Tumgik
raccontidiragazzi · 2 years
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Diario di un padrone e del suo schiavo
Un racconto diviso a metà!
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raccontidiragazzi · 2 years
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Ehilà!! Nuovo racconto a puntate!! :P
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raccontidiragazzi · 2 years
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Una nuova casa per le mie storie, niente limiti per l'immaginazione... e per i contenuti ;D
.:! Work in Progress !:.
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raccontidiragazzi · 2 years
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Questo sono io - Uomo avvisato…
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Dopo una notte passata in osservazione, papà aveva sbrigato le pratiche per le dimissioni ed eravamo tornati a casa insieme. Temevo quel momento più di qualsiasi altra cosa, quello in cui saremo rimasti soli. Quando non avrei più potuto fare a meno di notare la delusione nel suo sguardo.
Una volta rincasati, invece, mi chiese soltanto se mi andasse qualcosa di caldo. Non sembrava nemmeno arrabbiato. Preparò lui stesso il tè, poi sedemmo uno di fronte all’altro al tavolo della cucina e per la prima volta parlammo come due adulti.
“Mi dispiace.” Mi scusai per la centesima volta.
Oltre il trauma, quell’esperienza aveva riportato a galla dei ricordi spiacevoli che credevo di avere rimosso. Così finii per confidargli anche quello che era successo davvero al liceo, con Fabio. A quel tempo, avevo capito da poco quanto mi piacessero i ragazzi, e Fabio era quello che mi piaceva più di tutti. Lui si era accorto subito delle occhiate che gli rivolgevo ogni volta che credevo di non essere visto, e si era approfittato della mia infatuazione per divertirsi a mie spese. Durante la gita scolastica mi aveva provocato ripetutamente, ed era proprio a causa delle sue bugie che mi ero messo nei guai la prima volta.
“Perché non me l’hai detto?” Chiese papà quando scoprì il vero motivo per cui ero finito all’ospedale durante il quarto anno delle superiori.
Vergogna, orgoglio, semplice stupidità, c’era più di un motivo. Mi strinsi nelle spalle. “Non lo so, credevo che non avresti capito.”
“Ti sei innamorato della persona sbagliata e ti ha spezzato il cuore. È capitato anche a me…”
Sgranai gli occhi. Non riuscivo a credere che mio padre - mio padre! - insomma che anche lui avesse avuto quel genere di problemi.
“Si chiamava Livia ed era la ragazza più sveglia che avessi mai conosciuto. Brillante, curiosa e aveva due…”
“Aspetta, aspetta!” Mi coprii le orecchie. “Non voglio sapere tutti i dettagli!”
“Comunque, la cosa importante è che mi sono avvicinato troppo e sono rimasto scottato. Credevo che il mondo stesse per finire e dopo di lei non ho parlato con altre ragazze per quasi un anno…”
“E poi cosa hai fatto?”
“Poi ho conosciuto tua madre.” Affermò con sicurezza.
Appena la nominò i suoi occhi si illuminarono. Era strano, avevo sempre pensato che non gli importasse affatto di lei. Non ne parlava mai, non aveva conservato nemmeno una sua foto. Lo avevo odiato per questo.
“Lei com’era? Com’era quando l’hai conosciuta?”
Papà rimase a fissare un punto indefinito alle mie spalle per qualche secondo, poi sorrise. “Era uno spettacolo, illuminava tutta la stanza, il suo sorriso era davvero contagioso. Tu le somigli molto Leo, dovresti sorridere più spesso.”
Abbassai lo sguardo sulla tazza di tè che stringevo tra le mani. I ricordi che avevo della mamma erano sbiaditi, immagini isolate, la sensazione di calore che mi trasmetteva, il suo profumo. Ma non volevo farmi prendere dalla malinconia ora che sembravamo aver trovato un minimo d’intesa. Così, iniziai a parlargli dell’università e delle persone nuove che avevo conosciuto.
Non la smettevo più di parlare. Gli raccontai tutto, o quasi. Tenni per me solo i dettagli del rapporto con Marco, e il mio cuore saltò un battito quando pensai a lui.
Papà mi lasciò sfogare. Quella era senza dubbio la conversazione più lunga che avessimo mai avuto. Quando parlai di Marco, però, il suo sguardo si fece più attento. Anche se avevo cercato di nascondere la reale profondità dei miei sentimenti, doveva comunque aver intuito qualcosa.
“Quell’agente, Marco, il questore lo considera un ottimo elemento.” Disse papà. “E nel rapporto ho letto che è stato proprio lui a trovarti. A proposito, dov’è adesso? Voglio ringraziarlo personalmente…”
Sollevai la testa di scatto e una fitta mi fece storcere il naso. Quel dolore e il prurito fastidioso al taglio sotto l’orecchio mi ricordarono che la disavventura del giorno prima non era stata solo un brutto sogno. E soprattutto che quello psicopatico di Ferro era ancora a piede libero. Rabbrividii fino alle ossa ripensando all’ultimo sguardo che mi aveva rivolto prima di sparire.
“Non lo so. Non lo vedo da quando mi ha accompagnato in ospedale.” Sospirai sconsolato, il mio tè era freddo.
Marco non mi aveva più rivolto la parola da quando ci eravamo lasciati alle spalle l’edificio abbandonato dove Ferro mi aveva tenuto segregato. Quando ci eravamo separati all’ingresso dell’ospedale il suo sguardo era strano, spento. Era rimasto a guardarmi finché le porte del pronto soccorso non si erano richiuse tra noi, e quella era stata anche l’ultima volta che l’avevo visto.
Non capivo perché si stesse comportando in quel modo. Tutto quello che era successo era solo colpa mia, me ne rendevo perfettamente conto, ma sparire in quel modo, senza nemmeno una spiegazione, mi lasciava con l’amaro in bocca. All’improvviso mi accorsi di non essere arrabbiato solo con me stesso, ma anche con lui.
Papà non mi forzò a parlarne. Sembrava essere una persona completamente diversa da quella con cui ero cresciuto. Non mi stava assillando e non c’era commiserazione nel suo sguardo. Invece ascoltava.
“Sei preoccupato per lui?” Chiese. “È un ragazzo in gamba, sono sicuro che sappia quello che fa.”
Mi strinsi nelle spalle, non ero davvero preoccupato ma per qualche motivo non mi sentivo nemmeno tranquillo.
Marco era il ragazzo più capace che avessi mai conosciuto, ero certo che fosse in grado di gestire qualsiasi situazione. Ma le parole di Ferro mi rimbombavano ancora nella testa e quel pazzo era riuscito a fuggire da un’intera squadra. Non sarei mai stato tranquillo finché non fosse stato dietro le sbarre.
Quando l’auto venne a prendere papà, stava cominciando a imbrunire. Anche se il nostro rapporto sembrava essere migliorato un po’, non potei nascondere a me stesso di essere sollevato quando ci salutammo.
Una volta solo mi rimasero due scelte, buttarmi sul divano e rimuginare o mettermi a studiare. A pensarci bene, però, non potevo lasciare che quello che stava succedendo influenzasse la mia vita e si stava avvicinando un altro esame, dovevo assolutamente studiare. Prima però avevo bisogno di alcuni libri, così infilai in tasca le chiavi e uscii di casa senza pensarci.
La biblioteca era solo a due fermate in direzione del centro. Dall’altro lato dei binari c’era la ressa del rientro dopo il lavoro, e mentre aspettavo ringraziai il cielo in silenzio per non essere là in mezzo. Il mio vagone invece era quasi vuoto, c’erano solo una coppia di anziani, carichi di buste con i regali, e una ragazzina con i capelli rosa e le cuffie infilate nelle orecchie. Anche se il viaggio sarebbe durato meno di cinque minuti mi sistemai comunque su uno dei sedili vuoti. L’ultimo ritardatario si infilò tra le porte scorrevoli quando si stavano già chiudendo. Aveva il cappuccio tirato sopra la testa, ma era evidente che avesse corso per riuscire a salire in tempo. Anche se indossava una felpa di due taglie più grande che non lasciava intravedere bene il suo fisico, il ritardatario aveva inequivocabilmente le spalle molto larghe ed era alto. Mi irrigidii quando si avvicinò nella mia direzione nonostante gli altri posti fossero tutti liberi.
“Non fare stupidaggini.” Disse con noncuranza sedendosi proprio accanto a me. “Non vorrai rovinare le feste ai nipotini di quei due simpatici vecchietti, vero?”
Mi poggiò un braccio sopra la spalla come se fossimo due amici che si erano incontrati sulla metro. L’anziana seduta di fronte a noi ci rivolse un sorriso gentile e io mi sforzai di rispondere. Da sopra la giacca, sentivo la pressione del coltello nascosto che Ferro mi puntava contro il fianco.
“Scendiamo a questa fermata.” Mi sussurrò all’orecchio, mentre il convoglio iniziava già a rallentare.
Sulla banchina c’era solo una donna con il passeggino scesa da un altro vagone che si stava già affrettando verso l’uscita. Per un attimo pensai di divincolarmi e gridare aiuto, ma il peso del suo braccio sulle spalle e la pressione accentuata del coltello sul fianco mi dissuasero subito.
“Andiamo in un posto più tranquillo,” bisbigliò avvicinandosi fino a poggiare le labbra gelide sul mio orecchio. “Solo io e te.”
Non gli avevo rivolto nemmeno una parola da quando si era fatto riconoscere sulla metro, i pensieri mi vorticavano in testa senza sosta. Avevo il braccio destro bloccato tra di noi, però il sinistro era libero. Strinsi il pugno dentro la tasca del giubbotto e d’un tratto la mia mano sfiorò qualcosa di freddo.
Arrivati davanti alla scala mobile presi un respiro profondo. Sfilai la mano dalla tasca e caricai il pugno con tutta la forza che avevo. Ferro si irrigidì appena, sembrava quasi divertito che alla fine avessi deciso di opporre resistenza e non provò nemmeno a schivare. In ogni caso, non avevo nessuna possibilità di metterlo in difficoltà con un singolo pugno, per di più di sinistro. Quando si accorse dello scintillio metallico tra le mie dita era troppo tardi. Puntai dritto agli occhi, avevo solo un colpo e non potevo rischiare di fallire.
“Bastardo!” Urlò Ferro coprendosi il viso con la mano. “Che cazzo hai fatto?”
Il suo coltello era finito a terra, ma non pensai nemmeno per un attimo di raccoglierlo. Invece approfittai di quel momento per liberarmi con uno strattone e corsi su per la scala mobile tre gradini per volta. Ferro era rimasto piegato su sé stesso alla base delle scale e continuava a imprecare coprendosi il volto con le mani. Le chiavi incastrate tra le mie dita erano intrise di sangue. Appena arrivato in cima alle scale, al sicuro, rimasi solo per un secondo a guardarlo prima di chiamare aiuto.
Un paramedico mi aveva messo una coperta sulle spalle. Stavo ancora tremando quando erano arrivati i soccorsi, ma non per il freddo. Era accaduto tutto talmente in fretta che il vero terrore mi aveva raggiunto solo quando era già finita.
“Claudio!?” Quasi gridai quando riconobbi il compagno di Marco tra gli agenti che erano intervenuti per primi. Allora c’era anche lui?
Erano servite tre guardie giurate della stazione e poi diversi poliziotti per trattenere Ferro, la ferita che gli avevo inferto vicino all’occhio sanguinava copiosamente ma era solo superficiale, e passata la sorpresa aveva tentato di fuggire nuovamente lottando come una belva inferocita.
“Riesci a dirmi cosa è successo?” Mi chiese Claudio. Dal suo tono sembrava quasi che si sentisse in colpa per qualche motivo.
Annuii e gli fornii la mia versione dei fatti, senza omettere nulla. “Lui dov’è?” Gli chiesi alla fine, senza riuscire più a trattenermi.
Non c’era nemmeno bisogno di specificare a chi mi stessi riferendo. Claudio sì guardò intorno nervosamente prima di rispondere.
“È un casino.” Cedette alla fine. “Ai piani alti sono impazziti dopo quello che ti è successo, e anche Marco è uscito fuori di testa. Non mangia e non dorme da ieri, si è gettato a testa bassa nelle ricerche del pazzoide che ti ha ferito. Poi dal nulla è spuntata una pista e gli è stato ordinato di concentrare le ricerche sul lungomare.” Disse tutto d’un fiato.
“Comunque è stato lui a chiedermi di restare vicino a casa vostra con una pattuglia nel caso si fosse trattato di un vicolo cieco…”
Dalle sue parole potevo capire quanto tenesse a lui. Che erano amici oltre che colleghi. Cercai di mantenere un’espressione neutra per non far trasparire tutte le emozioni che mi attraversavano in quel momento. “Poteva farsi sentire.”
“Non arrabbiarti con lui. Te l’ho detto, è davvero andato fuori di testa.” Disse Claudio sulla difensiva. “Posso assicurarti che da quando sei entrato nella sua vita Marco è una persona diversa, con te finalmente è felice...”
Quella rivelazione mi lasciò stordito. Marco era davvero felice di avermi conosciuto? Dopotutto, gli avevo causato solo problemi. Eppure, Claudio lo disse con una tale convinzione che era difficile non credergli. Il cuore mi batteva nel petto all’impazzata. Quanto potevo essere egocentrico per preoccuparmi solo che non avesse trovato il tempo di venire a trovarmi nel bel mezzo di un’emergenza? Come potevo essere arrabbiato con lui quando in realtà volevo soltanto riabbracciarlo.
Claudio stava ancora parlando quando Marco mi corse incontro.
“Sei ferito?” Chiese preoccupato, stringendomi a sé.
“Sto bene… sono contento di vederti.” Gli dissi, un po’ più duramente di quanto avessi voluto.
Il mio tono lo lasciò disorientato per qualche istante. “Io…” Sembrava indeciso su come continuare. “Non so cosa avrei fatto se ti fosse successo qualcosa.”
“Sto bene, davvero. Nemmeno un graffio, vedi?” Aggiustai il tiro, cercando di sembrare più tranquillo e mi tirai indietro quel poco che bastava per dimostrargli che ero tutto intero.
Comunque, lui non mi lasciò andare nemmeno per un secondo.
“Andiamo a casa.” Lo supplicai quando sembrò convincersi che stavo dicendo la verità.
Marco mi rivolse un altro sguardo preoccupato, poi si voltò in direzione dell’ambulanza.
“Niente ospedale!” Lo bloccai prima ancora che avesse la possibilità di proporlo.
“Ho anche già rilasciato una dichiarazione preliminare, giusto?” Mi rivolsi al povero Claudio che era rimasto lì a guardarci spaesato per tutto il tempo. “Possiamo andare, vero?”
Il mio sguardo supplichevole dovette impietosirlo. “Si, si. Nei prossimi giorni se necessario verrai convocato…”
“Grazie!” Gridai, trascinando via Marco prima che potesse cambiare idea. “Grazie di tutto!”
“Tu non fare stupidaggini.” Lo pregai mentre passeggiavamo verso casa. Quella sera non mi andava di riprendere la metro e comunque un po’ d’aria fresca sarebbe servita a entrambi per schiarirci le idee.
Marco sorrise con freddezza. “Non preoccuparti, non ho intenzione di andare a trovarlo nella sua cella.” Mormorò con un basso ringhio che mi fece rabbrividire. Era ancora arrabbiato. “Dopo quello che ha fatto, e con i suoi precedenti, sarà troppo vecchio per far male anche a una mosca quando uscirà di prigione.”
Sospirai di sollievo sentendo le sue parole. Forse era davvero finita stavolta.
“Per quanto riguarda te, invece,” proseguì Marco con un tono severo. “Ti avevo avvertito su cosa sarebbe capitato se mi avessi fatto preoccupare di nuovo in questo modo!”
Mi voltai a guardarlo sorpreso, il suo sguardo era assolutamente serio.
Il getto di acqua calda mi aiutò a rilassare i muscoli tesi e rimasi sotto la doccia molto più del dovuto. Per tutto il tempo ripensai alla giornata appena trascorsa e per un lungo momento rimasi appoggiato alla parete, sentendomi esausto. Poi mi rimproverai, dopotutto non avevo fatto nulla di male. Anche se avevo ferito una persona era stato solo per difendermi, e comunque non dovevo più pensare a Ferro. Ormai era tutto finito.
Chiusi l’acqua e uscii dalla doccia in una nuvola di vapore. Mentre percorrevo il corridoio sentii Marco armeggiare nella sua stanza. La porta era aperta e lo vidi di spalle intento a sfilarsi i pantaloni della divisa. Il respiro mi si bloccò in gola e il mio cazzo pulsò sotto l’asciugamano che avevo stretto intorno ai fianchi. Come poteva una persona essere così dolorosamente attraente? Quella sensazione di dovermi trattenere per non saltargli addosso era completamente nuova per me.
“Hai intenzione di rimanere lì tutta la sera?” Domandò Marco all’improvviso, costringendomi a tornare in me.
Non si era nemmeno girato, ma in qualche modo doveva essersi accorto che lo stavo fissando, non sapevo neanche io per quanto tempo ero rimasto li impalato. Intanto lui si era liberato dei pantaloni e quando si voltò verso di me l’espressione sul suo viso era piuttosto eloquente, se mai la stoffa delle sue mutande messa a dura prova non lo fosse stata abbastanza.
D’un tratto, mi accorsi che stavo di nuovo tremando.
“Hai paura?” Mi chiese.
Scossi la testa, in quel momento avrei fatto qualsiasi cosa per lui.
Marco mi rivolse un sorrisetto ambiguo. “Be’, dovresti…”
Aprii la bocca per rispondere ma non me ne diede l’occasione.
“Inginocchiati.” Ordinò subito dopo.
Stavo sognando, vero? Avrei dovuto darmi un pizzico per esserne sicuro. In ogni caso le mie gambe reagirono da sole e mi ritrovai davvero in ginocchio.
Nel frattempo, Marco aveva infilato le dita sotto l’elastico della sua biancheria intima e un attimo dopo liberò il mostro imprigionato all’interno. Sulla punta luccicava già una minuscola goccia trasparente.
Si avvicinò minacciosamente facendo oscillare l’asta fino a pochi centimetri dalle mie labbra. Poi si chinò e mi afferrò il mento, costringendomi a distogliere lo sguardo dal suo enorme cazzo e guardarlo negli occhi. “Stai attento ai denti.” Disse soltanto.
Ero pietrificato, in realtà, quel suo repentino cambio di personalità un po’ mi spaventava e deglutii rumorosamente a vuoto prima di annuire.
Appena aprii la bocca, spinse il suo cazzo tra le mie labbra, senza preavviso. Semplicemente abbrancò la mia testa tra le mani e si fece largo riempendomi fino all’ingresso della gola. Quando capii che non si sarebbe accontentato di farselo succhiare gli afferrai le cosce per spingerlo indietro ma era come premere contro la solida roccia.
Si spinse in profondità nella mia gola, facendomi soffocare. Non mi aspettavo un’invasione tanto repentina e brutale e fui scosso da una serie di conati violenti.
“Ti conviene iniziare a respirare con il naso, perché non ho nessuna intenzione di fermarmi.”
Lo disse con cattiveria, e senza nemmeno lasciarmi il tempo di adattarmi prese a muoversi dentro e fuori dalla mia gola contusa, spingendo come un animale. Le sue palle oscillavano fino a colpirmi il mento ogni volta che affondava tra le mie labbra.
“Cazzo, mi fai impazzire!” Ansimò sprofondando nella mia gola senza alcuna gentilezza, mi stava usando come un bambolotto.
Nonostante tutto però ero certo di una cosa, ero eccitato come non mai e volevo disperatamente toccarmi. Quando provai ad afferrare il mio cazzo schiacciato sotto l’asciugamano Marco allontanò la mano con un piede.
Attraverso le lacrime lo vidi sorridere soddisfatto, e rapidamente come era entrato sfilò l’asta dalle mie labbra. Nel giro di qualche secondo ero sul letto completamente nudo, e Marco era sopra di me.
“Ti sono mancato?” Mi chiese allineando il suo cazzone al mio ingresso posteriore.
Si fece largo senza preliminari, fissandomi negli occhi. Fortunatamente l’asta era impregnata della mia saliva, perché non si preoccupò di utilizzare lubrificante.
Sussultai per l’inevitabile dolore.
“Questo ti è mancato?” Ringhiò spingendosi più in fondo, il peso del suo corpo mi stava già schiacciando.
Potevo solo gemere in risposta. Era come la prima volta, a un tratto si era trasformato in una persona completamente diversa.
Squassato dalle sue bordate violente, avrei dovuto chiedergli di calmarsi, dirgli che mi stava facendo male, di fare più piano, invece, mi aggrappai alle sue spalle e lo tirai verso di me. Era normale non volere che tutto questo finisse? Quel pensiero fugace attraversò la mia mente mentre mi impossessavo delle sue labbra. Baciando, succhiando e mordendo ogni centimetro del suo viso che fosse alla mia portata.
La mia reazione sembrò eccitarlo, e i suoi respiri si fecero più pesanti e veloci. Per un secondo pensai che stesse per venire, invece tirò fuori il suo cazzo. “Non ancora.” Ansimò, asciugandosi il sudore dal petto.
Non avevo mai visto niente di più eccitante del suo viso arrossato per la foga e del suo corpo lucido di sudore che torreggiava su di me.
“Questa volta non te la caverai così facilmente.” Ringhiò minaccioso, a denti stretti. Poi mi costrinse a sollevare lo sguardo, afferrandomi per i capelli e mi sputò in faccia.
Mio malgrado, mi ritrovai a piagnucolare pietosamente. Non per l’umiliazione di quel gesto o il bruciore della brutale penetrazione che avevo appena subìto, ma per il senso di vuoto che aveva lasciato tirandosi indietro. Quella rivelazione mi scosse nel profondo.
Marco però non mi lasciò il tempo di riflettere su me stesso. Mi fece girare a pancia sotto e mi sollevò i fianchi per esporre il mio buco arrossato. Ci sputò sopra una volta, e appoggiò la punta del suo cazzo all’ingresso bagnato.
Mi preparai per un'altra invasione brutale, invece questa volta scivolò dentro lentamente, ma fino in fondo e senza fermarsi. Mi contorsi sotto di lui, appena iniziò a muoversi piano avanti e indietro.
Avevo difficoltà a concentrarmi, tutto il mio mondo si era ridotto al cazzo che avevo nel culo. All’improvviso volevo compiacerlo e provai a stringere mentre faceva scivolare fuori l’asta quasi per intero.
Un lampo di dolore mi attraversò il cervello e nello stesso momento Marco gemette a voce alta.
“Fallo ancora!” Ansimò, chinandosi su di me e abbracciandomi da dietro.
Non volevo assolutamente rifarlo, faceva troppo male.
“Fallo ancora!” Ordinò spingendo con forza ogni centimetro del suo cazzo in fondo alle mie viscere.
Sgranai gli occhi e scossi la testa piagnucolando. “Fa male!” Gemetti lamentoso.
“Fallo! Ancora!” Ripeté, sottolineando ogni parola con una spinta più potente della precedente. Ogni volta che entrava così in profondità una scossa mi attraversava la spina dorsale fino alla base del collo, lasciandomi senza fiato. Faceva male, si, e tanto, ma c’era anche qualcos’altro che mi faceva desiderare soltanto che non si fermasse mai.
“No!” Sibilai a denti stretti, solo per infastidirlo.
Come previsto, Marco espirò rumorosamente, e aumentò sia il ritmo che l’intensità delle bordate. Iniziò a far uscire quasi completamente il suo cazzone per rituffarsi subito dentro con violenza, senza lasciare al mio corpo il tempo di adattarsi.
Riuscivo a stento a trattenermi dal gridare ad ogni affondo. Era diventata quasi una lotta, e non so per quale motivo ma non volevo dargli la soddisfazione di arrendermi a lui troppo in fretta. Serrai i denti, testardo, almeno finché non mi strinse più forte a sé e le sue dita ruvide sfiorarono i miei capezzoli.
Gemetti all’istante, irrigidendo involontariamente ogni singolo muscolo.
Alla fine, fu il mio stesso corpo a tradirmi, e appena anche lui se ne accorse ne approfittò senza pietà. “Sei finito!” Gongolò divertito al mio orecchio, e afferrò un capezzolo tra il pollice e l’indice iniziando a torcerlo rudemente mentre spingeva.
Sospeso tra il dolore e il piacere, presto mi resi conto che resistergli sarebbe stato del tutto inutile. “Aspetta.” Lo supplicai. “Rallenta, così mi fai male...” Mi sembrava di essere diviso a metà ogni volta che il suo cazzo sprofondava dentro di me fino alle palle.
“No!” Ridacchiò bisbigliando al mio orecchio e mi strinse ancora più forte a sé, senza accennare a darmi tregua.
Mi sembrava di morire. Mentre mi scopava le mani di Marco vagavano sul mio petto, sul collo e sullo stomaco, accarezzando, spremendo e strizzando ogni centimetro della mia pelle. Il calore che sentivo nel ventre stava diventando sempre più intenso, espandendosi verso le palle e il mio cazzo duro come la roccia. Se solo mi avesse permesso di toccarmi sarei esploso in meno di un secondo.
“Ci siamo quasi.” Ansimò.
Avvertivo il suo cazzo pulsare dentro di me. Ogni spinta mi causava ripetute scariche di dolore e piacere inestricabilmente intrecciati insieme, avvicinandomi sempre di più al limite. “Non ce la faccio più…” Provai ad avvertirlo senza fiato.
Non sapevo nemmeno se mi avesse sentito fino a che le sue dita non strinsero il mio cazzo. “Ecco, adesso!” Grugnì assestando una serie di bordate feroci e allo stesso tempo iniziò a masturbarmi.
“Oh, cazzo!” Gridai. L’orgasmo fu devastante. Schizzai uno scoppio dopo l’altro al ritmo imposto dalla sua mano, non sapevo di poter venire così tanto. Anche Marco ululò nello stesso momento, e sentii il suo cazzo contrarsi ripetutamente mentre mi riempiva schizzo dopo schizzo.
Mi sentivo debole, mi faceva male ogni singolo muscolo del corpo e mi ci volle ogni briciolo di energia per riuscire a girarmi sotto di lui.
“Credo di amarti.” Sospirai con il cuore che mi rimbombava nel petto, quando la nebbia dell’orgasmo iniziò lentamente a disperdersi.
L’avevo davvero detto ad alta voce? Quando me ne resi conto arrossii fino alla radice dei capelli.
Restammo a fissarci per un lunghissimo istante, poi il suo viso si illuminò e mi sorrise. “Ti amo anche io.” Sospirò guardandomi dritto negli occhi, un attimo prima di baciarmi.
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raccontidiragazzi · 2 years
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Continua la storia del poliziotto e Leo? :)
Yep, proprio adesso :P
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raccontidiragazzi · 2 years
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Questo sono io - Ho rovinato tutto
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Viaggiavamo da giorni, ero stanco e avevo un terribile mal di testa. Era già notte fonda quando finalmente arrivammo in albergo. Per fortuna, quella stanza aveva il bagno in camera.
Il servizio era subito a sinistra dell’ingresso e Giulio ci si fiondò dentro con tutta la valigia. “Primo a fare la doccia!” Gridò, chiudendosi dentro.
Di fronte alla porta del bagno c’era un armadio a muro con le ante a specchio, Fabio non ci fece neppure caso e gettò la sua valigia ai piedi del letto matrimoniale, poi si lanciò sulla trapunta ancora con le scarpe. Si prese il lato vicino alla finestra, incrociò le braccia dietro la testa e mi guardò con la solita aria di sfida.
