Una raccolta di racconti, pezzi vari e deliri scritti alla cazzo-di-cane.
Don't wanna be here? Send us removal request.
Text
Titan 750
La cosa più vicina al sottomarino Titan in cui sono stato è la Panda di Count. Raffreddata ad aria, aveva una perdita d’olio proprio sopra al raccordo tra motore e condotto che portava alla marmitta. Ogni goccia veniva nebulizzata dalla temperatura infernale e convogliata, attraverso la bocchetta d’areazione al centro del cruscotto, dentro l’abitacolo. In pochi giorni, il parabrezza era stato ricoperto da una patina nera e l’atmosfera all’interno dell’incubo bianco era sempre malmostosa, rovente e malsana. Per ovviare al malfunzionamento, Count cercava di mantenere una velocità di crociera costante, velocità che garantiva al motore un flusso d’aria sufficiente a non farci prendere fuoco. Apparentemente, la contromisura sembrava innocua e sicura. Peccato che Count, in breve tempo, maturò uno stile di guida che creava raccapriccio nei poveri passeggeri. Sì, andava al massimo a 60 km/h, ma lo faceva in ogni occasione: la velocità era sempre quella, sia che stesse uscendo da un parcheggio, imbroccando una rampa elicoidale, percorrendo una rotonda o attraversando un incrocio con il giallo lampeggiante alle 5 di mattina.
9 notes
·
View notes
Text
L’Incompreso
Da ragazzo mi sentivo incompreso. Mi rendevo conto di dire spesso cose che non interessavano ai miei coetanei, oppure di ascoltare dischi che venivano rimossi dal piatto con una smorfia dolorante, come se l'ascoltatore si fosse schiacciato i coglioni sedendosi malamente sulla sella di un motorino truccato. Ma l'apice del disagio lo ho raggiunto tre anni fa nel reparto cessi di Villa. In pratica, ero lì con Laura e stavamo scegliendo il bidet per la casa nuova. Io facevo prove approfondite, mi accovacciavo sui sanitari esposti, li riposizionavo nello showroom, mimavo con la mano il gesto di portare il miscuglio di idrogeno e ossigeno verso il culo sagomato da anni di libri e videogiochi. «Ho il femore troppo lungo!» dicevo a Laura. «Ci cacciano via!» ringhiava, malcelando l'imbarazzo in una smorfia divertita. Allora io mimavo con l'indice destro la distanza tra muro e ano, non credo ci sia un termine tecnico, una quota standardizzata vitruviana, insomma, introducevo questa misura a supporto del fatto che avessi le gambe troppo lunghe e che, quindi, da seduto parte del culo sarebbe uscita dal bidet. «Lo voglio stondato e attaccato al muro: fa cagare ovale e con i tubi a vista.» Questa era la risposta che ottenevo in cambio di complessi ragionamenti trigonogometri. E quindi dicevo che no, lo spazio non si può comprimere, cioè magari si può andando alla velocità della luce, però, ecco, non è che per lavarmi il culo io possa ogni volta compiere un salto nell'iperspazio. E dopo discussioni estenuanti, una specie di trattativa tra lei, signora, e io, ambulante affaticato sotto il sole, la spunto. La spunto sulla forma ma il prezzo da pagare è quello di scegliere un bidet che aderisca perfettamente al muro e non lasci intravvedere all'occhio umano tubi, manicotti e leveraggi.
E insomma, racconto questo per dire che oggi mi sono fatto il bidet e dopo che ho finito, tiro la levetta per far defluire l'acqua e si rompe. Tuc. Tuc, fa l'asticella cromata e io la guardo mentre sono seduto a cavalcioni del trabicolo di porcellana. Fisso il muro, poi il pernetto, e infine abbasso lo sguardo e vedo il piccolo specchio d'acqua sotto le mie cosce. Quindi mi alzo, impreco e comincio ad aggeggiare con le dita sul tappo per provare a rimuoverlo dalla sua sede, sede rifinita in maniera millimetrica, nemmeno fosse l'ingranaggio di un Rolex. Dopo dieci minuti mi arrendo. Mi arrendo e corro in cucina. Apro un cassetto ed acchiappo un coltello e torno nel bagno con la speranza di poter usare la lama per far leva sul tappo. Mi tuffo nell'acqua ma l'acciaio è troppo spesso: non ci passa. Il tappo rimane al suo posto, fiero del suo ruolo, una specie di oligarca in un mondo di porcellana e sa-la-madonna quali resti della mia umana ingegneria.
Dopo aver provato una teoria di oggetti, cito a memoria, un cacciavite, uno stuzzicadenti, la lama di un cutter e la tessera della Coop, mi cade l'occhio verso il lavandino. Vedo la soluzione. La vedo e mi compiaccio, addirittura ringrazio dio di avermi fatto scienziato, di avermi donato la possibilità di avere idee utili per tutti tranne che per me stesso. Glu, glu, glu. L'acqua defluisce! Acchiappo con due dita il pistone che dovrebbe alzare il tappo e dare una via di fuga all'acqua e lo tiro. Basta pochissimo e tutto ritorna a funzionare per la gioia del Signor Pozzi e del suo socio Ginori.
Esattamente quattordici ore dopo, sono seduto al Mac che lavoro. È tardi, non so più cosa fare per arginare le scadenze, in pratica sono assorbito dal fallimento professionale quando sento urlare. «Carolina, lavati i denti!» sbraita Laura. «Non posso!» «L-a-v-a-i-d-e-n-t-i!» «Ma come faccio?» urla l'Exogino con parte del mio DNA. «Ho detto che ti devi lavare i denti!» «Non trovo lo spazzolino.» E quindi inizia una rissa madre e figlia, una roba tipo tour dei Genesis quando Phil Colins e Bill Bruford se le suonano sulle note di The Cinema Show. Laura usa l'arma finale: «Adesso viene tuo padre!» Mi alzo sapendo che, ogni volta che vengo invocato, la mia autorevolezza diminuisce, come se il mio essere padre fosse regolato da un'immaginaria barra di energia che niente e nessuno può ricaricare.
Effettivamente, Carolina ha ragione. Mentre mi gratto il mento ammetto, facendo finta di niente, che lo spazzolino non è più disponibile. «Più?» dice Laura «Più,» dico io. Per chiudere subito la questione, dico che aveva le setole rovinate, anzi, rincaro la dose e aggiungo che bisogna insegnare a nostra figlia a non masticare lo spazzolino. Ma Laura dice che era nuovo, che era diventata scema a trovarlo a forma di giraffa azzurra. «Lo avevo lasciato appiccicato allo specchio, pa'» dice mia figlia. «Proprio qua,» fa Laura indicando l'alone circolare. Mi vedo riflesso nello specchio e capisco di essere spacciato. Ma poco prima di darmi per vinto, mi ricordo di un tizio con cui ho lavorato. Mi ripeteva sempre: "Luca, bisogna sempre dire la verità, perché la verità può essere aggiustata." Allora "aggiusto" il corso degli eventi e, guardando madre e figlia, dico che è successo un incidente e che ho dovuto buttare via il simpatico dispositivo odontoiatrico dotato di ventosa. «Sei un mostro» urla Carolina. «Sei impazzito?» fa coro Laura.
Balbetto e dopo qualche istante ammetto che mi serviva per risolvere un'incomprensione del passato. E quindi spiego alla mia famiglia che non riuscivo a stappare il bidet e che ho usato la ventosa piazzata sul culo dello spazzolino per afferrare il tappo sepolto da acqua e residui pubici. Dico che lo ho fatto a fin di bene, insomma, che lo ho fatto solo nella speranza di tirare via il tappo dalla sede, dalla sua cuccia pure troppo perfetta per quanto ci è costata. «Domani risolvi questa storia» dice Laura. «Come sempre,» dico io mentre vedo madre e figlia che si allontanano senza salutare.
