballonzolante: il regno di Foko (e di Kusumi). Siamo passati dall’arancione della guerra, attraverso lo squallore di una bettola scura di legno invecchiato, alla ricognizione minuziosa di tutte le tonalità del rosso, lontano dall’indeterminatezza delle guerre in cielo: accappatoi, lampade, tappezzerie, tavolini da tè… costruiscono lo spazio sessualizzato di un orgasmo che non è gioia né scarica; semmai una distrazione cromatica. Quando, inopinato, il bellico arancione compare a terra, in un hangar, sotto forma delle scintille di una riparazione, Kannami ha un moto quasi isterico di protezione della piccola Mizuki cui sono subito imposti degli occhiali neri dai quali, protesta lei, non vede più nulla. In tutto ciò, la colonna sonora di Kawai Kenji a differenza dei due Ghost (in special modo il II) riecheggia essenzialmente nel tema malinconico iniziale e variamente riproposto, una composizione già passata, storicizzata, come un ineluttabile già successo e destinato a ripetersi per sempre. Parole, gesti e l’eterno ritorno Se i "Ghost" sono caratterizzati da una alluvione di frasi apodittiche e citazioni (a volte pedanti), nel nostro film l’apatia ha ammantato tutto come coscienza di morte. Il ralenti delle due mani che si cercano e si trovano, quelle di Kusanagi e sua figlia, ripropongono così un momento di suggestione giustamente dilatato, come un gesto di ribellione muta, un destino già scritto… per che cosa? L’Umanità che stanno salvaguardando è vista in dettagliata rassegna durante una visita dei civili allo stormo di Kusanagi. Senza essere crudeli, diciamo che si distingue per una insignificanza che non giustifica alcun sacrificio. Ancor prima dei Social Network, riprendono gli hangar e intervistano Kannami con telecamerine in quello che appare un gioco s�� ma di ruolo, adulto in senso deteriore. Poco più avanti, un aereo abbattuto (di provenienza imprecisata, a voler dire che la guerra è frammentata, un tutto contro tutti) raccoglie un pubblico che si lancia in una pietà falsa e manierata. Lo sdegno di Kusanagi, accorsa anche lei, si manifesta in un topos del cinema di Oshi: la ragazza cambia improvvisamente sguardo che si spalanca e diventa cattivo, inveisce contro gli ipocriti ed è fermata da una sorta di poliziotto che allarga le braccia a mo’ di alt come a voler significare il netto confine tra il mondo dei Kildren e quello adulto. E quello che conta è proprio quest’ultimo. Poi qualcosa cambia. La ricognizione notturna col tema arpeggiato di Kawai azzera i rumori dei rombi del motore e nell’assenza di nuvole squarcia un cielo sgombro e violaceo come un immenso livido. Le luci calde del pannello di controllo e la pacifica illuminazione notturna degli agglomerati urbani operano una nuova inversione, un transfer questa volta; così il tema del film diventa incerto e in questo cortocircuito si apre l’opzione del tragico. Su, in alto, i Kildren procedono lentamente, quasi ieratici, con nobiltà. Giù, nel mondo, l’Umanità dorme innocente e incosciente, vegliata dai bambini. I Kildren stanno raggiungendo un quartier generale dove sarà pianificato un pomposo "Attacco Risolutivo" ma che, in inversione, li riporta una volta atterrati ai bambini che sono, in una festa con pop-corn, giostre e ammiccamenti pre-adolescenziali. Qui compare Mitsuya, la kildren-pilota che non sa di esserlo o meglio che non se ne rassegna, il che equivale all’Ultimo Tabù. Oshii, dopo aver descritto senza freni, avverte il momento di stringere e diventa quasi didascalico. Si dichiarano le cose non dette: le immagini della guerra non bastavano più, era necessario che l’Umanità le vivesse sulla propria pelle. E, con una ultima inversione, dopo tutte quelle viste in aria, il tema ridiventa finalmente giapponese sicché non è questione, all’europea, de "i figli che uccidono il padre" ma del Professore che annienta le sue creature. E così altri Kannami arriveranno alla base, forse riconosciuti forse no, sempre flemmatici, consapevoli appena di essere nati per morire il che è, dopotutto, la Condizione Umana, da Oporto a Tokyo. "I cavalieri del cielo" è tratto da una serie (cinque) di romanzi omonimi di Mori Hiroshi. Presentato alla 65° Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia, è tuttora in attesa di una distribuzione in sala. Nel 2010 è stato trasmesso su Rai4.
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piersacalo · 6 years ago
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Anime 007 - Summer Wars
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Summer Wars (Mamoru Hosoda)
Per i 90 anni di Sakae, matriarca del glorioso clan Takeda, la giovane nipote Natsuki si fa accompagnare da Kenji, uno studente liceale introverso e geniale. La grande festa riunisce a Ueda ben ottanta famigliari, orgogliosi della loro nobile discendenza, tutti devoti alla capoclan che li comanda a bacchetta, e molto sospettosi degli elementi esterni, in special modo se troppo giovani, di nessun blasone e poco ambiziosi. Una guerra imprevedibile ma incombente farà loro cambiare idea. "Summer Wars" è in sostanza un lavoro commissionato dalla Madhouse, che si ispira in buona parte al franchise Digimon e che avrebbe dato la possibilità al talentuoso Hosoda di fare un passo indietro, ai primi anni duemila quando ne diresse il lungometraggio e le due serie, per poterne fare uno avanti, bissare il grande successo ottenuto, giustappunto, con "La ragazza che saltava nel tempo" (2006). Hosoda, originario di Toyama, accetta la sfida e ispira i suoi fondali nei luoghi natii, proiettati con dovizia calligrafica nella vicina Ueda, contornata da una natura generosa di verde e frutteti, bagnata da un oceano pescoso di sguscianti e brillanti calamari, connessa da autostrade e semafori digitali paragonabili a quelli delle grandi metropoli. L’eterno dilemma tra la tradizione e il progresso è, nel nostro film, mostrata più che dichiarata; fatta nascere da premesse errate e spinte fino all’ambiguità che in un qualche modo si risolve, sicché lo scorrere del tempo è allo stesso tempo il mattone del futuro e la calce del passato che tiene tutto insieme. È "il magico mondo di Oz" a testare la solidità dell’assioma e a far basculare gli attori in campo: introdotto da un campo lungo bidimensionale e banalmente fluttuante, ci viene presentato all’incipit del film come un’esca avvelenata, che sembra il prologo di una fantascienza a basso budget, coi suoi avatar poco profondi e una predominanza degli spazi bianchi che denotano non un colore ma la sua assenza, mancanza di mezzi e di idee. Le note pompose di Akihiko Matsumoto, autore della colonna sonora, partono tonitruanti come un levare di Shostakovic e sottolineano lo spazio vuoto invece di colmarlo. Eppure Oz, ispirito a Mixi, un social network giapponese molto quotato all’epoca, ma anche molto simile alla Second Life di cui qui in Occidente abbiamo buona memoria (e relativo oblio), è una realtà digitale destinata a progredire, sia quantitativamente (oltre 400 milioni di avatar in tutto il mondo), sia qualitativamente, con l’implementazione di IA (Intelligenza Artificiale) strategiche e auto-correggenti. In questa escalation, il giovane Kenji, genietto matematico, prima funge da Opponente inconsapevole, craccando una codice che apre tutte le porte di Oz, poi riprendendo il ruolo dell’Eroe, adiuvato dalla stramba famiglia Takeda che nel suo florilegio può vantare: la risorsa imprevista, Kazuma, un hikikomori tredicenne, campione virtuale di arti marziali; il concorrente in amore, Wabisuke, la pecora nera che ha creato Love Machine, la IA che sta sconvolgendo il mondo, salvo pentirsene appena in tempo; e infine l’oggetto d’amore, l’egoista Natsuki che manda in tilt l’IA attraverso il gioco tradizionale del Koi-Koi, un po’ come aveva fatto Matthew Broderick in "Wargames" ("Giochi di guerra", John Badham, 1983) col paradossale schema del tris. Durante tutto il cardiopalmo della storia, Kenji si porta dietro l’eterna insicurezza post-adolescenziale, ignara del mondo e delle sue dinamiche, ma anche il sostegno della matriarca, l’unica a comprendere la fallacia dell’assioma Takeda, chiuso nel clan e avverso alla gente di rango inferiore, troppo giovane, di nessuna esperienza di un mondo che pure disprezzano. Kenji sarà infine accolto, ma dopo un processo lungo e doloroso, di piccole vittorie e cocenti sconfitte emblematizzate dallo scontro con Love Machine; e alla fine niente sarà più come prima, né lui, né loro, né l’IA, infine distrutta. I punti salienti dell’animazione di Hosoda partono necessariamente dal perfezionamento di Oz, che passa dalla bassa definizione, quasi una demo bidimensionale, a una ricchezza stilistica e cromatica esplosiva, e in cui il primordiale e inconsistente fluttuare dell’incipit si fa architettura allo stesso tempo barocca, affollata di cose e punti di fuga, e dorica, marziale di combattimenti e di porte che si chiudono nell’oscurità. Eppure, tale splendore è soppiantato dallo spleen che si respira in casa Takeda. In special modo quella lentissima carrellata sul poggiolo, in cui tutti i componenti, da soli o in gruppo, stanno elaborando il lutto, fuorviati dal dolore eppure presenti, intervallati ai fiori sempreverdi di quell’1 agosto, quieti e fiduciosi come una Pastorale di Beethoven prima e dopo la tempesta, quando la luce si fa silenzio. Più che nell’incommensurabile mondo di Oz, è all’interno di questa famiglia un po’ bizzarra (vero e proprio alter-ego dell’amara tranche de vie metropolitana descritta magistralmente da Isao Takahata, "I miei vicini Yamada", 1999) che Kenji diventa uomo, che Natsuki diventa donna, che Wabisuke diventa nipote, che Sakae può finalmente morire con un sorriso. Il suo vigore orgoglioso, la sua "intranet" analogica di amicizie e conoscenze tiene letteralmente il Giappone in piedi, come si rese necessario appena due anni dopo, per il disastro nucleare di Fukushima. È all’interno di questa casa, ampia come normalmente non è la tipica casa giapponese, che una filosofia speculativa può diventare prassi, imbrigliando la differenza tra il gioco e lo sport, il divertimento partecipato che diventa la battaglia che è necessario vincere, come una partita di baseball, o come l’ultima sfida all’IA, chiamata evocativamente "Mezzogiorno di fuoco". È infine in questa casa che, in una sequenza rituale, quella del bagno nella stessa acqua, viene messo in crisi il panta rei eraclitiano, allo stesso tempo pudore e disinibizione che è una delle tante contraddizioni giapponesi. Hosoda, insieme a Shintai Makoto, è spesso accostato al genio di Miyazaki, un patriarca di cui un giorno qualcuno dovrà pur prendere il posto, come nel clan Takeda. Gli accostamenti non aiutano (chiedete al figlio Goro…) e analizzare in termini di "Miyazaki avrebbe fatto così e cosà" danneggia il percorso di tutti i tre talentuosi animatori. Rimane qualcosa di irrisolto, certo. È un fatto che le contraddizioni descritte nei film di Miyazaki hanno una coerenza quasi perfetta, costruiscono un mondo a suo marchio che funge da lavatrice che pesca, mette insieme senza molta distinzione, lessa a settanta gradi, centrifuga e butta fuori oggetti finalmente purificati (emblematica, in tal senso, la sequenza de "La città incantata"). I nostri tre hanno ancora qualche interlocuzione, un dire che affatica il mostrare e che si denota in alcuni persistenti tratti di incertezza, a cominciare dal character design, specialmente femminile, né convintamente affettivo, l’infanzia, né ammiccantemente desiderante, la maturità sessuale. "Mirai", starà lì a dimostrare che Hosoda ha iniziato, nella prima variante, a occuparsi del problema.
