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Ancora nei caldi mesi dell’anno si passeggiava per le distese fresche di tane. L’occhio attorniato dal verde manto riposava sul collinare suolo creato dai fili d’erba e trovava il suo sostegno sulle solide montagne, sempre presenti. Al limitar del bosco, dove i prati tornavano a dar spazio alla corteccia e i rami s’innalzavano, si cogliean a volte delle macchie di rossi autunnali o di marroni lucenti. Esse spiccavano al di fuori delle sfumature delle foglie e si poteva scorgere, con attenta osservazione, questi punti avanzare. Descrivevan balzi delicati ed agili movimenti nello spazio, animati dalla rugiada o dall’istinto di cercare cibo. Erano famiglie, c’eran piccoli accompagnati da madri, mentre la volpe correva nelle ombre degli alberi con in bocca una preda. Calpestavan lo stesso suolo, lei e il capriolo, osservandosi muti da una certa distanza, come in amichevole intesa. Di questo vasto luogo senza fine, di eterne danze fra alberi e steli, di sincero vociar di stormi e di corse impulsive; un essere umano sente nel centro della sua emotività, il respiro incessante di tutto ciò che è vita, e dall’alto, che egli considera più vantaggiosa posizione, del suo sguardo sezionatore riesce a distinguere quelle aperte distese come singole aree in cui riversar il suo sentire. E nell’accompagnar il sentimento verso l’azione, si scontra con i suoi confini e in un latente lamento capisce che in quella colorita scena lui non ha più ruolo. E di rabbia s’empie l’incollerito essere nel constatar la sua condizione. E desidera trasformare ogni cosa per un più gradito ordine nel quale può sollazzarsi di mirare il paesaggio fingendo d’esserne padrone. Il tristo individuo che ha assopito l’istinto ha perso ogni sua abilità e s’affida in devozione alle macchine di meccanismi oliate. Così esso se ne sta, assolto da ogni dovere, immobile. Fermo nella sua eco di un ardir, e gli basta muovere le dita per invocar la falce.
Dell’istinto 1/11/2017 Rustica Silvia
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Ignoro montagna, perché mi fu celato dal tempo. Quando in te montagna, risuonavano i campanacci con l’incedere della primavera. Vi eran canti di alpe in alpe, richiami d’aquila nei cieli spesso carichi di neve. Vestiti lunghi distesi nel bianco brillar del ghiaccio, pronti a cogliere ogni raggio di sole. Chi muto andava pei boschi scalzo, che le suole ancora non eran necessarie al lungo cammino, e di distese e campi eran pieni gli occhi. Bimbi giocavano a rincorrere piccole capre intagliate nel legno, per poi divenir grandi insieme e vedere il legno mutare in vita e animale da latte e formaggio nei pascoli. Qual fretta umanità ti ha preso di cambiar ventura? I fiumi carichi di legna destinata agli altri paesi ora ribollono di plastica e vecchi elettrodomestici. Non più canapa e telai laboriosi, ma rombi di motori che neanche tacciono nella penombra degli arbusti, là dove il suolo è grembo di radici.
6/8/2017 Rustica Silvia
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