La mattina successiva, giro mezza Genova per cercare uno spazzolino con ventosa. Alla fine lo trovo e, anche se costa una cifra folle, lo pago e lo porto a casa. «Non mi piace,» fa Carolina e aggiunge «ormai sono grande, uso questo» e intanto brandisce un affare di plastica con sopra scritto OralB. Allora ripongo lo spazzolino nel posto segreto dove tengo il mio senso di incomprensione e tutti gli aggeggi che mi ricordano che, alla fine, ho sempre ragione.
12 notes
·
View notes
Text
Scambio di Persona
Evidentemente per uno scambio di persona, il mio racconto intitolato “Paint a Vulgar Picture” è stato inserito nella raccolta “Ti Racconto Una Canzone”, curata da Massimiliano Nuzzolo in collaborazione con Eleonora Serino, pubblicato da Arcana. Attenzione: il racconto contiene Morrissey e SbirroGiallo™.

13 notes
·
View notes
Text
Co-ciclo
Il bar dell'ospedale è pieno di gente, così mi metto in coda e comincio a scrutare un obelisco fatto di confezioni di fette biscottate. Un tizio con la faccia tonda e gli occhiali che sembrano disegnati da un fumettista depresso varca la porta e un cameriere gli va in contro e poi dice qualcosa gesticolando. «Si entra da quella parte», dice il cameriere facendo un cenno con la mano.Il tizio con la faccia tonda annuisce, esce e rientra da un'altra porta a venti centimentri di distanza. Il cameriere si scioglie in una smorfia dolorante, allarga le braccia e poi le lascia cadere. Plof. Le braccia fanno plof, una roba tipo cavatappi umano che ha dovuto rimuovere il sigillo che impedisce all'universo di defluire in qualche dimensione parallela. In realtà ha solo detto a un poveraccio di cambiare porta per motivi di sicurezza, di contagio, di roba che sembra ormai ovvia ma dovrebbe esserla solo se obedissimo alle leggi di Kirchoff. Maglie, nodi, cocicli e quelle robe che si dimenticano subito dopo essersi fatti registrare l'esame di Elettrotecnica sul libretto. E insomma, sono lì in coda che mi guardo in giro e da dietro il bancone si leva una cantilena continua fatta di "un caffè per il dottore", "cosa prende dottore?", "la dottoressa lo macchia con il latte di soia", "no no, il primario il panino non lo vuole tagliato in due" e così via. E mentre i camici sfilano, bevono, parlano di vita e di morte cercando lo sguardo degli ascoltatori, io avanzo avvolto nella mia maglietta rossa un po' stretta di spalle. «Cosa vuoi?» mi dice il barista. «Un caffè» poi cerco il portafogli e aggiungo «non sembro proprio un medico, eh?»«No» risponde seccamente il barista, ridendo con gli occhi, il fusibile sociale che ricorda che una faccia di cazzo rimane tale anche dietro ad una mascherina. Cerco uno spazio libero e mi appoggio al bancone di marmo. Tendo la mano armata di scontrino e acchiappo un bicchiere di plastica pieno di una brodaglia nera. Strizzo gli occhi per cercare il dolcificante e poi spoglio una bacchetta di plastica e comincio a mescolare la brodaglia. E mentre creo vortici nel caffè, una signora con la testa ricciola e grigia mi si avvicina.«È lei il cardiologo?» dice. Vorrei dire "sì", ma sarebbe esercizio abusivo della professione, ecco, a malapena riesco a fare quello per cui ho studiato, figuriamoci diastole, sistole e così via. Quindi dico che no, non sono un cardiologo. La signora si allontana, io abbasso la mascherina e alzo il bicchierino fatto di sa-la-madonna quale incubo ecologico. E poco prima di ammorbarlo con le mie labbra, dico "suca". Lo dico bello forte in preda a chissà quale processo mentale incontrollabile. Allora il barista mi guarda e dice "scusa di che?" e io gli dico che non ho detto "scusa", ma che ho detto "suca". E senza aspettare la sua reazione, esco dall'ingresso come un elettrone impazzito che viola la regola degli utilizzatori e proietta l'equazione verso un segno sbagliato solo per convenzione.
13 notes
·
View notes
Text
Scambio di Persona
Evidentemente per uno scambio di persona, la mia fiaba intitolata “La Macchina dei Sogni” è finita sul secondo numero de “La Rivista dei Ragazzi”. Andate a conoscerli sulla loro pagina Facebook: sono artisti che hanno deciso di fare qualcosa per gli altri e per questo, vanno aiutati e supportati. Oltre a ringraziare tutti per la scelta temeraria, ringrazio in particolare la talentuosa e bravissima @patriziacomino che ha reso bellissime le mie semplici parole (qui il suo fantastico portfolio). Potete leggerla qui.
17 notes
·
View notes
Text
Broncomat
Seduto alla scrivania fisso una finestra sul monitor. Non capisco bene cosa sto guardando, i miei occhi non mettono a fuoco il testo e seguono i bordi, proprio come dei che bambini giocano percorrendo un motivo fatto di mattonelle, uno di quelli che si trovano sotto i portici di Via XX Settembre. I miei occhi saltano sulla data. È appesa in un angolo. Senza pensarci, faccio due conti e mi rendo conto che sono 59 giorni che non esco, escludendo i venti secondi ogni due giorni durante i quali faccio tre passi oltre il cancello di casa per lanciare i sacchi della spazzatura nel cassonetto.
Allora mi alzo e guardo in basso. Un osservatore distratto potrebbe pensare che mi stia fissando i coglioni, ma in realtà mi sto guardando la pancia. «Hai 'na panza che sembri un ambasciatore!» dico sottovoce. Questa frase me la diceva sempre il mio professore di educazione fisica per spronarmi a non passare tutto il tempo libero sdraiato sul letto ad ascoltare dei dischi. Effettivamente non ho mai avuto la passione per l'attività fisica, a parte una moderata epifania verso i trent'anni per le camminate, passione che ho abbracciato per poter fare Piazza delle Erbe - Casa ubriaco marcio senza arrecare danni a cose e persone.
Cinque minuti dopo sono dentro ad una tuta che salgo verso le alture di Genova. L'elastico dei pantaloni mi stringe intorno la vita e ad ogni passo, la reazione vincolare del terreno mi percuote le vertebre, il coccige, sa-la-madonna quale muscolo, insomma sento tirare roba che non sapevo più di avere. Sento il mio corpo che si muove lungo i tornanti, sento una sensazione strana, il fiato è caldo attraverso la mascherina, insomma, non sono sicuro di essere a mio agio nel mondo esterno. Ho un brivido e mi sembra di essere il giochino degli anni 80, Animillo il Magico Vermillo, una roba rossa e pelosa che si poteva far passare in spazi angusti tirandola attraverso un filo di nylon. Ma chi sta tirando il mio filo?
E mentre cerco di mantenere l'andatura, la strada si fa più ripida. Nelle orecchie c'è Frank Zappa che sta dicendo qualcosa su Lando Calrissian, ma il sangue mi pulsa così forte nelle orecchie che non capisco bene, allora abbasso la mascherina e tiro fuori il naso. Espiro aria fresca, sembra gelata. Davanti a me ci sono quattro ragazze che corrono, saltellano, attraversano la strada per non incrociare il loro destino al mio. Ma la ventata d'aria fresca dura poco. Al mio fianco passa un bus che per vincere la forza di gravità viene frustato da un'autista con la coda di cavallo e una mascherina bianca. Ha il braccio che penzola fuori dal finestrino. Il mezzo è vuoto, la gente è tutta fuori: negli orti, per strada o dalla finestra.
