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#Andrea Sciffo
pangeanews · 5 years
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Oggi Leopardi compie gli anni. Insieme agli auguri, sveliamo l’autore che il divo Giacomo ha “plagiato” per scrivere “L’infinito”. Ovvero, modesta proposta per una storia della letteratura italiana alternativa
Senza Amore, sottotitolo L’ultimo capitolo della letteratura italiana, è l’ultimo testo scritto da Andrea Sciffo, insegnante di liceo, poeta, novellista e saggista, edito dalla rivista digitale sui generis Il Covile, cui l’autore monzese contribuisce regolarmente con meditazioni che hanno in due viennesi, Hofmannsthal e Illich, in due lombardi, Corti e Quadrelli, e in Simone Weil, i puntelli di un pensiero radicalmente altro – cristiano, cattolico, dunque fedele all’intuizione poundiana per cui il sentire (per esempio: il potere della musica) unisce, col cuore, nella carne, mentre il pensare (per esempio: il vuoto cerebralismo) divide, nella mente, nelle idee, o meglio nelle ideologie, quindi negli ideologismi, nonché all’et-et asburgico, tardobarocco e antimoderno – insomma controcorrente rispetto alla letteratura e alla critica gnostica, e a-gnostica, del XX e XXI secolo.
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Lui è Andrea Sciffo
Senza Amore, sottotitolo L’ultimo capitolo della letteratura italiana, perché tale è secondo la sua tesi la storia delle patrie lettere, da intendersi come letteratura post-unitaria (l’equazione di base è proprio questa e vale a dire che tutto ciò che è post-unitario si colloca in un ambiente decisamente post-amoroso) ossia della falsa patria di nome “Italia” e non delle sue singole parti – le quali soffrono tuttavia di una falsa “identità” che si fonda appunto sulla totale mancanza d’amore, da cui deriva, e che deriva, da una storia anch’essa “senza amore” che abbraccia – o meglio strangola –, soffocandola in una stretta mortale tutta la letteratura italiana – o meglio italofona –, a partire dal cronologismo (“la crudeltà di Chronos”, ovvero “il male radicale”, scriveva il leibniziano Gilles Deleuze a proposito del naturalismo di Émile Zola) che limita le scuole e la scuola.
Si tratta ovviamente dello storicismo e dello scuolismo dei Tiraboschi prima e poi dei De Sanctis, dei Croce, e infine dei Ferroni, dei Sapegno, contro i quali Sciffo scrive in quello che si direbbe un piccolo pamphlet, non fosse che quello pamphlettario è un tono che non appartiene alle sue sue corde, cor–cordis, al suo cuore, libero dal grottesco gioco delle parti di cui è vittima un paese preso tra Commedia dantesca (cf. Inf.) e quotidiana commedia farsesca – “senza amore”.
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“Se esiste una definizione sintetica che possa abbracciare la letteratura italiana nella sua interezza, […] è proprio questa endiadi che consta delle due sole parole che non andrebbero mai accostate. Se è senza amore la storia delle patrie lettere, a maggior ragione lo sono anche le storie individuali dei singoli che popolano la cultura italica, cresciuti nel suo cono d’ombra come tanti arlecchini senza arte né parte”.
Così esordisce Sciffo puntellandosi, o meglio, come scrive egli stesso facendo eco a una massima apocrifa metà anni Cinquanta di Noventa, che denunciava come tutta la cultura ufficiale italiana fosse fondata sugli errori della scuola torinese, e così la scuola di Stato, lo stato delle cose delle stantie scuole “scuolastiche” ancora e sempre deamicisiane (Cuore) basate a loro volta sulla continua coscrizione degli studenti e cittadini (senza amore e ormai senza civitas) e sul disamore quale condizione forse irrimediabile in assenza della parola-chiave che è summa di tutti gli affetti e aspetti (eros, agàpe, filìa, storghé, dilectio) del sommo affetto – per rilanciare poi l’idea di un apprendimento più libero – non meno impegnato – con mezzi propri – magari più essenziale – anche in povertà – anarcronistico nel senso di libero dal potere del tempo –  come Pinocchio.
“[…] E poi verrebbe la grande amorosa agnizione, un ritrovarsi in armonia con l’altro da sé, una catarsi purificatrice del gran difetto del soggetto moderno: l’ipocrisia. La vecchia pagliacciata sarebbe finita e soltanto i suoi estremi attori fingerebbero di non accorgersene: il trucco scivolato dalle guance e i costumi logori; le battute del copione prevedibili e comunque i guitti ne dimenticano ogni volta una o due”.