Grazie al cielo, sopra al letto matrimoniale c’era un lettino singolo incassato nel muro. Non ci pensai due volte prima di levarmi le scarpe e arrampicarmi su per la scaletta, lassù almeno non avrei incontrato il suo sguardo in ogni momento.
Giulio uscì dal bagno in una nuvola di vapore e Fabio prese il suo posto, senza preoccuparsi di chiudere la porta.
“Bastardi, perché non mi avete aspettato per decidere i posti?” Si lamentò Giulio, lanciando il suo borsone sul pavimento.
Dalla mia posizione godevo di una discreta riservatezza, e potevo osservare indisturbato quasi tutta la camera. Dopo aver svuotato la borsa continuando a borbottare tra sé, Giulio si sdraiò dalla sua parte del letto, sopra le coperte. Lo vedevo solo dal petto in giù, e lui non poteva vedere me, indossava un paio di pantaloncini e una vecchia maglietta a maniche corte, ed era a piedi nudi. Aveva già molti peli scuri sulle gambe, molti più di me in ogni caso. Si aggiustò il pacco con noncuranza, poi prese il telecomando e iniziò a scorrere velocemente i canali.
Quando Fabio chiuse l’acqua della doccia, però, tutta la mia attenzione si concentrò sullo specchio di fronte alla porta del bagno. Il vetro era appannato. Avrei voluto essere più determinato, ma non c’era modo che riuscissi a distogliere lo sguardo da quelle immagini sfocate. Scorsi la sua sagoma mentre usciva dalla doccia, lo vidi chinarsi, e per un attimo il suo sedere muscoloso occupò tutti i miei pensieri. A quel punto chiusi gli occhi, inspirando ferocemente.
Quando riuscii a calmarmi e li riaprii, Fabio era già uscito dal bagno. Indossava solo le mutande e si era fermato davanti allo specchio. Mi dava le spalle, ma aveva ripulito il vetro all’altezza del viso e i suoi occhi incontrarono i miei attraverso il riflesso. Mi sentii sprofondare. Raccolsi velocemente le mie cose e quando gli passai accanto lui mi rivolse un sorrisetto beffardo. Sapeva che lo stavo spiando. Probabilmente lo aveva fatto apposta, altrimenti perché lasciare la porta aperta? E io ci ero cascato come uno stupido.
Quando terminai di fare la doccia, Giulio aveva trovato un canale che trasmetteva porno e non mi prestarono la minima attenzione mentre tornavo a letto.
Mi infilai sotto le coperte e affondai la testa nel cuscino. Non ero interessato alle ragazze che ansimavano sullo schermo, e non avevo nemmeno il coraggio di sbirciare nel letto di sotto. In quel momento avrei voluto soltanto sparire.
Il mal di testa non mi lasciava in pace e non sarei riuscito a tenerla per tutto il viaggio. Nel bagno della stazione di servizio c’era solo un lungo orinatoio a muro che occupava tutta la parete di fondo. Avevo sempre odiato gli orinatoi. Per fortuna non c’era nessuno.
Mi sbottonai velocemente i pantaloni e presi la mira, concentrato sul mosaico di mattonelle blu e azzurre davanti a me. Avevo appena iniziato ad alleviare la pressione quando sentii la porta sbattere alle mie spalle, mi irrigidii ma non potevo più fermarmi. Il nuovo arrivato si fermò proprio accanto a me, c’era un sacco di spazio libero, eppure si era messo al mio fianco. Mi sforzai di non guardare nella sua direzione, era talmente vicino che riuscii a sentire il rumore della lampo mentre la tirava giù. Doveva averla tenuta a lungo anche lui, sembrava un fiume in piena.
Appena finito di pisciare me lo richiusi dentro i pantaloni il più rapidamente possibile.
“Se vuoi puoi guardare.” Disse con noncuranza la persona accanto a me. “È tutto il viaggio che mi mangi con gli occhi, approfittane.”
Diventai rosso e mi voltai in direzione di quella voce familiare, attento a non abbassare lo sguardo. Quello che trovai fu l’espressione di scherno impressa sul profilo scolpito nel marmo di Fabio.
Era così vicino che non riuscivo a pensare in modo lucido. Non si era nemmeno girato, continuava a guardare di fronte a sé e il ghigno sul suo viso non faceva altro che allargarsi. Sollevò un sopracciglio e sembrò che mi stesse davvero sfidando a dare un’occhiata al suo cazzo. Ero paralizzato.
Diceva sul serio? Non potei fare a meno di chiedermelo e maledissi me stesso per la mia debolezza. Lui non sembrava avere alcuna fretta di rimetterselo nei pantaloni.
Per fortuna, qualcun altro decise di usare il bagno e io ricomposi velocemente la mia espressione, approfittandone per scappare via. Ero certo di averlo sentito ridere mentre mi allontanavo a grandi passi verso l’uscita, senza voltarmi indietro.
Fuori dalla porta mi ritrovai nel corridoio della mia vecchia scuola. Ero spaesato e muovermi stava diventando sempre più difficile. Giulio stava ridendo a crepapelle, accanto a lui, Fabio mimava una sega con la mano e gemeva ad alta voce.
“Ti prego, fammelo vedere! È così grosso, posso toccarlo?” Gracchiava Fabio in falsetto.
Perché aveva mentito? Perché tutto questo stava succedendo di nuovo?
Quando incontrai i suoi occhi lo sguardo che mi rivolse era freddo.
Adesso tutti stavano ridendo di me, bisbigliando tra loro. Anche i professori mi guardavano con pietà.
La cosa peggiore però era la delusione nello sguardo di mio padre prima che mi voltasse le spalle.
“Papà… no, no, non andare via!” Gridai, volevo raggiungerlo ma non riuscivo a muovermi. “Mi dispiace!”
“Sei uno stupido, Leo.”
Quella voce. Marco? Cosa ci faceva nella mia vecchia scuola? Mi stava scoppiando la testa. Aveva sentito tutto anche lui?
“Sei solo un ragazzino viziato e immaturo, non vale la pena perdere ancora tempo con te!” Disse con disprezzo, la sua voce arrivava da ogni direzione.
No. No. No. “Non è come pensi… aspetta!” Gridai, ma non c’era più nessuno. Ero rimasto solo e stavo sprofondando, la testa mi faceva sempre più male. Un peso sul petto mi spingeva sempre più in basso e non avevo la forza per tirarmi fuori.
“Sta delirando. L’hai colpito troppo forte, idiota!”
“Che cazzo stai dicendo? Chi sarebbe l’idiota?”
“Sta zitto! Si sta svegliando…”
Era buio e stavo gelando, il cuore mi rimbombava nelle orecchie e le immagini di quei ricordi dolorosi mi turbinavano ancora nella mente. Non riuscivo a distinguere passato e presente.
Provai a portarmi le mani alla testa per alleviare il dolore, ma mi accorsi di avere le gambe e le braccia legate.
“Buongiorno, bello addormentato.”
Sobbalzai quando mi resi conto che c’era qualcuno accanto a me. Aveva la voce impastata, come se fosse ubriaco.
“Levati!” Gli intimò qualcun altro, alle sue spalle.
“Che cazzo ci facevi nella nostra zona?” Mi gridò in faccia il secondo arrivato.
Di cosa stavano parlando? Volevano rapinarmi? “Ho dei soldi nella giacca…”
“Non ce ne facciamo un cazzo dei tuoi soldi, sbirro di merda!” Sbottò il ragazzo che sembrava ubriaco.
Rimasi ammutolito. Perché pensavano che fossi… un poliziotto. All’improvviso, l’immagine di un viso lampeggiò tra i miei ricordi. Era il ragazzo che stava creando problemi nel negozio vicino a casa. Quella era la sua voce. Allora era stato lui a portarmi lì? “Io non sono un…”
“Andate a fare un giro.” Disse una terza voce, più lontana, interrompendoci.
Quanti erano? Cosa stava succedendo?
“Ma-” Provò a protestare l’ubriaco.
“Ho detto, fuori.” Il terzo non alzò nemmeno la voce, ma c’era qualcosa nel suo tono e gli altri due ragazzi scapparono via senza aggiungere altro.
“Leonardo Valeri.” Disse quando gli altri due uscirono sbattendo la porta. “Posso chiamarti Leonardo?”
Conosceva il mio nome? Dal modo in cui gli altri due avevano reagito, doveva essere lui a comandare tra loro. Una serie di domande si fecero strada nella foschia che mi annebbiava il cervello. Perché pensavano che fossi un poliziotto? Non volevano soldi, ma allora perché mi avevano rapito e poi legato al buio? All’improvviso, un pensiero agghiacciante mi fece irrigidire. Si trattava di un sequestro?
“Chi siete? Cosa… cosa volete?” Chiesi agitato.
“Non temere.” Il nuovo arrivato iniziò ad avvicinarsi con calma. “Ho letto il nome sulla tessera dell’università che avevi in tasca. Io sono Ferro, è un vero piacere conoscerti.”
Dovevo trovare il modo di andarmene il più presto possibile, il suo tono forzatamente misurato mi metteva i brividi. “Sono sicuro che ci sia stato un errore, è vero, sono solo uno studente, se mi lasci andare non sporgerò nemmeno denuncia, è stato solo un malinteso…”
“Non credo.” Mi interruppe di nuovo.
Si fermò a pochi passi da me, restando in ombra dal petto in su. Non riuscivo a distinguere i particolari del suo viso, ma potevo dire che era alto. Più di me, forse anche più di Marco, e altrettanto ben piazzato. Indossava scarpe da ginnastica bianche, lucidissime e dall’aspetto costoso. I pantaloni della tuta e una maglietta bianca a maniche corte, nonostante la temperatura fosse proibitiva. La maglia gli fasciava i solidi muscoli del petto e delle braccia come una seconda pelle.
Doveva aver letto la confusione sul mio viso e per un momento mi sembrò di sentirlo ridacchiare. “Mio bel Leonardo, non essere sciocco, puoi comunque essermi molto utile.”
Merda, cosa intendeva? Sapeva di mio padre? Allora era davvero un sequestro. I pensieri si affollavano nella mia testa, dovevo andarmene subito. “Io non…”
“Voglio sapere del ragazzo del parco.” Disse all’improvviso. “Marco.”
Quel nome mi lasciò sbalordito e mi immobilizzai, senza parole. Come faceva a sapere anche di Marco? Avevo pronunciato il suo nome mentre ero svenuto? Fu come se mi avesse colpito un fulmine. Nello stesso momento il mio carceriere fece un passo avanti, uscendo dall’ombra. Aveva un bel viso e mi stava sorridendo, ma il suo sorriso non era vero. Il suo sguardo vuoto mi fece rabbrividire fino alle ossa.
“No.” Risposi troppo in fretta. “Non so di cosa parli… quale parco?”
All’improvviso realizzai che quelli erano i ragazzi che avevo intenzione di affrontare al parco giochi abbandonato. Sapevo che mi avevano visto e avevano anche assistito alla scenata con Marco. Poi dovevano averci seguiti fino a casa.
“Lui e quell’altro sono poliziotti.” Disse Ferro, interrompendo il filo dei miei pensieri. Non me lo stava chiedendo. “Ne ho sentito la puzza.”
Parlava come se discutessimo del tempo e la sua calma mi terrorizzava.
“L’unica cosa che non capisco è cosa ci facessi tu laggiù, così lontano da casa.” Il suo sguardo si illuminò solo per un secondo. “Adesso però sei qui con me, quindi dimmi…”
Merda! Dovevo stare attento e pensare in fretta, poteva finire molto male. Se c’era una cosa che avevo capito di quel ragazzo ambiguo era che non aveva scrupoli. “Hai ragione, sono venuto al parco giochi. Volevo comprare della droga.”
Era una scusa che avevo già usato, ma non avevo tempo di inventarne una migliore in quella situazione. Comunque, che altro motivo potevo avere di andare lì per quello che ne sapeva?
“Quei due… sbirri, mi hanno fermato e fatto una ramanzina. Poi mi hanno riaccompagnato a casa…” Gli spiegai, cercando di sembrare convincente. Dopotutto, quella parte era vera.
Ferro strinse gli occhi, inchiodandomi con lo sguardo. “Non sei un tossico.”
“Era la prima volta…” Provai ad aggiustare il tiro.
“Non… mentirmi!” Mi interruppe di nuovo, alzando leggermente la voce.
Non volevo farlo arrabbiare, ero certo che non ne sarei uscito vivo se avessi continuato a sfidare la sua pazienza.
Lui però non sembrava avere intenzione di interrompere quel gioco, almeno per il momento.
“Dimmi, Leonardo.” Non staccava un attimo gli occhi dai miei. “Marco verrà a cercarti?”
Cosa voleva davvero questo tizio? Sotto la pressione del suo sguardo mi sentivo come un topolino in trappola. Non sapevo mentire e non potevo nemmeno dire la verità. Rischiavo di andare in confusione.
D’un tratto l’attenzione del mio rapitore sembrava essersi spostata. Non mi stava più guardando, era immerso in qualche sorta di fantasia che lo faceva sorridere.
Ormai ero sicuro che fosse una specie di psicopatico. “Io… no, no. Perché dovrebbe venire a cercarmi? Mi hanno solo riaccompagnato a casa…”
Provai nuovamente a fare forza contro la spessa corda che mi teneva legati i polsi dietro la schiena. Inutilmente.
“Te l’ho già detto, non mentirmi!” Mi ringhiò in faccia, avvicinandosi con uno scatto fulmineo. Un coltello era comparso nella sua mano a solo pochi centimetri dal mio viso.
Mi voltai d’istinto, credendo che volesse colpirmi, invece mi accarezzò la guancia e il collo con il metallo freddo, senza ferirmi.
“Ho visto come ti guardava, la preoccupazione nel suo sguardo e il modo in cui ha fissato me.” Il suo tono si fece più duro per qualche istante. “Non avrebbe dovuto sfidarmi in quel modo, nel mio territorio.”
Possibile che non fossi davvero io il suo obbiettivo?
“Non ti serve quello stupido poliziotto.” Non so perché, ma quella rivelazione mi diede un po’ di intraprendenza e parlai con voce stranamente ferma, guardandolo dritto negli occhi. “Posso darti tutto quello che vuoi…”
I suoi occhi di ghiaccio mi studiarono, con curiosità. “Tu non puoi darmi quello che voglio, ma quando avrò finito con lui, forse mi divertirò anche con te, in altri modi.”
Non risposi. Tutto il mio coraggio era già evaporato. Nel giro di un secondo, la malignità con cui aveva pronunciato quelle parole distrusse ogni mia speranza di uscirne indenne, e senza coinvolgere nessun’altro. Era tutta colpa mia, se non fossi stato così stupido da andare in quel parco non sarebbe successo nulla.
“Leonardo, mio caro Leonardo.” Disse Ferro, di nuovo cordiale. “Quasi mi dispiace dover rovinare questo bel corpicino. Tuttavia, dovremo recapitare qualcosa di tuo al nostro amico per farlo arrivare qui in fretta, e con la giusta… disposizione d’animo.”
Fece ruotare agilmente la lama tra le dita, senza staccare un attimo gli occhi dai miei e senza mai smettere di sorridere. Mi divincolai con tutte le mie forze, anche se sapevo che era inutile. Adesso ero davvero terrorizzato.
Avvicinò lentamente il coltello al lato sinistro del mio viso, godendosi ogni secondo della mia paura. Non mi ero nemmeno accorto di aver trattenuto il respiro finché non iniziò a girarmi la testa.
Qualche istante prima di perdere i sensi, sentii la porta sbattere e gli altri due ragazzi corsero dentro con il fiatone. “Gli sbirri sono qui!” Esultò l’ubriaco, eccitato.
Il mio aguzzino raddrizzò la schiena sorpreso. “È già arrivato?”
“C’è un maledetto esercito qui fuori!” Gridò il più sveglio dei due. “Dobbiamo andarcene subito!”
Ferro mi guardò con una nuova luce negli occhi. “Chi sei tu?”
Non avevo nessuna intenzione di rispondere e gli altri due lo trascinarono via prima che potesse costringermi. Continuò a guardarsi indietro mentre correva via.
“Ci rivedremo, Leonardo.” Disse dileguandosi nel buio. La sua era senza ombra di dubbio una minaccia.
“Leo! Leo!”
Pochi secondi dopo sentii gridare il mio nome.
Ero ancora senza fiato. “Sono qui.” Provai a farmi sentire, ma era poco più di un sospiro. L’ultima occhiata che mi aveva rivolto Ferro era impressa a fuoco nella mia mente. Un odio primordiale.
“Leo! L’ho trovato!” Gridò Marco correndo verso di me. “Sei ferito?” Percepivo l’angoscia nella sua voce.
“Non mi ha nemmeno sfiorato, sto bene!” Volevo solo calmarlo.
“Stai sanguinando!”
Lo guardai sorpreso e in quel momento sentii la pelle bruciare sotto l’orecchio sinistro. “Oh, io…” Non me ne ero nemmeno accorto. “È solo un graffio.”
“È finita…” Disse Claudio, correndo verso di noi.
“Li avete presi?” Marco era furioso mentre tagliava le corde che mi tenevano ancora legato alla sedia.
“Ne abbiamo due in custodia, ma uno è riuscito a scappare.”
Era accaduto tutto come in un sogno. Solo quando mi fecero sedere sul retro dell’ambulanza iniziai davvero a rendermi conto del pericolo che avevo corso. Una dottoressa si avvicinò per controllare le mie condizioni e medicarmi la ferita sotto l’orecchio.
Marco e Claudio discutevano a voce alta fuori dall’ambulanza. Marco era ancora in preda alla furia e continuava a gridare contro il collega più giovane.
Avevo appena scoperto che erano passate solo poche ore da quando ero stato tramortito e portato via, le telecamere del palazzo avevano ripreso tutte le fasi del rapimento. Nel mio stato di semi coscienza mi era sembrato che fossero passati giorni.
“Non è niente, davvero, è solo un graffio. Non è necessario portarmi in ospedale.” Cercai di convincere la dottoressa. “Voglio solo tornare a casa.”
“Invece sì.” Marco aveva smesso di prendersela con Claudio e si era sporto dentro il vano dell’ambulanza. “Sta arrivando tuo padre, è già in viaggio e sarà in città al massimo entro un paio d’ore.”
Girai di scatto la testa nella sua direzione, sconvolto, e subito me ne pentii quando una fitta mi fece sobbalzare. “No! Perché l’hai fatto?”
Le cose non potevano andare peggio di così, la presenza di mio padre avrebbe solamente causato altri problemi.
Marco mi guardò sconsolato. “È stato il mio capo a chiamarlo, appena ha saputo che eri stato rapito.” C’era anche qualcos’altro nella sua voce. Sembrava preoccupato.
“Non è stata colpa tua.” Dissi d’impeto. “Non potevi prevedere qualcosa di simile. La responsabilità è solo mia.”
Marco abbassò lo sguardo e non disse nulla. Salì sull’ambulanza insieme a noi e chiuse il portellone. “Andiamo in ospedale.” Disse alla dottoressa. Poi sedette rigido accanto al mio lettino e rimase in silenzio, senza nemmeno guardarmi.
Volevo dire qualcosa, arrabbiarmi, insultarlo o abbracciarlo, supplicarlo, ma ero bloccato. Sentii le lacrime bagnarmi le guance e il cuore sprofondare dolorosamente nel petto.
Avevo rovinato tutto.
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raccontidiragazzi · 3 years
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Quando pubblichi il prossimo capitolo? Pubblichi solo qui o hai un altro blog? Non vedo l'ora di continuare a leggere le tue storie. Ormai ho letto quasi tutte quelle che hai pubblicato qui ☺️
L'idea è pubblicarne almeno uno a settimana, spero di riuscirci fino alla fine 🤩
Ho solo questo blog, però, ogni tanto, qualche storia la pubblico anche su altri siti di racconti erotici
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raccontidiragazzi · 3 years
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Molto belle le storie, e ovviamente eccitante. Sei un bravo scrittore :) perché la scelta del nome Simone Turner o Finn Tanner? Immagino sono pseudonimi.
Ciao, grazie, mi fa davvero piacere :P
Non c'è un motivo XD mi piace il nome Simone (pronuncia Simon), Finn Tanner è uno pseudonimo che usavo da piccolo nei GDR on line
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raccontidiragazzi · 3 years
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Questo sono io - Gira tutto intorno a me
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Quando Marco si fece strada dentro di me fu come un ferro rovente che mi dilaniava. Strinsi i pugni, impotente. I suoi occhi erano fissi sui miei, scuri come il mare in tempesta. Sapevo che stava facendo del suo meglio per trattenersi ma faceva comunque troppo male.
