Tumgik
#è una porcheria tremenda
sebruciasselacitta · 4 years
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thank you @sgiuliet and @coileoniamoremi for tagging me 💕
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pangeanews · 5 years
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Thomas Mann, il conservatore comunista in guerra contro tutti
Congiungiamo due anniversari. Nel 1929 Thomas Mann ottiene il Nobel per la letteratura. Mai premio fu più ovvio: nel 1924 Mann pubblica La montagna incantata – nonostante il Nobel sia accaduto “principalmente per il grande romanzo, I Buddenbrook” –, è lo scrittore europeo più riconosciuto dell’epoca. Dieci anni dopo, nel 1939, su “Esquire”, Thomas Mann scrive un articolo ‘politico’, per quanto costantemente elusivo, That Man is My Brother. “Nessuno può fare a meno di essere preoccupato da questo deplorevole spettacolo… egli ha scelto di usare la politica come suo strumento… peggio per tutti noi, peggio per l’Europa, che giace indifesa sotto il suo incantesimo, dove egli recita la parte dell’uomo del destino e dell’eroe che conquista ogni cosa”. Naturalmente, ogni riferimento è rivolto a Hitler. Nel brano finale, Mann consegna all’arte un ruolo storico: “Ben più chiaramente e felicemente che mai, l’artista del futuro realizzerà la sua missione come un mago bianco, un alato, ermetico mediatore lunare tra spirito e vita. La mediazione in sé è spirito”. Magari, macché, l’artista del futuro, oggi, pressoché è un lacchè, altro che mago.
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“Nel febbraio del 1938, Thomas Mann parte da Cherbourg, in Francia, verso New York. Fu accolto negli Usa da una folla di giornalisti e da una troupe cinematografica della Paramount. Aveva vinto il Nobel nel 1929, era apparso sulla copertina di ‘Time’ nel 1934, aveva denunciato la politica pacifista del primo ministro britannico Neville Chamberlain, aveva previsto l’annessione dell’Austria da parte di Hitler. Quando, quel giorno, gli fu chiesto se trovasse dura la condizione dell’esilio, lo scrittore rispose: ‘Certo, è difficile da sopportare. Ma ciò che rende sopportabile l’esilio è l’atmosfera avvelenata che si respira in Germania. Dove sono, con me è la Germania. Porto in me la cultura tedesca, non sono un derelitto”. Così attacca l’articolessa di Jacob Heilbrunn pubblicata su “The National Interest” con il titolo Thomas Mann’s War Against Hitler, che si focalizza sul libro di Tobias Boes pubblicato dalla Cornell University Press, Thomas Mann’s War, sugli anni dello scrittore in terra americana, a lottare contro tutti, nazisti prima e statunitensi in fregola anticomunista poi. Come si sa, Mann lascia la Germania per la Svizzera nel 1933, dove la sua conferenza, Dolore e grandezza di Richard Wagner, era stata presa con sfavore dai kapò nazi. Contestualmente, gli viene sequestrato il passaporto e la casa di Monaco: dal 1934 iniziano i viaggi negli Stati Uniti, dove, nel 1935, ricevendo ad Harvard una laurea ad honorem, incontra il Presidente Roosevelt. Improvvisamente, Thomas Mann, l’eminente artista, lo scrittore che assolve il sacerdozio della scrittura, diventa un personaggio ‘politico’. Dal 1941 si stabilisce a Pacific Palisades ed è un’arma utile al governo americano, di cui diventa cittadino, nel 1944.
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In realtà, Thomas Mann è malsopportato da tutti, non si allinea ad altro che alla propria indole. Gli intellettuali tedeschi, dopo la Seconda guerra, accolgono Doctor Faustus come un pugno. Certi lo rimproverano: facile lanciare strali contro la Germania nel dorato esilio statunitense. Lui lotta, in pubblico e in privato. Così il 7 settembre 1945 scrive allo scrittore Walter von Molo: “Naturalmente mi fa piacere che la Germania desideri riavermi, non soltanto riavere i miei libri, ma me stesso in persona. Tuttavia questi appelli hanno per me qualcosa d’inquietante, di opprimente, anzi essi mi si presentano come qualcosa di illogico, persino di ingiusto e di sconsiderato”. E poi specifica: “Non era lecito, non era possibile fare della ‘cultura’ in Germania, mentre tutt’intorno accadeva quello che ben sappiamo. Voleva dire attenuare la depravazione, adornare il delitto. Fra le torture che soffrimmo ci fu lo spettacolo dello spirito tedesco che di continuo si prestava a far da insegna e da traino alla mera mostruosità”.  Così il 22 luglio 1946 a Hans Friedrich Blunck: “Ogni bambino, in tutto il mondo, sapeva che cosa si celava sotto quell’eufemismo, cioè lo scalzamento, dovunque, delle forze di resistenza democratiche, la loro demoralizzazione attraverso la propaganda nazista. Solo lo scrittore tedesco non lo sapeva. Beato lui che poteva essere un puro folle e avere un’anima ottusa, moralmente inerte, priva di ogni capacità di disgusto, di ira, di orrore per quella diabolica porcheria così profondamente infame che il nazionalsocialismo è stato… Nessuno mi libererà mai dal dolore e dalla vergogna ispiratimi dall’atroce fallimento, privo di cuore e di cervello, degli intellettuali tedeschi di fronte alla prova cui furono sottoposti nel 1933. Dovranno fare molte cose grandi se vorranno che questo venga dimenticato”.