Come Pinocchio con un libro trovato quasi per caso, o con la convivialità, tema fondamentale del pensiero di Illich, oppure nella natura, o nello spazio rurale, come fece la Weil, due ambiti quasi del tutto assenti tra gli autori “italiani” del XIX e XX secolo – certo con qualche eco nella Brianza di Manzoni, nella Padanìa della Scapigliatura, nel Veneto di Comisso, di Zanzotto, ma di norma declinati in senso atrocemente negativo come sul Vesuvio di Leopardi, nella Sicilia di Pirandello, di Verga, in Cristo si è fermato a Eboli, e nella Roma di Moravia, di Pasolini, tanto per citare degli esempi d’altri universi etnici e letterari.
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Senza Amore, sottotitolo L’ultimo capitolo della letteratura italiana, e le ultime pagine sono proprio quelle di Manzoni, e soprattutto di Leopardi, alle quali non è corrisposto secondo Sciffo nessun rinascimento – essendo stato il cosiddetto risorgimento politico la fine, – quanto un trionfo – sancito dalle istituzioni, dagli scuolismi, e dalla scuola, – di una serie d’istanze tipicamente leopardiane come il senso del dolore e della noia, tra erudizione e freddezza, e della figura del “letterato” denunciato dalla Weil, proprio a proposito del poeta recanatese cui Sciffo oppone il dalmata Tommaseo, che considera ben superiore.
Dietro c’è una vera e propria censura, ovvero l’ostilità verso tutta la letteratura del Seicento, parallela a quella ancor più dichiarata dei Savoia e di tutto il risorgimento nei confronti del Barocco, del Tardo-Barocco, con la sua Gesamtkunstwerk, l’opera d’arte “totale” che va dalla figurazione pittorica alla parola alla musica alle figure architettoniche che negli esiti del movimento controriformista trovò un altro ultimo capitolo (nel 1866 nel monastero cretese di Arkadi, unico esempio greco ortodosso di Barocco, dava rifugio a dei martiri resistenti agli ottomani – nel mentre da cinque anni gli “italiani” inneggiavano al fatto di essersi cinti il capo con l’elmo pagano appartenuto a Scipione l’Africano)… – e nelle lettere autori come Filicaia, Magalotti, Maggi, Menzini, Redi, Salvini… – e De Lemene, che secondo Sciffo fu plagiato proprio dal poeta de L’infinito…
“Riempie il tutto, e se fingendo io penso / oltre al confin de’ vasti spazij, e veri, / deserti imaginati…”.
Questi versi sono tratti da una raccolta di poesie sacre edita a fine Seicento, e che per Sciffo “quasi certamente Leopardi plagiò per poi rifonderli forse inconsciamente nel più celebre dei suo i Canti”. Così come nel libro Sette giornate del mondo creato (1686) “per esempio […] le due terzine con cui Giuseppe Girolamo Semenzi immortalò Il passero solitario [sic]”, con queste melodiose parole: “Sto poetando al ciel ne l’erma cella / talora e far godo la vita anch’io / selvaggia quanto più, tanto più bella, // Passero solitario è detto pio. / Gloria però del solitario è quella, / onde un bruto non è ma quasi un Dio”.
Come si può evincere dalla lettura del volume Arcadia edificante, edito da ESI a Napoli nel 1969 e curato da Carmine Di Biase, prima di Leopardi e della letteratura unitaria ovvero “senza amore” l’universo italofono era ben altro, dal “controcanto” lombardo a quello partenopeo con poeti che cantano il Creatore, le Creature, la loro creaturalità, e infatti un terzo esempio che egli cita è una strofa – “strofa che espone il legame psicobiologico del poeta tardobarocco con la ‘natura’ sentita come simbiotico altro-da-sé con cui però è inevitabile la pulsione fusionale: in un processo di integrazione tra organico e inorganico che mi pare di una limpidezza mai più ottenuta in tempi recenti, per la quale il ‘creante’ viene chiamato ‘autore’ delle cose che un individuo sente come maggiormente intime e personali”.
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L’entità chiamata “Italia” – come ha fatto con la cultura di alcune sue regioni – come ha fatto recidendo l’albero che costituivano – che tali erano sotto occupazioni non più estranee – come sotto quelle cristiane spagnole e austriache – ha annichilito, annullato, o meglio emarginato, questo suo possibile “controcanto” che dice di un mondo  del tutto differente, radicato nella creaturalità, d’uomini connessi col Creato come lo sono i passeri, e gli alberi, e in cui l’autore, il poeta, non canta soltanto del suo dolore, della sua noia, ma anche e soprattutto della sua “comunione” con Dio, per tramite di ciò che è “altro-da-sé”.