Dopo circa un'ora, prendo in mano il telefono e cerco un disco per il viaggio di ritorno. Vengo interrotto da un ciclista che passa vicino a me. È ritto in piedi sui pedali, sembra un meccanico spastico intento ad aggeggiare con il motore per aumentarne la cilindrata. Il culo gli esce dai pantaloncini perché sono strappati. Com'era il detto? "Meglio un culo sano nelle braghe rotte, che viceversa". Non lo ricordo.
Decido di tornare indietro. "Ormai è discesa" penso. E mentre le gambe sono irrigidite dalla fatica, vedo davanti a me un ramo che penzola da un muretto. Lo prendo in mano per spostarlo, ci passo sotto e mi fermo poco più avanti per guardare il panorama. L'aria è pulita, sono in mezzo al verde. Ma il mio cervello mi suggerisce solo l'immagine di un cesso. Sento il profumo di fiori, di vegetazione, di roba profumata e quel mischione olfattivo mi sembra uno di quegli spray che si spruzzano dopo che si è cagato, una di quelle robe che sembrano un incrocio tra una conferenza stampa di scuse convocata dal culo e un prodigio della chimica.
E insomma, sono stanco, così mi dirigo a passo spedito verso casa. Appena entro tiro un sospiro di sollievo, sono tornato dove sono stato al sicuro negli ultimi due mesi. Sento gli odori che conosco, i feromoni dei miei dischi, dei miei libri, della mia roba. Poco prima di andare a farmi la doccia, suonano alla porta di casa. Urlo che vado io. È la consegna della spesa.
Davanti a me c'è un tizio sudato. Ansima, tossisce, posa sacchetti, cestelli d'acqua. Gocce di sudore ovunque. Cerco la mascherina ma non la ho più. Lui mi porge la macchinetta per pagare con il Bancomat. Si passa una mano sulla fronte marcia di sudore, poi si tocca il culo e soffia. «Phew, che cazzo di caldo!» dice sbuffando. Sorrido poco convinto. E mentre strappa la ricevuta per porgermela, penso che il mondo è dappertutto.
17 notes
·
View notes
Text
Spacciatori e Citofoni
Quando da ragazzino passavo il venerdì sera in Piazza delle Erbe, raramente tornavo a casa sobrio. Di solito arrivavo al Caffè Latino poco prima di mezzanotte e mi alzavo dal tavolino solo in due occasioni. La prima era per andare a pisciare. Considerando una media di 200 persone per cesso, mettersi in fila per un gabinetto era praticamente impossibile. Allora, come quasi tutti i maschi, ripiegavo in un vicoletto ribattezzato "Vico Piscio". Da Vico Piscio scendeva un rivolo di brodaglia schiumosa e maleodorante. Io cercavo sempre di stare lontano dalle case e mi appiattivo contro una centralina telefonica ricoperta di adesivi, volantini di locali e band scalcinate e un cartello. Il cartello diceva: "questo vicolo non è un gabinetto". Mi sentivo in colpa, ma alla fine pisciavo lo stesso e poi tornavo a sedermi e iniziavo nuovamente a bere. Il secondo motivo per cui mi alzavo, questa volta, definitivamente, era perché il Caffè Latino doveva chiudere. Raramente la serata finiva lì. Arrivava sempre qualcuno armato di un paio di bottiglie di birra di marca ignota così continuavamo a bere e a parlare. In piedi. Io ero già pigro: allora mi appoggiavo alla cabina del telefono che idealmente separava i tavoli del Caffè Latino da quelli del bar di fronte, il Gradisca.
Durante la serata, la cabina telefonica riceveva molte attenzioni. Ad esempio, una ragazza faceva una telefonata. Vedevi la sua bocca muoversi, un movimento senza suono e ti chiedevi come il microfono potesse captare la voce in mezzo ai discorsi di quasi mille persone accalcate in quel catino urbanistico. Poi un ragazzo arrivava, inseriva una tessera e scappava via. Così, senza parlare. Un tizio sulla cinquantina aggeggiava con uno sportellino e contava gli spiccioli restituiti dall'apparecchio arancione. Sembrava uno con la mania dei motori, uno di quelli che se gli si tocca l'auto fanno diversi giri di perlustrazione, valutano righe, sbuffano muovendo lo specchietto retrovisore e controllano il gioco dello sterzo muovendo il volante con due dita come se davvero riuscissero ad accorgersi se qualcuno ha preso uno scalino o ha posteggiato sul marciapiedi. "Cazzo hai fatto? La convergenza è a puttane" dicono, spesso. E insomma, nonostante la notte, la pioggia, il freddo e il casino, un sacco di persone usavano la cabina per telefonare. Ma a chi? A nessuno, in realtà. La cabina era lo snodo logistico dei venditori di sostanze psicotrope. E quelli che fingevano di telefonare, credevano davvero di passare inosservati.
All'alba, Piazza delle Erbe si svuotava, così tornavo a casa. A piedi, ovviamente. Facevo Via XX Settembre, via San Vincenzo, e quindi mi infilavo nel tunnel di Brignole e poi mi incamminavo lungo il Bisagno fino a dopo lo stadio. Quasi sempre facevo una tappa nel cesso pubblico all'incrocio di Corso Monte Grappa. Era una specie di contrappasso morale e mi ci sottomettevo volentieri. Lo facevo per bilanciare le svariate pisciate fatte in Vico Piscio mentre provavo a mettere a fuoco, contrastando l'alcool che agitava i miei occhi come due cani spastici, il cartello messo chissà da quale poveraccio ormai esasperato da urea, cloruro di sodio, azoto, sodio,urobilina, acidi (urico, ippurico, solforico, fosforico e cloridrico), potassio, calcio, magnesio, creatinina e acqua.
Di solito andavo dritto a casa e camminavo ascoltando la musica. Una volta invece decisi di esibirmi nella "Lotteria Citofonica", uno scherzo che avevo imparato durante la mia permanenza a Mantova. Per farla breve, lo scherzo consisteva nel suonare un citofono e cercare di convincere il malcapitato che aveva vinto un premio: una vacanza, una macchina, una cifra non meglio definita in gettoni d'oro e così via. Come è intuibile, spesso la gente non rispondeva e se lo faceva diceva cose poco urbane. Invece, quella volta, il tizio che rispose non si incazzò, anzi. Mi chiese informazioni su come poteva ritirare il premio. E mentre io illustravo la procedura, quella che credo fosse la moglie, si affacciò dalla finestra e mi scagliò addosso una quindicina di kiwi marci.
13 notes
·
View notes
Text
Ho l’AIDS?
C'è questo mio amico, M, che per un po' di tempo lo abbiamo preso per il culo ripetendogli ogni dieci minuti "Oh figa, c'ho l'AIDS". Questo tormentone lo aveva tirato fuori Brunello una sera alle Erbe mentre eravamo tutti ubriachi marci. Per farla breve, ha cominciato a raccontare, imitando la pronuncia vagamente romagnola di M, di un suo ricovero per una specie di malore che aveva avuto un pomeriggio mentre studiava fisica. E quindi, mentre i medici gli facevano domande e gli infermieri prelevavano sangue ed effettuavano misurazioni, lui continuava a dire "cosa ho, cosa ho!" Fortunatamente non aveva un cazzo e il malore era dovuto a un calo di zuccheri, ma dopo un paio d'ore M aveva sbroccato, si era convinto che il silenzio dei sanitari fosse perché non avevano il coraggio di rivelargli la diagnosi. E allora, quando Brunello era andato a trovarlo in veste di ambasciatore di tutta la Facoltà, M non lo salutò nemmeno e disperato disse "Oh figa, c'ho l'AIDS" e poi si accese una Marlboro in mezzo a moribondi, tossici e altri disperati assortiti.