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piersacalo · 6 years ago
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Anime 006 - Fantasmagorie
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Fantasmagorie - Emile Cohl
Se la data di nascita del cinematografo è universalmente riconosciuta nella serata, a pagamento, di quel 28 dicembre 1895, per quanto riguarda l’animazione, la questione è più complessa. Pur presentandosi come sottoinsieme del "Live Action", il disegno animato non è scaturito dalla pretesa matrice ma gli è, e di molto, anteriore. L’animazione aveva potuto fare a meno del caposaldo della cinematografia, la pellicola, sicché il cinematografo nasce necessariamente dopo la fotografia, e con l’alto patronato della Medusa, che del cinema fu la prima martire, auto-pietrificata dalla sua stessa immagine. L’animazione no. I disegni fissati nel tempo furono il primo problema che si pose l’umanità già ai tempi dei dinosauri, quando, a tempo ritrovato, faceva il graffitaro. Da quel momento si possono ricordare migliaia di composizioni, disegnate, colorate e legate da un proto-montaggio, ma quello più suggestivo, ricordato da Isao Takahata nella prefazione di un volume dedicato all’arte di Emil Cohl (Emil Cohl, l’inventeur du dessin animé), è un artefatto, la celebre "Tapisserie de Bayeux", un superbo arazzo di quasi settanta metri, in cui le singole pezzuole fungono da sequenze e le cuciture da montaggio della celebre conquista dell’Inghilterra da parte dei Normanni di Guglielmo il Conquistatore, con tanto di antefatto e incoronazione finale. Tralasciando il valore (immenso) e l’influenza (decisiva) dell’opera, possiamo notare che gli strumenti analitici della composizione sono più afferenti alla critica d’arte figurativa che alla futura critica cinematografica: come un quadro, una pala, un affresco, essa si presenta propriamente come arte sintetica, non nel senso di un incrocio di codici svariati ma di una stringa di significanti ellittici ed evocativi. Solo più tardi l’enorme serbatoio delle fiabe prima, e l’oceano delle storie illustrate, fumetti e graphic/light-novel poi, dirigeranno l’animazione verso una pescosissima narratività. Dalle ombre cinesi a Emile Reynaud Facciamo adesso un passo in avanti e poniamoci l’interrogativo di natura tecnica: come si crea il fenomeno ottico? I più antichi spettacoli di illusione ottica sono le ombre cinesi, ottenute in un primo momento col solo ausilio delle mani e che poi si perfezionarono con dei modellini ritagliati a mo’ di sagome, che si "muovevano" da dietro un proto-schermo, retroilluminato e translucido. Popolarissime nell’Estremo Oriente e a Giava, si diffusero per contiguità geografica nel mondo musulmano, che a sua volta adottò alcuni dei canoni delle marionette e del teatro dei pupi, in voga nell’Europa soprattutto Meridionale. Presentati sui palchi teatrali ma soprattutto negli spettacoli fieristici e itineranti, l’illusione del movimento, sia come silhouette sia come marionetta comandata e articolata dalle mani, trovò il suo pubblico naturale nella gente del popolo che accompagnava i bambini (ma ne traeva diletto essa stessa), tant’è che nei non rari spettacoli di corte, senza scusanti, i re, la regina, la pletora di nobili e la nobile infanzia condividevano gli stessi piaceri, e ciò rappresentò una caratteristica decisiva che l’animazione avrebbe sempre conservato, un bacino d’utenza totale, ricchi e poveri, colti e ignoranti, uomini e donne, bambini e adulti. Il linguaggio universale di cui la Lanterna Magica era dotata, aggiunse un altro tassello, nevralgico: nel secolo XIX, povero di alfabetizzazione, il mostrare senza bisogno di dichiarare mise in mostra le possibilità didattiche ma anche propagandistiche del nuovo mezzo di comunicazione. La didattica profuse tutte le sue forze nel messaggio morale: la Chiesa, per esempio, che calcò la mano sulla rappresentazione dell’Inferno che cementò le fedi più traballanti; e più tardi la Rivoluzione, quando, appena conquistata la Bastiglia, il fisico e illusionista Robert Robertson si impegnò a meravigliare il già ben eccitato popolo-pubblico parigino con le sue "Fantasmagorie", un termine ripescato dal greco antico che da quel momento entrò nel linguaggio comune (e che fu finemente analizzata da Aldous Huxley ne "Le porte della percezione"). Si trattava di una rappresentazione complessa, messa in scena da un fantascopio (due dischi disegnati e colorati che ruotavano in senso opposto) e una lanterna magica munita di ruote costrette su di un binario che, oltre all’illusione ottica, raddoppiava la dinamica con un movimento effettivo. La convulsione di immagini e movimento restituiva insomma il significato originario della fantasmagoria come una successione senza tregua di immagini impressionanti. Di evoluzione in evoluzione arriviamo infine a Emile Reynaud, il cui prassinoscopio è l’anello di congiunzione tra il pre-cinema e la cinematografia. Al di là della tecnica che, attraverso l’utilizzo degli specchi rende l’immagine più chiara e godibile, il prassinoscopio a cilindro girevole costringe, data la sua struttura complessa e estremamente fragile, alla stanzialità. È fuori discussione trasportalo nelle fiere, nelle quali le illusioni ottiche avevano sempre rappresentato l’attrazione più amata; in attesa della sala cinematografica, Reynaud si installa in un museo delle cere la cui direzione artistica era stata affidata al celebre caricaturista Alfred Grevin, e che diventò allora il Museo Grevin. Reynaud accetta di mettersi a stipendio e, col senno del poi, fu una pessima mossa poiché ne cedette l’esclusiva e fu completamente assorbito da una mole di lavoro impressionante, una media di 1500 immagini disegnate a mano e arrotolate in un nastro che scorreva senza alcun ausilio meccanico ma col tocco di entrambe le mani che si muovevano in sincrono, ma in direzione opposta. Inoltre, a ogni fine spettacolo, Reynaud era costretto a disfarsi di molte immagini che, al contatto con la lampada ad arco, si deterioravano molto facilmente, o si bruciavano addirittura. Il primo spettacolo di Reynaud porta la data del 28 aprile 1892, ed è una sorta di prova generale davanti a un pubblico selezionato, nel Museo Grevin; Grevin che, per motivi di salute, si era dimissionato e aveva affidato la direzione artistica all’altrettanto celebre disegnatore Jules Chéret; Chéret che, per l’occasione, disegna un brillante manifesto in cui Pierrot e Colombina stanno danzando una sarabanda, introducendo così il concetto di "locandina". Delle tre scene che costituiscono lo spettacolo, è giunta fino a noi solo la terza, Pauvre Pierrot, conservata tuttora nel Museo Arti e Mestieri di Parigi. Avevamo accennato al lavoro immane sulle spalle di Reynaud: una sua, almeno parziale, "furbizia", fu scaturigine di una tecnica decisiva nel cinema d’animazione, e la è tuttora. Si tratta del "principio di dissociazione". Consiste nel tenere fissa la porzione di quadro che non muta tra primo piano e sfondo, e nel disegnare solo i minimi mutamenti che intercorrono nella dinamica scena-personaggio (per esempio la mano che stringe il bicchiere e se lo porta alla bocca mentre il corpo rimane fermo). Questo principio di economia oltre a costituire un gran risparmio di tempo solleva il disegnatore dalla routine e verrà, di norma, delegato al cosiddetto intercalatore, la gavetta necessaria di ogni animatore. Reynaud, purtroppo per lui, poté al massimo essere intercalatore di se stesso poiché la sua dinamica consisteva di appena due frame sovrapposti, entrambi cruciali tanto da sconsigliarne la delega. Nell’animazione dei nostri giorni le chiamiamo key pictures e corrispondono ai frame che raccordano le inquadrature nel montaggio, uno di ingresso e uno di uscita, ed è una delle operazioni più delicate della messa in scena, motivo per cui Reynaud se li disegnava da sé. Ultima caratteristica rimarchevole è il sincrono suono/immagine, non soltanto attraverso i rumoristi o le piccole orchestre fuori scena, ma addirittura con la fissazione sul cilindro rotante di piccoli circuiti che si attivano tramite apposite linguette azionate dal giro di manovella che eccitano una elettrocalamita che batte un piccolo percussore che sincronizza, all’altezza esatta dei fogli in scorrimento, il suono desiderato (in questo caso un colpo secco). Del sudatissimo lavoro artigianale di Reynaud possiamo ammirare il suo apice, il suo capolavoro riconosciuto, "Autour d’une cabine" (1894), la summa delle più avveniristiche tecniche fin lì conosciute, dalle lanterne magiche alla cronofotografia di Marey, utilizzata per il volo dei gabbiani e la voga dei rematori, due riprese di così perfetta profondità che ancora oggi meravigliano. Emile Courtet, detto Cohl Il ricordo di Reynaud è il più legittimo viatico per l’ispezione dell’omonimo Emile, questa volta Cohl. Entrambi di multiforme ingegno, il primo fu meccanico, ottico, inventore, intercalatore, scenografo, ma non gli fu da meno il Nostro, suo più degno erede, "L’inventeur du dessin animé". Siamo nel 1907. È già nato il cinematografo, si è imposto lo standard dei fratelli Lumière. Georges Meliès è all’apice del suo successo e siamo alla vigilia del Viaggio sulla Luna, il suo capolavoro riconosciuto ma anche il trampolino di una caduta inesorabile e rovinosa. L’animazione è stata ridimensionata: le riprese dal vivo e impresse su pellicola solleticano il piacere del pubblico in misura decisamente maggiore. E proprio davanti a un live-action, "The Haunted House" (Stuart Blackton, 1907), gli alti papaveri della Pathè e della Gaumont si stropicciano gli occhi per Il film più meraviglioso che sia mai stato inventato. Nel periodo dei trucages di Meliès, ci si trova adesso, in effetti, davanti a qualcosa di totalmente nuovo, sorprendente. Un coltello, tutto da solo, affetta pane e salame; un letto si muove e si capovolge; mobili si aprono, si spostano, volano a mezz’aria. È una spaventevole casa infestata, che costringe lo sfortunato inquilino a scapparvi via nel bel mezzo della notte. I movimenti sono precisi, naturali, ma nessuno tra registi, produttori, sceneggiatori, operatori e segretarie riesce a capire in che modo un letto possa volare, dando per scontato che non l’avrà fatto di volontà propria. Un giovanissimo Louis Feuillade uscì da una intera nottata di proiezioni no-stop mezzo cieco, alla ricerca di fili trasparenti che lo avessero mosso, inutilmente. Fu un già maturo Emile Cohl a dare la spiegazione, all’epoca tutt’altro che banale, del giro di manovella che corrispondeva esattamente alla ripresa di una sola immagine. Il procedimento prese il nome di "movimento americano" oppure, più precisamente, "One turn, one picture". Più semplicemente noi l’avremmo chiamato Stop Motion o Passo uno e finalmente, dopo essersi osservati in cagnesco per i primi quindici anni, per la prima volta la cinepresa si presta a una tecnica così cruciale per l’animazione. In effetti, appena un anno dopo, Emile Cohl si piazza dietro la cinepresa e gira il primo film animato della storia del cinema, "Fantasmagorie". Stuart Blackton, a onor del vero, aveva già, nel 1907, realizzato un film in Stop Motion: "The Magic Fountain Pen" è un breve spettacolo nel quale una penna animata disegna e anima una serie di oggetti tra i più disparati e eterogeni. Per lui fu un divertissment, una riflessione metalinguistica fine a se stessa e che infatti non ebbe seguito. Cohl, al contrario in un altrettanto breve filmato cerca se non una linea narrativa almeno una coerenza formale che avrebbe stimolato l’intero genere. Emile nel 1908 non è però un giovane di belle speranze. Ha già 51 anni. Nato a Parigi nel 1857, il suo cognome, Courtet, si accorcia in Cohl appena ventenne, quando il suo naturale talento lo avvia a firmare così le sue illustrazioni, un mestiere nuovo ma già molto apprezzato da un pubblico di medio-alta cultura, che divora i periodici di cronaca che fanno bella mostra di sé attraverso le caricature in copertina firmate da André Gill, che il giovane Emile considera quasi come un dio e che sarebbe stato il suo mentore. Cruciali per la sua formazione furono inoltre le amicizie con il celebre attore