In questo Sciffo è allievo della scuola-non-scuola della Weil, di Quadrelli, e dunque erede della vera tradizione, quella del Cristianesimo, della poesia di Hölderlin, del Tardo-Barocco, e della censurata “Arcadia edificante” di cui ha voluto testimoniare: non senza ma con amore.
Marco Settimini
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pangeanews · 5 years
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“Viviamo in un tetro inferno, dovunque è arrivato il cosiddetto miracolo”: Gadda, la “fottuta villa di campagna” e le staffilate di Guardini
“In un abbandono tra avvelenato e grottesco il gran Carlo Emilio ha profuso i suoi estri, le sue brigliate, filologiche scalmane sulla topografia della più tipica delle villeggiature milanesi; ma altresì ha ‘sfogato’ il suo amore-disgusto per una terra a lui familiare. Resta in queste pagine la formula che Gadda adotta per rappresentare (e ‘punire’) quella Brianza che il progresso e i suoi orridi malgusti hanno stravolta. Resta la vendicativa rivalsa verso un luogo che del resto gremisce di riferimenti tanti altri suoi libri; e che, sollevando una volta la maschera di quel suo risentimento, svela un gemito nostalgico verso la terra che altrove chiamerà ‘la nostra perduta Brianza’. Quella […] mirabilmente celebrata alcune stagioni prima con altri registri nella raccolta Le meraviglie d’Italia”. Così scrive Luigi Santucci nel suo Letteratura e musica in Brianza…
Ai toni encomiastici di questo volume si sostituisce, ne La cognizione del dolore, il romanzo più brianzolo di tutta l’opera gaddiana, seppure ambientato in un Sud America assolutamente surreale, il disgusto per la casa paterna, la quale fu paradossalmente il luogo in cui concepì e scrisse molte delle sue opere, come ricorda un altro lombardo, Alberto Arbasino nel capitolo che in Genius Loci ha dedicato allo scrittore: “L’opus dell’Ingegnere nascerà allora dagli interdetti agonici e dai tabù tetanici delle famiglie appiccicate e recluse che borbottano meccanicamente rosari, al buio per economia e considerano ogni spesa una calamità, ogni scampanellata un annuncio di sventura, ogni viaggio uno sperpero inammissibile, ogni divertimento una vergogna insensata”.
Il quadro delineato da Arbasino è ancora tristemente vero… Ragion per cui il romanziere si sentì sempre alieno a questa terra, infastidito dagli autoctoni e ignorato da tutti, in morte come in vita, e ancora non c’è nessuna iniziativa per ricordarlo, ma soltanto una via a lui intitolata in quel di Rogeno, e ai numeri 7 e 9 una delle ville più antiche della regione, edificata dai marchesi Ripamonti nel XVI secolo, attualmente sotto la tutela istituzionale. Vi trascorreva le vacanze Giuseppe Gadda, politico del XIX secolo che partecipò delle Cinque Giornate di Milano, e fu poi membro del Senato, ministro e prefetto di Roma, nonché zio paterno dello scrittore.
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Col treno in direzione Asso si fa fermata a Erba, e da qui col bus si giunge a Longone al Segrino, comune in cui si trova la casa dove visse e soffrì Carlo Emilio, oggi ridotta a niente più di un caseggiato dalle forme tipiche degli idioti architetti del Dopoguerra, e dunque spartane, squadrate, spoglie, ineleganti, decisamente brianzole.
Niente a che vedere con la fulgida tradizione locale del Seicento e del Settecento testimoniata tra gli altri dal barocchetto di Villa Lurani Cernuschi, a Cernusco Lombardone, smussato nel XIX secolo ma con giardini in stile italiano, tra gli ultimi rimasti in Brianza, e un viale prospettico con doppio filare di lombardissimi pioppi.
Altro fu il destino di casa Gadda e quindi degli umori dello scrittore, visto che il padre, come recita il frammento Villa in Brianza, “costruì la fottuta casa di campagna di Longone nel 1899-1900 e quella strampalata casa gli rimase appiccicata fino al 1937”, e “fottuta” anche perché dal 1909 ipotecata per rendere la dote alla sorella di primo letto e causa delle solite “stucchevoli tasse da pagare”, finché non se ne disferà subito dopo la morte della madre…
E oggi la villa è due volte “fottuta” perché lottizzata, il tetto rifatto, le grondaie in rame e i campanelli borghesi, del tutto irriconoscibile, distrutta, anonimizzata dall’alto muro di recinzione, il portico e la terrazza murati, cancellate le decorazioni e gli affreschi, tolte persino le travi dai soffitti, le persiane sostituite dalle tipiche tapparelle marroni sempre basse come la vita in Brianza, il parco in parte spianato per farci ovviamente dei posti per le automobili.