E insomma, racconto questo perché stamattina sono entrato in un baretto, un ritrovo popolato da gente che alle sette di mattina saluta l'imminente nuova rotazione del pianeta con un bicchiere di vino bianco, dicevo, sono entrato e ho chiesto un caffè. Poi ho preso una brioche, una roba riscaldata e ho cominciato a masticarla. E mentre masticavo l'eutettico di farina, ripieno e sa-la-Madonna di quale scarto della sintesi industriale, due tizi discutevano del meteo, però non nel senso tecnico, cioè non dicevano cose del tipo "c'è l'alta pressione" oppure "valuto positivamente il deflusso del nuovo scolmatore". No, no. Dicevano frasi tipo "tempo di merda" e "ieri sera il cazzo di cane voleva cagare e mi è toccato uscire". Ecco io non è che dica questo per elevarmi, ci mancherebbe, è solo per dire che l'ambiente era informale e non mi sembrava di essere a una conferenza sul clima.
«Quanto le devo?» dico al barista. «Un attimo» risponde. In realtà ringhia, proprio mi risponde male, mi mostra i denti. E mentre armeggio con la cerniera della giacca, cerniera che si incastra sempre nell'imbottitura, tendo l'orecchio verso il tizio che si è appena appoggiato al bancone e sta parlando al telefono emettendo un aerosol di saliva e cappuccino (poca schiuma, con un po' di cannella). Il barista gli sorride e con uno straccio ripulisce lo spazio intorno alla sua tazzina, poi mi guarda e mi ripete "un attimo". Io ritiro la mano che tendeva la banconota da cinque euro, il verde melograno, e così via. Il barista sgattaiola dietro a uno scaffale e torna con una mano avvolta in un guanto di plastica azzurro, uno di quelli che si usano per fare varie cose che vanno dal rabboccare l'olio alla macchina all'infilare un dito nel culo di qualche poveraccio a scopo diagnostico. Quindi prende il tovagliolo di carta che ho appallottolato e appoggiato al piattino che ospitava la tazzina di caffè. Getta la pallina di carta nella spazzatura e infine si toglie il guanto.
Guardo il barista e, proprio come M, dico "Oh figa, c'ho l'AIDS", poi acchiappo l'ombrello ed esco sotto la pioggia. Mi specchio nella vetrina del locale e penso che per quel tizio essere immerso nella sua clientela abituale è rassicurante, senza rischi, che alla fine la ripetizione ti fa abbassare la guardia. Tipo i bambini con le favole: vorrebbero sentirsele ripetere all'infinito, in continuazione, sempre le stesse parole, guai a cambiarle. Sposto l'ombrello per far passare una signora e dalla mia nuova posizione non vedo più il mio riflesso ma vedo il barista sorridente e intento ad ascoltare la sua favola personale fatta di habitué che sputano, straparlano e chiedono una chiave per andare al cesso e pisciare ovunque.
13 notes
·
View notes
Text
Odonomastica e Merda di Cane
Via Piacenza si chiama così perché se la si percorre nella direzione dei monti, dopo un po’ si arriva a Piacenza. Ma siccome la distanza tra Genova e Piacenza è di circa 150 chilometri, quel nome è un po’ una truffa, e la strada si sarebbe potuta chiamare anche Via Ponte dell'Olio, Via Cremona o Via Bolzano, oppure Via Liechtenstein o Via Brno. Via Piacenza è stretta e lunga e non è proprio chiarissimo dove inizia e dove finisce. Nel senso: ad un certo punto di Via Bobbio non sei più lì e sei in Via Piacenza e non c’è niente che faccia presagire il cambio. Insomma, manca la motivazione urbanistica, prima sei in un posto e poi, senza che vi sia un incrocio, una targa commemorativa, anche di un avvenimento minore, oppure un’abitazione di qualche personaggio storico, pum!, ecco che ti trovi in Via Piacenza.
Rispetto a quando ero piccolo un po' di cose sono cambiate. Ad esempio, al posto del cinema Perla ora c'è un discount. In realtà il cinema non lo ho mai visto aperto ed era già poco più che un rudere trent'anni fa. Ricordo le poltrone di legno accatastate. Schiacciavo la faccia contro i vetri delle grandi porte di legno e strizzavo gli occhi per vedere il telone bianco che penzolava moribondo in fondo alla sala. Anche la viabilità è cambiata. Una volta Via Piacenza si poteva percorrere in ambo i sensi di marcia e, per far spazio alle due carreggiate, i marciapiedi erano molto più stretti. Ogni tanto cambiavano il verso di percorrenza di Via Emilia, la via parallela che, secondo la odonomastica, si chiama così perché arriva in Emilia-Romagna, la truffa del nome è la stessa. Però Via Emilia almeno ha dei limiti: ad un estremo c'è l'incrocio con Ponte Feritore e dall'altro una specie di rotonda. Lo spazio tra le due vie sembra una sorta di vagina di cemento, uno squarcio pieno di case di edilizia popolare.
Una cosa che non è cambiata affatto è la densità di cani che giornalmente passeggiano sui marciapiedi della via. Credo sia un'anomalia statistica e una roba del genere non la ho vista in nessun'altra parte del pianeta, manco dove i cani se li mangiano, per dire. In pratica, Via Piacenza è una specie di latrina gigantesca, un costante raduno di bestie che abbaiano, pisciano e cagano. Più di una volta mi è capitato di correre verso la fermata del bus e dover passare attraverso un groviglio di zampe e di guinzagli sentendo i padroni sbuffare: «Ma che modi? Non vede che stanno giocando?» «Bel gioco quello di incularsi davanti alla fermata del 14», avrei voluto rispondere. Invece, aumentavo un po' il volume degli auricolari e cercavo di salire sul bus prima di qualche ragazzino. Delle centinaia di cani che ho visto zampettare nel quartiere, due mi sono rimasti impressi. Il primo era piccolo, con solo tre zampe. Ogni tanto emetteva qualche latrato, faceva due passi, e poi si accasciava a terra sotto gli occhi disperati della padrona. Non credo fosse per l'handicap: era proprio neghittoso e lo era così sfacciatamente da risultarmi quasi simpatico. Il secondo cane invece era inquietante. Vecchio e malato, veniva portato fuori dal padrone, un tizio allucinante e allucinato, che lo sorreggeva grazie ad un asciugamano fatto passare sotto il ventre della bestia. L'animale faceva pochi passi e poi si scioglieva in una specie di rivolo sanguinolento. Dopo il passaggio di quel cane, il marciapiede sembrava la copertina di (The Rest of) New Order, dei New Order, appunto. Cercatela se non conoscete il disco. E se proprio dovete ascoltare qualcosa dei New Order, ascoltate Republic o (The Best of) New Order.
Ovviamente, lo spicchio di quartiere davanti al mio condominio era quello più gettonato da questa masnada di terroristi della crocchetta digerita. E quindi raramente mi sembrava di vivere in una via normale, una strada frequentata da persone con un minimo di senso del pudore urbano. In circa dieci anni in cui ho abitato in Via Piacenza, mi ricordo tre episodi. Il primo, dopo l'alluvione. Ci sono voluti svariati giorni di pioggia, diversi metri cubi di roba esondata e pietrume vario per riuscire a raschiare via la patina bestiale che la rendeva una specie di ricetta del degrado in aspic. Il secondo, quando il Comune di Genova ha rifatto la pavimentazione. È stato uno flash, un fotogramma durato solo qualche ora, prima che un nuovo Jackson Pollock nauseabondo tornasse a rivestire il quartiere. Il terzo è dopo una grande nevicata di qualche anno fa. Nonostante il manto fosse sottile, Via Piacenza era rimasta deserta per quasi due giorni. Nessuno voleva lacerare il sudario di neve ma, soprattutto, nessuno se la sentiva di addentrarsi in quel campo minato fatto di merda di cane. Nota: prima parte di un testo “in progress”.