Riprovò a spingere con cautela. “Lasciami entrare, Leo. Rilassati.” Come facevo a rilassarmi? “Non posso, non ce la faccio…” Gli rivolsi uno sguardo implorante. “Leo, ascoltami.” Ordinò, enfatizzando il mio nome. Ma c’era anche qualcos’altro nel suo tono, quasi una supplica, e mio malgrado gli obbedii. “Lo so che fa male…” Piagnucolai, scuotendo la testa. Non sapeva proprio niente, voleva solo convincermi a fargli fare quello che voleva. “Piccolo, guardami. Guardami. Lo so che fa male, ma ti prometto che farò piano. Devi solo rilassarti, respira.” Ero sicuro che mi sarei messo a piangere da un momento all’altro. Qualcosa nella sua voce, però, stava iniziando a incrinare la mia determinazione. Mi concentrai sul respiro e per un attimo sembrò quasi funzionare. “Ti fidi di me?” Mi chiese con un tono seducente. Aggrottai le sopracciglia, dubbioso, dopotutto mi aveva legato al letto. Eppure, non so neanche perché, mi ritrovai ad annuire e all’improvviso mi sentii davvero un po’ più rilassato. “Così, piccolo.” Aveva di nuovo quella scintilla nello sguardo e senza avvertimento spinse. Spalancai gli occhi, in un attimo il suo cazzo era affondato dentro di me. Impiegai qualche istante per rendermene conto, poi cacciai un urlo da staccare la vernice dai muri. Marco rideva con le sue labbra incollate alle mie. “Scusa, scusa, scusa.” “Cazzo!” Ringhiai fra i denti. Che bastardo, mi aveva mentito! “Sono dentro.” Sospirò tenendomi stretto e baciandomi dolcemente. “Sono tutto dentro di te.” Bruciava da morire. D’istinto irrigidii ogni muscolo del corpo e cercai di ritrarmi per sfuggire al dolore. Lui però sembrava averlo previsto e mi strinse ancora più forte a sé. “Rilassati.” Sussurrò. “Rimarrò fermo per un po’, non preoccuparti.” Il suo abbraccio era serrato ma allo stesso tempo rassicurante, mi baciò con delicatezza sulle labbra. “Mi hai mentito!” Borbottai arrendendomi alle sue carezze, ancora dolorante. “Scusa.” Disse e per un momento sembrò quasi sincero. Poi però, senza aspettare oltre, tirò un poco indietro il suo cazzo e lo spinse di nuovo dentro. Piagnucolai ma non provai più a fuggire, possibile che quella sensazione fastidiosa di attrito potesse piacermi? Alla spinta successiva, contrassi i muscoli in modo involontario e fu il suo turno di gemere. Incoraggiato, Marco iniziò a far scivolare il suo cazzo dentro e fuori un po’ più velocemente, tirandosi ogni volta più indietro. Sentivo una sorta di calore crescere dentro di me e mi concentrai solo sui suoi occhi, le sue labbra e la pressione del suo corpo sul mio. “Ti piace?” “Fa male!” Brontolai, ancora arrabbiato con lui per avermi raggirato. Però, non potevo negare che fosse così, mi piaceva sentirlo muoversi dentro di me, le sue carezze, i suoi baci e il suo calore. “Si, ti piace!” Non me lo stava chiedendo. Il secondo successivo mi baciò di nuovo, mordendo e succhiando le mie labbra, ruvido, aggressivo, e anche le sue spinte si fecero sempre più profonde e brutali. Io ero sopraffatto, sovraccaricato da tutte quelle sensazioni mai provate mischiate insieme. Persino il dolore sordo che persisteva nel mio ventre stava diventando piacevole. Non sapevo nemmeno cosa mi eccitasse maggiormente, l’attrito del suo cazzo mentre scorreva dentro di me, la pressione, il suo odore o la sua sfrontatezza. Sapevo solo che avrei voluto che quel momento durasse in eterno. Subito dopo, però, Marco afferrò il mio cazzo e mi ritrovai a gemere ad alta voce. Mentre i nostri corpi sudati sfregavano uno sull’altro l’avevo più duro di quanto fossi mai stato in tutta la mia vita. Mi sembrava di essere stretto in una morsa, fra la terribile pressione del suo fallo impetuoso dentro di me e la stretta delle sue dita ruvide. Era davvero troppo per me, avevo la vista annebbiata per il piacere. Presto persi il controllo, inarcai la schiena e sentii le palle stringersi, travolto. “Oh! Cazzo!” Si lamentò anche lui nello stesso momento e mi strinse forte, affondando completamente dentro di me. Nel momento in cui ripresi conoscenza ero ancora stretto tra le sue braccia, con la
sua testa sepolta fra il collo e la spalla. Potevo sentire il nostro battito cardiaco accelerato rimbombare. Era ancora dentro di me, e quando provò a tirarsi indietro strinsi le gambe intorno alla sua vita, trattenendolo. “Aspetta…” Sollevò la testa e mi rivolse un mezzo sorriso appagato. “Che succede?” “Resta così ancora per un po’, ti prego.” Marco mi fissò ancora per qualche secondo, poi scrollò le spalle e mi strinse di nuovo a sé, senza dire nulla. Mi risvegliai disorientato, senza ricordare nemmeno dove fossi. Era già mattina e un po’ di luce filtrava nella stanza attraverso le persiane socchiuse. Ancora assonnato, distesi le braccia nel grande letto e le mie dita sfiorarono il corpo di qualcuno. Mi voltai sorpreso, Marco era addormentato accanto a me, pacifico, e i ricordi della scorsa notte si fecero strada nella mia memoria. Rimasi a fissarlo, meravigliato per quanto fosse bello, e approfittai di quel momento per imprimere l’immagine del suo viso nella mia mente. Lo stavo ancora studiando rapito quando mi sorprese a fissarlo. “Buongiorno.” Disse. Distolsi subito lo sguardo, fingendo di stiracchiarmi. Ero in imbarazzo. Marco sollevò un sopracciglio, poi mi sorrise e il mio cuore saltò un battito. “Bu… Buongiorno.” Riuscii a balbettare alla fine. Fece per avvicinarsi ma io mi ritrassi, dovevo assolutamente lavarmi i denti. Marco però mi tirò a sé prima che riuscissi a sfuggirgli e mi abbracciò stretto, accoccolandosi rilassato con la testa sul mio petto, senza fare nulla. Quando compresi che non aveva intenzione di spostarsi o lasciarmi andare, tornai lentamente a respirare e mi colse l’impulso irresistibile di infilare le dita tra i suoi capelli. “Come stai?” Mi chiese sollevando lo sguardo. Come stavo? A dirla tutta, mi faceva male ogni singolo muscolo del corpo, allo stesso tempo, però, era stato il risveglio migliore di sempre. “Stordito.” Dissi incapace di elaborare i miei pensieri. Marco irrigidì le spalle. “Perché eri così arrabbiato, ieri?” Impiegai qualche secondo per ricollegare tutti i punti. Avevo completamente rimosso gli eventi del giorno precedente. “Io… no, lascia perdere. Sono uno stupido-” “Non sei stupido.” Mi interruppe, senza sollevare la testa dal mio petto. Il suo viso era vicinissimo al mio. “Forse un po’ immaturo…” Rimasi interdetto, non mi aspettavo che mi facesse i complimenti, ma anche lui non si era comportato esattamente in modo esemplare. “Ehi! Io…” “Ti sto prendendo in giro, Leo,” mi sorrise. “Rilassati.” Non era facile rilassarmi se eravamo così vicini. “Adoro i tuoi occhi.” Gli dissi di punto in bianco. Cazzo! L’avevo detto davvero? Avevo un disperato bisogno di cambiare argomento e quella era la prima cosa a cui ero riuscito a pensare. Marco mi fissò per qualche istante, credevo che da un momento all’altro sarei andato a fuoco per l’imbarazzo. “Grazie.” Disse dopo qualche secondo. “Ma non hai ancora risposto.” Ecco il poliziotto. “Sono in arresto, agente?” Quella era la mia ultima carta. “Ah-ah. Ci hai provato. Dai, voglio sapere cosa è successo davvero. E sono serio adesso.” Cosa potevo fare? Ero in trappola e sospettavo che avesse pianificato di incastrarmi. Così vuotai il sacco. Davvero non volevo parlarne, ma quando iniziai fu come il crollo di una diga. Finii per confidargli del rapporto teso con mio padre da quando mamma ci aveva lasciati, una cosa che non avevo mai detto a nessuno. Di quanto mi sentissi solo e delle amicizie sbagliate durante gli anni delle superiori. E di come invece avessi inaspettatamente iniziato a sentirmi a mio agio da quando mi ero trasferito lì. Gli parlai dell’ambiente universitario e anche di alcuni colleghi piuttosto simpatici. Sempre cercando di non fargli capire quanto c'entrasse lui in tutto questo. Mi vergognavo ad ammettere quanto spesso pensassi a lui. Lasciò che mi sfogassi in silenzio, senza giudicarmi. Mi interruppe solo quando gli parlai del regalo da parte di mio padre. “Ieri era il tuo compleanno?” Mi chiese raddrizzando la testa. “Perché non me l’hai detto?” “Me ne ero dimenticato,” arrossii,
abbassando lo sguardo. “Pensavo che te ne avesse parlato lui, mio padre…” Marco mi fece sollevare il mento. “Penso che tu ti sia fatto un’idea sbagliata della situazione.” Disse, quando i nostri occhi si incontrarono nuovamente. La confusione nel mio sguardo doveva essere evidente. “Io non avevo mai parlato con tuo padre, la prima volta che l’ho sentito è stata l’altro ieri.” “Che cosa?” Era impossibile. Ci avrei creduto se avesse detto qualsiasi altra cosa, ma questo? Qualcosa nel suo sguardo però mi dava la terribile sensazione che stesse dicendo la verità. “Leo, tuo padre è una persona molto influente. Nell'ufficio del mio capo c'è una sua foto mentre stringe la mano al presidente. Davvero credi che io parli con lui?” “Ma…” non sapevo cosa dire. Se le cose fossero state davvero così sarei stato anche più stupido di quanto avessi mai creduto. “Ma allora come faceva a sapere che mi serviva una borsa?” Non era possibile che avessi frainteso anche quello. “Ora capisco.” Si illuminò, realizzando qualcosa. Anche io volevo capire. Anzi ero impaziente di farlo. Mi rivolse un sorrisetto prima di parlare, lasciandomi un po’ sulle spine. Ovviamente lo stava facendo di proposito. “Allora?” Lo incalzai perdendo la pazienza. “Beh… tu non gli rispondevi da giorni, era preoccupato, così ha chiamato il mio capo. Lui non voleva entrare in questa faccenda e così gli ha passato direttamente me. Comunque, voleva solo essere sicuro che tu stessi bene.” Avevo davvero ignorato le sue chiamate. Ero felice per la prima volta da non ricordavo neanche quanto tempo, e non volevo che lui rovinasse tutto. Invece forse stavo per farlo io, e senza il suo aiuto. C’era solo una cosa che ancora non mi tornava. “Allora come faceva a sapere della borsa?” Finalmente arrivò il suo turno di apparire colpevole. Esitò qualche istante prima di rispondere, contrito. “Ero nervoso, insomma, a parte la sua fama e tutto il resto, era anche la prima volta che parlavo con tuo padre… te l’ho detto, voleva sapere come stavi, se ti fossi ambientato. Poi mi ha chiesto se ti servisse qualcosa, e la prima cosa che mi è venuta in mente è stata una borsa per i libri. Tutto qui.” “Oh.” Sospirai mestamente. Adesso era ufficiale, ero davvero uno stupido ragazzino immaturo convinto che l’intero universo girasse intorno a me. Avevo tutta la giornata libera. Marco era uscito per andare al lavoro e io decisi di fare le pulizie, giusto per tenere le mani occupate. Purtroppo, passare l’aspirapolvere lasciava comunque la mia mente libera di vagare. Questa volta avevo rischiato grosso, avrei potuto farmi davvero male. Possibile che non fosse mio padre ad essere ossessionato dal controllare la mia vita. Che invece fossi io quello terrorizzato all’idea di non averne il pieno controllo? Avevo usato papà come scusa per giustificare la mia difficoltà a relazionarmi con gli altri? Era la terza volta che passavo l’aspirapolvere davanti al divano. Dovevo smetterla di tormentarmi, più tardi avrei chiamato papà per scusarmi e ringraziarlo per il regalo. Quello che mi angosciava davvero, però, era tornare ad essere una persona responsabile agli occhi di Marco. Odiavo che mi vedesse come un bambino capriccioso, anche se ero sicuro che l’idea di sculacciarmi non gli sarebbe dispiaciuta. Prima però dovevo trovare un modo per fargli capire che ero una persona coscienziosa. Gli avrei offerto una cena fuori. Ma cosa avrei dimostrato, che sapevo usare la carta di credito? Non andava bene. Pensai di preparargli la cena io stesso, ma scartai subito anche quell’idea. Non sapevo cucinare nemmeno due uova, il mio massimo era scaldare il latte per i cereali. La casa era abbastanza lucida da potercisi specchiare e presto mi ritrovai senza niente da fare. Così decisi di cambiarmi per uscire, speravo che una passeggiata servisse a schiarirmi le idee. Anche se il cielo era limpido e splendeva un bel sole, il freddo era davvero pungente. Avevo intenzione di fare solo una passeggiata ma visto che era di strada ne approfittai per comprare qualcosa nel negozio alla fine dell’isolato. Si stavano
avvicinando le feste e c'era molta gente dentro. Mentre ero in coda per pagare, un ragazzo iniziò a lamentarsi a voce alta, sicuramente ubriaco. Discuteva con la cassiera per metterle fretta. L’unico risultato che ottenne, però, fu di bloccare ancora di più la fila, e alla fine un altro commesso dovette intervenire per farlo calmare. Tornai dritto verso casa appena uscito dal negozio, ero entrato per acquistare solo una o due cose, ma come al solito avevo riempito due buste abbastanza pesanti. Nonostante l’insegna della farmacia accanto segnasse appena quattro gradi, avevo già iniziato a sudare sotto il giubbotto quando posai le borse della spesa davanti al portone del palazzo. Mi ero fermato solo per cercare le chiavi e successe tutto in pochi istanti. Quando sentii i passi avvicinarsi velocemente dietro di me era già troppo tardi e qualcosa mi colpì alla nuca. Un attimo dopo ero in ginocchio, stordito. “Ne ho preso uno!” Esultò una voce farneticante alle mie spalle. Cazzo, era una rapina? Mi scoppiava la testa. “Sbirro di merda!” Fu l’ultima cosa che sentii prima che il buio mi inghiottisse.
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raccontidiragazzi · 3 years
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Questo sono io - Nemmeno un briciolo di pietà
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La mattina dopo mi svegliai tardi, sudato e indolenzito. Per fortuna avevo tutto il fine settimana libero. Durante la notte, Marco si era alzato per andare al lavoro ed ero rimasto solo sul divano. Stiracchiandomi mi resi conto di due cose, la prima era quanto fossi felice, non ricordavo nemmeno quando fossi stato così bene l’ultima volta. La seconda, che puzzavo di sesso e dovevo farmi subito una doccia.
Sotto il getto d’acqua calda ripensai a come era cambiata la mia vita negli ultimi mesi e in particolare nell’ultima settimana. Ero sempre stato un tipo solitario. Non avevo mai avuto molti amici e si era trattato per lo più di rapporti superficiali, spesso di convenienza. In ogni caso, nessuno abbastanza buono con cui essere davvero me stesso. Invece, proprio nella città che credevo avrei odiato avevo incontrato alcune persone simpatiche e persino la giurisprudenza iniziava a piacermi. Ma ad essere onesti la ragione di tutto era soprattutto lui, Marco. Quasi senza che me ne accorgessi quel ragazzo aveva iniziato ad occupare i miei pensieri. Il suo sorrisetto compiaciuto, i suoi occhi magnetici e i suoi modi scostanti. Era curioso, scherzoso, socievole e tutto questo senza considerare quanto lo desiderassi a livello puramente fisico. Mi stavo eccitando solo a pensarci. Chiusi gli occhi e la sua immagine prese immediatamente forma nella mia mente, i lineamenti decisi, la barba ruvida del giorno prima che mi graffiava la pelle, i muscoli solidi delle braccia e del petto e persino il suo odore mi travolsero. Ero ancora immerso nelle mie fantasie quando sentii suonare il campanello. “Cazzo…” Mi strinsi un asciugamano intorno alla vita e saltellai fino al citofono lasciando una scia di impronte bagnate dietro di me. “Ho una consegna per il signor Valeri.” Cazzo. “Devo firmare qualcosa?” “Si.” Cazzo. Cazzo. Cazzo. “Perfetto, sesto piano interno 18, grazie.” Guadagnai un po’ di tempo. A pensarci bene, non avevo ordinato nulla. In ogni caso però dovevo vestirmi, probabilmente il corriere non sarebbe stato contento di vedermi nudo. Raccolsi a caso un paio di vecchi pantaloni della tuta e una felpa dall’armadio e mi strofinai velocemente i capelli con l’asciugamano. “Una firma qui, per cortesia.” Indicò il ragazzone delle consegne. Poi mi porse un involucro voluminoso. “Questo è suo, buona giornata.” Non era per niente contento. Era la busta di un negozio, uno di quelli costosi, e la prima persona a cui pensai fu Marco. Non era ancora troppo presto per regali del genere? Mi stavo già emozionando come uno stupido. Dentro la busta c’era una borsa ventiquattrore in tessuto, pratica e spaziosa, dal taglio elegante e allo stesso tempo moderno. All’improvviso, ricordai che il giorno prima Marco mi aveva visto tenere i libri sottobraccio prima di andare a lezione. Notava sempre tutto, ma il fatto che avesse pensato di farmi un regalo mi colpì. C’era anche un bigliettino nella busta, di quelli bianchi semplici. L’aveva scritto qualcuno del negozio e sentii il mondo cadermi addosso, con tutto quello che era successo avevo dimenticato il mio compleanno. Mi tremavano le mani mentre facevo a pezzi il biglietto d’auguri. Senza pensarci, infilai velocemente un paio di scarpe da ginnastica e il giaccone e uscii di casa con i capelli ancora umidi. Sul biglietto c’era scritto solo: Buon compleanno… ti voglio bene, papà. Non so nemmeno perché fossi tanto incazzato. Mio padre aveva fatto solo quello che faceva sempre. Voleva controllare la mia vita, che ripercorressi le sue orme e diventassi una sua copia. Marco, invece, per una volta mi aveva permesso di essere semplicemente me stesso. Ma la sua era solo una recita. Avevo sempre saputo che il suo lavoro era tenermi d’occhio, e ovviamente riferire tutto a mio padre. Più che altro ero arrabbiato con me stesso per essermi illuso. Un tipo come lui non mi avrebbe nemmeno considerato in una situazione normale. Era obbligato a stare con me, e visto che io ero stato così stupido ne aveva approfittato, punto. Mi chiesi se nei suoi resoconti, oltre ai particolari delle mie giornate, avrebbe raccontato a mio padre anche di come gli avevo succhiato il cazzo. Se ero stato bravo o solo un po’ meglio di una sega sotto la doccia. Vagai per ore. La cosa peggiore era che quella città stava davvero iniziando a piacermi. L’università, i colleghi, persino la casa nuova. Avevo fatto qualche ricerca prima di trasferirmi, e adesso che ero maggiorenne sarebbe stato difficile anche per mio padre mettere
tutto a tacere un'altra volta. Quando alla fine mi decisi trovare il posto non fu un problema. Gli imponenti palazzi del centro avevano lasciato spazio da un po’ a un quartiere in stato di degrado. Molti negozi erano sfitti e incrociavo sempre meno persone sulla mia strada. Anche il parco giochi era pieno di erbacce, era rimasto in piedi giusto un dondolo arrugginito e non c’era nemmeno l’ombra di un bambino a giocarci. Solo quattro ragazzi parlottavano tra loro bevendo birra, seduti sull’unica panchina ancora integra. Erano sui vent’anni e tutti più grossi di me, sembravano promettenti. Uno di loro notò la mia presenza e fece un cenno agli altri. Andavo dritto nella loro direzione, a testa alta. Però, a mano a mano che mi avvicinavo iniziai ad avere qualche dubbio. Quelli non erano i malviventi della cittadina di provincia dove ero cresciuto, non sapevo niente di loro. Bastava una mossa sbagliata e la situazione poteva facilmente sfuggirmi di mano. Esitai, ma era già troppo tardi per tornare indietro. Avevano visto che li puntavo e a questo punto anche se fossi scappato mi avrebbero sicuramente inseguito. Ero a metà strada quando qualcuno mi afferrò il braccio da dietro. La stretta era ferrea. Sobbalzai per lo spavento e anche i ragazzi sulla panchina si allarmarono. “Cosa ci fai qui?” Sibilò una voce alle mie spalle. “Perché cazzo ti sei messo a correre?” Gli domandò qualcun altro subito dopo, ancora senza fiato. “E questo chi è?” “Nessuno.” Ringhiò quella voce familiare, stringendo ancora più forte la presa sul mio braccio. Io rimasi in silenzio, paralizzato. Quello spavento improvviso mi aveva fatto realizzare la stupidaggine in cui mi stavo andando a cacciare. Ma cosa ci faceva lì Marco? Ce l’avevo ancora con lui. Mi stava seguendo? Mi voltai con l’intenzione di affrontarlo, ma il suo viso era distorto dalla rabbia e involontariamente mi ritrassi. Notai sorpreso che non indossava la divisa e che il ragazzo accanto lui sembrava avere più o meno la mia età. D’un tratto ero ancora più arrabbiato di prima. “Fanculo.” “Ehi, stronzo, vuoi morire?” Disse l’altro ragazzo, sorpreso dalla mia reazione. Marco invece non disse nulla, ma le sue palpebre tremarono quasi impercettibilmente. Mi guardò confuso per un momento, prima di riprendere il pieno controllo della sua espressione. “Adesso almeno avrai qualcosa di interessante da riferirgli.” Dissi con freddezza. Spalancò gli occhi per la sorpresa e allentò la presa sul mio braccio. Io ne approfittai per divincolarmi ma rimasi lì a fissarlo, ero proprio curioso di sentire la sua scusa. Invece non provò nemmeno a giustificarsi e la sua espressione si fece nuovamente impenetrabile. D’istinto arretrai di un passo, lui però fu più veloce e mi afferrò di nuovo il braccio strattonandomi. “Che cazzo stai facendo?” Puntai i piedi, tirandomi indietro. “Ti riporto a casa.” Ringhiò fulminandomi con lo sguardo. Con la coda dell’occhio, notai che i ragazzi sulla panchina si erano alzati e sembravano incuriositi dal nostro siparietto. Non promettevano nulla di buono. Marco mi trascinò via velocemente e mi spinse sul sedile posteriore di una vecchia auto sportiva parcheggiata poco lontano. Rimase a discutere con il suo amico per qualche secondo, non potevo sentire cosa stessero dicendo ma lo vidi indicarmi e l’altro ragazzo annuire. Neanche il tempo che entrambi salissero in auto e Marco spinse a tavoletta sull’acceleratore, le gomme stridettero sull’asfalto sconnesso del parcheggio. “Comunque io sono Claudio.” Disse il ragazzo sul sedile del passeggero, sporgendosi verso di me mentre si allacciava in fretta la cintura. “Finalmente ci conosciamo.” Marco sbuffò infastidito, correva come un pazzo. Claudio alzò gli occhi al cielo e mi rivolse un mezzo sorriso prima di tornare a guardare davanti. Era un suo collega, ricordai che me ne aveva parlato. Ma perché aveva detto: finalmente ci conosciamo? Quindi sapevano tutti che ero sotto controllo? Mio padre non avrebbe mai coinvolto tante persone, una sola era più che sufficiente per i suoi scopi. Allora glielo aveva detto
Marco? Perché avrebbe dovuto? In ogni caso, non erano più affari miei. Avevo già deciso di andare a dormire per qualche notte da un amico e poi cercarmi una stanza vicino alla facoltà. Se fossi stato fortunato non avrei mai più rivisto né mio padre né Marco. Rallentò un po’ solo quando ci lasciammo il quartiere alle spalle. Eravamo comunque troppo veloci e sfrecciavamo in modo allarmante accanto ai marciapiedi affollati. Inchiodò proprio sotto al nostro condominio. Ma anziché lasciarmi lì e andarsene scese dall’auto insieme a me, lasciando il motore acceso. Claudio prese il suo posto alla guida. “Allora, a presto Leo.” Mi salutò sconsolato prima di ripartire. Ne io ne Marco avevamo più detto una parola da quando eravamo saliti in auto. “Si può sapere che cazzo stavi facendo in quel posto di merda?” Sbottò subito dopo essersi chiuso alle spalle la porta del nostro appartamento. Davvero mio padre non gliene aveva parlato, o voleva solo sentirmelo dire di persona? Non mi interessava più, lo ignorai e andai verso la mia camera. Volevo mettere un cambio di vestiti e lo spazzolino da denti dentro una borsa e andarmene il più presto possibile. Non avevo fatto nemmeno due passi quando Marco mi afferrò la spalla obbligandomi a girarmi. “Ehi,” disse infuriato. “Cosa significa tutto questo?” Non volevo guardarlo. Ero arrabbiato ma anche in imbarazzo. Lui prese il mio viso tra le mani. “Vuoi parlare?” “Volevo comprare della droga.” Risposi alla fine, cercando di evitare i suoi occhi. Rimase in silenzio per qualche secondo. Poi strinse la presa sul mio viso, costringendomi a guardarlo. “Non ti credo.” Disse. “Non prendermi per il culo.” Mi irrigidii. Persino papà mi aveva creduto senza fare domande. Anche quella volta dissi che era una questione di droga e lui mise tutto a tacere, nessun verbale, nessuna denuncia. E anche se era diventato più apprensivo, non ne avevamo più parlato. Allora perché Marco non mi credeva? “Dimmelo!” Mi gridò in faccia. Non potevo reggere il suo sguardo. “Volevo provocare una rissa!” Gridai anche io. Aggrottò le sopracciglia e impiegò un secondo per assimilare quello che avevo detto. Sentii le sue dita contrarsi sul mio viso. “Volevi morire?” Mi chiese sconcertato. “No!” Risposi in fretta. Volevo morire? Pensai tra me. “Allora cosa? Perché l’hai fatto?” Continuava a gridarmi contro arrabbiandosi ancora di più. “Volevi farti arrestare? Far incazzare tuo padre?” Già, cosa volevo fare? Questa sì che era una bella domanda. Cosa volevo dimostrare? A chi? “Volevo solo sentire qualcosa.” Gli confessai alla fine. Marco rimase a fissarmi in silenzio, con un’espressione indecifrabile. Sentivo che da un momento all’altro sarei crollato completamente. Perché non mi lasciava andare? Doveva solo chiamare mio padre, e non avrebbe più avuto a che fare con me. Probabilmente avrebbe ottenuto anche una promozione in cambio del suo silenzio. Così si sarebbe risolto tutto. Invece mi tirò a sé e mi strinse tra le sue braccia. E restammo così a lungo, senza dire nulla. Nessuno mi aveva più tenuto stretto in quel modo. Sentivo il cuore pulsarmi dolorosamente in gola e alla fine qualcosa si ruppe dentro di me. Faceva più male di qualsiasi pugno o calcio sullo stomaco. Non mi ero nemmeno accorto di aver cominciato a piangere quando Marco si allontanò appena per asciugare le lacrime sul mio viso. “Se mi farai preoccupare così tanto un'altra volta giuro che…” Si bloccò a metà della frase. Che cosa? Che mi avrebbe pestato? Non so perché all’improvviso mi venne da ridere mentre stavo ancora piangendo, tutta quella tensione probabilmente mi aveva bruciato il cervello. Dopo un po’ però anche Marco iniziò a sorridere, e poi a ridere insieme a me sempre più forte. Forse eravamo impazziti tutti e due. “Dobbiamo bere qualcosa.” Disse dopo un po' che ci eravamo calmati. Aveva ancora addosso i vecchi vestiti sporchi che indossava al parco e quando rispuntò fuori dalla cucina con due bottigliette di birra ghiacciate in mano, chissà per quale motivo, mi eccitai. “Che cosa ci facevate in quel parco conciati
così?” Gli chiesi, cercando di non farmi notare mentre mi aggiustavo il cazzo nei pantaloni. Marco guardò i suoi vestiti come se si fosse appena ricordato di qualcosa. Esitò un attimo prima di rispondere. “Eravamo di pattuglia. Se andiamo in giro con la divisa segnalano la nostra presenza a un chilometro di distanza.” Dal suo tono serio potevo capire quanto fosse ancora in apprensione. “Non scherzano da quelle parti.” Aggiunse sedendosi accanto a me. Le nostre ginocchia si toccavano. Avevo recepito il messaggio. Non ne sarei uscito sulle mie gambe se per puro caso non si fosse trovato lì anche lui. Quanto ero stato stupido? Mi vergognavo, a quel punto mi ero già reso conto di essere un ragazzino immaturo e viziato. E mi vergognavo soprattutto perché adesso se ne era sicuramente reso conto anche lui. “Mi dispiace…” sospirai prendendo un lungo sorso di birra dalla mia bottiglia. Ma adesso perché mi stava fissando? La birra mi si bloccò in gola mentre seguivo il suo sguardo verso il basso. Nonostante tutto, la mia erezione prepotente non aveva nemmeno accennato a calmarsi e i pantaloni della tuta non potevano fare niente per nasconderla. “Fai bene a essere dispiaciuto.” Disse con uno sguardo strano. “Ma ti meriti comunque una lezione.” Mi stava prendendo in giro? Marco, però, si alzò nuovamente dal divano e mentre andava verso la zona notte si tolse la felpa. Non indossava nulla sotto e io mi ritrovai a fissare i muscoli della sua schiena a bocca aperta. Oh, cazzo! Pensai scattando in piedi. Non stava scherzando. Mi bloccò contro il muro appena entrati nella sua stanza. “Prima devi dirmi se vuoi farlo davvero.” Un brivido mi risalì lungo la spina dorsale e rimasi in silenzio. Indossava solo i pantaloni e il suo petto definito che si alzava e abbassava al ritmo del respiro era ipnotico. “Voglio sentirtelo dire.” Mi intimò.
Distolsi a fatica lo sguardo dal suo corpo, mi mancava la voce. “Voglio farlo.” Bisbigliai imbarazzato. Mi strinse il viso tra le mani, costringendomi a guardarlo negli occhi. “Che cos’è che vuoi?” Rincarò la dose. Bastardo! Voleva che lo pregassi? Se lo poteva anche scordare. Si fece ancora più vicino, ormai le sue labbra erano solo a pochi centimetri dalle mie. Provai a sporgermi per baciarlo ed evitare di rispondere, ma la sua stretta me lo impedì. “Allora cos’è che vuoi?” Ripeté. “Io…” ero un debole. Marco mi guardava fisso negli occhi, in attesa. “Voglio che mi scopi.” Alzai un po’ la voce. Sorrise compiaciuto. “Anche se ti farò male?” Chiese colmando la breve distanza che ci separava. “Anche se ti farò piangere?” Sfiorò le mie labbra. “Implorare?” Finalmente iniziammo a baciarci sul serio. Mi spinse sul letto senza interrompere il bacio e le sue dita volarono sul mio petto, sui fianchi e mi artigliarono il culo. Questa volta, però, non avevo intenzione di restarmene con le mani in mano e iniziai a tastargli i pantaloni, strattonandoli per aprire i bottoni. Quel bacio stava diventando sempre più vorace. Infilò le mani sotto la mia maglia e un attimo dopo mi ritrovai nudo dalla vita in su. Mi abbracciò e continuò a stringermi il culo da sopra i pantaloni con entrambe le mani. Ne approfittai per insinuarmi nei suoi, afferrandogli il cazzo che aveva già iniziato a diventare duro. Si lasciò sfuggire un gemito quando presi la sua asta in una mano e gli avvolsi delicatamente le palle con l’altra. Iniziai subito a masturbarlo piano. “Non m’importa.” Sussurrai tra le sue labbra. “Voglio farlo comunque.” Inspirò rumorosamente ed emise una sorta di basso ringhio minaccioso. Il suo intero corpo sembrò farsi ancora più massicciò incombendo su di me. Adesso non potevo più tirarmi indietro. Quando il suo cazzo pulsò tra le mie dita in piena erezione rallentai. Era fuori misura, spesso e pesante, e in quel momento mi sembrò ancora più grosso. Mi ritrovai a rabbrividire anche se lo desideravo con ogni fibra del mio essere. “Sei spaventato,” Marco mi lesse dentro come aveva fatto sin dal primo giorno. “Ma non avere paura… sarò gentile, all’inizio.” Avevo appena firmato la mia
condanna. Mi spinse a sdraiarmi sul letto e quasi mi strappò di dosso i pantaloni della tuta. Una volta libero, il mio cazzo duro e arrossato tornò indietro come una molla a schiaffeggiarmi l’addome. Marco non perse tempo, si chinò fra le mie gambe, sollevò l’asta con una mano e la prese tutta in bocca fino alla radice. Fu come un fulmine sparato dritto al cervello. Inarcai la schiena e gemetti ad alta voce, contorcendomi. Mi irrigidii artigliandogli i capelli sulla nuca quando iniziò a succhiarmi avidamente. Era insopportabile. Troppo bagnato, troppo caldo, troppo stretto. E intanto aveva anche iniziato a giocare con le mie palle. Credevo di morire. Invece, con un ultimo forte risucchio mi liberò lasciandomi stravolto. “No!” Gridai lamentoso in preda alla frustrazione. Perché proprio ora? Non feci in tempo a chiederglielo. Prese in bocca una delle mie palle. Non me lo aspettavo e istintivamente avrei voluto chiudere le gambe, per proteggermi. Lo sentii giocarci con la lingua e mi prese un vuoto allo stomaco. Allora mi sollevò, in quella posizione il mio buco era esposto e indifeso, completamente in sua balìa. Sfiorò appena il mio buchetto con la punta della lingua, e quando trattenni il respiro perché ero sicuro che avrebbe iniziato a leccarmi, lo sentii ridacchiare, e prese a sfregarmi rudemente con la barba ispida del mento proprio intorno al buco e sulle natiche. “Ah!” Gridai sorpreso. “Aspetta, che fai? Fermo, fermo…” Iniziai a contorcermi nella sua stretta. Era una specie di solletico doloroso che non avevo mai provato e che non riuscivo a sopportare. Quando lo implorai di fermarsi mi morse l’interno coscia vicino alle palle. “No, no! Dai, adesso basta però. Ho capito, ti ho detto che mi dispiace. Mi dispiace!” Gridai di nuovo, dimenandomi. Ignorando le mie suppliche, continuò a mordermi, graffiarmi e leccarmi in punti casuali dall’interno coscia al sedere, a volte piano a volte forte, e non sapevo mai dove sarebbe stato il prossimo, e se mi avrebbe fatto solo rabbrividire oppure gridare. Quando la sua lingua bagnata si fermò davvero sul mio buco ormai non avevo più neanche un briciolo di forze. Mi stava letteralmente riempiendo di saliva. Aveva lo sguardo offuscato quando si sollevò su di me. Avrei voluto dire qualcosa, ma le parole mi si bloccarono in gola mentre si sbottonava i pantaloni con impazienza. Il suo cazzone saltò fuori spesso e pesante e ingoiai rumorosamente a vuoto. Non ero ancora pronto. Come si faceva ad essere pronti per qualcosa di simile? “Non preoccuparti,” disse con voce roca. “Proverò a fare piano.” Scossi la testa, ammutolito. Non suonava affatto convincente. Volevo sollevarmi e prendergli il cazzo in bocca per guadagnare un po’ di tempo e provare a cambiare posizione. Mi sentivo fin troppo vulnerabile in quel modo, senza nessuna possibile via di fuga. Marco però anticipò la mia mossa, prima che me ne rendessi conto mi bloccò le braccia sollevate sopra la testa con una mano, mentre con l’altra frugava alla cieca accanto al letto. Senza mai staccare gli occhi dai miei. Quando sentii il metallo freddo sui polsi era già troppo tardi e mi ritrovai bloccato in quella posizione, ammanettato alla testiera in ferro battuto del suo letto. “Ma cosa…?” Provai a protestare. Mi zittì chinandosi su di me e coprendo la mia bocca con la sua. “Sei in arresto.” Disse mordendomi il labbro. Mi baciò di nuovo. “Non hai diritto a un difensore.” “Non hai diritto di avvalerti della facoltà di non rispondere.” Continuava a informarmi dei diritti che non avevo lasciando una scia di baci sul mio collo e poi sul petto. “Non hai nessun diritto, sei mio!” Disse sopra il capezzolo e iniziò a succhiarlo dolcemente. Inarcai la schiena per il piacere, alla ricerca di un maggiore contatto con il suo corpo. Lui strinse tra i denti il bottone di carne sul mio petto e tirò indietro la testa finché il capezzolo non sfuggì dolorosamente dalla sua morsa. Sentii le palle stringersi e il mio cazzo pulsare furiosamente, e anche quel lampo improvviso di dolore si trasformò inspiegabilmente in piacere. Un
sorriso demoniaco gli increspò le labbra. Senza aggiungere altro si sputò sulle dita e le usò per bagnare il suo cazzo. Non era abbastanza. Non potevamo farlo davvero solo con un po’ di saliva. Provai a fare forza contro le manette, strattonandole senza nessun risultato. Nel suo sguardo non c’era nemmeno un briciolo di pietà.