Frederic Lemaitre (interpretato nel 1946 da Pierre Brasseur nel film "Les Infants du Paradis" di Marcel Carné) e con il discusso romanziere Paul De Cock, di cui alla posterità non sono arrivate le sue opere ma i sarcastici giudizi di Dostojevskji e Joyce. Nonostante la pochezza letteraria, il vecchio Paul sarà comunque una amicizia decisiva, che sprona Emile a coltivare il suo talento. Le sue caricature, per "L’Hydrophate", "La nouvelle Lune" e "Les hommes d’ajourd’hui" lo rendono noto e amato presso la boheme delle irrequiete notti parigine, che lo rendono celebre per un duello all’arma bianca in cui lui e lo sfidante Jules Jouy si feriscono a vicenda, e l’incontro finisce in parità. A neanche trent’anni, Emile diventa fotografo. Quella che sembra una regressione si rivelerà al contrario una tappa fondamentale per la sua carriera, e dal suo studio nel boulevard Strasbourg svilupperà una lunga serie di scatti, il più celebre dei quali è quello a Paul Verlaine, che lo metteranno in confidenza con la pellicola e i suoi misteri impressivi. In quegli anni Parigi, riemersa dalla sanguinosa esperienza della Comune, la repressione della quale costò circa trentamila funerali sommari, diventa sinonimo di joie de vivre e tirar tardi, si arrocca nella collinare Montmartre dove fraternizzano esemplari del consorzio umano tra i più improbabili, giovani artisti morti di fame, apache e pegre organizzata di magnaccia, prostitute, assassini, lavandaie e dame del bel mondo che mostrano il fondoschiena al mondo intero, nei locali più malfamati della Butte. In attesa del Moulin Rouge, inaugurato nel 1891, tiene banco il tuttora in vita Lapin Agile, esplicito omaggio a André Gill che vi aveva esposto il celebre quadro del coniglio in casseruola, e che offre un tavolo permanente a Cohl e ai suoi amici, redattori e disegnatori dell’altrettanta celebre rivista "Chat Noir". È da questa collaborazione che Emile Cohl sviluppa il suo interesse per le ombre cinesi, lo stimolo a una nuova impresa di un cinquantenne che ancora non ha combinato niente di rimarchevole, che ha diretto giornali chiusi per fallimento, e ugual sorte è riservata per il suo studio fotografico. Lo stile delle sue illustrazioni sembra tagliato apposta per il cinematografo: fulminanti, narrative, stilizzate, sono già delle sceneggiature pronte a essere impressionate. Cohl si presenta allora negli studi della Gaumont, non per pietire un impiego ma minacciandoli di denuncia per plagio. Casualmente, aveva assistito alla proiezione di un film-comique, "Le plaford trop mince" (1907), e vi ha riconosciuto una delle sue strisce illustrate, pubblicata nel 1891. Il dirigente Gaumont non si scompone e, riconosciutogli un compenso, lo assume. Il già maturo stagista è assegnato al più talentuoso della scuderia, Louis Feuillade, che gli insegna i fondamentali del mestiere. Esordisce come sceneggiatore ma entro pochi mesi si appropria della cinepresa e firma le sue due prime opere, entrambe live-action ("Le mouton enragé" e "Le violiniste"); in effetti, Cohl non si risolse mai a decidere tra realtà e animazione, e la sua produzione basculò fino all’ultimo tra il live action e i disegni animati, come si chiamava l’animazione all’epoca; ama definirsi cinegrafista, una qualifica che meglio rappresenta il suo stile e la sua idea di cinema. Così, il cinema di animazione, concepito qualche millennio prima di quello reale, è pronto all’esordio, nel 1908. FANTASMAGORIE: Sintesi Stilizzazione Sottrazione Completato nel maggio, "Fantasmagorie" consta di 36 metri di pellicola in cui si affollano mille disegni per duemila inquadrature, quel minimo di intercalo necessario alla fissazione nella retina di un ancora alle prime armi cinespettatore. Cohl lavora contemporaneamente su tre progetti, e "Fantasmagorie" sembra essere l’anello debole della catena. "Le cauchemar du fantoche" e "Un drame chez les fantoches" seguono un filo narrativo e focalizzano il fantaccio come un possibile eroe di tante possibili avventure; le fantasmagorie, al contrario, non raggiungono i due minuti di durata e, pur presente, il Clown, non emerge da protagonista. Girato con la tecnica del cartone animato, "Fantasmagorie" contiene un breve momento di "papier decoupé", quando le mani del regista irrompono nella storia e incollano in diretta il corpo strappato del Clown. Le dita operose sono inquadrate anche in un momento anteriore e cruciale: sulla prima inquadratura, una spessa linea orizzontale a mano libera, disegnano un cerchietto che sarà la faccia del Clown e darà il via all’avventura. La linea funge allora da traccia della composizione, allo stesso tempo argine all’accumulazione caotica e chiave di violino su cui stendere la partitura: spessa e incerta, pre-esistente alle matite laboriose, introduce un intero schermo bianco da assediare a piacimento, talché in presa diretta e a mano libera scendono due linee diagonali che costituiscono, nell’insieme, un personaggio stilizzato attaccato a un trampolino, la cui sospensione a mezz’aria è dinamizzata dalla opposizione dei due triangoli isoscele, quello più grande esplicitato dalle braccia tese e alle dieci e dieci che si tengono alla sbarra, e quello più piccolo che ne è sottoinsieme e fa da cappello à la Pinocchio del clown-acrobata. La faccia è inscritta anch’essa nel triangolo maggiore, che ne risulta, tutto sommato, una sorta di uomo vitruviano. Linea e cerchio sono allora la grammatica generativa che si articola e si coniuga dando luogo a figure sempre più complesse di pochissime regole, sintassi illimitata e lessico pressoché infinito. L’animazione, infatti, proprio da questo primo test enuncia una legge non scritta ma che nondimeno nessuno avrebbe mai messo in discussione, la totale libertà creativa, impossibile nel live-action che è soggetto prima che alla fisica alla biologia, in cui una caduta è latrice di conseguenze quasi logiche che nell’animazione invece sono il pretesto a gag e inversioni imprevedibili alle quali lo spettatore si allinea. Se la linea è il punto fermo di una morfologia limitante, necessaria a tenere in piedi storie e personaggi, il cerchio è la lettera d’incarico che lo pone al di là della legge, in barba alla sincronia narrativa, ai rapporti causa-effetto, alla stessa struttura biologica dei personaggi. Nella intersezione dei due elementi base, infine, si sviluppano le libere associazioni attraverso le stilizzazioni, quali il cappello a cono, la proboscide dell’elefante, il cappello a piede d’insalata eccetera. L’unica disciplina cui Cohl si piega è il ritmo, che si sviluppa come una progressione geometrica di una decina di micro-sequenze, ognuna portata al suo apice e subito saldata con una medesima micro-sequenza. Per quanto aritmeticamente misurabile, però, il ritmo narrativo della fantasmagoria assomiglia a qualcosa non ancora codificato nel 1908: il flusso di coscienza, che la lungimirante libreria-casa editrice Shakespeare & Co, solo nel 1922, pubblicherà a titolo "Ulysses" e a nome Joyce. Come un prestidigitatore, il clown elabora trucchi sempre più sofisticati che fanno fronte ad attacchi sempre più pericolosi, in una escalation che neanche la morte, per strappo, può fermare; una sorta di vendetta postuma alle fatiche di Reynaud, che a fine serata doveva ridisegnare i fotogrammi di cartone bruciacchiati o sgualciti. E il pubblico approva. Nel biennio 1908-1910, Cohl gira settantasette film, dal vivo e animati, molti dei quali perduti; incontra il favore del pubblico che ha già assimilato i virtuosismi di Meliès ma che reclama dell’altro. Se il miliare Goerges giustifica le sue fantasmagorie con l’intervento diabolico, Cohl sposta l’asticella e non cerca più giustificazioni né intermediazioni, le mostra direttamente. Forte della sua formazione figurativa e della pratica con gli strumenti di ripresa, affina il talento naturale, semplificando le figure e stilizzandole. Il clown del nostro film ne è il miglior esempio. Né fedele al canone di realtà né eccessivamente caricaturizzato, esso è la sintesi della grammatica linea-cerchio; la sua fisionomia è essenziale: una botticella come tronco, i quattro arti bidimensionali, la testa tonda, il cappello conico. È una figura abbozzata, agile e testata per le sue mutazioni e acrobazie. La donna davanti allo schermo, al contrario, ha una fisionomia eccedente, una struttura a cipolla che viene spogliata delle sue linee orizzontali e verticali fino a rivelare l’elemento base, il cerchio della testa, pronto a trasformarsi in una mongolfiera. Il 1908, allora, si rivela un anno cruciale nella storia del cinema: il punto più alto delle diavolerie di Meliès trovano il loro erede naturale nelle fantasmagorie di un povero clown, una maschera, contro un mondo reificato, un teatro di marionette, comunque ostile. Con l’unico trucco che era sfuggito a Meliès, la Stop-Motion, Emile Cohl supera l’impasse entro cui era costretta l’animazione e chiude infine quella che lo storico Georges Sadoul aveva chiamato "L’era dei pionieri": i Lumière, Meliès, Porter-Edison e, appunto, Cohl, che chiude la sua carriera nel 1921 con l’ennesima disavventura del fantoche, "Fantoche cherche un logement", e che è stata catalogato sul suo quaderno di appunti con la numero 238. In tredici anni di attività firma esattamente trecento opere, l’ultima delle quali è una publi-ciné intitolata "Les Dents"; per sbarcare un minimo di lunario, infatti, nel biennio 1921-1923 Emile gira 61 spot, biscotti, caffè, sigarette, fino al cioccolato Talmone. Il suo quadernino numera le righe fino al 306, ma le ultime sei posizioni rimarranno tristemente vuote. Nel complesso, le opere animate superano di gran lunga quelle live-action; le migliori in assoluto integrano le due tecniche, in una sinergia produttiva che ha dato alla luce dei gioiellini quali "Le joyeux mycrobe" (1909) e "Le ratapeur du cervelles" (1910). Artefice dei disegni che si fanno da soli, non ebbe discepoli fedeli, ma tutti fecero tesoro delle sue doti di sintesi, stilizzazione e sottrazione. Ci piace ricordare un genio dell’animazione italiana, oggi un po’ dimenticato ma conosciuto in tutto il mondo: Osvaldo Cavandoli e la celeberrima Linea. E, anche questa volta, non finisce bene Il biennio 1908-1910 fu il suo periodo glorioso, quello delle sue opere migliori, targate Gaumont. Il divorzio da questo colosso lo spinse nelle braccia del colosso antagonista, Pathè, finché, nel 1912, ebbe l’opportunità di lavorare a New York, in una terra in cui l’animazione poteva contare su investimenti importanti. Cohl approfittò del suo Erasmus per studiare le tecniche più avanguardistiche e la nuova sinergia dell’animazione con la sceneggiatura, condizione necessaria per un bacino d’utenza di massa. In quegli anni, il punto più alto dell’animazione narrativa era un film ancora molto primitivo, che faceva convivere realtà e animazione, "Gertie il dinosauro" (1914). L’uso del dispositivo narrativo in luogo delle trovate aveva, come primo effetto, portato la durata a ben dodici minuti; ancora più significativo, la fisionomia del personaggio mette da parte le tre S, Sintesi, Stilizzazione, Sottrazione per una fisionomia quanto più antropomorfa possibile, in grado di caricare psicologicamente un ottuso dinosauro cui viene anche dato un nomignolo (Gertie) e in grado insomma di creare l’immagine-affetto, quell’empatia col pubblico che farà la gloria definitiva di Walt Disney, una gloria tutta meritata, beninteso. Lo scoppio della I Guerra Mondiale richiama Cohl patriotticamente a casa. Nonostante l’età, lavora energicamente su documentari e film di propaganda; nel 1918 si arruola come ufficiale di collegamento con le truppe americane. I venti anni che seguirono furono assai duri. Ridotto in miseria, non trovò sostegno alcuno nei suoi tentativi di tornare dietro la cinepresa; il suo stesso ruolo nella storia del cinema venne minimizzato. Muore in una casa di riposo per anziani indigenti, il 20 gennaio 1938. Il giorno dopo, se ne va un altro grande vecchio dimenticato: Georges Meliès.
Su Youtube è possibile accedere a una maratona aggiornata e restaurata delle opere di Cohl, dalla durata di più di tre ore. Si consiglia una visione a blocchi.