10 notes
·
View notes
Text
Andate in Pace
Non mi piace aspettare. Soprattutto non riesco ad aspettare stando fermo. Allora comincio a passeggiare, faccio piccoli passi e seguo il perimetro del piazzale davanti alla chiesa, una costruzione di cemento armato che sembra un ricciolo di margarina, una di quelle robe che si vedevano nelle pubblicità televisive degli anni 80: primo piano sulla punta di un coltello leggermente ricurvo che si conficca nel pappone lipidico e poi una mano intenta a manovrare delicatamente la lama per fare uno sgorbio. E quindi cammino e aspetto, ma dopo un po' il piazzale si riempie di macchine, di gente che posteggia, che sbatte le portiere, che lascia il motore accesso, insomma c'è casino, e a me sembra di stare nell'officina di un concessionario di auto usate e non su un sagrato. Allora esco dal piazzale e vado sulla strada, una salita, una specie di scivolo di bitume rattoppato alla bene e meglio, un groviglio di cicatrici statali, sindacali, clientelari.
Adesso sono in una specie di parcheggio sopraelevato. Cammino e, ogni tanto, mi guardo le scarpe. Il fondo è macchiato da polluzioni meccaniche, chiazze di benzina e gocce di liquidi lubrificanti persi chissà da che giuntura o snodo, ma ci sono anche svariati litri di roba fisiologica che ormai ricopre ogni angolo di Genova: merda di cane e piscio di bestia e cristiano ormai legati dal guinzaglio e dallo spargimento di prodotti metabolici. Un tizio urla al cane "ti spacco la faccia" e lo trascina in macchina. Una tizia entra in retromarcia noncurante del mondo alle sue spalle e inchioda poco prima di andare a sbattere contro il relitto di un motorino. Alzo gli occhi al cielo e vedo la facciata di un condominio: armadi di metallo piazzati senza un criterio sui terrazzini, caldaie arrugginite, fori sulla facciata degni di un architetto spastico. Due ragazzi armeggiano con la testa dentro al cofano di una macchina rossa poco distante da un carro funebre.
Le campane suonano, annunciano che la messa è finita. Allora guardo in basso verso il piazzale e vedo la gente uscire. Vedo le persone andare in pace e salutarsi agitando le mani, mani che hanno ucciso, mai compilato una dichiarazione dei redditi, picchiato, rubato, commesso atti impuri, violentato orifizi, premuto grilletti, raccolto merda di cane, direzionato il getto di cazzi dalle forme disparate e strane, aggiustato assorbenti, grattato culi, indicato difetti con ferocia, accordato strumenti, comprato dischi di trapper, spalmato creme omeopatiche, pregato la morte, causato la morte, schiaffeggiato, picchiato, preso a pugni il parchimetro, negato un saluto, segnato un goal con la mano, fatto gesti osceni, premuto insistentemente il clacson, tentato invano di fermare gli aggiornamenti di Windows, armeggiato con il mouse per condividere e scrivere amen, indicato il cielo per invocare un miracolo, aver suonato le campane mentre qualcuno dormiva beato non pensando al mondo, rullato a calciobalilla, preso in mano bicchieri di orzata, costruito il mondo, gettato una colata di cemento per fare una specie di parcheggio sopraelevato e putrido proprio sopra una chiesa a forma di ricciolo di margarina.
15 notes
·
View notes
Text
Il Coso
Quando apro la portiera, Zarquon mi guarda, io salgo in macchina e poi cerco di infilare l'ombrello rosso dietro il sedile. «Ti ho riportato il coso» dice aprendo il cassettino. «Ti è servito?» «No, perché è mollo. Ci manca un pezzo.» «Cazzo, ormai lo ho da anni. Mai usato...» faccio mentre mi allaccio la cintura.
Partiamo. Dopo qualche chilometro arriviamo e subito troviamo posteggio. Apro una parentesi. Zarquon guida bene, forse dei miei amici è quello che guida meglio, ma ha questa cosa che parcheggia in maniera quantizzata. Cioè è una roba tipo i livelli quantici degli elettroni, non puoi metterli come cazzo ti pare, ci sono delle regole. Ad esempio, non si parcheggia a lisca di pesce in un viale ma si può su un cavalcavia, si può mettere la macchina nella "Blu Area" ma non nell'"Isola Azzurra", nel caso in cui ci sia un posto prima di un semaforo deve essere già nella direzione di marcia giusta per tornare a casa, e così via.
Mentre andiamo al luogo del concerto gli dico se mi tiene la giacca perché si sta alzando del vento e mi voglio mettere il maglione. Lui mi guarda e si stringe dentro alla sua giacca blu. Ha solo la camicia e sorride. «Ci prendiamo due birre?» gli faccio. «Ma sì, dai» dice. Allora mi metto in coda e ordino due birre. Un ragazzotto mi porge due bicchieri di plastica e mi dice che devo tenerli se voglio la caparra. «Come la caparra?» dico accarezzando la condensa sul bicchiere «è plastica, cazzo.» Il ragazzotto mi dice che no, non è plastica, è una roba biologica, che costa un casino e che tutti noi dobbiamo fare la nostra parte per l'ambiente. E poi si gira verso un preoccupante fumo nero che esce da una montagna di carbonella.
Seduti su una panca aspettiamo l'inizio del concerto. Ad un certo punto Zarquon dice "c'è il manager" e si alza in piedi. Arriva un tizio, mi stringe la mano e dice "sono il manager". Il manager è un tizio alto, con il cappello, è simpatico e parla forbito. Alterna parole desuete e poderose bestemmie ma sa il fatto suo, è un bel tipo.
Durante il concerto, ogni tanto Zarquon acchiappa un venditore ambulante di birre, un tizio che gira con una specie di vassoio rotondo sorretto da delle corde. Su "Simpaty for the Devil" mi pento di aver smesso di fumare, così mi concentro sul tizio al mio fianco per scacciare la voglia di cercare un tabacchino. Mangia uno stinco tagliandolo a pezzetti tutti uguali e della dimensione di circa mezzo centimetro. Guardo Zarquon e lui mi indica la fidanzata che, armata anche lei di coltellino di plastica trasparente, tenta di segare la cotenna della povera bestia morta come se stesse accendendo il fuoco con i legnetti durante uno campo di team building nella giungla, uno di quelli che le multinazionali fanno pensando che, il collega che vorresti vedere morto, diventerà il tuo migliore amico. Col cazzo.
E insomma, i Ghost Notes suonano proprio bene e il vento di burrasca rende tutto fresco e sparge la musica per la città. Il manager gira per i tavoli, ha il bicchiere sempre in mano e lo tiene distante dal corpo proprio come se fosse una specie di vibrissa etilica. Finito il concerto, Zarquon dice che è ora di andare. Annuisco, ma prima dico che devo andare a pisciare.
Il cesso Sebach è profumatissimo e penso che un cesso chimico così pulito non sia mai esistito. Quando esco dall'oasi di fluidi corporei e acidi che si neutralizzano per il bene dell'igiene e dell'olfatto, sta piovendo e allora corriamo sotto i portici. Prendiamo un caffè e poi Zarquon mi riaccompagna a casa.
Salendo le scale mi rendo conto che "sono bello che avvelenato". Questa frase la diceva sempre il mio amico Brunello il venerdì sera quando veniva in bus in Piazza delle Erbe e ordinava una birra aggiungendo "ne bevo solo una perché domani alle 6 devo fare un'immersione a Camogli". E ogni volta, alle 4 del mattino, Brunello, ubriaco marcio, diceva che non ce la faceva mica perché era "bello che avvelenato".
Entro in casa e mi dirigo in cucina per cercare un Gaviscon. Succhiando la bustina sento la pioggia che batte sulla veranda e i lampi illuminano il pavimento di ardesia ed è una cosa quasi romantica, per dire. Mi sfilo i pantaloni e sento che nella tasca c'è una roba dura: è il coso. Lo guardo e mi dico che la prossima volta che vado in Inghilterra devo provarlo e che secondo me Zarquon non ha capito come funziona l'affare da infilare nella presa di corrente.