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raccontidiragazzi · 3 years
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Questo sono io - Non sono tuo amico
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Anche se avevo un paio di idee in mente, quel pomeriggio non abbiamo fatto più nulla, o quasi. Ci siamo baciati e toccati e poi baciati ancora, tanto. Non mi sarei mai stancato delle sue labbra. “Allora sei gay?” Mi sfuggì durante una pausa per respirare. Eravamo sdraiati uno accanto all’altro sul mio letto, spalla contro spalla. Ero curioso, ma forse non avrei dovuto chiederglielo. Marco però non si scompose. “Sì.” Rispose tranquillamente.
Tirai segretamente un sospiro di sollievo. Fino a quel momento, una parte di me aveva continuato a credere di essere una specie di ripiego, un’occasione a portata di mano per svuotarsi le palle in mancanza di una donna. Anche se a pensarci bene, bastava dargli solo un’occhiata per capire che se avesse voluto una donna gli sarebbe bastato schioccare le dita. Adesso rimaneva solo una domanda, perché io? Visto che poteva avere chiunque. Forse era soltanto molto occupato, mi dissi. Il lavoro, la palestra, i tornei di calcetto con i colleghi e nel tempo libero doveva anche badare a me. I miei pensieri correvano in cerchio e tornavano sempre al punto di partenza. In casa aveva qualcuno a disposizione, senza nemmeno doverlo portare a cena fuori prima di scoparselo, e per puro caso quel qualcuno ero io. Non era certo la storia romantica che immaginavo fin da piccolo. Il silenzio iniziava a pesare. “Devo andare in palestra…” “Devo tornare a lezione…” Questo era davvero imbarazzante, l’avevamo detto insieme. Restammo in silenzio per qualche altro secondo, senza che nessuno dei due desse segno di volersi muovere per primo. D’altra parte, quello era il mio letto, pensai, e potevo restarci quanto volevo. “Allora io vado a farmi una doccia.” Cedetti per primo alla fine, sollevandomi a sedere. Ero un codardo. Appena feci per alzarmi però Marco mi precedette e scattò in piedi. “Bene, allora… a dopo.” Borbottò mentre raccoglieva i suoi pantaloni dal pavimento. Sembrava stranamente in imbarazzo e un attimo dopo era già sparito fuori dalla porta. Rimasto da solo, sbuffai sconsolato e mi ributtai sul letto. Maledetta la mia boccaccia, mi rimproverai affondando la testa nel cuscino. Da quel giorno, il rapporto con Marco prese una nuova piega. Superato l’imbarazzo iniziale, la nostra convivenza sotto lo stesso tetto divenne molto più facile. Almeno ora ci parlavamo. Il fatto è che lui si comportava come se non fosse successo nulla tra noi. Era fin troppo amichevole, scherzava e faceva battutacce, commentava ogni scena dei film in televisione e poi si addormentava sempre prima della fine. Era piuttosto ordinato e dopo mangiato metteva anche i piatti nella lavastoviglie. Non si poteva desiderare un coinquilino, o forse anche un amico migliore. Invece io ero sempre più frustrato, ero sicuro che alla fine si fosse reso conto che poteva avere di meglio. Credevo che la delusione mi avrebbe ucciso, ma allo stesso tempo non volevo pensasse che pensavo solo al sesso. Così provai a comportarmi da adulto, se voleva che fossimo solo amici me lo sarei fatto bastare, in qualche modo. “Impegni per stasera?” Mi stavo preparando per andare a lezione. Ero chino davanti alla porta d’ingresso e tenevo sotto il braccio il libro di diritto privato, quello di costituzionale e il mio quaderno degli appunti e allo stesso tempo cercavo di legarmi le scarpe. Mi serviva una borsa. Sobbalzai ritrovandomi davanti le gambe lunghe e muscolose di Marco. Se ne andava in giro per casa a piedi nudi e non lo avevo sentito avvicinarsi. I suoi peli erano biondi e radi, appena visibili anche a quella distanza. Non potei evitare di posare lo sguardo sul suo pacco mentre alzavo gli occhi verso di lui. Anche a riposo era evidente sotto i pantaloncini e mi ritrovai a deglutire a vuoto. Concentrati Leonardo, imposi a me stesso. “Eh?” Fu il massimo che riuscii a mettere insieme senza sbavare. Anche Marco sembrava più impacciato rispetto al solito. “Stavo pensando che potremo fare un giro, mangiare qualcosa. Al cinema è uscito quel film che ti piace…” Impiegai qualche secondo per assimilare le sue parole. Mi stava chiedendo di
uscire? Era una cosa fra amici o un appuntamento? Poi a lui nemmeno piacevano i film di fantascienza. All’improvviso iniziai a sudare. “Va bene.” Dissi veloce. Io presi una Leggenda e Marco una Caprese. L’idea iniziale era mangiare una pizza, ma c’era una nuova piadineria fuori dal cinema, e avevo trovato un tavolo libero accanto alla parete di vetro che affacciava sul parcheggio del centro commerciale. “Tutto bene?” Gli chiesi mentre aspettavamo il nostro ordine. Da quando eravamo usciti di casa aveva un’espressione contrariata e ci eravamo scambiati sì e no due parole. “Se non ti va di vedere il film possiamo fare qualcos’altro…” Marco aggrottò le sopracciglia. “No, il film va bene.” La sua faccia però diceva il contrario. Quella innocua bugia fece scattare qualcosa nella mia testa. Iniziai a chiedermi perché mi avesse chiesto di uscire, anche se era ovvio che non gli andava. Forse mi ero fatto delle aspettative troppo alte. Ovviamente non gli piacevo nel modo in cui lui piaceva a me, e passare del tempo insieme faceva solo parte del suo lavoro. Quella realizzazione all’improvviso mi fece sentire vuoto. Quando ci portarono da mangiare tutti e due ce ne restammo fermi a guardare il tavolo senza fare nulla, avevo lo stomaco chiuso e Marco sembrava ancora più pensieroso. “Sembra buona.” Dissi dopo un po'. Mi sentii un idiota, però volevo davvero che quella serata andasse bene e dovevo pur dire qualcosa. La scelta era fra questo e “Mi passi un tovagliolo?” Come se aspettasse un qualche tipo di segnale da parte mia, Marco raddrizzò la schiena, afferrò la sua piadina e ne staccò un pezzo enorme con un morso. “Mmh…” Mugugnò con il boccone pieno. Mangiammo per lo più in silenzio, e quando a un certo punto fui costretto a sfoderare la carta “mi passi un tovagliolo?” la mia depressione raggiunse l’apice. “Come vanno le lezioni?” Chiese Marco dopo un sorso di birra, la sua piadina era già sparita mentre io non avevo ancora mangiato neanche metà della mia. Fui costretto a ingoiare a forza il boccone e quasi mi strozzai nella fretta. “Uhm… bene, credo. È tosta, ma inizia a piacermi.” “Grande! Ci avevo pensato anche io, sai?” Non me lo aspettavo proprio. “E perché hai cambiato idea?” Sembrò pensarci per qualche secondo. “A dire il vero non lo so. Sognavo di entrare in polizia fin da piccolo, suppongo di aver avuto fretta. Ma amo il mio lavoro.” “Hai mai arrestato qualcuno?” Mi uscì così. Lui si bloccò con la bottiglietta di birra a qualche centimetro dalla bocca e mi guardò aggrottando le sopracciglia, poi mezzo sorriso gli piegò le labbra. “Qualche volta, ti eccitano queste cose?” La coca che stavo bevendo mi andò di traverso e rischiai di soffocare. “Cosa!?” Dissi strozzato. “No… non intendevo questo.” Marco scoppiò a ridere. “Dai, ti sto prendendo in giro, non prendere sempre tutto così sul serio.” Aveva ragione, lo facevo sempre. Alla fine, gli restituii un sorriso un po’ imbarazzato. “Comunque, oggi la mia squadra ha fermato una dozzina di manifestanti che stavano causando dei problemi durante un corteo. Uno lo abbiamo arrestato davvero, ha una lista di precedenti lunga un chilometro. Danneggiamenti, aggressione, furto...” Ascoltandolo mentre ne parlava, capii che a Marco piaceva davvero il suo lavoro. E mi resi conto anche che finalmente stavamo facendo conversazione. Qualunque argomento fosse, mi andava bene. “…poi durante una carica ho preso un pestone tremendo mentre tiravo indietro quel novellino di Claudio.” Continuò a raccontare tutto preso. “Quella pazza pesava almeno duecento chili, te lo giuro, pensavo mi avesse fratturato il piede.” “Ti sei fatto male?” Mi preoccupai subito, anche se non volevo sembrare – troppo – preoccupato. Stavo impazzendo, sarebbe stato tutto più facile se fossi stato sicuro del significato di questa serata. Ma in ogni caso, dovevo fare i conti con un dato di fatto, io stavo davvero iniziando a pensare a lui, e ne ero terrorizzato. “Niente di che,” scrollò le spalle. “Solo un livido.” Il film era fantascienza pura, dunque mi piaceva a prescindere. Visivamente era
spettacolare ma per fortuna gli effetti speciali non svilivano la storia. Nel complesso, per me era un otto pieno. Marco continuò a farmi domande sulla trama per tutto il primo tempo, si fece coinvolgere un po’ da alcune scene di azione e poi si addormentò, risvegliandosi giusto in tempo per il colpo di scena finale. “Belle quelle armi regolabili, dovrebbero darle in dotazione anche a noi.” Avevamo perso la navetta dopo lo spettacolo, ma non eravamo così lontani e decidemmo di fare una passeggiata fino a casa. “Pew... Pew...” Marco imitò alla perfezione il protagonista nell’atto di estrarre l’arma e fece fuoco contro di me. “Auch!” Mi portai una mano al cuore. Centrato in pieno. Era talmente bello che avrebbe potuto tranquillamente sostituire l’attore anche nel film, ma questo non potevo dirglielo e invece rimasi a guardarlo di nascosto mentre passeggiavamo. Forse mi aveva davvero colpito perché sentivo qualcosa premere sul petto. “Ti fa ancora male?” Gli chiesi dopo un po’ che camminavamo. Avevo notato che ogni tanto zoppicava leggermente. “Non è nulla…” Rispose subito, ma quando poggiò il piede fece una smorfia. “Chiamo un taxi.” “Sto bene, davvero.” Feci roteare gli occhi, alcune persone proprio non erano in grado di chiedere aiuto. E Marco era proprio uno di quelli. “D’accordo,” acconsentii con riluttanza. “Ma se poi dovranno tagliarti il piede non dare la colpa a me.” Mi guardò malissimo. Forse avevo esagerato con l’umorismo macabro, ma un po’ se lo meritava per la sua testa dura. In pratica fui costretto a sorreggerlo fino alla porta del nostro appartamento. Avevo il suo braccio intorno alle spalle e una parte considerevole del suo peso gravava su di me. Sospettavo che non fosse strettamente necessario, visto che fino a poco prima era riuscito a camminare da solo senza nessun problema, a parte il passo un po’ irregolare. Ma non me ne sarebbe potuto importare di meno. Stare così vicini, sentire il suo profumo e il calore del suo corpo sul mio, valevano qualsiasi fatica. Una volta entrati, mi sfilai le scarpe e lo accompagnai fino al divano, aiutandolo a sedersi. L’espressione sofferente sul suo viso era fin troppo accentuata e all’improvviso aveva iniziato anche a lamentarsi a bassa voce. Che esagerazione. Mi guardava dal basso con due occhi da cucciolo smarrito. “Mi aiuteresti a togliere le scarpe?” Mi prendi in giro? Pensai sospettoso. Però continuava a fissarmi con quello sguardo implorante. Alzando gli occhi al cielo non potei fare altro che arrendermi e alla fine mi inginocchiai davanti a lui per allentare i lacci. Indossava scarpe sportive blu legate con un doppio nodo e impiegai un po’ a disfarli. “Vuoi anche un massaggio adesso?” Gli chiesi ironico, dopo essere riuscito a sfilargliele. Marco distese le gambe e poggiò i piedi sul tavolino del soggiorno con evidente soddisfazione. “Magari.” Sospirò stiracchiando le dita sotto le calze. Ci rimasi di sasso, ovviamente stavo solo scherzando. E adesso? Un amico a questo punto avrebbe già dovuto mandarlo a quel paese e riderci su. Invece io rimasi lì in ginocchio, immobile. Lui, intanto, si era messo comodo, e aspettava la mia prossima mossa, senza staccare nemmeno per un istante gli occhi dai miei. Quando gli sfilai i calzini non disse nulla, ma il suo sorriso si allargò sensibilmente. Io arrossii e presi tra le mani uno dei suoi piedi. Decisamente, non volevo essere suo amico. C’era davvero un livido sul dorso. Iniziai il massaggio da sotto le dita, a partire dall’alluce e poi sugli altri, uno per uno. Premetti delicatamente con i pollici sulla pianta del piede verso il tallone, poi ripetei lo stesso movimento nella direzione opposta. Aveva i piedi grandi, la sua pelle era morbida e liscia sul dorso e più ruvida sulla pianta. Soprattutto sotto l’attaccatura delle dita e sul tallone, così concentrai la pressione su quei punti. Non ero un esperto, ma sembrava comunque apprezzarlo. Non so cosa mi prese a quel punto, sollevai il piede, lo avvicinai al viso e lo baciai, proprio sopra il livido. Non avevo mai smesso di massaggiargli la
pianta e lo baciai di nuovo vicino alle dita. Per un po’ Marco mi lasciò fare senza dire nulla, ma quando stavo per baciarlo di nuovo allontanò il piede e mi afferrò il mento con la mano. Ero completamente assorto e impiegai qualche secondo per rendermi conto di quello che stava succedendo. Mi ritrovai il suo viso a pochi centimetri dal mio e la stretta delle sue dita sul mento mi impediva di allontanarmi. “Sei sicuro di volerlo fare?” Chiese con voce roca, tirandomi ancora più vicino a sé. Mi serviva tempo per trovare una risposta, ma lui non me ne lasciò affatto. O forse l’aveva già letta nei miei occhi. Mi diede un bacio, prima sfiorando appena le mie labbra con le sue poi sempre più profondo, fino quasi a soffocare. Lo vidi armeggiare con i pantaloni, e un attimo dopo il suo cazzo era già libero in piena erezione. Avvertivo la sua impazienza mentre mordeva e succhiava le mie labbra tra le sue. Facendo pressione sulla nuca, mi costrinse a piegarmi portando il mio viso all’altezza del bastone tra le sue gambe. Se lo teneva dritto con una mano, mentre con l’altra accompagnava i miei movimenti. Era lui a condurre il gioco. Iniziai a baciare l’asta partendo dalla base e quando arrivai quasi alla fine fece sbattere la sommità del cazzo sulla mia lingua un paio di volte. “Succhia adesso.” Mi ordinò tirandomi a sé. Quella sensazione di pienezza mi colpì come la prima volta, ma ero più preparato e premetti con la lingua sull’asta cercando di controllarne l’invasione. Era eccitato, sapeva di maschio. La pressione della mano sulla mia nuca aumentò e mi costrinse a prendere in bocca il suo cazzo fino alla metà. Allentò la presa quando mi sentì soffocare ma riuscii a riprendere fiato solo per un secondo, prima che mi tirasse di nuovo a sé. Ancora più a fondo. Soffocai di nuovo e Marco mi fece sollevare e mi baciò con passione. Nei suoi occhi c’era il riflesso dell’eccitazione, si stava godendo in pieno il dominio assoluto che esercitava nei miei confronti. Mentre ci baciavamo sentii le sue mani armeggiare con i bottoni dei miei pantaloni. Mi accarezzò il culo, mi diede una sculacciata forte e mi spinse di nuovo a succhiare il suo cazzo, tenendomi per i capelli e imprimendo il ritmo di ogni affondo. Mi costrinse a succhiarlo in quel modo a lungo, prima di baciarmi di nuovo. Poi si alzò in piedi. Io ero rimasto in ginocchio per tutto il tempo. Marco torreggiava su di me e aveva ancora più controllo sui miei movimenti. Sfregò la sommità del suo grosso cazzo sulla mia lingua un paio di volte, costringendomi a guardarlo dal basso. Spalancai gli occhi per la sorpresa quando ci lasciò cadere sopra uno sputo, prima di infilarmelo di nuovo tra le labbra fino all’ingresso della gola. Mi scopò la bocca per un po', e ogni volta che lo tirava fuori si chinava a baciarmi, sostituendo il cazzo con la lingua. Invertendo le nostre posizioni, mi spinse sul divano in modo che il mio viso fosse alla giusta altezza. Questa volta, ripresi in bocca il suo cazzone senza aspettare di essere costretto. Finalmente libero di muovermi, provai a succhiarlo più lentamente. Ruotai la lingua intorno al glande un paio di volte, poi lasciai entrare il cazzo quasi fino alla metà, stringendoci intorno le labbra mentre lo facevo uscire. “Si, così!” Marco inspirò ed espirò rumorosamente spingendo verso di me con il bacino. Ero stranamente orgoglioso che apprezzasse quel mio goffo tentativo di dargli piacere e ci misi ancora più impegno, cercando di prendere in bocca una porzione sempre maggiore della sua asta rovente e succhiando più forte quando la lasciavo scivolare fuori. A quel punto il suo sguardo era completamente offuscato. Mi irrigidii quando lo vidi sputarsi sulle dita e avvicinare la mano al mio culo. Mi massaggiò il buchetto posteriore un paio di volte con le dita insalivate mentre continuavo a succhiargli il cazzo. Da un lato speravo che si accontentasse della mia bocca, terrorizzato dalle le sue dimensioni e dal suo temperamento impetuoso, ma dall’altro desideravo ardentemente essere completamente suo. Volevo averlo dentro di
me. Appena avvertì che mi rilassavo, Marco ne approfittò subito per inserire lentamente metà di un dito. Quando lo sentii entrare non potei fare a meno di irrigidirmi di nuovo e mugugnare lamentoso con il suo cazzo stretto tra le labbra. Spinse il dito avanti e indietro delicatamente un paio di volte prima di uscire e riprendere a massaggiarmi con dolcezza. Solo il tempo di farmi rilassare nuovamente prima di spingerne dentro due, questa volta quasi fino in fondo. “Ah!” Mi lamentai più forte cercando di allontanarmi, ma era tornato a premere con una mano sulla nuca costringendomi a continuare a succhiarlo, mentre le sue dita scavavano dentro il mio corpo. Sfilò delicatamente le dita dal mio culo e il cazzo dalle mie labbra e si chinò a baciarmi. Aveva qualcosa di famelico nello sguardo. “Vuoi farlo?” Mi chiese di nuovo, senza interrompere il bacio. Alla fine, quel momento era arrivato. “Ho paura.” Gli dissi sinceramente. Volevo assolutamente farlo ma ero anche terrorizzato. Marco sorrise tra le mie labbra. “Ti piace se faccio così?” Mi chiese accarezzando il buchetto e poi infilandoci dentro un dito. Io gemetti per la sorpresa e arrossii per l’imbarazzo. Mi fissava senza staccare gli occhi dai miei nemmeno per un istante, e iniziò a muovere più veloce il dito dentro di me, avanti e indietro, facendomi gemere molto più forte. Il suo sorriso si allargò e mi fece stendere di fronte a lui. Quasi mi strappò di dosso la maglia e i pantaloni prima di chinarsi su di me, infilandosi tra le mie gambe. Mi baciò sulle labbra, sulla guancia e poi sul collo, succhiando e mordendo. Lasciò una scia di baci infuocati sul mio petto, le sue labbra volarono sui capezzoli, sullo stomaco e sull’addome, fino all’ombelico. Nella mia testa all’improvviso suonò un campanello d’allarme e un fremito attraversò il mio corpo. Che intenzioni aveva? Come se mi avesse letto nel pensiero, sollevò lo sguardo e fissò i suoi occhi sui miei mentre prendeva in mano il mio cazzo duro come il ferro e se lo avvicinava alle labbra, potevo sentire il suo respiro sulla pelle. Sorrise mostrandomi i denti e lo leccò una volta, prima di prenderlo in bocca senza smettere di guardarmi. Io gemetti ad alta voce, non mi aspettavo che lo facesse davvero. La prima sensazione che provai fu quasi di fastidio, era tutto troppo intenso. Poi sentii la sua lingua sfregare ruvidamente sul glande, avvolgerlo e girarci intorno e fermarsi a giocare sul frenulo. Il piacere quasi mi fece saltare fuori dalla mia stessa pelle. All’improvviso dovevo preoccuparmi di non venire immediatamente rischiando di combinare un disastro. Mi contorsi lamentoso mentre Marco iniziava a succhiare il mio cazzo ingoiandolo quasi fino in fondo. Non era piccolo, certo non era nemmeno un mostro come il suo, ma lo fece comunque sparire completamente tra le sue labbra. Non potevo resistere, ero sicuro che sarei esploso da un momento all’altro. “Ah, piano,” lo supplicai. “Ah!” Marco invece continuò a succhiare con ancora più vigore, solleticandomi con le dita sotto le palle, mi stava facendo impazzire. Solo quando mi arresi completamente a lui mi lasciò andare con uno schiocco, proprio sul più bello. Cercai di afferrare il cazzo per darmi sollievo, ma lui mi strinse i polsi bloccandomi le braccia sopra la testa. “Non così in fretta.” Disse sdraiandosi su di me. Era pesante, ma stretto tra le sue braccia, quel peso e il suo calore mi confortavano. Mi baciò con tenerezza sulla fronte, poi sugli occhi e sulle guance e alla fine trovò le mie labbra. Istintivamente aprii le gambe per fargli spazio. A quel punto avrei fatto qualsiasi cosa per dargli, e darmi piacere. Avevo ancora paura ma più di tutto volevo sentirlo dentro di me. “Se vuoi… sono pronto.” Mormorai tra le sue labbra, eccitato e imbarazzato nello stesso tempo. In quella posizione i nostri cazzi erano attaccati, e Marco muoveva avanti e indietro il bacino in modo che sfregassero uno sull’altro. “No.” Disse aumentando il ritmo di quella stimolazione. No? No cosa? Io volevo farlo e ovviamente anche lui. Allora cosa intendeva con quel
no? Sicuramente lesse la confusione e la frustrazione sul mio viso, perché si sollevò un poco e sorrise guardandomi negli occhi. “Oggi no, non ci siamo preparati e comunque non voglio farti male.” Impiegai un secondo per decifrare le sue parole e subito arrossii fino alla radice dei capelli. Aveva ragione. Aveva cercato di dirlo con gentilezza, ma ovviamente ero solo IO a non essere pronto. Comunque, non mi lasciò molto tempo per recriminare su me stesso. Si sputò abbondantemente su una mano e afferrò entrambi i nostri cazzi insieme, facendomi sussultare. La sua mano era bagnata e ruvida, la stretta calda e decisa. Il mio cazzo ne era completamente avvolto e stimolato doppiamente. Io ero già sull’orlo dell’orgasmo e dopo un paio di colpi anche Marco iniziò a tremare e i suoi movimenti si fecero irregolari. Sentii le mie palle stringersi e il suo corpo farsi ancora più pesante. All’improvviso il piacere mi attraversò come una scarica elettrica, travolgendomi a ondate. Non so quando le sue labbra tornarono a divorare le mie. Eravamo bagnati e appiccicati e lui continuava a spingere su di me, seguendo il ritmo delle contrazioni del nostro reciproco piacere. “Cazzo.” Sospirai quando riuscii finalmente a riavviare il cervello nelle sue funzioni di base. Marco si era sdraiato accanto a me e mi cingeva con un braccio tenendomi stretto. Avevo la testa poggiata al suo petto e potevo sentire il suo cuore battere forte. Una cosa davvero romantica, ma anche una questione pratica. Sul divano non c’era abbastanza spazio per tutti e due e altrimenti sarei caduto sul pavimento. “È stato fantastico.” Disse baciandomi la fronte, poi mi strinse ancora di più a sé e rimase così, con la testa appoggiata alla mia. Speravo con tutto il cuore che non si addormentasse, quella posizione era davvero troppo scomoda.