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piersacalo · 6 years ago
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Anime 005 - Paprika
Paprika - Sognando un sogno (Satoshi Kon, 2006)
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Tokita, uno scienziato grasso, bulimico e geniale, ha inventato la DC-Mini, una macchina in grado di entrare nei sogni e dirigerli a scopo terapeutico: aggiustando quelli sarà possibile riequilibrare la psiche umana, gravata che sia da una semplice nevrosi o da una grave psicopatologia. La scoperta, però, ha attirato gentaglia senza scrupoli, più propensa al terrorismo che all’umano benessere. Una DC-Mini, infatti, è stata rubata. Ultimo lungometraggio di Satoshi Kon che perfeziona una personale ossessione piegata a stilema, fin da "Magnetic Rose", il primo dei tre episodi del film collettivo "Memories" (supervisionato da Otomo Katsushiro, 1995) di cui scrisse la sceneggiatura messa in scena da Morimoto Koji, passando per il suo esordio, "Perfect Blue" (1997) e non dimenticando né "Millennium Actress" (2001) né quel capolavoro che è la serie animata "Paranoia Agent" (2004). La mente. Le sue manifestazioni, quantitativamente e qualitativamente risibili, nella vita reale, i suoi meccanismi imperscrutabili e non ultimo la sola vaga idea di quanto e come riesca a imbrigliarla l’arte e in special modo quella che chiamiamo "l’industria del sogno", il cinema appunto. Satoshi Kon affronta un pre-testo, il romanzo omonimo da cui "Paprika" nasce, scritto da Tsutsui Yasutaka che in tanti, ancora oggi, avevano e hanno provato a mettere in scena, senza risultato. Tokyo, tempo presente. Vita, architettura e tecnologia sembrano quelle dei nostri giorni, salvo la DC-Mini che la bella dottoressa Chiba, algida e professionale, sta usando in via sperimentale sulle nevrosi del detective Kogawa, un paterno capitano di polizia alle prese con un difficile caso d’omicidio e che soffre di un trauma legato a un’antica amicizia spezzata. La DC-Mini, che riesce anche a registrare i sogni per poterli rivedere e analizzare, proietta sullo schermo il mondo interiore dell’uomo che, senza alcuna logica causale, è un libero raccordo di film inaccostabili e che si chiudono sempre con un uomo a terra, ucciso. Questo rappresenta di sicuro il suo caso insoluto, ma nell’oscuro lavorio della psiche è anche il suo trauma, totalmente slegato dal caso. Nel "film a episodi" il capitano è coadiuvato da Paprika, una frizzante teen-ager allo stesso tempo strumento della DC-Mini e alter-ego della dottoressa Chiba. Insomma: una matassa quasi impossibile da sbrogliare poiché, come appare chiaro già dalla messa a nudo di un uomo tutto sommato solido, equilibrato e semplice, afflitto da una nevrosi neanche grave, cosa può succedere se si allargasse il meccanismo a psicologie più complesse, devianti e che addirittura possano interagire tra loro? In effetti, il soggetto del film è proprio questo, una storia in cui la parola "Fine" risulterà assolutamente arbitraria, insoddisfacente, una sorta di resa a ciò che è più grande di noi. La questione del sogno, infatti, è la sua onnipotenza. La realtà, con le sue logiche, scopi, economia, utilità, principi di conservazione e linearità è al confronto una povera cosa, la casa del limite umano-troppo umano. Il sogno non ha soluzioni di continuità, virtualmente infinito, digiuno dei concetti di forza e morte, totalmente a-lineare; esso utilizza la realtà come uno dei suoi infiniti strumenti, e neanche il più potente; non conosce la rassicurazione delle traiettorie, dei climax, non cede alle regole del raccordo e del montaggio, mescola realtà e possibilità, passato e presente, paure e aspettative. In ultimo non si fa problema a giocare sporco, ad attaccare l’umano con le patologie che lui stesso ha categorizzato: l’Edipo, il dualismo, la metamorfosi, la sessualità. Ognuno degli oggetti appena listati nel film ci sono, tutti. E agiscono. "Paprika" è un pan-focus, i suoi quadri sono saturi di oggetti e dettagli tutti a fuoco. La storia è raccontata come un blockbuster ma la sua struttura e messa in relazione è totalmente sperimentale, così come, spiega la dottoressa Chiba il sonno duro e quello morbido generano diverse qualità di immagini-sogno. Tutto è utile e immanente. e alla sua base c’è un prigioniero: un uomo dalle gambe paralizzate che ha un solo, modesto sogno, quello di poter tornare a camminare, così come un corpo obeso in una testa geniale sogna di poter amare. Così, in un contesto di totale produttività, i fondali di "Paprika" sono veri e propri quadri di pop-art, brillanti e rutilanti, curati fin nel dettaglio più insignificante. In una storia in cui ciascuno è protagonista e può assumere maschere e dimensioni a suo piacimento, spiccano i movimenti della cinepresa, le panoramiche vorticose in CGI, i plongée abissali, morbidi e vertiginosi. Una bambola che supera le dimensioni di un grattacielo è un mecha che sembra combattere gli alieni invasori mentre un mecha che con un monitor in testa proietta un volto obeso si incastra goffamente in un palazzo come Tokita tra le porte dell’ascensore e, in effetti, sono la stessa persona, in un raccordo falso, che ha abolito la logica. Naturalmente, a dare man forte, interviene massicciamente il citazionismo cinematografico: il domicilio di Himuro, l’assistente omosessuale di Tokita, è un casa di bambole come quelle di "Blade Runner", e le bambole che lo salutano al suo arrivo sono le sue creature, le sue amiche e il transfert sessuale sotteso, tutto traslato in realtà dopo aver abolito il limite tra il conscio e l’inconscio. La porta d’ingresso alla terapia del poliziotto è un bar che molto ricorda quello dell’Overlook Hotel di "Shining" con la sola differenza che i baristi sono adesso due e rappresentano Satoshi (il regista), quello più alto, e Tsutsui (lo scrittore), quello più largo. Anche la scena del crimine si svolge sulla moquette rossa di un Overlook Hotel, denso di porte chiuse e tabù. Gli ingressi e le intrusioni nei sogni altrui, fino all’obiettivo terroristico del "sogno collettivo", riportano sia a "The Matrix" (Wachowski Bros, 1999) sia al suo ispiratore "Ghost in the Shell" cui "Paprika" rimanda anche per la tematica del guscio (shell), l’inconscio da cui si accede per immersione attraverso la zona pubica, sia per la rutilante parata di rane suonatrici, frigoriferi e ombrelli che richiama irresistibilmente la sfilata di "Ghost in the Shell 2 – Inosensu" con la sola differenza che questa è la rappresentazione estetica di un Ordine, aberrante ma comunque operativo e uniformatore, mentre la parata di "Paprika" porta alla morte. I film che compongono il pur modesto inconscio del capitano trovano la loro logica nella loro successione illogica, dal genere fantastico all’avventura passando, attraverso il noir, al sentimentale da cui riconosciamo "Il più grande spettacolo del mondo" (C. B. De Mille, 1952), "Tarzan" (W. S. Van Dyke, 1932), "Vacanze romane" (W. Wyler, 1953). E infine Paprika. Diciamo infine perché tutto ciò che non comprendiamo siamo soliti assegnarlo o a una questione di Fede, Dio, o a una questione di Speranza, l’Amore. Paprika è quell’oscuro oggetto del desiderio che il genio di Bunuel scisse in Angela Molina e Carole Bouquet, così simili alle nostre Chiba/Paprika: algida o passionale, pura personificazione del terrore che non siamo disposti a tollerare, Satoshi decide, motu proprio, che una consolazione è necessaria.
E così abbiamo anche un lieto fine.
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piersacalo · 6 years ago
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Anime 004: 5 CM al secondo
5 cm al secondo (Makoto Shinkai, 2007)
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Takaki (lui) e Akari (lei) sono compagni di classe durante la scuola elementare. Inseparabili, si perderanno di vista per i trasferimenti delle rispettive famiglie, e la lontananza sarà solo il primo stadio di un percorso lungo e segnato da felicità, tristezza, e infine dolcezza. Arriva sul grande schermo, per solo tre giorni, il secondo lungometraggio di Makoto Shinkai, personaggio in ascesa dell’animazione giapponese, che ha riscosso ovunque un buon successo di pubblico con "Your Name.". In effetti, si tratta di un mediometraggio, di una durata appena superiore ai sessanta minuti, e articolato in tre episodi che si susseguono coerenti nel tempo, dall’infanzia alla maturità, che è la nostalgia del passato e la quieta accettazione delle cose così come si svolgono nel lungo del papiro della vita. I due ragazzi vivono una sola stagione felice, quella dell’infanzia con cui si apre il primo episodio, "I fiori di ciliegio", in cui il ciclo vitale di questa lussureggiante angiosperma è anche l’infanzia della Terra, spensierata, rutilante, innocentemente egoista, e che mette in ombra il grigio contesto urbano entro cui saremo presto costretti. A causa di una salute cagionevole, i due ragazzi si incontrano, legano, si promettono l’eterno stare insieme. Il naturale corso delle cose porterà poi l’inverno, la neve, la spoliazione degli alberi, e una testardaggine, un bene infantile da conservare per la maturità, che li riunirà ancora una volta, affinché alla tristezza possa infine essere associato quello stato mentale ambiguo, di difficile definizione, che è la dolcezza, la sintesi del buio e la luce. È certamente il più strutturato degli episodi, e infatti è anche il più lungo. Potremmo definirlo il "capitolo bianco", dominato dai fondali esplosivi dei ciliegi in fiore e dalla luce che abbaglia, la neve, che è anche l’ostacolo formale alla riunione dei due giovani. Il secondo capitolo, "Cosmonaut", più evocativo che risolto, segue il processo di maturazione di Takaki, che intuiamo essere diventato un bel giovane, fortemente desiderato da Kanae. Sottolineamo l’intuizione perché il "character design" di Shinkai è (nel film e in generale nelle sue opere) abbastanza statico, quasi disinteressato all’appeal delle figure in movimento, abbastanza povere di dettagli anatomici, ricche invece di monologhi interiori e pagine di diario. Introdotto da una palette cromatica più sbarazzina e da alcune accorate note di J-Pop, esso è il "capitolo rosso", col riverbero del sole che colora di aragosta il cielo, i corpi dei ragazzi, alcuni mirati oggetti fino alla comparsa di quegli ammiccanti nastri porpora che una grande funzione simbolica avrebbero poi esplicitato in "Your Name.". Questa fase di maturazione non si risolve, si patteggia: Kanae domerà col suo surf la cresta dell’onda, che riuscirà infine a cavalcare, ma imparerà a sue spese che questa, spesso, non è altro che la punta dell’iceberg, la dura testardaggine ormai irrazionale che tiene Takaki ancora legato ad Akari, come la navicella spaziale che squarcia il cielo rosso verso il buio, verso l’ignoto, il Nero. Il Nero è l’ultimo episodio del film, da cui prende anche il titolo: "5 cm al secondo", ossia la velocità di caduta delle foglie di ciliegio al suolo. Takaki è un giovane programmatore, è un uomo ormai, che immerso nella sintassi del linguaggio artificiale si accorge casualmente di alcuni petali entrati in casa dalla finestra aperta. Il necessario ritorno delle cose si annuncia con gli stormi di uccelli, neri, che migrano, alternati nel montaggio alla cenere delle sigarette, nera, e ai capelli, agli arredamenti che pian piano inghiottono il quadro finché tutto si oscura per poter ricominciare. La fugace apparizione di Akari, che compare e scompare al di là di un passaggio a livello su cui sferragliano nervosi due treni ad alta percorrenza, fissa nel giovane quel che intuiamo la ragazza ha compreso da tempo: tutto scorre, solo il ricordo resta. Un ricordo utile e necessario solo a chi lo serba. La diffusione extra-diegetica della hit "One More Time, One More Chance" acquieta infine l’animo tribolato del giovane, e il ciclo della natura potrà così riprendere il suo corso. Makoto Shinkai ha una ottima reputazione tra gli appassionati di anime, e anche presso un pubblico meno specializzato. Le sue storie sono caratterizzate da una sostanziale assenza dell’Opponente, un cattivo che crei spessore e spesso anche simpatie inconfessabili (e che il genio di Myiazaki, cui spesso viene accostato Makoto, utilizza per un processo di redenzione, o di equivoco che chiarisce). Nella poetica di Shinkai, l’Opponente è il Tempo, molto più dello spazio, e nemmeno insidiato dall’azione umana che poco può. Tutto ciò, è stato mostrato in quel piccolo capolavoro che è "La voce delle stelle" (2002), e che rimane di una spanna superiore al film in questione. Più legato a una cosiddetta "fiaba barocca", che attraversa gli stadi di morte e rinascita, come il ciclo vitale delle angiosperme, Shinkai sembra più propenso a credere che siamo noi il nostro peggior Opponente, ma che i buoni esempi esistono, muti. Così, la magnificenza della Natura che deflagra come una bomba ha la possibilità di essere imitata da una testa ipertrofica di pensieri contrastanti tra loro, all’interno di ambienti razionali e squadrati che ci fanno da tetto, e che si svelano come scatole a sorpresa, sorprendenti e risolutive grazie alle geometrie modulari e all’illuminazione (e qui il genio assoluto resta Satoshi Kon). Resterebbe ancora una lezione da imparare, suggerisce Shinkai nel nostro film: il momento del crepuscolo, quando l’aria e l’acqua si rinfrescano e tutto si tinge di ocra e si indora, quello stato di grazia inafferrabile in cui il tempo pare finalmente sospendersi.