6 notes
·
View notes
Text
Ciaf Ciaf
Mentre aspetto il mio caffè fisso il nulla oltre il bancone del bar. Non capisco bene cosa vedo: vedo il retro delle bottiglie di liquore riflesse nello specchio che chiude il mobile, una tizia con un magnete piazzato sul gomito nella speranza che le passi qualche dolore muscolare, e pure qualche vassoio che plana all'altezza della mia fronte. Con la coda dell'occhio percepisco una macchia bianca gigantesca, allora torno al presente, al qui e ora, giusto in tempo per vedere tizi che masticano con la bocca aperta mentre si litigano silenziosamente per un quotidiano già superato dagli eventi e già ampiamente impestato di briciole e altre macchie che non voglio sapere cosa siano.
E insomma, la macchia bianca gigantesca è in realtà una specie di macellaio avvolto in una cappa di simil-tessuto, dove con simil-tessuto intendo una roba a metà tra la carta e la stoffa, e questo tizio è enorme, pelato e sudato, proprio come mi immagino Mastro Lindo dopo che ha lavato pavimenti tutto il giorno prima di tornare a piazzarsi sorridente sull'etichetta nella speranza che qualche casalinga lo porti a casa sua e lo riponga sotto il lavandino o da qualche parte nel cesso.
Il tizio in bianco ordina un cappuccino, anzi dice "un cappuccino grande" e il barista gli fa il cappuccino e poi glielo posa sul banco con delicatezza. Si sorridono. Ma il gigante vestito di bianco sbaglia la presa e versa tutto sul bancone e il liquido dal bancone cola sopra la cassa, sui lettori delle carte dei ticket e sui POS. Allora la tizia con il magnete fa una smorfia e inizia a passare uno straccio giallo che però non assorbe abbastanza, così il latte e il caffè dilagano lungo il piano di acciaio, e un'altra cameriera arriva in soccorso armata di uno straccio blu e prima si gratta il culo e poi sbatte lo straccio facendo "ciaf ciaf" sul bancone e schizza una signora che sta facendo colazione. La signora dice "stia attenta" e il barista, nuovamente con fare delicato, arriva anche lui con una spugna rossa, insomma volano gli stracci però almeno sono colorati.
Costernato l'energumeno in bianco si scusa, dice che non lo ha fatto volutamente e i baristi sorridono, annuiscono e dicono "no no, si figuri", "sono cose che capitano", "lo rifaccio subito" e "ma non voglio soldi, ci mancherebbe" e poi il barista gentile sorride e si allontana per mollare gli stracci in un secchio e mentre mi passa di fianco dice "a questo qui sarebbe da pucciargli il cazzo nel cappuccino".
7 notes
·
View notes
Text
Pi-Gei-Gi
Ogni volta che ho caldo penso al mio professore di "Lavorazioni Meccaniche" delle superiori. Era del sud, emigrato al nord a seguito di una girandola di concorsi. Aveva gli occhi più neri che abbia mai visto. Erano una specie di vuoto cosmico capace di assorbire la luce e gli sguardi degli altri. Anche i capelli erano neri. Un po' radi, tirati all'indietro, lasciavano intravedere la fronte lucida e ampia. Da lontano sembrava un fotogramma sfuocato, un fermo immagine difettoso, una di quelle robe che il digitale ha ormai eliminato definitivamente. Io e il mio compagno di banco lo chiamavamo "PJG" (pi-gei-gi) perché la sua firma era uno sgorbio indecifrabile e ricordava quelle tre lettere.
PJG era piuttosto burbero e si incazzava abbastanza facilmente, soprattutto in laboratorio. Ricordo con sgomento quelle ore interminabili rinchiuso in una specie di parco a tema, dove il tema era una fabbrica metalmeccanica. Ricordo anche la tuta da lavoro blu e pesantissima, i capelli raccolti per evitare che il tornio o il trapano a colonna mi facessero lo scalpo, i pezzi sfregati sul piano di riscontro e i litri di lubrificante spruzzati sulle punte di acciaio super rapido per evitare che fondessero. PJG girava tra i macchinari, acchiappava un pezzo, lo misurava con il calibro e poi ti lanciava un quattro o un cinque come se fosse una specie di scappellotto didattico. Con me però abbastanza indulgente, forse perché anche io ero un estraneo in quella città, proprio come lui. Per gli altri era un trentenne abrasivo, come la pasta che si usava per lavarsi le mani a fine lezione, un mischione di sabbia e sapone addizionato di un aroma al limone disgustoso.
Comunque, non so se fosse una coincidenza, l'orario infelice delle sue lezioni, oppure un'alterazione genetica causata da un fusto di scorie nucleari sotterrato sotto la sua casa in Calabria ma, ogni volta che faceva lezione, in aula c'era un caldo insopportabile. Il sole filtrava dalla vetrata e si stampava sulla lavagna e sul lato sinistro dei volti. E se qualcuno si alzava per aggeggiare con le tapparelle, PJG partiva con una cantilena. Diceva una roba tipo "fermati, o sole". Ridevo solo io perché ero l'unico dei miei compagni ad aver avuto il privilegio di frequentare una scuola cattolica.
Una pomeriggio, mi sembra fosse già primavera inoltrata, la situazione divenne insostenibile. Continuavo ad asciugarmi il sudore dalla fronte con dei fazzoletti e a sbuffare insofferente. Ricordo che strappai due pagine dal quadernone e le piegai per dare rigidità alla carta. In pochi minuti, mi creai un ventaglio artigianale e iniziai ad agitarlo. PJG mi guardò dicendomi: «stai facendo caldo a tutti». Poi cancellò la lavagna e attaccò a scrivere della roba incomprensibile per degli studenti di prima superiore. Fu la mia prima vera lezione di termodinamica.
Per farla breve, con un spiccato accento calabrese addolcito dalla cantilena mantovana, spiegò a tutti che l'energia che impieghiamo per sventolare il foglio è maggiore del calore che riusciamo a sottrarre con l'aria prodotta. Morale: aumentiamo la nostra temperatura credendo di farci fresco. Da quel momento, considerò la nozione acquisita. E quindi, se vedeva qualcuno insofferente per il caldo diceva «pensa ad un posto fresco. Non ti agitare, pensa di stare al polo. Pensa alla neve. La vedi? Ecco, stai fermo e non rompere i coglioni».
Durò un anno, poi fu assegnato ad un'altra sezione. Venne rimpiazzato da un cinquantenne bolso dal fiato pesantissimo. Ci spiegò la loppa, la ganga, la lavorazione della ghisa, e tutta una serie interminabile di reazioni chimiche che avvenivano nell'altoforno. Faceva il simpatico, parlava in dialetto, rideva da solo, ed era un po' testa di cazzo. In officina lavoravamo esclusivamente al tornio e in circa otto mesi riuscii a fare solo una specie di cilindro spastico.
Ogni tanto vedevo PJG girare nei corridoi. Era costantemente attorniato da donne: bidelle, professoresse e bariste che tentavano di incrociare i suoi occhi neri. Se si accorgeva di me, mi faceva l'occhiolino e poi si accendeva una sigaretta incurante di qualsiasi divieto e della temperatura.
10 notes
·
View notes
Text
Isolamento Acustico
La cosa che odio di più dell'estate è il dover aprire le finestre.
Odio non avere più l'isolamento acustico dei doppi vetri. Qualsiasi rumore mi sveglia, mi agita, mi fa pensare. Il brusio delle macchine che sfrecciano in strada. Gli autobus che aprono le porte per far scendere qualche disperato intrappolato in una corsa notturna imprevedibile e senza fine. Una di quelle identificate da lettere e che hanno origine all'estremo della città e destinazione in quello opposto, così distanti da farti dubitare che l'autista possa farcela senza svenire. Odio quando il silenzio è violentato da una frenata. Pneumatici che fischiano sull'asfalto, orecchie tese aspettando il botto e poi il silenzio, come una melodia che non risolve, una progressione armonica monca.