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raccontidiragazzi · 3 years
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Questo Sono Io - Una Nuova Vita
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Viaggiavamo verso la capitale in silenzio. Io e mio padre non avevamo un rapporto facile da quando la mamma se n’era andata. Ero piccolo quando è successo e non ho molti ricordi di lei, solo qualche immagine sfuocata dei suoi capelli biondi, la sua pelle chiara e liscia, ricordo che a volte odorava di biscotti quando mi prendeva in braccio. Un po' le somiglio. “Leo…” Esitò papà alle porte della città. “Non è una punizione.” Continuai a guardare fuori dal finestrino, ignorandolo. Le chiome degli alberi ai margini della strada erano fuse in una striscia indistinta di verde scuro e il cielo cupo annunciava un temporale.
Iniziò a piovere mentre scaricavo i bagagli dal sedile posteriore dell’auto. Solo qualche lampo illuminava di tanto in tanto le nuvole minacciose sopra la città. Odiavo questo posto. L’appartamento almeno era moderno e pulito, e molto più spazioso di qualsiasi alloggio studentesco. Anche se lo avrei scambiato volentieri con una topaia se solo avessi avuto scelta. Ma anche se durante gli anni del liceo gli avevo causato qualche “lieve imbarazzo”, come lo chiamava lui, papà aveva programmato la mia vita fin dalla nascita. Avrei studiato legge e dopo sarei diventato un magistrato, proprio come suo padre e suo nonno prima di lui. “Vedrai che non ti disturberà.” Ripeté papà per l’ennesima volta. “Potrai comunque fare quello che vuoi. È solo per il tuo bene!” Non avevo intenzione di rendergli le cose più facili e nemmeno lo salutai prima di sbattere la porta della mia nuova stanza. “Mi dispiace…” Mi sembrò di sentire dall’altro lato. Ma era solo un sussurro, o forse lo avevo immaginato. Non mi ero nemmeno accorto di aver trattenuto il respiro finché non sentii la porta d’ingresso chiudersi. Il mio ‘coinquilino’ non era ancora arrivato e l’appartamento sprofondò nel silenzio. Quattro mesi dopo, a una settimana dal mio diciannovesimo compleanno, superai il primo esame con il massimo dei voti. I colleghi avevano organizzato una serata fuori per festeggiare e io accettai di unirmi a loro volentieri. La facoltà di legge era impegnativa, ma non così male come avevo immaginato e mi ero fatto anche qualche amico. “Allora, dov’è la festa?” Mi stavo cambiando prima di uscire, e mi voltai per lanciare un’occhiata di traverso al bel ragazzo appoggiato con noncuranza allo stipite della porta della mia stanza. Non gli risposi. Doveva essere appena rientrato da lavoro perché indossava ancora la divisa, e aveva addosso un vago odore di profumo per auto e sudore. Se ne stava lì a fissarmi mentre sorseggiava una bottiglietta di birra ghiacciata. Marco ignorò la mia occhiataccia. Lui era il mio coinquilino. Aveva solo qualche anno più di me e non era nemmeno uno studente. Era davvero una guardia, non in senso figurato, era un poliziotto. E ufficiosamente aveva l’ordine di tenermi d’occhio. “Non fare tardi.” Disse in tono freddo. “Fìdati, non costringermi a cercarti.” Rientrai a casa poco prima di mezzanotte. Marco si era addormentato sul divano davanti alla televisione accesa. Indossava solo un paio di vecchi pantaloncini e teneva i piedi nudi poggiati sul tavolino del soggiorno, accanto a un sacchetto di patatine e due bottigliette di birra vuote. Sbuffai e mi avvicinai per raccogliere le bottiglie. Russava lievemente e non si era nemmeno fatto la doccia, aveva ancora addosso quel tenue odore di auto nuova e sudore. Era alto e magro, con le gambe lunghe e i muscoli del petto e dell’addome definiti. Sapevo che avrei dovuto allontanarmi subito da lui, ma il mio corpo non rispondeva e non riuscivo nemmeno a distogliere lo sguardo dal suo petto che si alzava e abbassava regolarmente. Il rumore di una scena del programma che stava guardando lo fece sussultare nel sonno, e io mi riscossi accorgendomi che lo stavo fissando già da un po'. Corsi via, gettai le bottiglie e mi avviai a passo svelto verso la mia camera, chiudendomi la porta alle spalle cercando di non fare rumore. Poi mi buttai sul letto e affondai la testa nel cuscino sperando di poter scomparire. Qualche giorno dopo, Marco afferrò una tazza dalla credenza in cucina e se la riempì fino all’orlo con i miei cereali e il latte freddo di frigorifero. “Come mai tuo padre ti tiene sotto sorveglianza?” Mi chiese di punto in bianco, sedendosi dall’altro lato del tavolo, proprio di fronte a me Non capivo perché d’un tratto avesse tanta voglia di fare conversazione, io e lui non avevamo scambiato più di due frasi di senso compiuto da quando vivevamo insieme. Lo ignorai mentre finivo velocemente di fare colazione, prima di andare a lezione. “Non mi sembri un tipo… che crea problemi.” Insisté con la bocca piena. Io infilai la mia tazza nella lavastoviglie e cercai di svignarmela
dalla cucina senza fargli sembrare che scappassi. Quando gli passai accanto vidi un mezzo sorriso passare sul suo volto, e potevo giurare di aver visto i suoi denti bianchi scintillare come quelli di un lupo. Di sicuro la colazione mi rimase sullo stomaco per tutta la mattina mentre ripensavo alla sua espressione. Quando rientrai all’ora di pranzo, nell’ingresso c’erano un paio di scarponi neri di pelle abbandonati fuori dalla scarpiera. Era strano, a quell’ora non avrebbe dovuto esserci nessuno in casa. Marco pranzava in mensa o si fermava a mangiare qualcosa per strada se era di pattuglia. In ogni caso, qualcuno si stava facendo la doccia e aveva anche lasciato la porta del bagno aperta. Il nostro appartamento aveva due camere da letto e due bagni, io usavo quello in fondo al corridoio, Marco invece usava quello più grande, proprio di fronte alla mia camera, e quando ci passai accanto non potei evitare di guardare dentro. Ero obbligato a passare di là e non potevo nemmeno camminare ad occhi chiusi, tentai di mettere a tacere la mia coscienza. Il bagno era pieno di vapore, ma potevo comunque scorgere la sua sagoma di spalle dietro le pareti di vetro appannate della doccia. Fissai affascinato i muscoli della sua schiena guizzare mentre si insaponava. Proprio in quel momento, però, Marco si voltò e i suoi occhi incontrarono i miei. Arrossii fino alla radice dei capelli prima di scappare nella mia stanza. Anche attraverso il vetro appannato era impossibile che non avesse notato che lo stavo fissando. “Ti è piaciuto lo spettacolo?” Disse qualche minuto dopo, entrando nella mia camera senza bussare. Indossava una vecchia tuta da ginnastica e i suoi capelli chiari erano ancora umidi. Io strinsi le labbra e mi sforzai di non arrossire di nuovo, volevo conservare almeno quel minimo di dignità che mi era rimasta. “Fòttiti!” Borbottai fra me. Però Marco mi sentì comunque, si infuriò e con una sola falcata mi fu addosso stringendomi una mano al collo. Mi mandò a sbattere contro il muro. In un attimo il suo viso era a pochi centimetri dal mio. “Cosa hai detto?” Mi ringhiò in faccia, era così vicino che potevo sentire il suo respiro caldo sulla pelle. Mi irrigidii, cercando di proteggermi dalla violenza dell’impatto. “Ho detto, fòttiti!” Trovai non so dove il coraggio di ripetere. Avvertii distintamente la contrazione delle sue dita intorno al collo, ero sicuro che se avesse voluto avrebbe potuto spezzarmi le ossa con un gesto. Poi, d’un tratto, un mezzo sorriso increspò le sue labbra. Continuava a fissarmi senza darmi la possibilità di distogliere lo sguardo, non sapevo dove nascondermi mentre l’imbarazzo si aggiungeva alla paura. Mi diede uno schiaffo e lasciò la mano sulla mia guancia, sfiorandomi la pelle che iniziava già a formicolare. “Allora ce l’hai le palle.” Disse facendosi ancora più vicino. Il suo respiro mi bruciava la pelle, odorava di dentifricio alla menta. Provai a distogliere lo sguardo ma Marco mi costrinse nuovamente a guardarlo, e poi, senza nessun avvertimento, all’improvviso mi baciò. Era un bacio urgente e possessivo, quasi rabbioso. Io ero paralizzato, la sua irruenza mi spaventava. Non capivo perché si stesse comportando in quel modo, se volesse solo mettermi alla prova. Mi impediva di allontanarmi o anche solo di girare la testa. Prese ad accarezzarmi la guancia senza mai staccare le sue fameliche labbra dalle mie. Non mi ero nemmeno accorto che avesse spostato una mano finché non sentii la sua presa stringermi dolorosamente il cazzo da sopra i pantaloni. Mi era diventato duro senza che potessi farci niente. Marco staccò le sue labbra dalle mie senza allontanarsi troppo. “Lo sapevo.” Disse sorridendo apertamente. Mi teneva ancora schiacciato contro il muro e non avevo nessuna possibilità di proteggermi. Quando mi strinse di nuovo il collo riuscii almeno a voltare la testa di lato per non essere costretto a incontrare il suo sguardo mentre mi derideva. Invece, inaspettatamente, ricominciò a baciarmi, dalla piega del collo e verso l’orecchio. Sentivo il suo respiro accelerato rimbombarmi nella
testa. Con l’altra mano aveva anche iniziato a massaggiarmi il cazzo da sopra i pantaloni. “Vuoi che mi fermi?” Mi chiese all’improvviso, sussurrando direttamente al mio orecchio. Non potevo rispondere, non sapevo nemmeno io cosa volessi, e comunque lui non mi diede nemmeno il tempo di pensarci. Un attimo dopo, mi ritrovai faccia al muro con tutto il peso del suo corpo sul mio, e il suo braccio sul retro del collo mi teneva il viso premuto contro la parete. Iniziò a mordicchiarmi l’orecchio da dietro, facendomi rabbrividire, e con l’altra mano mi strinse il culo. Non potei fare a meno di gemere pietosamente, ad alta voce, completamente sopraffatto. Potevo sentirlo ridacchiare mentre stringeva un poco tra i denti il lobo del mio orecchio. Nel frattempo, la sua mano si era insinuata sotto la mia maglia sollevandola, ruvida contro la pelle nuda della mia schiena. Mi ritrovai nudo dalla vita in su, di nuovo faccia a faccia. Le sue mani erano ovunque, una si era infilata dentro i miei pantaloni, mentre l’altra mi premeva sul petto. Marco mi impose il silenzio con un altro bacio soffocante. Sulle labbra, sul mento e verso il collo, mi baciò la gola e il petto, fino al capezzolo. Poi verso l’altro lato, lasciando una scia infuocata di baci sulla mia pelle. Mentre baciava delicatamente l’altro capezzolo alzò lo sguardo, per essere sicuro che lo stessi guardando, e quando i nostri occhi si incontrarono, inaspettatamente, mi morse facendomi gemere ad alta voce. Gli piaceva, glielo leggevo negli occhi, il controllo che aveva su di me lo eccitava. Tornò a baciarmi sulle labbra quasi con violenza, senza che nessuno dei due avesse la possibilità di respirare. “Toglimi la felpa.” Ringhiò a meno di un centimetro dal mio viso, quando fummo costretti a staccarci per riprendere fiato. I muscoli del suo petto e dell’addome guizzarono sotto la pelle mentre alzava le braccia per permettermi di sfilargli la maglia. Ma non mi diede il tempo di imprimere quell’immagine nella memoria perché mi costrinse subito in ginocchio. Marco mi pressò contro il muro. Il suo cazzo premeva sul mio viso, evidente sotto la stoffa leggera della tuta. Mi afferrò i capelli obbligandomi a guardarlo negli occhi, umiliarmi in quel modo lo eccitava, e mi fece sfregare il viso sul cavallo dei suoi pantaloni. Poi si chinò avvicinando il suo viso al mio, spingendomi indietro la testa per i capelli, mi fissò per un secondo e pensai che volesse baciarmi nuovamente. Istintivamente allungai il collo alla ricerca delle sue labbra, ma lui sorrise e si tirò indietro all’ultimo secondo. Ero certo che l’avesse fatto di proposito, glielo leggevo negli occhi. Ero mortificato. Lui invece raddrizzò la schiena senza interrompere il contatto visivo tra noi, adesso era certo di avermi in pugno. “Spogliami.” Disse spietato. Non avevo scelta, mi tremavano le mani quando afferrai l’elastico della tuta. Ero spaventato dai suoi modi e arrabbiato per il suo atteggiamento, ma più di tutto ero eccitato da quella situazione completamente nuova per me. Tirai i suoi pantaloni verso il basso con cautela, non volevo che capisse quanto in realtà fossi impaziente. Lui però sembrava in grado di leggermi nel pensiero. “Non avere fretta…” Mi prese in giro facendomi arrossire violentemente. Non indossava biancheria intima e il suo cazzo stretto nei pantaloni quasi rimbalzò sul mio viso non appena lo liberai. Era grande, spesso, e puntava minaccioso contro di me, dritto come una lancia. Stringeva ancora in pugno i miei capelli e non potevo fare nulla se non stare lì fermo a guardarlo, con gli occhi sbarrati. Marco afferrò la sua asta alla base e la fece oscillare un paio di volte a qualche centimetro dal mio viso, come un osso davanti a un cane. “Lo vuoi?” Mi chiese con soddisfazione, iniziando a colpirmi lievemente il naso e poi la guancia con il suo arnese. La mia risposta doveva essere ovvia ma lui invece lasciò andare il cazzo e all’improvviso mi diede uno schiaffo. Non forte, ma abbastanza da farmi piagnucolare ridicolmente per la frustrazione. Mi costrinse ad alzare la testa e si chinò
per baciarmi davvero, sorreggendo la mia nuca con una mano. Ero completamente sotto il suo controllo, e mentre ci baciavamo sentivo in bocca il sapore del suo dentifricio mentre la sua lingua mi invadeva completamente. “Dai, fammi vedere cosa sai fare.” Sussurrò interrompendo quel bacio bagnato, e un secondo dopo il suo cazzo puntava di nuovo contro le mie labbra arrossate e socchiuse. Lo stringeva alla base con una mano mentre con l’altra mi teneva il mento accompagnandomi verso l’asta. Quando entrò nella mia bocca per un momento fu traumatico, ne avevo dentro solo una piccola parte ma mi sembrò di soffocare, era più grosso di qualunque cosa avessi mai avuto in bocca, e avevo paura di toccarlo con i denti. Però era anche caldo e liscio contro la mia lingua e allo stesso tempo duro, come un ferro rivestito di morbida seta. Non sapevo bene cosa fare, senza pensarci allargai i denti e provai a prenderlo più in fondo, stringendolo tra le labbra mentre mi tiravo lentamente indietro. Marco inspirò rumorosamente e me lo tolse senza dire nulla. Io rimasi a bocca aperta, come uno stupido, chiedendomi se avessi fatto qualcosa di male. Lui lo fece sbattere un paio di volte sulla mia lingua con soddisfazione, poi senza preavviso lo rispinse dentro ancora più in fondo. Mi ritrassi d’istinto, sorpreso per quell’invasione improvvisa, ma lui mi afferrò nuovamente per i capelli tirandomi a sé e costringendomi a prendere in bocca il suo cazzo fino quasi alla metà. Ero nel panico, non potevo respirare e provai a divincolarmi, ma la sua presa era troppo forte. Durò solo un secondo, poi lo ritirò fuori completamente, alla stessa velocità con cui era entrato, lasciandomi a boccheggiare per l’aria. Avevo le lacrime agli occhi, Marco invece si era eccitato e continuava a colpirmi sulle labbra e sulla lingua con la sua asta, facendola oscillare divertito. Poi, tenendosi il cazzo alla base e con i miei capelli ancora stretti in pugno, mi costrinse a riprenderlo in bocca per una buona parte. Si tirò leggermente indietro e lo spinse di nuovo dentro fino a metà. Il suo cazzo rovente pulsava tra le mie labbra. Ripeté quel gesto un paio di volte, spingendosi più avanti ad ogni affondo. Stava mettendo alla prova la mia resistenza e il mio disagio non faceva altro che accrescere la sua libidine e il suo senso di dominio. In preda alla frenesia iniziò a fare avanti e indietro con il cazzo dentro la mia bocca, facendolo sfregare rudemente sulla lingua e sul palato. Finché un affondo mi colpì troppo vicino all’ingresso della gola e mi ritrovai a soffocare, trattenendo a stento un conato. Lui ne sembrava orgoglioso, sfilò il suo cazzo dalle mie labbra e si chinò a baciarmi. Mi accarezzò le guance con delicatezza, quasi a volermi consolare, sorreggendomi la testa tra le mani mentre le sue labbra divoravano le mie. Senza interrompere il bacio mi fece rialzare in piedi e quando le nostre lingue intrecciate si separarono mi morse il labbro inferiore, riluttante a lasciarmi andare. In quel momento avrei voluto dire qualcosa, ma ero semplicemente sopraffatto dall’intensità di quelle emozioni primordiali e da tutte quelle sensazioni che stavo sperimentando per la prima volta nella mia vita. Alla fine, rimasi in silenzio completamente perso nei suoi profondi occhi blu, scuri come la notte e offuscati per l’eccitazione. Un attimo dopo, quasi come una marionetta tra le sue dita mi ritrovai nuovamente a dargli le spalle, stretto tra il freddo muro di cemento e il suo altrettanto solido corpo rovente. In quella posizione mi sentivo indifeso eppure, allo stesso tempo, stranamente al sicuro nel suo abbraccio. Dal canto suo, Marco non si curava dei miei dilemmi interiori e prese a baciarmi con foga sul retro del collo e verso le spalle, spingendo con prepotenza il suo corpo sul mio. Potevo sentire il suo cazzo d’acciaio premere minacciosamente contro i miei pantaloni. Poi le sue intenzioni si fecero chiare, mi strinse il culo con una mano e allo stesso tempo i suoi baci sulla mia spalla si trasformarono in un morso. Un brivido mi corse attraverso la spina
dorsale fino alla base del collo, facendomi irrigidire mentre un gemito lamentoso mi si spezzava in gola. Un secondo dopo, smise di premere sulla mia schiena e le sue mani iniziarono a tastare alla cieca i bottoni dei miei pantaloni. Quasi li strappò via strattonandoli con impazienza e prima che me ne rendessi conto mi ritrovai con i pantaloni calati fino a metà coscia. Ormai era rimasto solo il tessuto sottile della biancheria intima a fare da barriera tra i nostri corpi. Mi divincolai, volevo almeno voltarmi e fronteggiarlo invece che stare in quella posizione fin troppo vulnerabile. Ma in un attimo, forse intuendo le mie intenzioni, Marco mi bloccò con un braccio sulla schiena impedendomi qualsiasi movimento mentre con l’altra mano mi stringeva il culo da sopra i boxer. Poi mi colpì. Quella sculacciata sonora mi fece sussultare vistosamente, più per la vergogna che per il dolore. “Dove volevi andare, eh?” Mi sussurrò Marco all’orecchio, da dietro, facendomi arrossire se possibile ancora di più. Prima che me ne accorgessi mi ritrovai a piagnucolare pietosamente senza senso. La sua mano non aveva mai smesso di massaggiarmi con prepotenza il culo. “Ti piace se faccio così?” Disse stringendo la natica, appena prima di colpirmi un’altra volta con più forza. Questa volta non riuscii a trattenere un gemito e Marco soddisfatto risalì con la mano il mio addome e il petto fino al collo, costringendomi a voltare la testa verso di lui. “Si che ti piace.” E mi baciò ancora con foga. Quella rivelazione sembrò provocarlo. Senza esitare quasi mi strappò di dosso i boxer lasciandomi completamente esposto, si inginocchiò alle mie spalle e poi rimase lì senza fare nulla. Mi vergognavo da morire, nessuno mi aveva mai guardato in quel modo, così da vicino, e il fatto che non stesse facendo nulla, che se né stesse semplicemente a guardarmi in silenzio, non faceva altro che rendermi ancora più nervoso. Stavo quasi per mettermi a piangere per l’ansia quando sentì le sue mani sfiorarmi i glutei, dapprima un tocco leggero, poi in un massaggio sempre più profondo. Mi baciò sulla natica e mi morse una volta e poi un’altra. E ogni volta un brivido mi risaliva lungo la schiena quasi dolorosamente. Marco continuò a baciarmi e colpirmi e mordermi fino a che iniziarono a tremarmi le gambe. Poi, quando iniziai gradualmente ad abituarmi a tutto questo, affondo il viso tra le mie natiche, toccando il luogo più nascosto e privato del mio corpo e io mi sentii morire. Non può essere vero, pensai fuori di me. Persi ogni briciolo di forza e sarei crollato se lui non mi avesse sostenuto. Iniziò a leccarmi e baciarmi in punti del corpo che non sapevo neanche esistessero, inviando ad ogni tocco potenti scariche elettriche direttamente al mio cervello. Mi costrinse a piegarmi in avanti, la sua lingua era ovunque e mi sembrava di impazzire, poi all’improvvisò si fermò tenendomi le natiche spalancate, sentivo il suo respiro affannato sulla pelle umida intorno al mio buco così vergognosamente esposto. Quando sentii il suo dito farsi strada lentamente dentro di me il respiro mi si bloccò in gola. Subito una sculacciata dolorosa mi costrinse a sussultare. “Non irrigidirti.” Mi ordinò Marco iniziando a muovere con cautela avanti e indietro il suo dito dentro il mio corpo. Si alzò senza toglierlo, poggiandosi di nuovo su di me e ricominciò subito a baciarmi l’orecchio da dietro e poi verso le labbra, continuando a muovere ritmicamente quel dito dentro di me fino a farmi sciogliere completamente in una pozza di piacere e desiderio. Quando le nostre labbra si separarono, mi afferrò per le spalle e mi spinse sul letto. Le sue intenzioni erano chiare e per la prima volta da quando tutto questo era iniziato ero davvero terrorizzato. “Aspetta…” Sussurrai. Marco non staccava i suoi occhi dai miei, come un leone che aveva puntato la sua preda. “Cosa?” Disse facendo un passo verso di me, minaccioso. Mi sentii gelare. “Aspetta!” “Perché?” Ormai aveva già coperto la breve distanza che ci separava e si era insinuato tra le mie gambe. Il suo cazzo pulsava a pochi
centimetri da me e all’improvviso sembrava ancora più grosso e intimidatorio di prima. “Io non l’ho mai fatto!” Gridai, pieno di angoscia. Per un momento, Marco mi fissò perplesso e immobile, poi qualcosa nella sua espressione si incrinò. Pensai non gli importasse che non avessi nessuna esperienza e mi irrigidii, preparandomi a resistere contro il suo prossimo assalto. Invece lui iniziò a ridere. Ero sbalordito, non mi aspettavo che reagisse in quel modo ma lui stava ridendo sempre più forte e non accennava a smettere. Stava ridendo di me. Iniziavo ad arrabbiarmi sul serio. Non aveva il diritto di umiliarmi in quel modo. “Sei uno stronzo!” Gli gridai in faccia, mi veniva da piangere ma non potevo sopportare che mi vedesse in quello stato. “Vattene!” Gli urlai contro, spingendolo per levarmelo di dosso ma era come premere contro un muro. “No, dai, scusa, scusa!” Disse cercando di trattenere le risate, senza molto successo. Ero furioso. “Devi andartene! Esci dalla mia camera!” “Dai, aspetta, scusa.” Riuscì a calmarsi alla fine. “È solo che non me lo aspettavo, davvero.”
Lo guardai dubbioso, temevo che mi stesse ancora prendendo in giro e rimasi sulla difensiva. Marco mi guardava dritto negli occhi, onestamente. Sembrava davvero sincero, e dalla rabbia iniziai a passare all’imbarazzo per quella confessione e la sfuriata che ne era seguita. Ad un tratto non sapevo più cosa dire e avrei voluto solo nascondermi. “Tutto a posto adesso?” Mi chiese Marco quando sembrava che mi fossi calmato. Non so perché gli credevo. Avere una conversazione con lui, però, era impossibile con il suo cazzo che oscillava a pochi centimetri da me. “A posto.” Riuscii a rispondergli dopo un po', arrossendo. “Ma potresti togliere quel coso enorme dalla mia gamba, per favore.” Mi pentii subito per la scelta infelice delle parole. Marco abbassò lo sguardo, seguendo la direzione del mio, poi tornò a guardarmi sollevando le sopracciglia. Ma anziché levarsi di dosso si sdraiò proprio sopra di me, avvolgendomi completamente. Il suo viso era di nuovo a pochi centimetri dal mio. “Mi sembrava che quel ‘coso enorme’ fino a poco fa ti piacesse, o sbaglio?” Io arrossi violentemente e Marco mi guardò con soddisfazione. Non sapevo proprio cosa dire per uscire da quella situazione. Per fortuna, presto Marco mi levò dall’imbarazzo, allungò il collo e riprese a baciarmi. E almeno per un po' non ero costretto a dire nulla..
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raccontidiragazzi · 3 years
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Regole Di Buon Vicinato
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Erano le nove e mezza, e per cena avevo ordinato una pizza gigante con doppia mozzarella, contando su qualche avanzo per l’indomani. Faceva caldo e in casa indossavo solo dei vecchi slip. Quando suonarono alla porta indossai velocemente dei pantaloncini e altrettanto rapidamente li sfilai appena rimasi nuovamente solo. Quella sera avevo ripreso a seguire una serie televisiva straniera. Da quando ero rientrato da scuola ne avevo già guardato quattro episodi di fila e avevo tutta l’intenzione di finire la stagione prima di andare a dormire. Pizza, cola e divano erano la mia ricetta per quel tranquillo mercoledì sera. Per questo quando il campanello squillò una seconda volta, neanche un minuto dopo, ne rimasi tanto sorpreso. A malincuore misi in pausa l’episodio, indossai nuovamente i pantaloncini sopra i miei comodi slip scuciti e andai ad aprire. Magari quel fusto del portapizze aveva finito il giro ed era tornato a farmi visita, pensai tra me e me sorridendo come uno stupido.