 E poi è subito notte.
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piersacalo · 6 years ago
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Anime 003 - The Night is Short, Walk on Girl
The Night is Short, Walk on Girl (Masaaki Yuasa, 2017)
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Un matrimonio appena celebrato si contrappone all’addio di uno studente tradito che scivola in una triste rimpatriata alcolica di vecchi dialettici i cui orologi corrono; a Kyoto è la notte dei cento demoni, la notte in cui niente è possibile. Terzultimo lungometraggio di Masaaki Yuasa che si affida allo stesso staff che mise in piedi sette anni prima la serie "The Tatami Galaxi" (2010) di cui questo film ne rappresenta una sorta di summa e eredità; il testo di partenza è l’omonimo e fortunato romanzo di Tomihiko Morimi. Protagonista assoluta è la città di Kyoto, coi suoi demoni, le sue sfilate, il suo cibo fantasma e l’altrettanto fantasma mercatino delle pulci che qui si riduce in una lunga distesa di scaffali colmi di libri usati, che celano IL libro che riunirà una coppia divisa, nel mentre i moduli della libreria sono montati e smontati senza tregua, per costruire palchi improvvisati dove esercitare lo psicodramma, detto anche Guerriglia Teatrale, dal quale l’ineffabile Don Mutanda potrà infine guarire dal suo amore malsano. La ricostruzione in effetti è più problematica da dire che da mostrare ma Masaaki, genio dell’animazione quasi misconosciuto, ha dalla sua la capacità di tenere in bolla i suoi ingredienti attraverso l’elemento liquido, che tutto fa fluttuare, riducendone la gravità e mostrandoci le azioni come attraverso un acquario, pure sonorizzato dalle note soffuse e tradizionali di Michiru Oshima che proiettano lo spettatore nella pigra sensualità delle case delle geishe, come ce le aveva mostrate Mizoguchi. Se con "Mind Game" (2004), l’elemento liquido in questione è propriamente l’acqua (salata), nel film in questione esso è l’alcol, bevuto in grandi quantità e senza censura poiché, come sentenziato dalla "ragazza dai capelli corvini", protagonista assoluta del film, si beve per gioia e finché ce n’è. Non è operazione del tutto oziosa cercare i punti di contatto tra una cultura decisamente aliena e la nostra. Lo stesso Masaaki ce lo suffraga introducendo elementi occidentali, Verne, Durrell, Dumas, il rhum, tra i Daruma votivi e gli Yakei Noodle (tagliatelle viola) in un continuum esplicitato in un filo, sottilissimo, che tutto tiene insieme e su cui campeggiano orgogliosi i capolavori dell’arte erotica di Umataro, Shunga, Hokusai. In effetti appare evidente nel film un sovvertimento delle cose in veste di paradosso logico, come ci è noto dalle avventure di Alice nel paese delle meraviglie, entro cui la ragazzina beve per potervi accedere, proprio come la ragazza corvina che si troverà a lottare contro un mondo che, a differenza di Alice, padroneggia benissimo. Non si può non notare che la sua testa tonda, i capelli neri e il rosso delle labbra e dei tessuti la introducono nella storia come Biancaneve, per poi diventare una mondana Cenerentola alla conquista del bel mondo, con tanto di orologio che l’accompagna, ma lentamente, per tutta la lunga notte. Al mattino diventa Cappuccetto Rosso, nella sua quotidianità, quando, caritatevole, fa visita agli ammalati col salvifico gin Junipero in luogo di una mai meglio definita bottiglia di vino; ammalati di raffreddore, sia un’alterazione umida del corpo, o un attacco batterico al mirabolante cromatismo galleggiante dell’universo masaakiano. Il duro momento di transizione, in cui nuvole e vento sgombrano il quadro di cose e azioni e prosciugano la tavolozza fino a ridurla a gradazioni di marrone e grigio, rimandano senza dubbio alle atmosfere gotiche de "I cento racconti del terrore", altra mitologia di Kyoto, elaborato con una fotografia bidimensionale e scossa dalla tempesta che fa vibrare ogni cosa, come si può ravvisare in quel piccolo capolavoro di Yamamura Koji, "A Contry Doctor" (2007), ispirato all’omonimo racconto di Franz Kafka. La continuity del film, per il resto, è di tipo scintillante, con grandi esplosioni di forme e colori iper-realistiche, che strizzano l’occhio tanto alla Pop-Art quanto all’animazione dei fratelli Fleisher, in special modo quando gli oggetti si scompongono dai loro contenuti (alcol e bicchiere) o quando i corpi si allargano a dismisura nell'ingollarlo; la loro messa in forma stilizzata e elementare ricorda sia il Paint che il Power Point. Senza dubbio, la forza visiva di Masaaki per tenere testa alla complessità diegetica ha sacrificato alcune sue capacità, specificamente nei movimenti di macchina e nel montaggio, nel mentre la tecnica dà più corda a una resa bidimensionale invece che alla profondità 3D. Ciò è compensato dalla decina di trovate, caratteristiche del suo cinema, che fondono sotto-intrecci improbabili e situazioni che nascono ordinarie fino a farle collidere, come la messa in scena della "danza dei sofisti" che scaccia il demone della malinconia diventando "viscidi come anguille", facendo ciò rientrare a gran velocità la poetica dell’umido. Allo stesso tempo Masaaki si tiene i pezzi di bravura per rare incursioni, nel teatro che diventa musical e si affida ad argani che fanno precipitare eroi dall’alto ed eroine che precipitano nel basso da una botola; o, al contrario, spalmando di caldo crepuscolare il mercatino dei libri, un accogliente rifugio delle anime infervorate; fino alla lotta contro se stessi attraverso la quale, in uno spazio asettico e sottovuoto che vuole rappresentare la psiche umana, il timido "senpai", per vincere la sua solitudine, si trova paradossalmente a lottare contro migliaia di piccoli demoni, adiuvato da una decina di altrettanti piccoli demoni benevoli che, in una drammatica assemblea organizzano resistenza e barricate, in un florilegio di porte aperte o sfondate.
Come già detto, questa è la notte in cui niente è possibile e, in mancanza della morale che, in ogni fiaba che si rispetti, intrinsecamente si snoda, qui succede quel che più è ovvio, che è quasi la stessa cosa. 
Lamentarsene, non è possibile.
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piersacalo · 6 years ago
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Anime 002 - Metropolis
Metropolis - Rintaro 2001
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Il punto più alto della scienza è Tima, una Intelligenza Artificiale in grado di connettere tutto il mondo e ridurlo a una mappa su cui abbattere le armi umane e le esplosioni nucleari del Sole. Non è il capolavoro di Fritz Lang, è il capolavoro di Rintaro. Dopo una serie di riuscite collaborazioni, la mano pittorica di Rintarō si affianca nuovamente alla visione caustica e meccanica di Otomo Katsushiro, in una rilettura, a settant’anni di distanza, della fantascienza apocalittica del testo originale di Thea von Harbou messo in scena da Fritz Lang. In realtà, il pretesto è più prossimo, nello spazio e nel tempo: Osamu Tezuka, detto anche "il dio del manga", aveva già rivisitato il tema di Metropolis nel più prossimo 1949, e la coppia Rintarō-Otomo si ispira alternativamente a entrambi, forse più fedele al capolavoro tedesco da cui si discosta nettamente nel finale, quella stretta di mano tra il Capitale e il Lavoro che tanto piacque a Goebbels e che obbligò Lang alla fuga, e che in effetti rappresentava la migliore sintesi possibile della teoria nazional-socialista. In un futuro neanche tanto prossimo e steam, ricalcato sul dinamismo ipnotico e angosciato della Weimar descritta dalla von Harbou, una coppia di investigatori giapponesi, Shunsaku Ban e suo nipote Kenichi, sbarcano a Metropolis a caccia dello scienziato pazzo Laughton, segnalato da quelle parti. Nella città si sta svolgendo una sorta di celebrazione pagana, un’orgia di festa e lavoro, che fa da coro alla ultimazione della Ziggurath, il punto più alto della castale Metropolis. I due temi sono destinati a fondersi, in una inversione, amara e articolata, dei rozzi cacciatori nella terra dei grandi costruttori: lo sviluppo è caotico, il vero finale è sconsolante, la conclusione posticcia; il breve inserto consolatorio, in cui i buoni tornano in vita e vissero tutti felici e contenti, fu effettivamente girato e inserito nella prima versione, da cui fu subito espunto dalle copie licenziate per la distribuzione. "Metropolis" finisce come "Germania anno zero" di Roberto Rossellini: un cumulo di macerie. Tutto sommato, "Metropolis" è una animazione atipica. È una live-action a tutti gli effetti, come suggerisce la prima immagine, un cielo ombrato di canicola, reale. La caratterizzazione dei personaggi è molto stilizzata, fedele agli "occhioni" dello stile pioneristico di Tezuka e conforme al canone del muto, ma il key-design, la dinamica dei loro movimenti, delle loro espressioni, sono ridotte all’osso e gli "intercalatori", gli artigiani che disegnano gli stadi intermedi, non si saranno divertiti granché. Si riconosce la mano di Rintaro, più interessato, nei suoi film, a calcare la mano pittorica, che a molta fatica fa emergere, dal buio degli anfratti e dei dislivelli, la luce che dà la forma. E infatti Metropolis è fondamentalmente un ventre oscuro e rassegnato, con la sua cupola super-segreta che protegge la Ziggurath infera e l’inferno di ben tre piani sotterranei in cui sono costretti una sorta di proletariato che vive in conflitto con la genia degli Albert One e Two, due categorie di androidi sbilenchi addetti alle corvée, e che più tardi avrebbero di certo ispirato il personaggio di Wall-E. Il Livello Zero, quello dove vive l’èlite, ha la stessa estetica di una panoramica su Pyongyang, deserta, muta, asettica, di spettrale architettura, appena percorsa da un paio di Albert che spazzano via una polvere che non c’è. Bisogna entrare dentro i palazzi, quello del Conte Red soprattutto, per poter ammirare una geometria magniloquente, tappezzata da una palette a mosaico di rara bellezza. È il marchio di Rintarō, che è probabilmente il regista-pittore che meglio ha fatto parlare i colori in sé, spesso a scapito della forma. Se si guarda il film senza audio, "Metropolis" racconta la guerra tra il verde e il rosso, che diventa esplosiva nello scontro tra le tonalità, con rari intermezzi blu che permetteranno la respirazione. Il verde smeraldo che scintilla negli interni si mostra come materia vivente, magmatica eppure marziale nella struttura a incastri dei mosaici, pulsante nelle gradazioni cromatiche, ossia nella lotta contro il buio da cui riporta una sconfitta, ma con tutti gli onori. È il principio del "design interno" di molte chiese alto-barocche e che Rintarō ha fatto suo, qui e in "Manie-Manie" (1987), che giustifica la preponderanza del buio attraverso una vera e propria discesa nella bocca del Moloch, e in "X-The Movie" (1996), in cui angeli e demoni si scambiano ambiguamente i ruoli. Un verde che si fa addirittura limpido negli occhi del malvagio Conte Red (che ha una curiosa somiglianza con Gianni Agnelli), e che si adagia placido in quella frontiera di verde-acqua, caratteristica delle placide acque tropicali, ma che connotano anche gli occhi del figlio adottivo di Red, il fascista Rock. Lo stesso pulsare dei computer, pixel di verde acido sullo schermo nero, danno lo stesso senso di instabilità, di grandi manovre e arcani mutamenti che costituiscono