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Dopo la morte di Hitler, a guerra archiviata, il Thomas Mann antinazista non è più utile al nuovo corso americano. In era maccartista, nel 1947, quando Hollywood viene sarchiata per scovare il comunista in pellicola, Thomas Mann alza la voce. “In quanto cittadino americano nato in Germania, testimonio una familiare preoccupazione verso certe tendenze politiche. Intolleranza spirituale, inquisizioni politiche, declino della sicurezza, azioni estreme compiute in ‘stato d’emergenza’… così è iniziato tutto in Germania”. Nel 1949 lo scrittore è a Weimar a ritirare il premio Goethe, con lo scoppio della guerra in Corea l’FBI apre un fascicolo dedicato a Thomas Mann, “possibile comunista e probabile spia tedesca”. Siamo all’assurdo. In effetti, il premio Nobel deve dimettersi dalla Library of Congress, che cancella un suo ciclo di conferenze, nell’aprile del 1951 “il suo nome, insieme a quello di Albert Einstein, Lion Feuchtwanger, Frank Lloyd Wright, Norman Mailer e Marlon Brando appare in un documento governativo come ‘affiliato ai movimenti pacifisti del fronte comunista’” (così Jeffrey Meyers in Thomas Mann in America, ‘Michigan Quarterly Review’, vol. 51, Fall 2012). In questo delirio di fraintendimenti, l’FBI riterrà Mann “uno dei comunisti più noti al mondo”. Nel 1952 lo scrittore torna in Europa, si stabilisce a Zurigo, dove muore, due anni dopo.
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“Dovevo arrivare a 75 anni e vivere in un paese straniero che è diventato la mia patria per vedermi accusato pubblicamente di mendacio da bruciatori di streghe i quali – e questo è veramente sbalorditivo – non credono a nessuno né ascoltano alcuno tranne le loro ‘streghe’… Io non sono un comunista né lo sono mai stato. Non sono e non potrei essere nemmeno un ‘compagno di strada’, quando la strada porta al totalitarismo”, scrive Thomas Mann il 3 aprile 1951 “alla redazione dell’Aufbau”, specificando che “l’isterico, irrazionale e cieco odio anticomunista” in Usa “rappresenta un pericolo ben più grave del comunismo locale”.
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Il 9 gennaio 1950 a Theodor W. Adorno. “Non so com’è, ma ho l’impressione che l’aria qui sia piena di stregonerie… Noi, in questa terra straniera divenutaci familiare, viviamo in fin dei conti nel posto sbagliato, cosa che dà alla nostra esistenza un che di immorale…. Poco tempo fa il Beverly Wilshire Hotel ha rifiutato il suo salone per un dinner dell’Arts Sciences and Professions Council perché doveva tenervi un discorso un communist come il Doctor Mann”.
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(Piccola parentesi. Wikipedia è ormai diventata fonte certa, indubbia: la Tate Gallery narrando la biografia di William Blake, protagonista di una rassegna ultima, rimanda il lettore, appunto, a Wikipedia. Ora. La pagina Wikipedia di Thomas Mann, redatta nel mondo anglofono, dedica alla Sexuality dello scrittore – ergo: la sua omosessualità latente, patente – uno spazio congruo, ma equilibrato, rispetto al paragrafo centrale, dedito al Work di Mann. Thomas Mann, in effetti, non è un romanziere definito integralmente dalla propria omosessualità, che ha al centro della propria opera il sesso. Nella nota Wikipedia italiana, invece, ci si concentra quasi del tutto sulla voce Omoerotismo – 66 righe – relegando l’Opera nel ring di 17 righe, francamente imbarazzanti – tipo: “Tra il 1933 e il 1942, Mann pubblicò la tetralogia Giuseppe e i suoi fratelli, ricca rielaborazione della storia di Giuseppe, tratta dalla Genesi, e considerata uno dei suoi lavori più significativi”. Non è un bel servizio offerto a un genio del romanzo – e non nell’ambito della storia dell’omosessualità).
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Paradossi inconcepibili ai burocrati del pensiero unico – e corroboranti per lo scrittore. Nelle Considerazioni di un impolitico, elaborate durante la Grande Guerra – “non solo al centro dell’opera di Mann… uno dei passaggi della letteratura europea che ancora oggi chiunque faccia professione di cultura non può esimersi dal percorrere”, così Giorgio Zampa, su il Giornale, 3 maggio 1994 – il grande scrittore fa la parte del genio conservatore, dell’esteta che abbaglia con ruggiti di individualismo selvaggio. “Non solo non penso che il destino dell’uomo si esaurisca nell’attività pubblica e sociale, ma addirittura trovo quest’opinione disgustosa e inumana”; “Amore! Umanità! Li conosco, quel teorico amore e quella dottrina umanitaria, professati a denti stretti per provocare un senso di ribrezzo nel popolo…. Tremenda, certo, è la guerra. Se però nel vivo della guerra il letterato politico si mette in posa e proclama di sentire nel petto il respiro d’amore dell’universo, questo è il più spaventoso degli spaventi e insopportabile”. In sintesi: “La personalità, unica cosa interessante al mondo, è sempre il risultato di un qualche miscuglio e conflitto: i tempi si urtano, si profilano contrasti e contraddizioni, e gli uni e le altre diventano spirito, vita, figura. La personalità consiste nell’essere qualcuno, non nell’avere opinioni”. Molto banalmente, come scriveva Harold Bloom, ben presto si citerà Thomas Mann senza leggerlo: i suoi libri sono troppo complessi, i suoi pensieri spiazzanti, la sua personalità, radicata nella contraddizione, inconcepibile per chi ci vuole tabula rasa, tavola periodica dell’ovvio, servi, insomma. (d.b.)
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