Non avrei potuto essere più deluso quando mi ritrovai davanti Simone. Ci eravamo trasferiti nel palazzo più meno nello stesso periodo e avevamo fatto conoscenza. Ma niente di più, eravamo troppo diversi per diventare davvero amici. Simone era più grande di me di qualche anno, aveva già un lavoro - nell’impresa edile di famiglia - e passava la maggior parte del suo tempo libero in giro per locali a bere con amici del suo stesso tipo. Arroganti e ottusi, dal mio punto di vista tutti muscoli e poco cervello. «Hai ordinato la pizza? Sto morendo di fame!» Disse entrando senza un invito e senza nemmeno salutare, se è per questo. «Ho portato la birra!» «Accomodati,» mugugnai. Odiavo la birra. Richiusi la porta alle nostre spalle e lo seguii lentamente in soggiorno. Con un broncio malcelato. Lo trovai sul divano con un quarto di pizza in una mano e una bottiglia di birra nell’altra. «Stavi guardando un porno?» Mi chiese ammiccando con le sopracciglia e la bocca piena, indicando la scena di sesso impressa nel fermo immagine sullo schermo della televisione. «Credevo fossi fro… insomma che ti piacesse… capito? Porca, ma che figa è questa?!» Ero senza parole. Ottuso era riduttivo nei suoi confronti. Non avevo mai conosciuto nessuno con una mentalità più ristretta. Per mia fortuna, pensai, e quasi mi venne da ridere. «Non è un porno,» risposi invece con un leggero cipiglio, ignorando volontariamente il resto del suo discorso. Dopotutto, non ero obbligato a informarlo sul mio orientamento sessuale. In ogni caso, feci ripartire l’episodio per evitare di dover approfondire la questione. Sedetti accanto a lui, maledicendomi per non aver comprato una poltrona, e presi un pezzo di pizza cercando di concentrarmi sulle immagini davanti a noi. Anche se era difficile ignorare la sua presenza. «Di cosa parla?» Mi chiese dopo aver letteralmente divorato il secondo quarto di pizza. Mentre elaboravo una risposta soddisfacente, sintetica ma esaustiva, approfittai per guardarlo bene. I muscoli mettevano a dura prova la stoffa della sua maglietta e i peli rossicci del petto quasi si congiungevano a quelli della barba perennemente ispida. Aveva un bel viso dai lineamenti decisi e regolari , gli occhi scuri e le ciglia lunghe, sopracciglia folte e trasandate e i capelli fra il biondo e il rossiccio tenuti cortissimi. «Di una coppia che si trasferisce in una casa infestata, con dei vicini inquietanti… e invadenti.» Calzava a pennello, e non solo alla serie. Simone annuì compiaciuto, come se avesse finalmente capito qualcosa che fino a quel momento gli era sfuggito. Poi si aprì un’altra birra e tornò a concentrarsi sulla televisione. Poco più tardi finirono in contemporanea l’episodio, la pizza e la terza bottiglietta di birra di Simone. Per la cronaca io avevo mangiato poco più di un quarto di pizza e non c’erano avanzi per l’indomani, nemmeno un pezzetto di bordo. Bloccai la riproduzione automatica prima che partisse il prossimo episodio e portai via dal tavolino del soggiorno il cartone vuoto della pizza e le bottigliette di vetro. Mentre tornavo dalla cucina mi ritrovai a sperare che Simone ne approfittasse per congedarsi, eppure quando lo trovai in piedi nel soggiorno, pronto per andare via, ne rimasi quasi deluso. «Devo pisciare,» disse invece lui come niente fosse, sfilandosi la maglietta. Non ci pensava lontanamente ad andarsene. Era proprio tipico di lui. In più aveva un sorriso ebete stampato in faccia che mi dava ai nervi. Se non fosse stato più alto di me di tutta la testa e grosso quasi il doppio mi sarebbe piaciuto strappargli quel sorrisetto a suon di pugni. «Sai dov’è il bagno.» Gli feci notare di malavoglia, i nostri appartamenti erano disposti allo stesso modo. Anche se in fondo ero sollevato che volesse restare ancora un po’. Molto in fondo. E avrei preso a pugni anche me stesso per questo. «Si, DaniX, ovvio.» Rimasi congelato. Perché mi aveva chiamato in quel modo? Credevo che la testa mi sarebbe andata a fuoco per tutti i pensieri che mi si accavallarono nel cervello. Poi i miei occhi si posarono sul portatile aperto
sul divano. Non l’avevo rimesso a posto? Lo avevo lasciato acceso la sera prima? Arrossii, sbiancai e divenni verde nel giro di pochi secondi. Avevo la nausea e mi girava la testa. Aprii la bocca più volte ma senza riuscire a dire nulla. «Non è come sembra…» sussurrai alla fine, con la voce così bassa che anche io faticai a sentire ciò che avevo detto. «L’annuncio è piuttosto chiaro, DaniX» Sottolineò Simone, enfatizzando il nome che mi ero dato sul sito d’incontri. «AAA cercasi vero uomo, nessun limite, no virtuale, no indecisi.» Imprecai mentalmente e maledissi me stesso per la mia stupidità. «Era solo… un gioco» farfugliai con voce strozzata. Non ci credevo nemmeno io. «Facciamo così» disse Simone sfilandosi lentamente i pantaloncini, senza staccare gli occhi dai miei e senza smettere un attimo di sorridere. Non indossava biancheria intima. «Finché fai tutto quello che ti dico ‘giochiamo’, se rifiuti rimetto i pantaloni e non ne parleremo più. È chiaro?!» «Chiaro.» Ripetei imbambolato. Il suo cazzo aveva appena iniziato a gonfiarsi e tutto ad un tratto non c’era altro nel mio universo.
Era per gioco. Simone continuava a fissarmi, in attesa, con le mani sui fianchi, e con il grosso cazzo mezzo a riposo perfettamente in mostra. Non provava nessuna vergogna a starsene lì nudo, esposto. Anzi, gli veniva naturale. Il suo sguardo diceva solo “che aspetti?” «Io non…» Volevo disperatamente spiegargli che non era un annuncio serio. Che speravo al massimo di scambiare due chiacchiere con qualcuno. Davanti alla tastiera, non di persona. Che non avevo mai fatto niente, di persona. Questo però non potevo dirglielo. Sarebbe stato troppo imbarazzante. Come se tutta quella situazione non lo fosse già abbastanza. Le pareti e il soffitto sembravano farsi più vicini, mi opprimevano. All’improvviso la stanza non voleva saperne di stare ferma «Io non…» Ripetei a voce bassa. Ma non sapevo più cosa dire. Mi mancava l’aria. La sveglia squillò alle sette in punto, impietosa e insistente. Provai a bloccarla ma il telefono non era al suo posto sul comodino. Allora tentai di soffocarla con il cuscino ma mancai miseramente il bersaglio. Ero una causa persa. Mentre mi spazzolavo i denti davanti allo specchio ripensai allo stupido sogno che avevo fatto quella notte. A dire il vero, non ricordavo molto a parte un bel cazzo attaccato a un bel corpo, con bei muscoli e tutto il resto, e questa non era certo una novità. Infatti mi ero svegliato con un erezione incredibile e neanche questa era una novità - così, sotto la doccia, iniziai ad accarezzarmi le palle con una mano, mentre l’altra andava già su e giù lungo l’asta facendo scorrere la pelle sulla cappella gonfia e sensibile che pulsava sempre più forte. L’immagine di quel cazzo barzotto mi era rimasta impressa e sembrava invitarmi, facendomi perdere la cognizione di tutto il resto, e prima che me ne accorgessi mi ritrovai a schizzare sulle piastrelle della doccia e nella mia mano. Era stato un orgasmo piuttosto intenso, che però mi lasciò spossato e c’era anche una sensazione spiacevole che accompagnava tutto il resto. L’ombra di qualcosa che non riuscivo a mettere a fuoco, qualcosa di importante. Alla fine uscii di casa senza fare colazione, ero già in ritardo alla prima ora. Quella giornata non stava iniziando bene. E durante la pausa pranzo, dopo una verifica a sorpresa - andata male - e un equazione complessa equivalente a un sistema di equazioni reali la cui conclusione era impossibile - conclusione a cui non ero arrivato - non credevo davvero che quel giorno potesse andare peggio. «Eh?» Chiesi al mio migliore amico mentre fissavo disgustato l’insalata di pasta sul piatto di fronte a me. Mi piaceva la pasta. Ma avevo lo stomaco chiuso. «Sei fuori,» disse Marco scocciato, come se me lo avesse già detto. «Oggi c’è la partita! Cerca di rimanere concentrato, se non passiamo i quarti per colpa tua gli altri ti faranno il culo.» Rimase a fissarmi con uno sguardo vagamente preoccupato. «E anche io, coglione!» Annuii con fermezza, mostrandomi quanto più possibile sicuro di me. Anche se Marco non sembrava molto convinto. Passammo per un soffio. Segnai dieci punti al ventesimo del terzo tempo. Praticamente due secondi prima del fischio finale. Per un attimo dimenticai le mie preoccupazioni travolto dall’euforia dei miei compagni e dai festeggiamenti per le semifinali. Erano sette anni che la nostra scuola non andava oltre la fase a gironi delle regionali. E il torneo nazionale iniziava a diventare più concreto ad ogni vittoria. Mi stavo rivestendo dopo la doccia insieme agli altri quando notai una notifica lampeggiare sul telefono. Ormai mi ero fatto prendere dallo spirito dei festeggiamenti e non me ne preoccupai. Neanche quando vidi il nome di Simone. Almeno finché non rilessi il messaggio per la terza volta. Erano solo poche, semplici, innocenti parole. Eppure mi fecero sprofondare. “Ci rivediamo stasera da te, porto la birra” «Abbiamo vinto, cazzo! Abbiamo vinto! Dani, abbiamo vinto!!» Marco saltellava di allegria come un dannato coniglio. Io ero frastornato. All’improvviso i ricordi mi avevano travolto con la violenza di una palla di ferro da demolizione. Non era
un sogno, cazzo, non era uno stupido sogno. Era un incubo, ed era vero. «Dani, che hai? Forza, abbiamo vinto!!» Marco sembrava sinceramente persuaso che dopo una vittoria fosse impossibile stare male. O forse che vincere aggiustasse ogni cosa. Quanto avrei voluto che fosse vero. Una volta a casa non trovai niente di meglio da fare che starmene seduto e battere la testa sul tavolo maledicendomi per la mia stupidità. Eliminai l’annuncio, come se quel gesto potesse cancellare anche tutto il resto. In fondo ci speravo, e quasi me ne convinsi finché il campanello non mi riportò alla realtà. «Ciao, piccolo,» Simone entrò con la solita spensierata arroganza. Non lo faceva di proposito. Era semplicemente così. «Hai dormito bene? Non è l’effetto che faccio di solito, sai?» «Ciao,» risposi cauto. «Chissà se il tipo con la maschera scoperà con suo figlio.» Disse serio all’improvviso. Rimasi spiazzato, non sapevo cosa dire, come comportarmi, neanche avevo la minima idea di cosa stesse parlando. Ormai faticavo a ragionare lucidamente. Simone mi fissò in modo strano, forse pensava che sarei svenuto di nuovo. «La serie... l’uomo coperto di gomma, la casa infestata e via dicendo… Dani ci sei?» Mi ci volle qualche secondo per registrare le sue parole. «Ma… tu… ieri…» mi serviva un eternità per formulare pensieri coerenti e tradurli in parole. Simone continuava a fissarmi e iniziò a far roteare leggermente la testa a tempo con una mano, come invogliandomi a continuare o forse a darmi una mossa. «Ieri tu ti sei spogliato, proprio laggiù, davanti a me!» Dissi alla fine tutto d’un fiato, indicando con un dito un punto davanti al divano del soggiorno. Immediatamente mi sentii molto stupido e abbassai di scatto il braccio. Mi tremavano le mani e le strinsi a pugno tenendo le braccia strette lungo i fianchi. Non avevo più il coraggio di guardarlo e abbassai lo sguardo, fissandomi la punta delle scarpe. «Si,» disse Simone, con quel suo tono sempre così fastidiosamente tranquillo. «E tu sei svenuto. Oggi volevo fare le cose con più calma, se ti va. Ma se preferisci che mi spogli subito devi solo chiederlo.» Alzai un poco lo sguardo perché volevo capire se mi stesse prendendo in giro. Sul viso aveva impresso il suo solito sorrisetto irritante, ma nessun segno che non fosse serio. Non so dove ma all'improvviso trovai il coraggio di farmi avanti. «Una regola,» gli dissi serio, sorprendendo anche me stesso per la mia reazione. Simone aggrottò impercettibilmente le sopracciglia, senza smettere di sorridere. Poi mi invitò a continuare. «Questa cosa la facciamo solo a casa.» Ma cosa stavo dicendo? Quale cosa? Senza dubbio ero impazzito. Simone sembrò pensarci mentre soppesava le mie parole. Poi si fece serio e mi inchiodò con lo sguardo, costringendomi ad indietreggiare fino a mettermi con le spalle al muro. «Mettiamola così,» disse con un tono che non ammetteva repliche, poggiando le mani al muro ai lati della mia testa. Adesso ero in trappola, non potevo neanche distogliere lo sguardo. Un brivido mi corse lungo la spina dorsale «Ti prometto che a letto sarò io a dare gli ordini. Ma prima ti andrebbe di uscire insieme? Vorrei fare le cose per bene.» «Tipo un appuntamento?» Gli chiesi sorpreso. Sentendomi troppo stupido per l’ennesima volta in quella pazza giornata ma allo stesso tempo un poco più tranquillo. «Si, tipo un appuntamento.» Disse Simone più serio che mai. Forse la mia erezione sarebbe bastata come risposta. Ma per sicurezza dissi comunque di si
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raccontidiragazzi · 5 years
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Tagliati fuori - III parte
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Assicurai saldamente il polso sinistro di Daniele alla struttura del letto. Non persi nemmeno tempo a chiedermi perché il capitano tenesse quelle corde nei suoi alloggi. Daniele non si oppose, anzi, penso che gli piacesse. Strinsi più forte e finalmente ottenni da parte sua un lamento soffocato. Lo guardai negli occhi, in attesa.
Chiedimi di smettere. Forza, di che ne hai abbastanza e mi fermerò, lo supplicai in silenzio. Ma per tutta risposta, Daniele sospirò di piacere testando dolorosamente la resistenza delle corde.
Serrai ancora di più il nodo. Volevo essere sicuro che non potesse liberarsi in alcun modo. Quando facevo qualcosa la facevo bene, anche se ero costretto.
Stavo per legare anche il polso destro quando tutte le luci dell’alloggio si accesero di un rosso violento. Mi irrigidii e con la coda dell’occhio, alle mie spalle, vidi il capitano reagire allo stesso modo. Un secondo dopo il segnale d’allarme risuono acuto tre volte.
Nel breve tempo che Daniele impiegò a liberarsi, io e il capitano stavamo lasciando l’alloggio diretti sul ponte di comando.
«Aspetta qui,» gridai al ragazzo uscendo, cercando di sovrastare il frastuono dell’allarme, e lo lasciai nudo e confuso sul letto del capitano.
In meno di due minuti dal suono dell’allarme il capitano prese posto sulla sua poltrona sul ponte di comando e io mi precipitai alla mia postazione.
«Rapporto,» pretese il capitano a denti stretti.
La situazione era grave. «Nave sconosciuta a quattro unità, a 46.5-00, ha le armi pronte al fuoco e ci hanno agganciato, signore.»
Il capitano strinse i pugni fino a far sbiancare le nocche. «Come hanno fatto ad avvicinarsi tanto, mancava un quarto di ciclo al punto di intercettazione, perché non li abbiamo rilevati?»
«Navighiamo a vista, signore.» Il timoniere fu costretto ad alzare la voce per farsi sentire in mezzo al trambusto sul ponte di comando.
Il capitanò batté il pugno sul bracciolo della sua poltrona facendolo scricchiolare in modo sinistro. «Manovra di Alboreto, tenente Mutti.»
«Hanno già fatto fuoco, signore, lanci multipli, punti d’impatto sala macchine e ponti 1 e 2.»
Ci restavano meno di trenta secondi, troppo pochi per qualsiasi manovra evasiva.
«Assetto di difesa.» Il capitano non perse la calma.
Un accelerazione improvvisa mi schiacciò sul sedile, il tenente Mutti aveva iniziato a manovrare. «Da questa distanza non posso eluderli, signore.»
Espirai, preparandomi all’impatto, poi qualcosa mi sfiorò la spalla. Voltai lo sguardo e mi ritrovai a pochi centimetri dal volto pallido e sorprendentemente quieto di Daniele. «Cosa ci fai qui? Ti avevo ordinato…»
«Mi dispiace,» mi interruppe e si insinuò tra le mie gambe, frapponendosi tra me e il terminale. C’erano modi peggiori di morire, avevo il suo bel culo fasciato dall’uniforme proprio sul cazzo. Mi ritrovai a sorridere come un idiota e non so come mi rilassai, la sua presenza mi tranquillizzava.
Una frazione di secondo dopo la nave tremò e stridette terribilmente, e poi nulla. Per un attimo mi chiesi se si potesse morire senza accorgersene. Poi l’allarme risuonò nuovamente, tre volte, assordante nel silenzio surreale che si era creato sul ponte di comando.
Mi raddrizzai sulla poltrona, e impaziente feci spostare di malo modo Daniele dalla mia postazione, avevo il cazzo duro stretto fastidiosamente nell’uniforme.
«Rapporto,» ringhiò il capitano per la seconda volta, spostando velocemente il suo sguardo feroce tra me e Daniele.
«Nessun danno, signore, le testate sono esplose prima di colpirci.» Era impossibile. «Ci hanno mancato.»
«Non staremo qui ad aspettare che aggiustino la mira.» Il capitano non aveva mai smesso di fissare me e Daniele. «Tenente Mutti, ci porti via di qui.»
«Sissignore.» Rispose il timoniere poco prima di far allontanare l’Asteria dalla nave nemica che ci aveva quasi distrutto.
Dejana era furioso. «Siamo finiti in un imboscata,» gridò gravemente. «Il sistema di comunicazione a lungo raggio è fuori uso da una settimana.» Si guardò attorno, fissando uno per uno gli ufficiale in sala tattica. «Sapevano esattamente dove trovarci,» aggiunse. «Voglio un rapporto dettagliato. Subito.»
«Le comunicazioni sono ancora inattive, signore.» Fu Rubbio, l’ufficiale anziano addetto alle comunicazione ad azzardarsi a parlare per primo. «Tutti i sistemi funzionano entro i parametri prestabiliti ma non riceviamo nulla, non risulta nessuna comunicazione in entrata, signore.»
Il capitano rimase in silenzio, con un espressione truce a contrargli il volto al posto del solito sorriso, amichevole quanto fasullo.
«Abbiamo subito lievi danni allo scafo, dovuti in gran parte all’onda d’urto delle esplosioni, le riparazioni sono già iniziate e saranno completate entro due turni. I motori, i sistemi di difesa e gli armamenti non sono stati colpiti.» Era una buona notizia. Il vice comandante Mereu, l’ufficiale tattico della nave, sembrava piuttosto tranquillo rispetto alla nostra situazione.
Dejana batté i pugni sul tavolo di vetro, facendolo tremare tanto che temetti si sarebbe disintegrato sotto il colpo. «E a cosa ci sono servite le armi, le difese o i motori? Eravamo inermi!»
Tutti nella sala si irrigidirono, per lo più compostamente. Mereu invece tremava visibilmente.
«Ci hanno colti di sorpresa, nessuno si aspettava un attacco del genere,» calcai il tono su quel “nessuno”. Dovevo calmare le acque prima che il capitano riversasse la sua frustrazione e la sua ira sull’equipaggio. E li per li non trovai modo migliore che sottolineare le sue, e le mie responsabilità per farlo. «In ogni caso, hanno esaurito l’effetto sorpresa, l’equipaggio è pronto e finché restano nel nostro campo visivo potremo rispondere a qualsiasi attacco. Loro non possono sapere che i nostri sistemi di comunicazione sono fuori uso.»
Tutti nella sola ripresero lentamente a respirare, compreso io. Il capitano stava soppesando attentamente le mie parole. Un accenno di sorriso riapparve sulle sue labbra, sembrava che avesse iniziato a riacquistare la calma, eppure la stretta dei suoi pugni non accennava ad allentarsi. Aveva le nocche quasi livide.
«Ne sei proprio sicuro?» Disse dopo un minuto. Poi ci congedò, senza aggiungere altro. Ero certo che volesse riflettere da solo sulle informazioni che avevamo fino a quel momento, prima di prendere qualsiasi decisione.
Prima che lasciassi la sala però mi prese da parte. «Voglio parlare con il tuo ragazzo.» Mi disse in tono neutro.
Il modo in cui aveva sottolineato quel “tuo” però fece scattare qualcosa dentro di me. Cosa poteva volere Dejana da Daniele?
«Sissignore,» assentii pensieroso prima di congedarmi.
Trovai Daniele nel suo alloggio sul ponte sette. Era sul letto, dormiva a pancia sotto sopra le lenzuola. Completamente nudo. Per un attimo scordai perché ero andato a cercarlo e il cazzo iniziò subito indurirsi stretto sotto l’uniforme. Quel culo era la cosa più bella che avessi mai visto, ogni centimetro di lui mi attirava come la fiamma per una falena. Mi era difficile anche solo pensare lucidamente quando eravamo nella stessa stanza. Mio, mio, mio, in sottofondo il mio cervello continuava a mandarmi sempre lo stesso messaggio. Volevo stare con lui. Dovevamo stare insieme.
Gli sedetti accanto sul letto, attento a non svegliarlo, e presi ad accarezzargli delicatamente la schiena. La sua pelle era incredibilmente liscia e delicata, quasi trasparente, mi sembrava quasi di riuscire a vederci attraverso. Lo sentii mugugnare qualcosa nel sonno.
Come facesse a dormire così dopo che eravamo quasi morti era qualcosa che non riuscivo a capire. Io avevo l’adrenalina che mi pompava ancora nelle vene e in quel momento volevo solo scoparlo.
«Ehi,» gli sussurrai all’orecchio chinandomi su di lui. «Svegliati piccoletto.»
Corrugò lievemente la fronte nel sonno, contrariato, poi aprì gli occhi e mi sorrise. «Ciao» disse.
«Ciao, pigrone.» La sua spensieratezza e il suo sorriso erano contagiosi. Quando eravamo vicini stavo bene, meglio di come fossi mai stato.
«Non sono un pigrone…»
Lo interruppi subito poggiandogli un dito sulle labbra. «Ho voglia di scoparti.» Gli dissi sinceramente. Era inutile girarci intorno.
Daniele sussultò e sgranò gli occhi. Ma la sua sorpresa durò appena un secondo, un attimo dopo si era chinato affondando il viso tra i cuscini. Aveva portato indietro le braccia e allargato le natiche perfette con le mani. Teneva la schiena arcuata, facendo sembrare il culo ancora più grande. Adesso il suo minuscolo forellino rosa era esposto e invitante. Mi stava offrendo tutto se stesso.
Mi leccai le labbra e strofinai con le dita l’accenno di barba che iniziava a ricoprirmi il mento. Percorsi la linea al centro del suo sedere fino a sfiorare il buchetto. Daniele rabbrividì e gemette di anticipazione.
Non potevo più aspettare e mi chinai, avvicinando il viso. Sapeva di buono, sapone, cuoio dell’uniforme e un accenno di sudore maschile. Per me era impossibile resistergli, e iniziai a divorarlo.
Daniele rabbrividì mentre il suo culo veniva aggredito. Sentii il suo buchetto stringersi e rilassarsi mentre le mia lingua si muoveva avanti e indietro. I suoi gemiti riempivano la stanza. Allora lo afferrai per i fianchi e iniziai a tirarlo verso di me, e subito lui iniziò a spingere indietro il culo da solo, gemendo ogni volta che ci passavo sopra la lingua.
Allontanai il viso e gli schiaffeggiai i glutei con forza, lasciando la mia impronta rossa sulla pelle. Daniele piagnucolò e gemette rumorosamente. «Ti prego scopami! Ne ho bisogno, ti prego!» Mi implorò disperato.
Non potevo credere alla mia fortuna. Mi morsi il labbro inferiore, il mio uccello pulsava e le vene erano ben visibili. Ci sputai sopra, e strofinai su e giù la saliva, assicurandomi di bagnarlo completamente.
Afferrai il cazzo alla base e lo allineai al buco di Daniele. Poi spinsi in avanti, ma incontrai resistenza.
«Rilassati, piccoletto, lasciami entrare.» Dissi allargando le sue natiche con le mani per agevolare la penetrazione.
Di nuovo, mi afferrai il cazzo e lo spinsi contro il minuscolo buchetto affamato di Daniele. Questa volta, il suo sfintere si allargò leggermente, e la cappella fu stretta in una morsa umida che non avevo mai sperimentato prima.
«È grosso!» Si lamentò senza ritrarsi.
Stavo ancora aspettando che il muscolo si rilassasse abbastanza da permettermi di spingere la cappella all’interno, per intero. Gli schiaffeggiai il culo impaziente, facendo tremare una natica e il buchetto si aprì un altro po’. La pressione era quasi troppa, avrei dovuto concentrarmi per non venire subito.
Daniele si lamentava ancora di più adesso, e stava cercando di allontanarsi dal mio uccello. Lo afferrai saldamente per i fianchi e lo tenni fermo. Per quanto lo disprezzassi, il capitano aveva allentato un poco il passaggio. Non avevo intenzione di fermarmi fino a svuotarmi dentro i lui e almeno così non gli avrei fatto troppo male.
«Scopami! Ti prego, scopami!» Gemette Daniele.
Era come se ne avesse bisogno. E questo era tutto quello che io avevo bisogno di sentire. Aumentai la stretta sui suoi fianchi, e mi sputai nuovamente sull’uccello prima di iniziare a spingerlo in profondità nel sul anfratto strettissimo.
«Fanculo!» Ruggii con voce impastata.  
Volevo entrare in lui completamente, volevo ogni centimetro della mia carne nel suo corpo. Abbassai lo sguardo e vidi Daniele  cercare di sollevarsi ad ogni spinta.
Eravamo entrambi scossi da gemiti incontrollabili. Un misto di strilli e ansimi di dolore e piacere. Lo sguardo languido negli occhi di Daniele quando si voltava a guardarmi però era la mia unica certezza. Amava tutto questo quanto e infinitamente più di me. Non potevo fermarmi.
Il suo sguardo, il suo odore e il suo corpo sotto di me erano tutto quello che mi serviva. Tirai fuori il cazzo fino a che solo la cappella rimase incastrata dentro di lui, prima di spingerlo di nuovo dentro tutto con forza, facendo sbattere le palle sul culo alla fine della corsa.
Ero posseduto e volevo godermi ogni istante. Mi chinai e strinsi una mano alla sua gola, e gli imposi di arcuare la schiena, permettendomi di entrare ancora un poco più a fondo. Il suo buchetto era scivoloso per tutto il presperma che stavo riversando in lui.
«Non fermarti! Non fermarti, ti prego, continua!» Ripeteva Daniele, implorandomi, quasi in lacrime.
Lo morsi e baciai sul collo, facendolo contorcere e tremare. Stava cercando di spingere se stesso ancora di più contro il mio cazzo. Lui non voleva tutto questo, ormai ne ero certo, ne aveva bisogno quanto me.
Portai una mano alla rigida asta tra le sue gambe e la trovai fradicia. «Sei venuto?» Gli sussurrai all’orecchio.
Lui non rispose, invece si spinse nuovamente contro di me.
Mi sfilai e lo feci voltare bruscamente. Volevo guardarlo negli occhi. Il suo viso era macchiato di lacrime e stranamente questo mi fece eccitare ancora di più. Gi sollevai le gambe e spinsi il mio uccello nel profondo del suo buco con un movimento rapido. Le mani di Daniele strinsero le lenzuola e arricciò le dita dei piedi. Il suono delle mie palle che schiaffeggiavano ritmicamente le sue natiche e i nostri gemiti ormai erano gli unici suoni nella stanza.
Stavo sudando copiosamente e gocciolavo su Daniele, il suo corpo scintillava. Gli lasciai andare le gambe e lui sospirò di sollievo. Durò solo un istante, perché lo presi per i polsi portandoglieli sopra la testa. Lui gemette e mi strinse istintivamente le gambe intorno ai fianchi.
Non potevo durare ancora molto. Gli tenni i polsi saldamente stretti e le mie palle iniziarono a contrarsi. Poi spinsi un ultima volta e in quel momento vidi le sue labbra socchiudersi. «Ti amo!» Sussurrò in affanno.
Non potevo più trattenermi. Solo un altro colpo, forte. Daniele gemette di piacere. Poi il mio sperma bollente si riversò dentro di lui, in un luogo freddo, in profondità, non avevo mai provato niente del genere.