l’anima del film. Se al pianterreno il conflitto è impresso ma latente, scendendo di un piano esso si manifesta in tutta la sua drammaticità. Al Livello -1 vive una popolazione che non studia, non lavora e vive di sussidi, tuttavia sospesi a causa del progetto-Ziggurath, e in cui si fa strada una sorta di socialismo rivoluzionario che ha preso di mira quelli che stanno peggio di loro, i robot. Il rigore geometrico del pianterreno, qui, si degrada nel guazzabuglio e ha costretto al superlavoro i "fondalisti", quelli che hanno disegnato gli sfondi di una città sotterranea, caotica e irregolare. Qui il verde diventa organico; a causa dell’illuminazione a chiazze, mantiene sì la formazione magmatica delle cose, ma i suoi atomi hanno perso la forza di attrazione e si incollano alla peggio a formare neoplasie, informi e mutanti, e di una variante biliare del colore, come una cattiva secrezione biologica che porta prima alla tomba del Livello-2 e poi alla riduzione in polvere del Livello -3, in cui i pulviscoli latenti sono spazzati dagli spazzini-robot del pianterreno. Ma l’avventura del verde sarebbe poca e schematica cosa se, oltre all’evoluzione in sé, non fosse anche in conflitto col suo antagonista più prossimo e naturale, il rosso. Esso, come nelle chiese già citate, si spande negli interni del pianterreno fino a impreziosirle, disinnescato dalla violenza sanguigna, sublimato e evocato nella più ambigua delle declinazioni del colore, il giallo del Sole, benevolo in apparenza ma le cui macchie sono di un rosso giustamente apocalittico. Gli occhi di Tima nascono rossi per poi diventare verdi, mentre quelli di Pero, il robot-investigatore più umano degli umani, restano rossi, nascosti dal bavero rialzato dell’impermeabile e dal cappello calato del topos poliziesco. È invece sfacciata l’ostentazione del maglione rosso di Rock che, rosse, ha anche le suole degli stivali che calcano indifferentemente tutti i livelli di Metropolis e che proprio al pianterreno cortocircuitano, quando calpestano il pavimento di un delicato rosa-violetto del palazzo del Conte Red. Red che significa rosso, oltretutto. Allo stesso tempo, infine, di un rosso usurato, quasi amaranto, sono due oggetti di uso comune ma significativi della consistenza di Tima: l’agenda rossa che racchiude i suoi segreti, e la radiolina analogica, rotta e da lei rimessa in funzione. I rari momenti di dispnea si concretizzano con rari e casuali interventi di gradazione del blu, canicolare nel cielo, addomesticato ma incompreso sulla terra, tuttavia necessario a riprendere fiato, o quasi un monito all’insondabilità delle cose, che ci restano incomprensibili, fino all’irruzione del blu più perfetto, il bianco, ossia il colore del Mistero. Esso è il colore originario di Tima, la domanda di fondo che urla lungo tutto il film e che risulterà inevasa: "Chi sono io?". Bianca, fantasmatica, appare nella sua completezza a Rock, in contro-plongée dall’alto della scalinata nel basso del Terzo Livello, nell’immondizia. Eppure, pulsa. Di nuovo, più avanti, la vedremo in controluce, di profilo nel mentre una colomba le si posa sulla spalla talché i meravigliati presenti, in plongée, esclamano: "Un angelo!". Un angelo molto problematico, un Demiurgo che qualcuno vorrebbe Lucifero in persona. Lei, più modestamente, non sa chi è, ed è tutto. L’ultima apparizione del bianco è così evidente da non aver bisogno di commenti: il golpe è fallito; gli umani, sobillati dall’èlite, sono scesi in guerra contro i robot, ma i militari hanno tradito e adesso comanda un solo uomo, il Conte Red, con la sua chioma fluente e a testa di gallo. Candida. E nevica. Il requiem dei placidi fiocchi che purificano le strade imbevute di sangue funge da dissolvenza, ed è il testimone che passa dalla messa in scena vertiginosa e psichiatrica di Rintaro alla feroce e scanzonata penna di Otomo, coi suoi robot sbilenchi e una escalation bellica senza soluzione di continuità, come sappiamo da "Akira", ma anche dal medesimo passaggio dall’episodio di Rintaro a quello suo in "Manie Manie". Prima di questa curiosa forma di punteggiatura, è facile notare, qua e là, degli iris e delle tendine, omaggio più al cinema muto in generale che al film di Lang in particolare che (a memoria) ne fa punto uso. Più congruente, l’accostamento al tedesco, si presenta con i movimenti di macchina, "inesorabili", come li definì Truffaut, sia negli spazi ampi del pianterreno sia in quelli angusti e ingombrati di ciarpame dei piani inferiori. La cinepresa scarrella e panoramica senza tregua, carrello avanti e carrello indietro, panoramica a schiaffo, plongée e contro-plongée, fino a quel piccolo capolavoro di macchina a seguire, con la quale si incolla alla bicicletta di Kenichi che trasporta Tima a cassetta e che sale e scende scalinate infinite, schiva sull’asfalto disseminato di intralci, evita le pallottole che fischiano nelle orecchie. In aggiunta, la regia si concede spesso lo zoom, a volte con la raffinata combinazione del carrello avanti o indietro, come il miglior Melville. Se la magniloquenza architettonica di Lang è messa in sordina da un interesse più vivo per i bassifondi, lo stesso non si può dire per ciò che la critica (cfr il volume di Paolo Bertetto sul film di Lang) ha chiamato "la disumanizzazione dell’organico" e "l’umanizzazione dell’inorganico". Qui, la coppia Rintarō-Otmo non solo tiene fede al concetto originario, l’escalation della alienazione e della reificazione già note, ma lo supera, con i nuovi interrogativi sulle Intelligenze Artificiali. L’alienazione è già stata detta, e pertiene la riduzione dell’elemento umano a soggetto parassitario, da nutrire pure, scacciato nel sottosuolo, cui non rimane che la guerra, contro chi sia. A questo si aggiunge una stilizzazione decisa, ma statica, dei personaggi. Come nel film di Lang, essi si muovono come automi, tutti. Infagottati in vestiti più o meno calzanti, a determinarne lo status, non tradiscono emozioni e restano impassibili, con il tronco, le gambe e le braccia che si muovono dritti e meccanici, come tubi di piombo, al massimo spanciati. Al contrario, tradisce tutta la sua umanità Kenichi (che, insieme a Rock, è una variante grafica di Astro-Boy, e la coppia angelo/diavolo di "X-The Movie"), sia per la giovane età, sia per la vicinanza a Tima, l’androide (quasi) perfetto. E proprio Tima rappresenta l’umanizzazione dell’inorganico, l’essere perfetto che non ha nulla di umano ma i cui pantaloni raccattati di fortuna sono di almeno cinque taglie superiori alla sua, ridicoli, umani. Tima, che è l’unico soggetto a sperimentare, coscientemente, i misteri della nascita, amicizia, empatia, amore. E infine la distruzione, la sua certo, ma che molto meglio ci viene mostrata nella tragica fine di Pero, l’androide-investigatore, i cui occhi rossi, e bassi, sono destinati al martirio per mano del rivoluzionario Atlas, che si giustifica: "Siamo umani. Emozioni e vibrazioni ci sono necessarie, per sopravvivere", e giù botte. Infine, dopo aver esperito la visione audiovisiva e quella senza suono, si potrebbe provare una terza visione, di solo audio, soprattutto riguardo la colonna sonora. Essa è stata creata da Toshiyuki Honda che si è avvalso delle corde di Atsuki Kimura e della voce profonda di Minako 'mooki' Obata, tutta originale, salvo un brano. Honda, di formazione fiatista, sax e tromba, tra le referenze delle migliaia di sonorizzazioni posteriori al film di Lang, sceglie una strada tutta sua in cui le naturali capacità dei fiati di essere, a scelta, orgiastica o malinconica, si fonde senza soluzione di continuità, infiorettata pure dai pizzichi delle chitarre di Kimura e dagli interventi vocali della Obata, con la sua voce negra e in costante bilico tra il buongiorno e la buonanotte. Così, si inizia con una swinging-Metropolis, opulenta e ottimista, per salire e scendere gli stadi di alterazione che trovano il suo culmine ne "El Bombero", una techno a cassa dritta con i cincischi dei Roger al lavoro filtrati e iterati mentre fanno solerti le pulizie. Fino ad arrivare a un vero e proprio colpo di genio, l’uso di un brano famoso, sia "I can’t stop lovin’you" nella versione di Ray Charles, sfruttato pure lui in chiave ambivalente. Introdotto, esso fa lo stesso effetto del "We’ll meet again", il brano che Stanley Kubrick utilizzò in amarissima inversione nel finale del "Dottor Stranamore", e che qui testimonia il destino di Metropolis. Ma la regia, e il montaggio, fanno un passo avanti e, in modo struggente, sicché è questa la sequenza regina del film, si sposta sul dramma inorganico, con la voce di Ray Charles che sale e scende esattamente come l’equilibrio di Tima, aggrappata a un filo, che è una parte del suo stesso corpo. Una caduta inesorabile e lenta, che la mano di Kenichi non può fermare, e su cui, infine vuota, non può restare né sudore né calore, una sensazione che più che consolare la perdita del giocattolo preferito ammanta la tragedia di un nero più nero del nero.
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piersacalo · 6 years ago
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Anime 001 - Weathering with You
Weathering with You (Makoto Shinkai, 2019)
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In una Tokyo lunare e opprimente, il giovane Hokada trova prima conforto in un gattino, poi la cena per mano della caritatevole Hina, e infine un tetto e un lavoro per opera del signor Suga, malinconico editore di una "rivista esoterica per ragazzi", che lo promuove al doppio ruolo di colf-redattore. In città, intanto, piove a dirotto.
Ultimo attesissimo film licenziato da Makoto Shinkai, considerato il nuovo genio dell’animazione da molti degli orfani di Miyazaki (che, tra l’altro, è ancora vivo). Eredità pesante, che lo stesso Makoto considera un macigno, come si può evincere da una recente e pensosa intervista in cui si interroga sulla difficile convivenza di arte e spettacolo, poetica e botteghino, per un pubblico indifferentemente giovane o maturo, insomma il genio innato e forse irripetibile del vecchio Hyao. Il buon successo di "Your Name." Sembrava già averlo instradato ma se “5 cm al secondo”, uscito posteriormente in Italia ma che lo precede cronologicamente, aveva già rilevato le, vivaddio, differenze col Genio, il nostro film le problematizza ancor di più, col risultato di una storia qua e là ammiccante, di sfondo furbetto, spesso risolta in afasia, quella di Hokoda che urla senza sapersi spiegare, fugge e spintona, nega, arrossendo e urlando, di non stare guardando le tette della signorina Natsumi, e infine spara pure due colpi di pistola.
Ma valutare un film e un regista in contrapposizione a un altro (regista) è un’operazione deprecabile, che nega i talenti e le visioni di un artista in possesso degli uni e delle altre. "Weathering with You" è un opera orizzontale, dispiegata nell’anime e in una light-novel già in circolazione, mentre la versione a fumetti pare sia già prevista nel futuro prossimo. Esattamente come "Your Name." e "5 cm al secondo", che hanno già esperito le tre diverse forme di comunicazione. Al di là della facile ironia sullo sfruttamento di un quasi-franchise, possiamo congetturare che Makoto, sempre soggettista e autore delle sue sceneggiature, riesce a trovare la piena espressione attraverso la polisemia, di cui sarebbe utile un’analisi comparata, di cui non possiamo dar conto.