Mi dà fastidio sentire la televisione dei vicini. Voci distorte che rimbalzano sulle facciate, frequenze che si combinano in maniera complicata: Magalli roco, una troia urlante, un politico petulante, un boato fuori scala per la pubblicità di un prodotto stagionale per rendere il corpo mezzo nudo un po' meno disgustoso.
E soprattutto odio i gatti. Casinisti e in calore, saltano sulle lamiere dei garage condonati. E invece di acchiappare bestie e ratti che sgattaiolano verso il BIsagno, stanno lì a incularsi, a rigirarsi nell'edera, godendo e verseggiando mentre sudo nel letto. La cosa peggiore è il mio vicino di sotto. Regolarmente, apre la finestra, e inscena dei versi, una roba del tipo "miaaau miaaau" e sembra una specie di Super TeleGattone ritardato. Qualcuno, regolarmente, urla "hai rotto il cazzo!" e lo ringrazio mentre sento il rumore di persiane che si chiudono e mentre spero che passi il caldo per non dover più sentire il rumore del quartiere.
14 notes
·
View notes
Text
(im)Maturità
Più il tempo passa e più il mio esame di maturità diventa un sogno senza sonno. Ricordo il caldo della sera prima e le due sigarette fumate sul poggiolo della mia camera da letto. Davanti a me c'era Mantova con le sue case basse e i tetti ordinati. Sopra i tetti, come se fossero la base di un circuito stampato, correvano dei cavi di acciaio. Dentro ai cavi si agitava un flusso di elettroni a bassa intensità che cercava di generare qualche campo magnetico nella speranza di scacciare i piccioni. Non avevo la più pallida idea di come funzionasse quell'aggeggio. Solitamente sarebbe stata una roba di poco conto. D'altro canto, da sempre siamo immersi di oggetti di cui non comprendiamo il funzionamento. Tuttavia, la mattina avrei dovuto convincere una commissione che ero in grado di fare il perito industriale in elettronica e quindi, non conoscere la relazione tra campo elettrico e corrente elettrica, ecco, non era proprio un bella premessa. Ricordo di aver ammesso la mia ignoranza e di essere andato a letto.
Ricordo anche la stanza buia, il walkman dell'Aiwa tenuto insieme da una teoria di nastro isolante grigio e la spugnetta delle cuffie umida di sudore. Per addormentarmi ascoltai Locust Abortion Technician e poi Hairway to Steven dei Butthole Surfers. Avevo recuperato quei dischi a Genova l'estate precedente a li ascoltavo per convincermi che tra poco sarebbe tutto finito. Furono la mia ninna nanna per diversi mesi, praticamente da quando iniziò il girone infernale di compiti in classe e interrogazioni di recupero. Quasi tutte fallite, tra l'altro
Ricordo i libri. Impilati in un angolo della mia camera ormai ridotta a un letto e una sedia perché il trasloco era imminente. Erano lì, quasi intonsi, pronti per essere restituiti alla scuola. Non era importante l'esito: non erano i miei e per me importava solo quello.
Ricordo vagamente la confusione fuori dalla scuola. I documenti consegnati prima di entrare nello stanzone. La schiacciata con la coppa mangiata come merenda mentre fumavo una Marlboro. Ricordo il pacchetto da dieci, che poi è diventato da venti. Prima duro e poi morbido.
Ricordo il preside. Ricordo qualcuno che urla "preside culo, e culo chi non lo dice". Ricordo il boato: "culo!". Gli imbarazzi di alcuni professori, lo sguardo assente dei bidelli, la faccia divertita dei miei compagni. La mia voglia di dimenticare i libri e tutto quello che ho imparato.
Ricordo la Panda 750 bianca posteggiata nello spiazzo della scuola. Il viaggio verso casa. I miei che mi chiedevano "come è andata" e io che dicevo "non lo so." Non avevo la più pallida idea di che cosa avessi combinato. Le superiori per me erano una roba tipo "The Teachers are Afraid of the Pupils" di Morrissey. Ricordo che ascoltavo Morrissey.
Ricordo che non ebbi il coraggio di andare a vedere i risultati. Mi chiamò a Genova un amico di Mantova per dirmi "sei passato, cazzone". Non andai nemmeno a ritirare il diploma. Pensai solo a suonare, a bere, a vomitare, a fumare sigarette in bottiglie di plastica forate e ripiene di Cynar, a leggere tutto Herbert di un fiato. Ricordo che dissi cose poco urbane sulla scuola e ne pensai di peggiori.
E poi ricordo ancora una telefonata. Di cinque anni dopo. Sono io disperato che da Genova chiamo il Provveditorato agli Studi di Mantova pregandolo di spedirmi il diploma di maturità. Mi serviva per iscrivermi al Dottorato di Ricerca. Ricordo la busta marrone con dentro la pergamena spiegazzata in quattro, a pezzi come la mia coerenza. Della maturità ricordo che ti possono dire che fai schifo in tantissimi modi ma che alla fine, l'unico che davvero può fare schifo, sei solo tu.
8 notes
·
View notes
Text
Trema!
Negli anni '90, per appagare la voglia di musica, suonavo, ero spesso in corriera per andare a Genova e cercare i dischi da Pink Moon, Disco Club e da un negozietto in Vico Campetto fornitissimo di bootleg, compravo cassette e CD per corrispondenza da Sweet Music e stavo appiccicato a Cav e suo fratello perché tra le loro mani passava la storia della musica, spesso tre anni prima che il resto del mondo se ne accorgesse. A Marzano e dintorni mancava però la musica dal vivo. Così, vagavo tra le valli seguendo il passaparola o qualche volantino raccattato alla Casa della Gioventù oppure distribuito da PR improvvisate di una qualche discoteca abusiva. Il panorama era mediamente desolante: qualche poveraccio armato di Stratocaster alle piscine di Torriglia intento a ripercorrere il meglio della musica italiana, roba tipo l'Amore Rubato di Luca Barbarossa, dei disperati che facevano piano bar al Bar Italia riproponendo raccapriccianti arrangiamenti latineggianti di classici del rock, oppure improbabili incroci tra il cantautore e il comico, tipo un tizio allucinante chiamato Gino Menestrello che si esibiva ogni tanto a Gattorna nel parcheggio dell'Alzati Lazzaro.
Che mi ricordi, l'unico tentativo degno di nota di portare la musica rock suonata dal vivo è stato un abbozzo di festival rock che si teneva a Paravagna, piccola frazione del comune di Davagna popolata da una trentina di abitanti. Ovviamente, gli organizzatori avevano battezzato l’evento “Pararock”, un nome la cui bruttezza era seconda solo al “Monster of Ronk” di Ronco Scrivia. Il Pararock si svolgeva in una specie di micro-comprensorio che racchiudeva un prato con delle panche, un circolo privato con tanto di baretto dagli interni tappezzati di perlinato reso appiccicaticcio dalle troppe mani di flatting, e una specie di terrazza coperta da un prolungamento del tetto. Al centro della terrazza, una colonna impediva alla capriata di franare. Dietro alla colonna, si esibivano i gruppi.
L'inopportuno pilastro imponeva di organizzare la strumentazione e i musicisti in maniera un po’ bizzarra. Quindi, dimenticatevi la classica configurazione con batterista e cantante centrali e bassista, chitarrista e tastierista di fianco. I musicisti erano completamente schiacciati ai lati dello sgangherato palchetto e il cantante doveva decidere se stare nella metà di destra o in quella di sinistra. Quando suonavano i più timidi, ovvero quelli che stavano piantati sulle gambe, rigidi e immobili, non c’erano problemi. Invece, quando suonavano quelli più brillanti, dove con brillante intendo chitarristi che scimmiottavano Angus Young attraversando la terrazza-palco oppure cantanti che cercavano di coinvolgere la manciata di spettatori seduta per terra o sui tavoli, la colonna mostrava tutta la sua invadenza. Il pubblico cominciava a ondeggiare nella speranza di aggirare l’ostacolo visivo. Era una cosa davvero buffa da vedere: le teste, da dietro, sembravano quelle degli spettatori di un incontro di tennis giocato al rallentatore.