Adesso era tutto perfetto. Due corpi fusi in uno solo. E per un attimo non pensai a nulla. Persino il tarlo che mi rodeva il cervello con le sue domande incessanti era quieto. E così mi addormentai, completamente rilassato, stringendo Daniele al mio petto. Senza dire nulla. Non ce n’era più bisogno.
Quando mi svegliai Daniele dormiva ancora. Il suo viso era completamente rilassato, innocente. Rimasi a fissarlo ammirato, attento a non turbarne in alcun modo la quiete. Anche io dovevo dirglielo.
Poi, un movimento al limite del mio campo visivo mi fece irrigidire e subito scattai a sedere sul letto, votandomi nella sua direzione. Al mio fianco Daniele si agitò nel sonno a causa del mio movimento repentino e un attimo dopo socchiuse gli occhi, mi guardò assonnato e sorrise.
Lo ignorai a fatica, tenendo lo sguardo fisso davanti a me e anche lui allora si voltò seguendo i miei occhi verso la poltrona ai piedi del letto. Il capitano Dejana ci stava osservando in silenzio con il solito caloroso sorriso a deformargli i lineamenti spigolosi del volto. Tanto rassicurante quanto falso.
Guardò verso di me per alcuni interminabili secondi, poi i suoi occhi si fissarono su Daniele e finalmente parlò. «Sei uno di loro, vero?» Gli chiese freddo.
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raccontidiragazzi · 5 years
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Tagliati fuori - II parte
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Il capitano
Avevo il cuore in gola. Fui io ad organizzare l’incontro, non avevo il potere di oppormi, ma questo non mi fece sentire meno in colpa. Andai ad aprire e mi ritrovai davanti Daniele, pallido e minuto, con un espressione cauta e allo stesso tempo carica di attesa. Non potei fare a meno di abbracciarlo stringendomelo al petto. Era più basso di me di tutta la testa, quindi trovai naturale affondare il viso tra i suoi capelli, inspirando a pieni polmoni il suo profumo per poi baciarlo. Restammo così per qualche secondo, senza parlare. Poi il capitano si alzò in piedi e rimase in attesa che li presentassi ufficialmente.
Il capitano dell’Asteria ero un uomo alto e possente, con un perenne sorriso scolpito sul volto dai lineamenti decisi tipicamente imperiali. Una maschera per rassicurare chi gli stava intorno. I suoi folti capelli biondi avevano da poco - precocemente - iniziato a ingrigirsi, ma questo non aveva fatto altro che conferirgli un ulteriore senso di autorevolezza, sa mai ce ne fosse stato bisogno. In quel momento, i suoi freddi e profondi occhi blu erano fissi su Daniele, il nuovo passeggero della sua nave, a cui si premurò di rivolgere il suo falso sorriso più caloroso.
«Dunque, ragazzo, finalmente ci conosciamo.» Disse bonariamente, dopo che li introdussi con una certa esitazione.
I suoi muscoli mettevano a dura prova l’uniforme, e non faceva nulla per nasconderli. Anzi, si può dire che in quel momento si stesse mettendo in mostra. Provocante. E aveva ottenuto quello che voleva, Daniele lo stava fissando.
Fino a quel momento non c’era mai stato nulla tra me e il capitano. Ero il suo secondo sull’Asteria da quattro anni, lui ne aveva forse dieci  più di me, e tra noi si era instaurato un rapporto di reciproco rispetto. Ero arrivato a considerare quell’uomo quasi un padre, e lo avevo preso ad esempio per la stima, mista ad un certo rispettoso timore che riusciva ad inspirare nell’equipaggio.
«Hai fatto colazione?» Gli chiese il capitano.
Daniele fece cenno di no e farfugliò di non avere fame, ma il capitano sorrise e scosse lievemente la testa.
«Mangeremo qualcosa insieme.» Disse con noncuranza. Eppure, anche in quello scambio insignificante era evidente che quell’uomo fosse sicuro che ogni cosa alla fine sarebbe andata esattamente come voleva. In quel momento, gli occhi di Daniele si illuminarono.
Mi morsi la lingua, nervoso. Non avevo mai conosciuto la gelosia. Volevo essere io l’unico a suscitare quel genere di reazioni in Daniele. Dunque, se era l’autorità che cercava, lo avrei accontentato, ad ogni costo.
Tuttavia, per il momento rimasi al gioco, e li seguii nella piccola sala da pranzo privata negli alloggi del capitano.  Prendemmo posto a tavola e il capitano Dejana ci intrattenne con una conversazione leggera.
Fece alcune domande personali a Daniele - cose che ancora non sapevo di lui - gli chiese dei suoi genitori, della sua infanzia, cosa facesse per divertirsi. Avevo pensato spesso di porgli quelle domande, ma ogni volta che ci eravamo incontrati ero stato troppo occupato a fargli del male per provare a conquistarlo, oppure lo avevo ignorato per ferirlo e farlo avvicinare a me, e non avevo avuto modo di farlo.  
Nella sala da pranzo del capitano c’era un dipinto dai colori scuri, opprimente. Era una rappresentazione della Battaglia dei Dannati, la nostra prima missione e il nostro primo successo insieme. Un periodo della mia vita che avevo cercato inutilmente di dimenticare e con cui invece ero costretto a convivere. Che il capitano, al contrario, teneva in mostra, quasi volesse riviverlo ogni giorno, o temesse di scordarne qualche sanguinoso particolare. Avevamo affrontato insieme quella situazione terribile e ne eravamo usciti solo a costo di atrocità inimmaginabili, guadagnando però buona parte del nostro reciproco rispetto proprio in quella occasione. Era questa la differenza tra noi, il capitano non temeva ciò di cui era capace, anzi ne era orgoglioso, io invece ero terrorizzato dal dolore che avevo causato e sopratutto da quello che avrei ancora potuto causare.
Poi, con lo stesso tono leggero di poco prima, il capitano mi strappo ai ricordi e ai pensieri che mi tormentavano e chiese a Daniele di scopare, di punto in bianco.
Vidi gli occhi di Daniele farsi più grandi, e le sue guance tingersi di rosa, forse era stato preso alla sprovvista quanto me dal repentino cambio di argomento. Il capitano rimase a guardarlo, mentre attendeva una risposta, insolitamente paziente.
«Oh… certo, va bene.» Farfugliò Daniele dopo qualche secondo.
«Ti piace farti scopare, vero?» Gli chiese Dejana, continuando a fissarlo intensamente.
Vidi il ragazzo agitarsi sulla sedia, come se fosse a disagio per la domanda del capitano, ma ormai lo conoscevo troppo bene per non accorgermi che in realtà stava iniziando ad eccitarsi, proprio in quel momento, ed ero certo che il suo cazzo fosse già duro, costretto sotto l’uniforme da cadetto.
Questa volta il capitano non aspettò la sua risposta, il suo vero io stava pian piano emergendo da sotto la maschera di pacatezza che indossava in pubblico. «Ti piace avere un cazzo in culo, sentirti pieno - e poi farti sbattere fino in fondo, è vero?» Scandì ogni parola con attenzione.
Daniele deglutì vistosamente. Si fece ancora più pallido e annuì lentamente, in silenzio.
Il capitano si alzò e fece strada. «Bene,» disse tornando a sorridere sarcastico. «Hai bloccato la porta, comandante Gasco?»
La stanza da letto del capitano era in penombra e ancora in disordine. Il letto era disfatto e le lenzuola erano ammucchiate alla rinfusa sul fondo. Se quello fosse stato l’alloggio di un guardiamarina durante un ispezione a sorpresa il malcapitato sarebbe finito di corvée per mezzo ciclo, senza appello. Inarcai un sopracciglio, perplesso, ma il capitano mi ignorò consapevolmente e non potei fare altro che liquidare la questione con una scrollata di spalle.
I miei occhi impiegarono qualche secondo per abituarsi alla semioscurità della stanza, e in quei pochi attimi il capitano aveva già fatto la sua mossa. «Vediamo cos’hai li sotto,» sussurrò di fronte al ragazzo, iniziando ad allentargli il colletto dell’uniforme. Dejana aveva sul viso un’espressione allo stesso tempo concentrata e rapita. «Perfetto,» disse tra se scoprendogli il petto piatto e liscio, poi poggiò i pollici su entrambi i capezzoli iniziando a strofinarli.
Perché te ne stai in disparte, Simone? Mi chiesi. Così mi avvicinai ai due, alle spalle di Daniele. Mi spogliai rapidamente e iniziai a carezzargli la schiena, mentre il capitano giocava coi suoi capezzoli. All’inizio con attenzione, quasi dolcemente - ancora non immaginava - poi li strinse un poco, esitante, aspettando che il ragazzo si lamentasse. Quando non lo fece, strinse più forte, pizzicandoli, fino a sentire un lamento soffocato. Eppure Daniele non provò neanche ad allontanarsi, tantomeno a fermarlo. Non che potesse andare da qualche parte, così stretto tra noi. Allora vidi un altro genere di sorriso affiorare sulle labbra del capitano, distorcendole. Afferrò i capezzoli duramente e lo tirò su, conficcando le unghie nelle due piccole protuberanze di carne. Alla fine, costrinse il ragazzo a sollevarsi in punta di piedi, e gli ricopri la bocca con le labbra.        
In quel momento, infilai due dita dentro Daniele, in modo che non potesse abbassarsi. E presi a farle ruotare nella sua carne morbida e umida e calda, facendolo fremere. Il capitano se ne accorse e aumentò la pressione del bacio, schiacciandolo tra di noi.
Daniele tremò, contorcendosi nel poco spazio che aveva a disposizione, e sapevo perché. Il capitano non lo stava semplicemente baciando, gli mordeva anche il labbro inferiore, continuando allo stesso tempo a torcere crudelmente fra le dita i capezzoli, con quanta forza aveva.
Spostai le dita dentro di lui, strofinando qualcosa all’interno che lo fece rabbrividire di piacere. E allo stesso tempo spostai la bocca sulla sua spalla pallida e ossuta e lo morsi, abbastanza forte da farlo gridare.
«Posso mordere anch’io,» gli sussurrai all’orecchio, aggiungendo un terzo dito ai due già dentro di lui.
Daniele si lamentò, ma la totale assenza di paura nei suoi occhi non fece altro che confermare i miei sospetti. Il capitano lasciò andare i capezzoli arrossati e gli strinse la nuca con una mano, attirandolo ancora più a se, e portò l’altra mano al suo cazzo duro afferrandolo saldamente, inviando allo stesso tempo brividi di piacere e dolore al ragazzo inerme. Poi prese a masturbarlo lentamente, senza mai interrompere il loro bacio brutale, e io ne approfittai per farmi strada con un altro dito.
Non riuscivo a credere di aver messo quattro dita dentro il suo corpo, sembrava così stretto. Ma quando aggiunsi il pollice, incuneandolo tra le altre dita, Daniele lottò appena, provando a sfuggire alla nostra presa, poi fece un lungo sospiro e subito si arrese. Il suo cazzo era rimasto duro per tutto il tempo.
«Siamo già a questo punto?» Mi chiese il capitano quando si accorse di quello che avevo fatto, in tono sarcastico, quasi di sfida.
Non farlo, non farlo, provai a ripetermi. Puoi ancora fermarti. Poi piegai appena le dita e spinsi. Il grido acuto di Daniele mi ferì i timpani, ma in qualche modo non era sufficiente a farmi desistere, perché la sua erezione non accennava a scemare.
Non avevo mai fatto nulla di simile, non riuscivo ad immaginare una violenza e una violazione più profonde, eppure Daniele amava anche questo. Da parte mia ero affascinato da quella sensazione di pressione e di calore attorno alla mia mano e presi a muoverla lentamente quasi senza rendermene conto, causandogli altri gemiti e tremori incontrollati.
All’improvviso il capitano scivolò in ginocchio davanti a lui, per un attimo mi chiesi se lo avrebbe succhiato e intuii che anche Daniele se lo stava chiedendo, in attesa. Non fermai la mano.
Dejana scoppiò quasi a ridere. «Ci hai creduto davvero?» Si stava rivolgendo Daniele, o forse anche a me. In ogni caso entrambi restammo in silenzio. Daniele per la frustrazione, io ero quasi deluso.
«Sei qui per il nostro piacere, non per il tuo.» Disse il capitano malignamente. Feci ruotare la mano, e Daniele inclinò la testa all’indietro con un gemito, sotto il mio naso, inondandomi del suo profumo.
«Che spettacolo!» Esclamò il capitano guardandolo dal basso. «Forza comandante,» disse subito dopo, rivolto a me. «Diamo a questo bambolotto quello che si merita!»
Allora sfilai la mano e lo spinsi sul letto.
«Stai giù o te ne pentirai.» Gli intimò il capitano, e Daniele ubbidì prontamente. «Il culo è mio.» Disse Dejana posizionandosi alle sue spalle. «Tu l’hai già avuto.»
Dopotutto era giusto. Perché no?
Il cazzo del capitano era enorme, e glielo spinse dentro senza convenevoli, fino alle palle. Io mi inginocchiai sul letto e gli infilai il mio uccello in bocca. I suoi occhi erano appannati, stava soffrendo, ma il piacere sovrastava ogni cosa. Per questo lo odiavo tanto ferocemente. Per questo lo amavo.
«Aprì la bocca,» ordinai. «Fammi sentire la lingua.»
Daniele obbedì. E si mise d’impegno sul mio cazzo, mentre il capitano lo scopava rudemente, a fondo e con vigore. E io feci lo stesso all’altra estremità, come in una lotta per il possesso del suo corpo e della sua mente.
Per me non c’era scampo. 
Il dolore che causavo a Daniele mi tormentava. Al contrario, per il capitano il piacere derivava proprio dal male che causava agli altri, e per Daniele l’estasi sopra ogni cosa veniva dalla sofferenza. Dunque dovevo essere io vincere quella battaglia, a fargli più male, per farlo mio, e questo non faceva altro che aumentare il mio tormento. 
Mi sembrava di impazzire.
Il ruggito dell’orgasmo del capitano mi strappò al circolo vizioso dei miei pensieri, e tutto d’un tratto mi accorsi di essere a mia volta sull’orlo del piacere.
Non gli venni in bocca, sfilai il cazzo dalle sue labbra arrossate e schizzai sul suo viso. Adoravo il suo viso. Il mio sperma si mescolò con le sue lacrime scintillanti. Ero andato così in fondo nella sua gola senza nemmeno rendermene conto. Gli sputai tra le labbra socchiuse, con disprezzo. Lui mi guardò dal basso con gli occhi lucidi, adoranti, e io piansi amaramente dentro di me.
«Comandante,»  il capitano Dejana richiamò la mia attenzione fin troppo preso. «Aiutami a legarlo.»
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raccontidiragazzi · 5 years
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A bordo
Avevo appena finito il mio turno sul ponte quando lo vidi per la prima volta. Il capitano si era trattenuto a discutere con l’ufficiale tattico ed ero solo davanti alle porte dell’ascensore diretto agli alloggi. Durante la sosta per il rifornimento non c’erano state complicazioni, ed eravamo ripartiti immediatamente dopo aver riempito i serbatoi. Ero piuttosto stanco, di solito non ci fermavamo alle stazioni di rifornimento civili, e l’equipaggio era stato in massima allerta per tutto il tempo. In quanto Primo Ufficiale, la sicurezza a bordo della nave era una mia responsabilità, e durante una sosta imprevista ad una stazione di rifornimento ai confini della zona demilitarizzata, la tensione era salita alle stelle, tanto che ora desideravo solo fare una doccia e rilassarmi il più a lungo possibile.
Quello che vidi in quel momento però mi lasciò senza parole, tre guardie e il tenente Nardi, un sovrintendente, stavano scortando un ragazzo lungo il corridoio di servizio. Il ragazzino aveva i capelli castani, chiari e lisci, il viso pallido e un espressione terrorizzata negli occhi lucidi. Fu tutto quello che riuscii a imprimere nel mio cervello nella frazione di secondo che impiegai per rendermi conto che non avevo idea di chi fosse quel ragazzo. Conoscevo ogni singolo membro dell’equipaggio, tutti e 590 gli uomini in servizio sotto il mio comando sulla nave, reclute comprese, oltre il Capitano e il sottoscritto. E quel ragazzo sconosciuto non ne faceva parte.
Era troppo giovane, aveva i capelli troppo lunghi, ed era particolarmente minuto, forse metà del più piccolo tra gli uomini della nave. Inoltre non indossava l’uniforme, ne abiti civili di foggia imperiale.
L’ufficiale dallo sguardo severo gli stringeva la mano destra sulla spalla, come se avesse potuto scappare da qualche parte. Le guardie invece ridacchiavano entusiaste.
Un clandestino, pensai allora. Doveva essersi introdotto sulla nave durante la sosta. Per un attimo fui accecato dalla rabbia. C’era stata un intrusione durante il mio turno, qualcuno si era introdotto sulla nave sotto i miei occhi e io non mi ero accorto di nulla. Stavo già pensando a come applicare alcune delle tecniche di interrogatorio mostratemi dal capitano. Quando avessi avuto davanti a me quel ragazzino in una cella mi sarei fatto rivelare in che modo era riuscito a introdursi sulla mia nave e avrei tappato immediatamente la falla nella sicurezza, a qualsiasi costo e con ogni mezzo.
Solo che il gruppetto non si stava dirigendo ai ponti inferiori, verso l’area di detenzione. Invece puntavano alla stiva di carico D, che in quel momento avrebbe dovuto essere vuota. Inoltre, non avevo ricevuto nessun avviso dal ponte di comando riguardo una violazione della sicurezza. Gli ufficiali sul ponte avevano ordini precisi a riguardo, in questi casi, dovevo essere avvisato anche se non ero di turno.
All’inizio ero disorientato. Avrei potuto richiamare l’ufficiale e le guardie, chiedere una spiegazione e far scortare immediatamente il ragazzo sconosciuto in cella, invece esitai. Qualcosa nello strano comportamento del gruppo mi aveva incuriosito. Avevo come un presentimento che mi spinse ad attendere l’evolversi della situazione prima di intervenire e prendere provvedimenti.
Il tenente Nardi spinse il ragazzo davanti a se nella stiva facendolo inciampare e cadere in ginocchio. Le guardie gli si strinsero subito attorno in cerchio. L’espressione di terrore sul viso del ragazzo in contrasto con quelle divertite delle guardie era sconvolgente, tremava di paura in modo visibile. L’ufficiale si fece largo e con un gesto deciso gli strappò di dosso la maglia leggera, lasciandolo a petto nudo. La pelle del torace e del ventre era tanto pallida e liscia quanto quella del viso, e i capezzoli, piuttosto grandi e di un rosa appena più scuro spiccavano sui muscoli acerbi del petto e si inturgidirono a contatto con l’aria fredda della stiva.
Ormai ero quasi certo che quegli uomini non avessero intenzione di divertirsi nel dare al ragazzo una semplice lezione prima di portarlo in cella. Era un’altro genere di svago quello che cercavano.
Fecero piegare carponi il ragazzo sconosciuto e una delle guardie si inginocchiò davanti a lui, si era slacciato l’uniforme e vedevo chiaramente il suo cazzo, duro e pronto. Il ragazzo era chiaramente spaventato, ma non si ritrasse quando la guardia gli si fece più vicina iniziando a sfregare il glande sulle sue labbra rosa e morbide. Dopo qualche secondo, quasi senza opporre resistenza dischiuse le labbra e lasciò entrare il cazzo della guardia che stupita per la sua arrendevolezza dopo qualche secondo si lasciò sfuggire un gemito di piacere.
«Non ci credo,» disse con un mezzo sorriso soddisfatto. «Mi sta davvero succhiando il cazzo.»
Nardi, l’unico ufficiale del gruppo, iniziò a sua volta a levarsi l’uniforme e i gradi di metallo argentato sulla spalla tintinnarono sul pavimento quando la getto a terra. «Vi avevo detto che ci stava, glielo si leggeva negli occhi quando l’ho acciuffato mentre cercava di rubare quelle provviste sul molo.»
Il ragazzo con la bocca già piena di metà del cazzo appena sopra la media della guardia, si agitò e cercò di ritrarsi come se volesse parlare. Ma la guardia gli strinse la nuca con la mano e gli spinse nuovamente la testa sul cazzo infilandoglielo in bocca fino ai tre quarti. Il ragazzo ebbe uno spasmo e lottò brevemente contro quell’intrusione prepotente, ma dopo qualche secondo si acquietò e riprese a succhiare sull’asta della guardia. Con un certo trasporto mi dissi, o almeno era quello che mi era parso in un primo momento. Poi, dopo qualche altro rumoroso risucchio sentii la guardia gridare e imprecare.
«Bastardo, maledetto,»  Si lamentò. «Il piccolo succhiacazzi mi ha morso.»
Le altre guardie si lasciarono scappare una risata, e mi parve che un ghigno divertito fosse apparso persino sul viso dell’ufficiale, che aveva iniziato ad accarezzarsi distrattamente il grosso cazzo.
Intanto il ragazzo era riuscito abilmente a liberarsi dalla stretta della guardia, eppure non provò nemmeno a scappare. «Non sono un ladro,» disse raddrizzando la schiena. «Non stavo rubando nulla, quell’uomo mi ha…» 
Indicava il tenente Nardi, che se ne stava in ombra, un poco in disparte rispetto al gruppo.
«Sei un succhiacazzi impertinente,» lo interruppe la guardia ferita più nell’orgoglio che dal morso del ragazzo. «Ti insegnerò io a portare rispetto per i tuoi superiori e anche come succhiare un cazzo. A suon di pugni.» Disse alzando la mano e preparandosi a colpirlo sul volto.
Il ragazzo non si ritrasse e questo non fece altro che aumentare la furia della guardia.
«Guardiamarina,» lo ammonii con voce ferma facendomi infine avanti.
Tutti rimasero pietrificati sul posto, la guardia non osò nemmeno abbassare il braccio. All’improvviso avevo cinque paia di occhi che mi fissavano, ma i miei non si erano staccati un’attimo da quelli del tenente Nardi, che azzardò un passo indietro, con l’intenzione di dileguarsi nell’ombra delle poche casse nella stiva. Lo fulminai e riuscii quasi a scorgere dietro i suoi occhi i pensieri vorticare nella sua testa, mentre cercava una scusa che giustificasse l’intera situazione.
«Comandante,» scattarono sull’attenti le guardie. In pochi secondi il cazzo di quella al centro si era rattrappito tanto da sembrare che volesse nascondersi all’interno del suo corpo.
«Comandante,» disse il tenente Nardi facendo del suo meglio per nascondersi nell’ombra. «Abbiamo catturato un cl… »
Gli intimai di tacere con il gesto di una mano. Le sue scuse forse avrebbero avuto più efficacia se non fosse stato mezzo nudo in una stiva di carico inutilizzata. Ma adesso avrebbe avuto tutto il tempo per trovare una giustificazione accettabile.
«Guardie, scortate il tenente Nardi in cella, poi farete rapporto al vostro caporeparto. Sono sicuro troverà un modo migliore di impiegare il vostro tempo.»
«Sissignore,» scattarono nuovamente sull’attenti tutte e tre i guardiamarina, senza neanche provare a replicare.
«Ma signore, comandante Gasco, io stavo…» L’ufficiale farfugliava.
«Tenente Nardi,» pronunciai la parola tenente con un certo disgusto, interrompendolo bruscamente. «Sono certo che avrà una spiegazione per tutto questo e sarò lieto di sentirla se e quando lo riterrò più opportuno. È tutto per ora.»
L’ufficiale riaprì la bocca per replicare ma non ne uscì alcun suono e alla fine abbassò il capo in silenzio. Meno di un minuto dopo le guardie lo scortarono fuori dalla stiva, senza che sollevasse più lo sguardo dal pavimento.
Durante il breve scambio con i miei uomini, il ragazzo sconosciuto era rimasto immobile e in silenzio, scosso solo da qualche brivido dato che era rimasto a petto nudo nel freddo della stiva. Eppure non fece nulla per coprirsi, ne si ritrasse quando mi avvicinai a lui con passo misurato.
Gli girai intorno, osservandolo per la prima volta da vicino, aveva la pelle chiara e liscia, i capelli castani con riflessi rossastri e gli occhi verde acceso, tipici delle popolazioni che abitavano oltre la Fascia, eppure i lineamenti del viso erano senza dubbio quelli decisi di un cittadino dell’Impero. I muscoli delle braccia erano sviluppati, almeno un poco, e aveva mani forti ma non rovinate. Non era denutrito e non aveva subito maltrattamenti, sicuramente non era un ragazzo di strada. Forse un bastardo, il figlio illegittimo di un ufficiale imperiale di stanza al confine. Ma perché mai un ufficiale avrebbe dovuto spendere tanti crediti per avere un figlio da un indigeno? Mi chiesi. Nel tempo che impiegai a girargli intorno per ritrovarci a faccia a faccia non avevo ancora trovato una risposta.
«Qual’è il tuo nome?» Gli chiesi fermandomi di fronte a lui.
«Daniele Distella, signore.» Rispose con voce ferma, restando immobile con le mani incrociate dietro la schiena dritta, mantenendo gli occhi fissi sui miei.
“Distella”, dunque dopotutto era davvero un bastardo. «Cosa ci fai sulla mia nave, signor Distella?»
Il ragazzo esitò un secondo prima di rispondere, quasi non si aspettasse quella domanda. «Volevo arruolarmi nell’Esercito Imperiale, signore, e quell’uomo mi ha portato qui.»
Trattenni a stento un risata. Voleva arruolarsi, e quell’idiota di Nardi lo aveva portato a bordo. Mi chiesi cosa ne avrebbe fatto di lui dopo aver concluso il suo divertimento, e mi appuntai mentalmente di domandarglielo durante il nostro futuro interrogatorio.
«Sei troppo giovane, e in ogni caso non ci si arruola sulle navi, signor Distella.» Gli dissi serio.
Corrugò impercettibilmente la fronte ma all’inizio non disse nulla, sembrava più che altro deluso. Parlò solo dopo qualche secondo, espirando rumorosamente e con le spalle basse. «Mi dispiace, signore.»
«Adesso però abbiamo un problema,» parlai a voce alta, ma non mi stavo realmente rivolgendo al ragazzo. In un momento imprecisato della mia vita avevo preso il vizio di pensare ad alta voce, anche se di solito non lo facevo in presenza di altre persone. Ma quella situazione complicata stava richiedendo tutta la mia attenzione e quasi mi dimenticai dell’effettiva presenza del ragazzo. «Non possiamo riportarti indietro, non abbiamo il tempo per una deviazione ne mezzi a disposizione per riportarti a casa.» Avevo iniziato a passeggiare avanti e indietro per la stiva di carico, il rumore dei miei passi rimbombava sulle pareti metalliche dell’enorme stanza quasi vuota.
«Non abbiamo soste in programma, dunque resterai qui.» Decretai alla fine, dopo aver vagliato ogni altra alternativa. «Purtroppo non abbiamo alloggi per gli ospiti…»
«Non è un problema, signore.» Dopo aver compreso che comunque sarebbe rimasto a bordo della nave, comparve una nuova luce nei suoi occhi. «Posso anche stare qui, se non sono di disturbo.»
Fissai lo sguardo su di lui, non amavo essere interrotto. Eppure il suo entusiasmo, persino all’idea di dormire in una stiva gelida, era contagioso. Appena notò il mio sguardo di rimprovero si zitti immediatamente e ritorno immobile nella posizione di attenti.
«Non essere stupido, non vivrai in una stiva.» Gli dissi. «Per tua fortuna si è appena liberato un alloggio sul ponte sette. Farà al coso tuo.» Qualcosa mi suggeriva che al tenente Nardi non sarebbe più servito un alloggio sul ponte ufficiali.