Quel che sappiamo è la promozione dei Radwimps, celebre band J-Pop che ha scritto anche la colonna sonora di "Your Name.", e della coppia Masayoshi Tanaka (character disegner) - Hiroshi Takiguchi, responsabile dei fondali di una Tokyo che molto spesso assomiglia a una trappola per topi. Come sempre, Makoto ha tenuto per sé il ruolo di color designer, attività che nel nostro film lo ha impegnato a fondo e da cui esce ampiamente promosso.
La selezione e la gradazione dei colori sono le parti decisamente meglio riuscite della storia, al punto da poterne essere il soggetto.
La metropoli, troppo verticale per degli adolescenti in fase di sviluppo, è concepita essenzialmente dal basso, sia che si ascenda fino al cielo sia che si resti lì, a volte stesi sul selciato col sangue che sgorga sulla fronte; è il basso delle loro altezze che conferma il mondo abietto degli adulti, vicoli-ripostiglio-immondezzaio alle spalle delle fastose insegne luminose dell’ingresso, sulle vie principali, e che sono in realtà un McDonald e un bordello. Nella semioscurità di una suggestiva metonimia, che accomuna sesso, cibo-spazzatura e pistole, l’architettura si fa opprimente e il chiaroscuro angosciante. Ma il vero colpo di genio è consistito nel rendere Tokyo il pentolone delle fattucchiere, agitato dalle "sacerdotesse del bel tempo" che, previa preghiera sincretica cristiano-shintoista, a mani giunte ma rivolta a una ringhiera di metallo, riportano il sole e scacciano la pioggia.
Hina è una di loro, ma il prezzo da pagare è detto altissimo, una regressione alla forma anfibia fino alla scomparsa definitiva.
E proprio qui, lungo tutto il film, che Makoto ha deciso di promuovere il color design a vero e proprio montaggio, che nella sua stretta necessarietà formale si riduce a semplici stacchi e a una notevole dissolvenza in nero che sospende l’avvenimento più cruciale in cui tutto può succedere, anche la fine del mondo. Il montaggio del film, insomma, è tutto interno, con la gradazione di colori nella stessa inquadratura, con la metamorfosi delle forme che regrediscono a forme più elementari (Hina) o trascendono in spiriti vaganti (la pioggia), tutto sotto i nostri occhi, come per rinforzare il concetto di un vero e proprio miracolo. Le declinazioni del blu e del grigio si contano a decine, quasi a scavalcare la scala-Pantone, e la visione macroscopica e panfocus del cinema trova qui tutta la ragione del suo (ancor) essere.
A un occidentale viene facile paragonarle alle Ninfee di Monet, quelle in cui l’effetto liquido-solido cooccorre e prolifera, come il corpo stigmatizzato di Hina.
Le gocce d’acqua, nel loro movimento innaturale di ascesa, sono simili a spermatozoi, dispensatori di vita, e somigliano anche alla membrana protettiva di Ponyo, il pesciolino che diventerà bambina. I cumulo-nembi, per contro, trovano corrispondenza alle corazzate-castelli che solcano i cieli di Laputa e Howl. E siamo tornati a Miyazaki.
Il character design non aggiunge molto a ciò che avevamo già ammirato in "Your Name.". L’estetica Shojo, priva di connotazione sessuale, ripropone nel nostro film "un ideale femminile a cavallo di un adulto a metà e un piccolo adulto in fase embrionale" (cfr Maria Roberta Novielli, "Animerama"). L’ammiccamento alla prosperosa Natsumi è solo una piccola concessione, il pivot del film è la fisicità snella e asessuata di Hina, cui Tanaka ha aggiunto alcune spigolosità del mento e delle impercettibili zone d’ombra sulle guance che denotano la maturità di un volto che non sempre ha sorriso ed è stato spensierato come l’età suggerirebbe. Hina, si scoprirà poi, è molto più giovane di quanto affermi.
È su questo equivoco minore, che avrebbe frenato l’amore di un adolescente per una ragazza più matura, che si gioca anche, ancora ammiccata, la lotta tra il sentimento personale (ninjo) e il dovere sociale (giri), il dilemma che attanaglia Hokoda quando deve scegliere tra l’amore e il Diluvio Universale.
Dopotutto, il tempo è il concetto guida del polimorfo universo di Makoto Shinkai.
Che sia il tempo che scorre, avversario storico delle sue storie, fin dall’inizio, o che si tratti del tempo meteorologico, i suoi eroi se lo ritrovano sempre d’intralcio, Ottuso Opponente. È un concetto che la sociologia nipponica ha battezzato Sekaikei, letteralmente "tipi di mondo", in cui è sempre questione di una storia d’amore, rigorosamente eterosessuale, in cui la ragazza è di norma materna e protettiva, sullo sfondo di uno scenario apocalittico sul quale molto possono i nostri eroi solitari, senza storia, famiglia, o istituzioni che si occupino di loro; una serie di assenze che sono esse stesse concausa del disastro imminente.
E questa è esattamente la strada di Makoto Shinkai, fin dai suoi esordi, fin da quel capolavoro ancora ineguagliato che è "La voce delle stelle".
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piersacalo · 6 years ago
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010 - Mondo Nuovo (Huxley)
Il Mondo Nuovo - Ritorno al Mondo Nuovo (A. Huxley)
Il Processo Bokanovsky è il cardine del Mondo Nuovo. Economico e controllato, permette la nascita in vitro di sessantaquattro individui Epsilon che costituiscono la base di un sistema castale che ha al suo vertice gli Alfa, Plus o no, poi i Beta e, penultimi, i Gamma, tutti generati con lo stesso sistema, con le dovute differenze castali. Inondato di alcool e tenuto a stecchetto di ossigeno, l'antico (?) proletariato svilupperà una conformazione fisica intisichita e una capacità neuronale limitata. Ma non basta. Le migliaia di branchi gemellari Epsilon sono sottoposti a ipnosi notturna che li indottrina sulla loro condizione, che impareranno ad amare senza velleità di cambiamento, felici di essere Epsilon, e saranno imbottiti di Soma che dispiegherà le sue azioni allucinatorie-euforiche-narcotiche in questo esatto climax che strema il pensiero critico. Nel frattempo, tanto sesso infertile, cinte malthusiane che prevengono le gravidanze, indotte istericamente con apposita meditazione e quindi abortite, e adorazione del Demiurgo, il signor Ford iniziatore di una Nuova Era, il cui celebre modello di automobile si è simbolizzato in quella T che ha spezzato il vertice alto della Croce e diventa atto di fede, simbolo di un Mondo basato sulla felicità, costi quel che costi. Questo è il Mondo Nuovo, quello che ha risolto la maledizione malthusiana della sovrappopolazione e dell'esaurimento delle materie non rinnovabili, e la naturale tendenza umana al suicidio e alla libertà. Chiaramente si presenta la falla, prima introdotta da un Alfa che ha ricevuto in embrione un eccesso di alcool che fisicamente lo ha reso più gracile, e psichicamente insoddisfatto. Eppure tollerato, da qualcuno anche amato/ammirato, per la sua diversità; suo è il compito di scovare l'ultima donna vivipara (una Beta), e il suo frutto, il Selvaggio che conosce Shakespeare a memoria e di cui capirà il senso negandosi alla Superorganizzazione e reclamando il suo diritto naturale alla sofferenza. Il nodo resterà irrisolto. Huxley non è un grande romanziere e la sua scrittura (o almeno, le sue traduzioni) sono freddamente descrittive e controllate, come il mondo che preconizza. Lo si può confrontare con altre sue opere, ma qui è il caso di una società disinnescata che si preoccupa di descrivere in tutta la sua quotidianità, scientificamente stabilita e tecnicamente apparecchiata, quasi giustificata, almeno come un male minore. Dopotutto, lo stesso Aldous è una sorta di parto in vitro, nel senso che la sua vita, pur distesa in anni terribili, si è sempre svolta in cenacoli coerenti. Nipote di Thomas, uno dei più accesi sostenitori della teoria darwiniana, è anche il fratello di Julian, brillante saggista e autore di "Evolution: the Modern Sinthesys" (1942) in cui già darwinismo e evoluzione tendono a essere sinonimi e nel quale, senza molte parafrasi, elabora la sua teoria malthusiano-eugenetica da imporre attraverso il "Soft Power", un'opera di convincimento paternale in luogo della repressione bruta descritta nelle distopie di Orwell. Julian diventerà poi direttore dell'UNESCO, vera e propria ONG ante-litteram, di cui sono noti i progetti più nobili (la salvaguardia dei siti di alto valore storico) e restano tuttora fumose le sue mission in campo educativo e culturale. Insomma, Aldous è di suo un brodo di coltura, che applica la ue e dis-genetica, che perfeziona droghe definitive e che non è del tutto convinto che la missione dell'Uomo sia la libertà e la sofferenza. Così come "Paradiso e inferno" riprende i temi de "Le porte della percezione" per problematizzare i suoi toni quasi apocadittici, venti anni dopo Aldous riprende il Mondo Nuovo con il "Ritorno al Mondo Nuovo" che nelle nostre edizioni è ormai legato all'opera prima, come fosse un tutt'uno.
Anche qui i toni si smorzano (salvo quando vuol convincere che le sue teorie andarono molto più avanti del suo "avversario", Orwell) e, sempre darwiniamente, l'Uomo è passato al pettine fine delle "somiglianze" che ci promuovono dalla super-organizzazione delle formiche (insomma, il Mondo Nuovo) al branco, di lupi o elefanti, di animali insomma che fanno gruppo in determinate circostanze e quasi mai sociali. Basterebbe questo a mandare il Mondo Nuovo gambe all'aria, ma il problema sussisterebbe, anzi ne sarebbe ingigantito da una opinione pubblica che nel frattempo dei venti anni trascorsi (non siamo ancora ai tempi dei social Network, eppure) si è totalmente disillusa della politica, e sembrerebbe più propensa a un governo tecnocratico che consentisse di poter vivere le proprie vite individuali. 
E ritorniamo al Mondo Nuovo.