Mi sembra di ricordare che la prima edizione del Pararock che vidi fu quella del 1991. Quella sera suonava il gruppo di Livio, villeggiante e chitarrista con casa alle Chistane. Da Marzano partimmo in massa e formammo una discreta autocolonna. Comunque, non mi rimase impressa la performance dell'amico. Mi rimase invece impressa quella di un gruppo di ragazzotti chiamato Pogrom. Ora, ripensandoci a mente fredda, avrei dovuto intuire che il nome non fosse proprio quello di una band country. Quella sera però, non fui pronto, così come gli altri ascoltatori. Dopo l'annuncio del presentatore, un pseudo factotum che faceva anche il fonico e il giurato, ricordo il cantante che, arrivato sul palco, prese il microfono e urlò “Paravagna, trema!” e poi emise un urlo assurdamente roco. I Pogrom attaccarono a fare una specie di trash metal fragoroso e cacofonico: il batterista scalciava sul doppio pedale, il basso era inesistente, la chitarra distorta con un volume da denuncia e il cantato così gorgogliante, gutturale e urlato da risultare inintelligibile. I vecchietti del paese si guardavano tra di loro basiti e, a tratti, con il terrore negli occhi, quello di chi non sta capendo cosa succede. Il barista e un paio di volontari della Croce Rossa uscirono dal piccolo locale con lo sguardo allucinato indicando il palco con uno straccio, un cartoccio di Estathé e una lattina di Chinotto Sanpellegrino. Un drappello di supporter della band, vestiti con jeans stracciati e delle magliette con scritto sopra a pennarello il nome della band con dei caratteri in stile gotico, iniziarono a pogare in mezzo a un gruppo di bambinetti che si dissolse spaventato correndo verso i genitori inorriditi.
Quello spettacolo mi divertii molto, tanto che tornai al Pararock anche altre volte. Ma nessun gruppo riuscì a creare scompiglio come i Pogrom. Forse l'organizzazione diventò più selettiva con i generi ammessi in gara, non ricordo. Era un festival senza pretese, una specie di ritrovo di reietti della scena locale genovese, e per questo dotati di una certa integrità artistica e quindi degni di rispetto. In palio c'erano ore in una sala di registrazione (ma non se ne sentiva il bisogno) e delle ore di lezione (queste, invece, servivano decisamente). Ad ogni edizione, si sprecavano gruppi di metallari con jeans e t-shirt strappate e non si contavano i chitarristi con la sigaretta in bocca che scimmiottavano Van Halen. Suoni totalmente a casaccio, votazioni per incoronare la migliore band con percentuali che sommate davano 110 o addirittura 120, organizzatori con improbabili scuole di musica che favorivano allievi o qualche poveraccio che aveva registrato un demo con loro, rendevano il Pararock così sgangherato da risultare godibile. Nonostante l'affluenza aumentasse ad ogni edizione, ad un certo punto smisero di farlo. Forse perché la brava gente di Paravagna non riusciva a sopportare, per ben due serate di Agosto, un po' di macchine posteggiate a cazzo di cane lungo la statale? Non so dirlo.
Ogni volta che vedo Livio, mi viene in mente quella sera d'estate passata a Paravagna. Tra l'altro, lo ho rivisto non molto tempo fa dopo tantissimi anni. Io stavo attraversando sulle strisce pedonali davanti a casa. Lui era in macchina e ha suonato il clacson per salutarmi. Non lo ho riconosciuto subito, così ho pensato mi stesse dicendo di sbrigarmi ad attraversare la strada: lo ho mandato a fare in culo.
7 notes
·
View notes
Text
Palco Improvvisato
A Marzano è sempre mancata la musica dal vivo. O meglio: liscio tantissimo, anche con orchestre di un certo calibro, soprattutto a metà degli anni 80, momento di massimo splendore del paese. Poi, negli anni 90, si sono alternate orchestre minori, spesso composte da ragazzetti che accompagnavano una cantante scosciata e un po' forte di fianchi. L'unico gruppo che si è scostato dal canone dell'orchestra di liscio, ovvero musicisti dai pantaloni bianchi, giacca colorata e una faccia da barista da night, è stato una specie di duo amatoriale chiamato "Il Gatto e la Volpe". Credo che il loro vero mestiere fosse quello di commercianti di componenti elettronici. Chiamati a suonare addirittura ben due anni di fila, cercavano di fare anche qualche pezzo di musica leggera, però la gente del paese scrollava la testa e ballava solo la mazurka e roba simile. L'unica deroga ammessa era "Il ballo del qua qua" per i più piccoli.
Comunque, un paio di occasioni degne di essere ricordate ci sono state. La prima è quando l'orchestra di Sandro Rovatti suonò sul campo di bocce (trasformato in pista da ballo per l'occasione) accompagnata da una certa Dana Gipsy. Avevo circa nove o dieci anni, però ricordo benissimo la cantante. Bella ragazza, ma soprattutto dotata di una voce potente e devastante. Credo che abbia anche tentato la carriera come cantante solista senza però avere fortuna.
L'altra serata che mi è rimasta impressa è quando suonarono i Trilli. Avevo circa dodici anni. In realtà non era proprio il duo originale, ma una specie di incarnazione allargata. C'era una certa agitazione in paese e già dal primo pomeriggio, qualche macchina arrivava da Torriglia e anche da Genova. Ma verso le sei di sera, scoppiò un temporale con pioggia torrenziale allagando il palcoscenico e la pista da ballo. Allora gli organizzatori (ovvero, un gruppetto di persone che cercava di animare il periodi di villeggiatura estiva) cercò una soluzione alternativa in fretta e furia. Alla fine, Roberto mise a disposizione casa sua. La sua villetta, disposta su due piani, aveva una specie di veranda aperta che permetteva al gruppo di suonare rimanendo all’asciutto. E quindi il poveretto aveva la casa invasa da cavi, le casse appoggiate su le sedie e altri cavi che uscivano dalla finestra per collegare la strumentazione all'impianto elettrico. La pioggia si fermò solo per qualche minuto anche se non scrosciò mai abbondantemente. La veranda era stipata di strumenti coperti con i sacchetti della spesa, e la gente ascoltava e ballava accalcata nella strada delle Chistane con la testa rivolta un po' in alto verso il palco improvvisato.
Pucci, il frontman de I Trilli, stava piazzato davanti al microfono, praticamente immobile. Tutto il gruppo era mezzo ubriaco. Ma alla fine fecero una versione eccezionale de "La casa in via del campo". Non ho mai più sentito quella canzone suonata così. Ad un certo punto, Pucci annunciò una pausa. Lo fece a modo suo, cioè urlò nel microfono una roba del tipo "vad-u a fa in pitin d'aegua". Ovviamente, utilizzò il bagno di casa di Roberto. Il giorno dopo, mi sembra di ricordare Roberto che raccontava della serata. Sembrava divertito, soprattutto quando diceva che aveva trovato il bagno in condizioni pietose, con piscio dappertutto.
Nota: Roberto mi ha confermato che il finale del racconto è aderente alla realtà. Dopo aver letto, è andato a cercare nel suo archivio fotografico e ha trovato la foto seguente. Il tizio con gli occhiali da sole che suona la chitarra mi sembra sia Campailla, altro immenso personaggio del panorama folk genovese degli anni ‘80. Tornò a suonare a Marzano anni dopo con il duo “Campailla & Piombo” ma ormai erano in pieno declino artistico.

7 notes
·
View notes