Dopo averlo fatto rivestire, accompagnai personalmente Daniele al suo nuovo alloggio sul ponte sette. C’era il cambio turno e durante il tragitto, nei corridoi e sull’ascensore, attirammo numerosi sguardi, per lo più di aperta curiosità, ma nessuno si spinse a chiedermi chi fosse quello sconosciuto ne tanto meno dove lo stessi portando. Approfittai di quella camminata silenziosa per riflettere su cosa avrei fatto di quel ragazzo. Era bloccato forse per mesi su una nave militare, senza un minimo di addestramento e a stretto contatto con centinaia di soldati probabilmente poco propensi a mostrarsi accoglienti con quello che sarebbe stato sicuramente considerato un intruso, che inoltre aveva fatto degradare e incarcerare un collega e per alcuni un amico. Era impossibile che l’intera vicenda non si venisse a sapere. Anche se avessi ordinato alle tre guardie il silenzio, prima o poi era inevitabile che tutta la storia saltasse fuori.
Arrivammo davanti all’ingresso dell’alloggio prima che trovassi una soluzione. Richiamai l’attenzione di due guardiamarina in servizio sul ponte e procedetti a sbloccare la porta.
«Liberate la camera dagli effetti personali del tenente Nardi,» ordinai alle guardie che mi guardarono confuse. Durò solo una frazione di secondo, quando videro che dicevo sul serio entrarono immediatamente nell’alloggio e senza fiatare iniziarono a mettere da parte tutto quello che era appartenuto all’ufficiale che aveva vissuto li dentro. «Mettete tutto in una cassetta di sicurezza del deposito e registratela per un detenuto.»
Le due guardie si scambiarono uno sguardo fra il sorpreso e il preoccupato ma non chiesero spiegazioni. «Signorsì, signore.» Dissero soltanto prima di allontanarsi con gli effetti personali del nuovo ospite delle celle imperiali.
Daniele non si era mosso da quando avevamo messo piede nell’alloggio. Era una stanza abbastanza confortevole, pensata per rispondere alle necessità di un ufficiale di medio livello. Aveva anche un minuscolo oblò nella stanza principale, con vista sull’esterno della nave, un piccolo divano dall’aria scomoda, una scrivania, una camera da letto relativamente spaziosa e un bagno personale, tutto sui toni blu dell’insegna imperiale.  
«Puoi muoverti liberamente nelle aree comuni di questo ponte, e in quelle sui ponti dall’otto al quattordici, dove ci sono gli alloggi dei soldati, sui ponti 5 e 6 troverai punti di ristoro, palestre e area studio. Mi aspetto che non rimarrai con le mani in mano mentre starai qui.»  Le condizioni del suo soggiorno forzato sulla nave mi sembravano più che soddisfacenti, eppure qualcosa nel suo sguardo mi diceva che non era pienamente convinto di qualcosa.
«Forza, sputa il rospo.» Gli chiesi spazientito, visto che sembrava restio a farmi partecipe dei suoi pensieri.
«Perché sta facendo tutto questo per me, comandante Gasco. Sono solo un bastardo finito per caso sulla sua nave.»
La sincerità disarmante riflessa nei suoi occhi mi spinse a dire la verità a quel ragazzino che conoscevo da meno di un’ora. «Non l’ho ancora capito nemmeno io.» Gli dissi pensieroso, infine lo lasciai solo nel suo nuovo alloggio.
Sotto il getto bollente della doccia, mi ritrovai per l’ennesima volta a pensare a Daniele, il ragazzo della stiva. Fin da quando lo avevo lasciato non facevo altro. Eravamo a poche centinaia di metri di distanza eppure sentivo già come se mancasse qualcosa dentro di me. Come poteva un ragazzo sconosciuto, un senza nome, farmi quell’effetto? Me l’ero chiesto spesso nelle ultime ore e l’unica risposta a cui ero giunto era che lo volevo per me. Lui doveva essere mio. Nel profondo di me stesso lo avevo sempre saputo, fin dal primo sguardo davanti all’ascensore, forse per questo non avevo fermati subito il groppo, volevo sapere fino a che punto si sarebbe spinto. Ma allo stesso avrei voluto essere io a spingerti fin la. Per questo avevo punito così duramente il tenente Nardi. Avevo percepito nel suo sguardo la mia stessa fame, e il mio stesso desiderio di possesso.
Mi asciugai rapidamente e indossai il primo abito civile che mi passò per le mani. Avevo dodici ore prima dell’inizio del turno, e avevo intenzione di sfruttarne ogni minuto.
Oltrepassai il lungo corridoio del ponte quasi di corsa, scansando una guardia di malo modo che iniziò a protestare per poi zittirsi quando si accorse di chi lo aveva urtato. Ignorai il suo saluto e mi fermai solo davanti all’ingresso dell’alloggio 7-32, il penultimo sul lato destro. Mi imposi di calmarmi, poi bussai ed entrai senza preoccuparmi di attendere risposta.
Daniele era appena uscito dalla doccia e aveva solo un asciugamano legato precariamente intorno ai fianchi snelli. Aveva i capelli ancora bagnati e mi osservò fare irruzione nella sua stanza con uno sguardo sorpreso e confuso. Per un momento mi bloccai, a meno di un metro da lui, chiedendomi se era davvero quello che desideravo. Si, avevo il potere di prenderlo con la forza, e fare di lui ciò che volevo, eppure rimasi lì fermo, come ad aspettare il suo permesso.
Lui non disse nulla, fissò il suo sguardo sul mio per qualche secondo, poi mi rivolse un mezzo sorriso e lasciò scivolare via l’asciugamano. Era la cosa più bella che avessi mai visto.
Mi avvicinai, con circospezione, come un leone che girà intorno alla sua preda già pregustando il pasto che lo attende. E lui era davvero li, impotente tra le mie mani, eppure capace di sconvolgere i miei pensieri e la mia intera esistenza come nessun altro prima. E questo mi fece infuriare ed eccitare allo stesso tempo. Avrebbe pagato caro l’effetto che aveva su di me.
«Scopami,» sussurrò a mezza voce dandomi le spalle, un attimo prima che mi avventassi su di lui.
Sentii il forte impulso di torcergli il braccio e farlo gridare. Nessuno mi parlava in quel modo, nessuno mi diceva cosa fare. Eppure riuscii a controllarmi. Era così fragile - e questo mi faceva desiderare di fargli male e allo stesso tempo temere di non riuscire a fermarmi se avessi iniziato.
Mi feci più vicino e dovetti chinarmi in avanti per avvicinare il viso alla sua nuca, sfiorandogli l’orecchio con le labbra e strofinando il mio corpo sulla sua schiena e sul culo sodo e sporgente. Avvertii distintamente il mio cazzo indurirsi costretto dolorosamente sotto l’uniforme, lottare per liberarsi dal tessuto troppo stretto.
Spinsi Daniele sul letto e mi sdraiai su di lui schiacciandolo sotto il mio peso. Volevo il controllo, ma allo stesso tempo desideravo essere dolce, compiacerlo in qualche modo, e così iniziai a baciarlo e coccolarlo goffamente. Dopo uno o due minuti però avvertii il suo corpo irrigidirsi sotto il mio e mi fermai confuso guardandolo negli occhi, in cerca di una risposta.
«Fottiti, comandante.» Mi disse sfacciato. «Non sono una bambola di porcellana, non ho bisogno che tu sia tenero.»
Le sue parole mi fecero quasi uscire di senno. Mi sentii umiliato per avergli mostrato i miei sentimenti e per un attimo immaginai di prenderlo con la forza, senza trattenere nulla, finché non avesse gridato, “ti prego, basta”, e allora avrei continuato a fotterlo fino a spezzarlo completamente.
Invece lo guardai con disprezzo malcelato e mi ritrassi da lui, poi mi alzai e andai via senza dire nulla.
Mi ero permesso di essere gentile, bene, era stato un mio errore, ne ero conscio. Ma lo avrei corretto. Voleva che fossi duro con lui - allora lo sarei stato.
  Alzai la musica nel mio alloggio, e sedetti sulla poltrona davanti alla vetrata che occupava quasi tutta la parete della stanza, e rimasi a fissare le stelle sorseggiando il forte e buon liquore speziato, un regalo del capitano, e a fare progetti su di lui.
I giorni seguenti mi comportai come se non ci conoscessimo. Lo osservavo da lontano, percependo la sua delusione crescente, e intanto imparando a conoscere le sue abitudini e i suoi modi. Avevo sentimenti contrastanti nei suoi confronti: in fin dei conti non desideravo ferirlo -  ma volevo che fosse mio ad ogni costo - e sembrava che per averlo avrei dovuto fargli del male.
Una settimana dopo ci incontrammo nel punto ristoro del ponte 5, quello frequentato dalle guardie, lui mi sorrise come sempre quando incrociavamo lo sguardo, e questa volta non lo guardai come se non esistesse.
Avevo notato che preferiva le aree comuni frequentate dalle guardie a quelle degli ufficiali. Forse i soldati semplici avevano accettato la sua presenza più di buon grado rispetto ai superiori, che invece gli davano la colpa per la sorte di Nardi, che era stato degradato e stava scontando due mesi in cella, e facevano ben poco per nascondergli il proprio astio. Anche se nessuno si era mai permesso di alzare un dito su di lui, visto che lo credevano sotto la mia ala, questo non impediva loro di trattarlo con disprezzo.
«Oggi, alla fine del turno verrai nel mio alloggio,» gli ordinai avvicinandomi quel tanto che bastava perché mi sentisse chiaramente nel chiasso del salone affollato. Mangiava da solo ad un tavolo vuoto in un angolo, non doveva essere facile per lui fare amicizia. In parte forse era dovuto alla differenza di età con il resto dell’equipaggio, ma ero certo che il fatto che tutti sapessero che c’era qualcosa tra me e lui lo avesse isolato ancora di più. Non erano in molti, ne tra gli ufficiali, ne tantomeno tra le guardie a voler avere a che fare con me oltre il lavoro. Non ero esattamente una persona disponibile a socializzare. In ogni caso, lui annuì felicemente e io mi allontanai senza aggiungere altro, prima che potesse chiedermi qualcosa. 
Il turno sul ponte di comando scivolò via senza nulla da registrare, eravamo ancora distanti dal punto della missione, e tanto lontani da qualsiasi cosa che era improbabile incontrare qualcuno sulla nostra rotta. Durante il cambio turno si verificò un’avaria al sistema CLR, le comunicazioni a lungo raggio. Affidai comunque il comando al tenente comandante Orru, e mi congedai dal ponte, lasciando interdetto l’equipaggio. Non era mai successo che cedessi il comando durante un emergenza, per quanto insignificante. In ogni caso, come al solito, nessuno mi chiese spiegazioni. Si limitarono solo a lanciarmi fugaci sguardi sorpresi, che mi limitai ad ignorare.
Trovai Daniele ad aspettarmi accanto all’ingresso del mio alloggio. Ne ero compiaciuto, ma non lo diedi a vedere, inoltre non volevo perdere tempo. Lo feci entrare e lo spinsi sul letto. Alzai il volume della musica - un ritmo deciso, ammaliante - così non avremo avuto bisogno di parlare. Gli sfilai l’uniforme da cadetto e mi fermai ad ammirarlo giusto un momento. La divisa lo aveva reso per me se possibile ancora più affascinante della prima volta che l’avevo incontrato, ma nudo era uno spettacolo per gli occhi. Il corpo magro coi muscoli del petto appena accennati, il ventre piatto e la pelle liscia diventata ancora più pallida dopo una settimana a bordo della nave, lontano dalla luce del sole. Era eccitato - perché sapeva che questa volta lo avrei scopato. Invece io ero inquieto e infoiato allo stesso tempo, perché ero certo che gli avrei fatto male, ma il desiderio di farlo mio superava di gran lunga qualsiasi remora avessi nell’assecondare il suo desiderio di essere trattato rudemente.
Mi sfilai velocemente l’uniforme, poi presi un corda e mi inginocchiai sul letto di fronte lui. Non si ritrasse - forse non aveva compreso le mie intenzioni e non mi temeva, o forse le aveva comprese bene e gli piaceva. In entrambi i casi la sua reazione mi indisponeva, ero abituato ad essere considerato pericoloso, o quantomeno a incutere rispetto. Legai uno dei suoi polsi al letto, poi l’altro. Senza stringere troppo, assicurandomi solo che non potesse più tirarsi indietro.  
Poi mi chinai tra le sue gambe e gli baciai il cazzo. Mi inumidii le labbra e iniziai a prenderlo in bocca. Non era questo che voleva, perché iniziò subito a contorcersi, tirando sulle corde, del tutto inutilmente. Fremette e si lamentò, e mi supplicò di smettere - e ogni tanto di andare avanti. Poi i suoi gemiti divennero più forti, era già al limite. E allora lo sentii venirmi in bocca con un leggero grido, impregnando la mia lingua del sapore dolce del suo sperma. Per poi afflosciarsi sul letto come un sacco svuotato. Ripulii il suo pene con la lingua, era adorabile mentre tornava al suo stato di riposo, ma ancora caldo e arrossato per l’orgasmo appena passato.
Non lo guardai in faccia, forse era sorpreso che lo avessi fatto, non se lo aspettava. Ma io sorrisi tra me e me. Perché avrei dovuto preoccuparmi di cosa pensava?
E quando alla fine lo guardai, vidi l’attesa nei suoi occhi. Cosa avrei fatto dopo? Non lo sapeva, e ora toccava a me godermi un po’ di piacere. Il mio cazzo era terribilmente duro. Gli sollevai le gambe e mi appoggiai su di lui, il suo buchetto stretto pulsò quando lo sfiorai con un dito. Ci giocai intorno, stuzzicandolo e poi vedi il suo cazzo iniziare a indurirsi di nuovo, in previsione di quello che sarebbe arrivato. Usai solo quel tanto di saliva che bastava per superare la sua resistenza iniziale, e spinsi il mio uccello dentro di lui, senza riguardo. E lo osservai a lungo piangere e lamentarsi come se lo avessi trapassato con una lama arroventata.
Era questo che voleva? Pensai continuando a fissarlo. Glielo stavo chiedendo con lo sguardo offuscato dal piacere della sua carne stretta sulla mia. Comunque non mi aspettavo una risposta.  
Quando fui completamente dentro di lui, iniziai a muovermi con circospezione, la sua umidità naturale agevolò un poco la penetrazione. Forse era la risposta del suo corpo al dolore sordo e bruciante di quell’intrusione così traumatica, in ogni caso divenne molto più facile muovermi tra le sue membrane calde e avvolgenti. Iniziai a fotterlo, non mi interessava se troppo rudemente, troppo veloce o troppo a fondo. Tenevo gli occhi chiusi, e la musica era tanto alta da inondarmi - la sensazione del suo dolce corpo sotto il mio era l’unica cosa che riuscivo a percepire. Lo strinsi tra le mie braccia, con forza, come se volessi fondermi in lui - e allo stesso tempo il mio uccello continuava a scoparlo con violenza.
Ogni tanto un suo gemito riusciva a superare la musica - forse gli stavo facendo male, forse lo stringevo troppo forte - o forse, erano gemiti di piacere, perché in fin dei conti era stato lui a volere tutto questo. Di certo, sentivo il suo cazzo duro pulsare tra di noi e questo portò anche me al limite e alla fine sborrai a lungo, lasciandomi cadere su di lui, senza il fiato nemmeno per un gemito. Il mio figlio delle stelle mi aveva appena regalato l’orgasmo più intenso che avessi mai provato nella mia vita.
Rimasi disteso su di lui, sentivo la sua asta ancora dura premuta tra i nostri corpi, e gli accarezzai il collo e il viso dolcemente. Avevo ancora un pò di tempo per riposare prima del prossimo turno. E se credeva che nel frattempo lo avrei slegato, beh, si sbagliava.
Mi svegliai solo quando Daniele iniziò a contorcersi con impazienza, cercando di liberarsi le mani. Doveva essere un tormento essere legato in quel modo, senza nemmeno la possibilità di masturbarsi.
Così mi sollevai quel tanto che bastava a posizionarmi tra le sue gambe. Il suo cazzo non aveva mai smesso di pulsare ma lo ignorai. Invece spinsi l’indice contro il suo buco del culo, che si aprì facilmente dopo il passaggio del mio cazzo, era ancora molto bagnato dentro, e allora aggiunsi un altro dito. Lui fremette, godendo di quella nuova intrusione. Potevo vedere l’espressione del suo viso da vicino, e colsi l’istante esatto in cui gli sfiorai la prostata.
Daniele iniziò a tremare quando presi a muovermi e massaggiarlo da dentro con più forza. Feci girare e rigirare le dita dentro di lui e questo mi regalò tutta una serie di gemiti e ansiti da parte sua, e i lineamenti del suo viso distorti dal piacere, che mi resero felice.
Continuai in quel modo fino a portarlo sull’orlo dell’orgasmo, e in quel preciso istante gli afferrai le palle e le strinsi con forza fino a farlo gridare di dolore. I suoi occhi appannati per il piacere divennero enormi e scuri, e perse quasi completamente l’erezione. Sorrisi guardandolo, sembrava così vulnerabile in quel momento.
Presi ad accarezzargli il ventre, con dolcezza, giocando con il suo ombelico. Poi quando il dolore iniziò a passare, ricominciai a muovere le dita sepolte in profondità nel suo culo. Adesso conosceva le regole. Appena fosse stato pronto a venire, per lui sarebbe arrivato solo dolore al posto del piacere.
Due volte, tre volte - e già iniziò ad implorami di smettere - era esausto da quell’alternanza di dolore e piacere. Ma non avevo intenzione di fermarmi. Avevamo tutto il tempo.
Solo quando fui certo di averlo spezzato sfilai le dita dal suo corpo rovente. E la sua espressione mutò repentinamente dalla frustrazione all’infelicità, perché in fondo non voleva davvero che smettessi. Ma quella sensazione di vuoto durò solo un istante. La prossima cosa a riempirlo fu il mio cazzo.
Mi distesi su di lui e lui avvolse le sue gambe intorno alla mia vita - e mentre lo scopavo gli torsi e pizzicai un capezzolo così selvaggiamente da farlo sanguinare. E non sembrava che gli dispiacesse, anzi, iniziò a piagnucolare e gemere di passione. Questo mi mandò su tutte le furie, perché dovevo farlo soffrire per dargli piacere? Perché non poteva essere come gli altri ragazzi, e godere del piacere che potevo darti? 
A quel punto sentii che stava venendo - e nello stesso momento sborrai anche io ancora una volta dentro di lui. Il nostro orgasmo simultaneo fu ancora più intenso e sconvolgente del primo.
Era così esausto che si addormentò sul mio letto. Gli sciolsi i polsi senza che se ne accorgesse. Il suo viso era talmente pallido da far sembrare le palpebre bluastre, aveva le ciglia lunghe e curve e la bocca morbida e rosa incurvata che nel sonno gli conferiva un espressione quasi accigliata. Lo baciai dolcemente e rimasi per un attimo a fissarlo con intensità. Forse mi stavo davvero innamorando.
Quando uscii per riprendere servizio sul ponte di comando lo lasciai ancora profondamente addormentato. 
Nel corridoio, davanti al mio alloggio trovai ad aspettarmi il capitano Dejana.
«È carino,» disse soltanto con un sorriso rassicurante, il suo sguardo però era imperscrutabile come al solito.
«È mio.» Gli dissi con la voce più ferma che riuscii a trovare.
Il capitano si limitò a sorridere e mi invitò a seguirlo sul ponte con un cenno del capo, senza aggiungere altro.
L’avaria al sistema di comunicazione non era ancora stata riparata, eravamo tagliati fuori dall’Impero da quasi quattro ore. Sul ponte erano presenti tutti e quattro gli ufficiali alle comunicazioni della nave ma nessuno aveva una soluzione e il capitano iniziava a rabbuiarsi. Il sorriso che normalmente usava per mascherare lo sguardo freddo e cinico che lo contraddistingueva si stava incrinando e l’equipaggio del ponte di comando era inquieto. Temevano me, ma erano letteralmente terrorizzati dal capitano quando era contrariato da qualcosa, il che per fortuna succedeva raramente.
«I sistemi della nave funzionano entro i normali parametri, non ci sono anomalie, abbiamo ricontrollato tre volte, signore, semplicemente non ci sono comunicazioni in entrata.» Stava spiegando l’ufficiale alle comunicazioni più anziano dei tre.
«Questo non è possibile,» la voce del capitano poteva apparire calma, ma chi lo conosceva abbastanza bene sapeva che era sul punto d perdere la pazienza. Gli ufficiali alle comunicazioni fecero un passo indietro. «Dunque mi state dicendo che da quattro ore l’Impero avrebbe cessato ogni genere di comunicazione?» Disse, stringendo la mano sul bracciolo della sua poltrona fino a far sbiancare le nocche.
Aveva alzato la voce, e non era un buon segno.
«No signore, non ci sono comunicazioni in entrata ne dall’Impero ne da altre fonti, militari o civili.» Si spiegò meglio l’ufficiale anziano con voce tremolante.
Tutto l’equipaggio del ponte, me compreso, si immobilizzò mentre il capitano sembrava concentrato a riflettere su quelle parole. Quando dopo qualche secondo si alzò con calma dalla sua poltrona, uno degli ufficiali alle comunicazioni si lasciò sfuggire un gemito acuto di puro terrore.
«Devo pensare,» disse alla fine con voce controllata. «Comandante Gasco, venga con me.»
L’equipaggio riprese a respirare solo quando ci avvicinammo alla soglia. «Voglio una soluzione per quando sarò di ritorno, è chiaro?» Disse il capitano un attimo prima di uscire, senza nemmeno voltarsi.
«Sissignore,» risposero all’unisono i membri dell’equipaggio.
Il capitano si lasciò sfuggire un sorriso compiaciuto, che durò solo un momento, poi ci allontanammo dal ponte di comando.
«Torniamo indietro?» Gli chiesi quando restammo soli nell’ascensore, diretti ai ponti inferiori.
Il capitano ci pensò a lungo prima di rispondere. «No.» Disse alla fine, senza lasciarmi spazio per replicare. «Non faremo nulla del genere, proseguiremo sulla nostra rotta fino al completamento della missione.»
Avevo già imparato che era inutile discutere con quell’uomo una volta che aveva preso la sua decisione. Dunque non provai neanche a fargli presenti le mie perplessità, me lo avrebbe semplicemente chiesto se avesse voluto sentire la mia opinione.
«Ma allora perché ci siamo allontanati dal ponte, signore?» Gli chiesi invece.
«Ho bisogno di rilassarmi,» disse distendendo la voce. «E voglio conoscere il tuo ragazzo.»
Quelle parole mi colpirono come un pugno sullo stomaco. Era quello che avevo temuto fin dal momento in cui Daniele era entrato nella mia vita. Al capitano non piaceva essere tenuto all’oscuro di quello che succedeva sulla sua nave. Nemmeno da me.
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raccontidiragazzi · 5 years
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L’ultimo lavoro
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«Perché?» Chiesi lamentoso. Avevo paura e non c’era modo di nasconderlo, il tremito nella mia voce mi avrebbe tradito in ogni caso.
«Quelli buoni non sanno più che farsene di te.» Il tono piatto della sua voce mi ferì più di quanto avrebbe dovuto. Esponeva un semplice dato di fatto, per lui non aveva senso indorarmi la pillola. «Sei merce avariata.»
Una lacrima scivolò veloce sulla mia guancia, più rapida della mano con cui mi affrettai ad asciugarla. Il suo sguardo sprezzante mi trapassò, freddo e impietoso come una lama affilata. Non c’era alcuna compassione nei suoi occhi.
«Questi tizi pagano poco, ma farai comunque tutto quello che ti dicono, intesi?! Quando anche loro si stancheranno di te, andrai con il Dottore e allora avrai tutto il tempo per piangere. Ti consiglio di risparmiare le lacrime.» Poi mi rivolse un ultima occhiataccia e mi congedò senza tante cerimonie. «E ora sparisci.»
Un uomo con le spalle larghe, alto e nero come la notte, venne a prendermi quella sera stessa e mi caricò sulla sua auto senza dire una parola, rivolgendomi a malapena uno sguardo. Viaggiammo in silenzio per circa mezz'ora, fino ad un edificio isolato in periferia, poco più che un rudere in stato di abbandono.
All'interno ci aspettavano altri due uomini, se possibile ancora più imponenti di lui e con la pelle altrettanto scura.
«Sarà una settimana interessante,» disse il più grosso dei tre, seduto a gambe larghe su un divano a due posti malconcio, lo occupava quasi tutto da solo. Gli altri due risero, e l'uomo che mi aveva accompagnato in auto quasi mi strappò la maglietta di dosso. «Nessun limite, va direttamente al Dottore, a lui non importa se glielo portiamo un po' ammaccato, basta che sia tutto intero.»
Il suono delle loro risate riempì nuovamente la stanza illuminata solo da una lampadina sospesa e da un fuoco in quello che un tempo era stato un forno industriale.
«Spogliati, i vestiti non ti serviranno qui.» Disse il terzo uomo, quello con il sorriso più freddo di tutti.
Lavoravo per il Freddo da poco più di un anno. Da quando i miei genitori mi avevano lasciato in pegno in cambio dei soldi per comprare la droga. Pochi pezzi d'argento con cui si erano uccisi quel giorno stesso. Da allora, lavoravo per ripagare il loro debito che era diventato mio alla loro morte, e per pagarmi il cibo e un tetto sopra la testa e la protezione necessaria per sopravvivere in una città dove anche uno sguardo poteva costare la vita. Tutte cose che costavano molto più del poco argento che guadagnavo, così il mio debito non aveva fatto altro che salire.
All'inizio facevo da accompagnatore alle feste. Il mio bell'aspetto mi aveva reso molto richiesto da persone molto ricche. Ma quel genere di persone ci stancavano facilmente e ben presto smisero di richiedere la mia presenza. Finii a servire ai tavoli di uno dei tanti locali notturni di Fred e di li il passo fu breve prima che alcuni clienti iniziassero a richiedere prestazioni particolari da parte mia. Da quel momento in poi le cose andarono sempre peggio, e alla fine anche i clienti del bar si stancarono di me. Fu così che finii nell'ufficio di Fred quel pomeriggio e poi nelle mani di questi uomini terribili.
Ridendo, i tre iniziarono a spogliarsi, rivelando man mano i loro corpi imponenti e statuari. Eppure, non furono i muscoli possenti delle braccia e del petto, le mani enormi o i sorrisi maligni e complici che si scambiavano a preoccuparmi, ma le dimensioni dei loro cazzi. Nessuno degli uomini con cui ero stato fino a quel momento era neanche lontanamente dotato come loro, erano dei mostri.
«Sei fortunato,» disse il più grosso dei tre, avvicinandosi alle mie spalle. «Non abbiamo niente da fare ora, quindi puoi avere tutta la nostra attenzione. Daremo una piccola festa, e tu, piccolo mio, sarai l’unica attrazione.»
Da dietro, l’uomo mi afferrò per le palle e le strinse con forza. E io non potei fare a meno di gridare agonizzante.
«Hai una bella bocca dolcezza, sembra così invitante.» Disse l’uomo che mi aveva portato li, con gli occhi accesi di lussuria. Quindi avvolse una mano tra i miei capelli e stringendoli nel suo pugno mi portò la testa all’altezza del suo cazzo che visto così da vicino appariva ancora più enorme. «Vediamo quanto velocemente riesco a spingertelo tutto giù per la gola.»
Continua?!  
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