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piersacalo · 6 years ago
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Letture 009 - Le porte della percezione
Le porte della percezione - Paradiso e inferno (A. Huxley)
Dopo che nel 1952 ebbe pubblicato "I diavoli di Loudon", nel 1954 Huxley scrive "Le porte della percezione" seguito due anni dopo da "Paradiso e inferno", una riflessione sulla riflessione conclusa da otto appendici con le quali lo scrittore-sociologo ritorna sul tema delle "brecce" per correggervi leggermente il tiro, per ricordare che le droghe possono "anche" essere pericolose, come guardare per pochi minuti la danza delle luci stroboscopiche, attività che può produrre una crisi epilettica. "Le porte della percezione" sono invece il resoconto di un fortuito (?) incontro con lo psichiatra Osmond, interessato a registrare gli effetti della mescalina su un soggetto di particolare sensibilità, e pure disposto a far da cavia. La continuità suggerita dalle date di uscita del romanzo anti-religioso (Loudon) e del saggio sulle droghe (questo) è decisamente suggerito dall'imprevedibilità del tempo lineare, che nel 1932 gli aveva fatto scrivere "Il mondo nuovo", la cui fortuna fu momentaneamente stoppata dall'avvento del nazifascismo, che rese più attuale l'opera di Orwell (1949), e della Guerra Mondiale e successiva euforia della Ricostruzione, che proiettarono l'uomo di quel tempo a ben altre attività. La crisi vera e propria si sostanziò nel 1968 ma Huxley, ancora una volta, fu profeta, sì da tornare, venti anni dopo, sui suoi immutati interrogativi e soluzioni su religione, droga e genetica, fino a che, nel 1958, chiuse finalmente il cerchio con il "Ritorno al mondo nuovo". Un giocatore di poker lo chiamerebbe un Full niente male, incastrato ad arte. Per farla breve e senza entrare nel merito, né scientifico né personale, piani che a volte si sovrappongono, tutto nasce dal cactus Peyotl, scoperto dai civilizzati nel 1886 per mano del farmacologo Lewin, ma amico di vecchissima data dei nativi messicani. Isolato il suo principio attivo, la mescalina, fu subito attenzionato dalla psichiatria in quanto alteratore della coscienza, utile a studiare le patologie (in quell'epoca, la schizofrenia) e, magari, ad aggiungere punti all'intelligenza media, quella che fa lavorare il proprio cervello per sottrazione, per poter sopravvivere ai miliardi di stimoli del mondo esterno che ci farebbero impazzire, altrimenti. Assunti 4/10 di grammo, Huxley è interrogato, portato a spasso, sottoposto a stimoli controllati e disinnescati, senza grosso rischio cioè per l'incolumità sua e degli altri. E ne viene fuori che è il mondo è diverso da come ci appare, e la sua simbolizzazione, dall'arte al linguaggio, è fallace, di cattivo gusto, pomposa, come l'Angelo giudicato da William Blake "tronfio di raffigurazione dialettica" (non trovo il punto, cito a memoria, il senso è quello), o come Cezanne cui Huxley dice (a un suo quadro): "Ma chi si crede di essere quello?" nel mentre si trova a suo agio tra le mille pieghe dei vestiti rinascimentali del Botticelli in cui, probabilmente Osmond, riconosce un penoso caso di schizofrenia di cui è affetta una madre che, ospitalizzata, ha uno spleen nell'osservare le maniche della giacca del povero marito che salivano e scendevano mentre le raccontava dei suoi due figli, assenti e perciò di completo disinteresse per la donna. Donna che, dopo quella sublime percezione, entrò nella fase acuta della malattia fino a morirne. Ma Huxley non era uno psichiatra, il suo pallino è sempre stato l'ingegneria sociale e, pur non dichiarandolo apertamente, se ne desume che la mescalina fin lì sintetizzata non è un punto di arrivo ma di sola partenza verso la perfezione del Soma, la Perfect Drug del Mondo Nuovo che condivide con quella l'assenza dei postumi, l'innocuità sull'organismo e la sintesi chimica che libera superfici altrimenti coltivabili (la teoria malthusiana è data per scontata nel romanzo), e inoltre, appena 1/3 dei suoi ingredienti, essendo quella solo allucinante nel mentre si dovrà perfezionare in allucinante-eccitante-narcotica, in quest'ordine. Non ultimo, la droga è solo 1/3 della "breccia", lo stato di evasione che l'uomo chiede a se stesso e alla società, che nel Mondo Nuovo ha l'incipit con l'ipnosi, nel sonno, pedagogica, e si fortifica con la meditazione, intesa come aumento di concentrazione di CO2, anidride carbonica, nelle sospensioni di respiro che della meditazione sono il fulcro (o forse il fine), e che attaccano la funzione "sottrattiva" del cervello e aprono le porte della percezione come promesso prima da William Blake e poi da Jim Morrison. Forse la vera battaglia contro le emissioni di CO2 nell'aria andrebbe condotta contro i gruppi yoga che infestano l'Occidente ma, anche questa, è una teoria.
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piersacalo · 6 years ago
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Letture 008 - L’ultimo uomo
L’ultimo uomo - Enzo Pennetta (GOG Edizioni)
"Evoluzione" è il concetto che nessuno si sogna di confutare ma che, "addormentato" nella sua aura di verità assoluta, si è prestato a diverse aberrazioni, alcune "simpatiche" nella loro (falsa) innocenza, come l'invenzione dei "diritti animali" che coincidono con quelli umani, fino a stabilire, per corollario, quelli "del vivente" che aprono le porte a Gaia, la Grande Madre dei più ancestrali (Comte direbbe "infantili") riti umani di sottomissione. Altra aberrazione, più sfumata, e quindi più perniciosa, è stata l'equivalenza dell'Evoluzionismo, che è un'evidenza scientifica, col Darwinismo, che è una teoria che si pretende verità solo in senso politico, opinabile insomma. E allora, la prima (?) teoria evolutiva della Storia, quella di Comte, che descrive specificamente l'evidenza della scienza e del suo ruolo, perde la sua naturale inarrestabilità e il fine teleologico del mondo e dei suoi abitanti, non più destinati all'ascesa religiosa-filosofica-scientifica (Hegel non lo scomodiamo neppure) e, piuttosto, annaspante, sia nelle sue fasi transitive sia nel completamento di un cammino che aggiunge tappe e riposiziona l'arrivo, tappe spurie finché si vuole eppure marcanti, quali la "società liquida" e il suo nuovo ultimo stadio appena identificato ("appena" in senso storico, se ne parla dal 1946), il Transumanesimo, rispetto al quale l'uomo del 2019 (e del 18, 17, eccetera) sta come "sulla corda dell'abisso", non più uomo, non ancora superuomo.
E' questo il senso di questo agile (180 pagine) e divulgativo saggio di Enzo Pennetta che al costo di qualche semplificazione (su cui si potrebbero scatenare i dottoroni di Facebook) riscrive la Storia dell'Idea Fissa dell'Uomo, la sua sopravvivenza, certo, ma anche il suo senso. Pennetta, en passant, ci ricorda che una Idea percorre una serie di stadi (6) che da "inaccettabile" diventa "legale", e anche il contrario, come monito alla memoria dell'uomo che le idee, più che vere o false, possono essere giuste o sbagliate, secondo l'ottica adottata. Per questo, il sottotitolo del saggio fa riferimento a tre personaggi meno noti delle loro teorie (o aspirazioni), teorie ormai stabilmente ritenute nell'intricato reticolo semantico che costituisce l'intelligenza individuale: Malthus, Darwin, Huxley. La sovrappopolazione e la scarsità delle risorse rinnovabili, il dominio del più forte fino alla totale scomparsa del "recedente", un mondo addormentato in cui la felicità è l'obiettivo, sono tre ipotesi che si possono declinare, congiungere, frullare in tutte le prassi, dagli stermini di massa agli hippy felici che si nutrono di sola aria (più o meno fritta). Se il Darwinismo, via il suo ambiguo rapporto con l'Evoluzione, fu al servizio di tutte le "narrazioni forti", e Marx per primo ne intuì la portata rivoluzionaria della sua ambiguità, vero e proprio pharmakon che si presenta come cura ed è invece veleno per le società liberali, "Il Mondo Nuovo" di Huxley è un paradigma di maggiore appeal, che "piace alla gente che piace", quella più umanitaria che umana, vedova del socialismo fabiano, che si emoziona alla mission dell'UNESCO, e per estensione alle missioni-ONG con le bandiere arcobaleno, libertaria riguardo le droghe e la sessualità diffusa, fino alla giocosa eutanasia che ci trasformerà nell'utilissimo azoto, perché "l'individuo è per tutti", a vantaggio di tutti. Dopo la lettura di questo saggio consiglio vivamente quella di Lord Chesterton, sia per quello che scrive, sia perché, arrivati a un certo punto, il buon Chesty va al pub e si beve una buona birra in compagnia, e gioca a freccette.
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piersacalo · 6 years ago
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Letture 007 - Un amore
Un amore - Dino Buzzati (1963)
Torna Drogo ma questa volta si chiama Dorigo e a 60 anni vissuti nel peggiore Novecento (adolescente nella Grande Guerra, maturo cronista nella Seconda, raffinato punto luce del giornale della borghesia meneghina durante il Ventennio) Buzzati conferma la sagacia popolare secondo cui ne uccide più un pelo di eccetera eccetera. Antonio (Dorigo) ha 50 anni, su per giù l'età in cui la coscienza di una senilità prossima e ineluttabile hanno portato il Dino sulle tracce di SC, la non meglio mai specificata giovinetta che gli diede amore più o meno interessato in cambio del senso della vita, sia il più ambiguo degli interrogativi che lo scrittore si portò dietro in tutta la sua attività di cronista, critico, poeta, illustratore, pittore, commediografo e romanziere. Facile desumere da questo incubo in poche (e nostalgiche) vie di una vecchia Milano, appena alleggerite da fughe in Seicento scassata o Spider prestata lungo l'Autostrada del Sole, destinazione Modena o Bologna. Liberarsi della ninfetta (la "piccola teppista" Laide, comunque diciottenne anche se erano gli anni del lolitismo di Nabokov) sarebbe stato troppo semplice e di nessuna utilità per il romanzo, che nel 1963 in cui fu pubblicato aveva ancora la velleità di bere gli amari calici a vantaggio dei posteri. Antonio lo beve, blindato nella sua posizione di ricco-stimato borghese (oggi le condizioni socio-economiche rappresenterebbero un incomodo non da poco), da una forma psico-fisica ancora accettabile e, soprattutto, da una naturale simpatia che ispira nelle brume della prostituzione ambrosiana, meticcia ma ligia a un galateo di non disprezzabile fattura. Sicché, il calice non è poi così amaro, nel senso che il rapporto impossibile (Antonio vorrebbe la ragazza tutta per sé, un tema più che ordinario, patetico) gli fa godere le gioie degli amplessi nel mentre lo scrittore trova il senso del suo stare al mondo. Un senso che lo perseguitò sia oggettivamente sia soggettivamente; nel primo caso lo si è sempre accostato (e liquidato) all'angoscia primigenia di Kafka, sia di un (grande) uomo completamente disinteressato alla vita e alle sue manifestazioni; nel secondo, riguardo come ci si congeda dalla vita: con la massima dignità possibile, e nel gesto ultimo (che è quasi sempre un attendere) sia nel curriculum che si avvia all'ultimo punto (che adesso non si usa più, quasi fosse infinito, ed è sostituito dalla dichiarazione di autorizzazione al trattamento dati secondo la legge eccetera eccetera).
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piersacalo · 6 years ago
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Letture 006 I diavoli di Loudun
I diavoli di Loudun (A. Huxley, 1952) 
Romanziere e saggista, Huxley è tuttora un dilemma della critica letteraria e della sociologia distopica, due dottrine che, prese singolarmente, non sono dotate degli strumenti necessari alla sua analisi e che, interpolate, non hanno (ancora) stabilito una disciplina unitaria. Egli resta ancora un personaggio enigmatico e ambiguo, nel mentre il suo contraltare, George Orwell, è stato reso oggetto di un'analisi tutto sommato più semplice, che ha benificiato della storicizzazione di un contesto geopolitico glorioso ma ormai morto e, pur nella complessità di un "Grande Fratello", che è tema caldo e attualissimo, tutti noi ne abbiamo un'idea chiara e lineare, che è anche il motivo di una reputazione maggiore, e più cristallina. Se Orwell paventava quello di cui scriveva, Huxley è stato un ultrà, di un mondo più disinnescato che pacificato, falsamente libero e totalmente ignorante, ma per il suo bene. Dopotutto è (un ennesimo) fideista del pensiero elitario. "I diavoli di Loudun" nasce da fatti realmente accaduti e che ebbero risonanza nell'immediato presente e vari adattamenti (auto e biografie, cronache, atti del processo, epistole) talché Huxley ha centrifugato il florilegio di fonti e, in alternanza, romanza e documenta una storia truculenta, in cui è questione di un parroco belloccio e libertino che, per amore isterico, è portato sul rogo con l'accusa di stregoneria. Nel frattempo Richelieu scala le vette della politica e la Chiesa Cattolica tenta, costi quel che costi, di non restare invischiata nelle sulfuree trame, troppo umane per puzzare davvero di zolfo. L'intenzione (neanche troppo velata) dell'autore è la condanna di un Assolutismo, quello papale, che nel 1952, anno della pubblicazione dello scritto, è bollato come a-storico, nel mentre il regno di Luigi XIII, eterodiretto dal Cardinale, è visto, se non con benevolenza, almeno nella sua prospettiva (storica). Godibile, avvincente, empatico nella fabula, è convincente anche la sua quota saggistica, quando si limita nei confini della Storia, che si pretende oggettiva, interpolata al (suo) giudizio soggettivo, la Politica. Quando Huxley decide di affondare l'ultimo colpo, cade. Si tratta della terza e ultima parte dell'opera, quella in cui l'inquisitore umanista, preteso mistico, diplomato esorcista, padre Surin, attraverso incontri fugaci e rocamboleschi, e a elaborati carteggi epistolari, dialoga con la protagonista della storia, l'invasata soer Jeanne des Anges, priora orsolina. Qui si mostra una certa inconsistenza del fraseggio, che spiega in termini di umana psicologia una trascendenza chiaramente aliena, e all'esorcista, e alla priora, e allo scrittore.
Dopotutto, l'intenzione di Huxley è lo screditamento della Religione, non di tutta, ma almeno di quella che subordina l'uomo a Dio. Esso è un caposaldo del suo pensiero, e i suoi fan ne saranno sempre entusiasti.
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