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Già ai tempi di Gadda era ovvio che la vita vi s’insterilisse, anche se l’anno sabbatico che tra il 1928 e il 1929 vi prese per problemi di salute fu quello in cui concepì molti libri, ma non per questo alleviò il suo risentimento, pure contro i servitori della casa, “contadiname”, lo stesso orrido termine che usava Antonio Gramsci, “a cui manteniamo una casa, mentre io devo lavorare come un cane e vivere al quarto piano in una camera fredda”, e contro quel paesaggio suppostamente bucolico pariniano e manzoniano che l’autore de La cognizione del dolore descriveva pieno di rancore “con Resegone sullo sfondo e odor di Lucia Mondella nelle vicinanze”.
La Brianza lo privava della sua vita e fu per lui sempre e soltanto: “Dolore e dolore, dolore sopra dolore”.
Ad amareggiarlo non è semplicemente il luogo della sua infanzia e giovinezza e delle sepolture dei cari che così gli appare, ma anche le dinamiche già in atto.
“Il cemento e la plastica e lo scatolame hanno coperto anche la terra di Lombardia, la verde Lombardia non è più. Viviamo in un tetro inferno, dovunque è arrivato il cosiddetto miracolo”, scrive Gadda.
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Ed è precisamente ciò che vide Guardini, testimone in altre forme d’egual sentire, interprete delle forme urbanistiche, domestiche, paesaggistiche ed esistenziali, a partire da quel centro di tutto che era il focolare domestico, nel passaggio dal fuoco del camino alla stufa, fino ai moderni riscaldamenti centralizzati, con l’elettricità che ruppe definitivamente il legame tra l’uomo e la natura, decisivo, con la cui scomparsa si passò a una sfera del tutto artificiale.
Scrive nella nona delle sue Lettere che: “La gente qui si compiace del progresso. In verità, esso arreca lavoro e pane e molti che altrimenti sarebbero stati costretti a migrare possono restare in patria.”
Guardini non è cieco, ovviamente riconosce le ragioni di chi non vuol rimanere povero o in alternativa migrare, anche perché sa bene che “la scienza, la tecnica e tutto ciò che da esse deriva sono state rese possibili soltanto per mezzo del Cristianesimo”, che ha prodotto la grande cultura europea.
Ma da fine umanista di cultura cattolica riconosce quella che lo scrittore brianzolo Andrea Sciffo chiama “l’ultima stagione del mondo radicato”, e la mentalità che di fatto muove tale evoluzione non ha più nulla a che vedere col vero Cristianesimo e da umano che era, il paradigma è ora disumano.
“Mi si veniva svelando ciò che è l’Europa, ciò che significa l’appartenenza a un popolo, quella del sangue, ma anche il legame stabilito tra gli uomini dalla fedeltà e dallo spirito […]. Tutto questo però era grande e possente: non era ciò che rendeva triste. La causa della tristezza era questa: io sentivo come tutt’intorno a me fosse cominciato un grande morire […]. Vidi la macchina penetrare in un paese che finora aveva posseduto una cultura. Vidi piombare la morte su una vita di infinita bellezza […]. Quando passai attraverso le valli della Brianza, […] rigogliose, opulente, coltivate con cura diligente, contornate da monti aspri, in forme vigorose e ampie, non volevo credere ai miei occhi. Dappertutto una terra abitata.”
Era una cultura tutta urbana, con una forma d’esistenza nobile per tutti quanti, anche per il popolo, vita spirituale e a un tempo legata alla natura, della quale Guardini vide che l’uomo, e il brianzolo tra i primi nella penisola, sarebbe stato presto privato, che non avrebbe più potuto vivere secondo quello stile, e che si sarebbe estinto.
“La bellezza di queste località è indescrivibile, ma non me ne deriva gioia alcuna. Non comprendo, anzi, come un uomo avveduto possa essere felice, qui”, scrive, avendo visto lo stesso in Germania…
“Tutta quanta la natura lavorata e modellata dall’uomo. Ciò che si chiama cultura nel senso più raffinato, mi si presentava nella forma più armoniosa. […] Una cultura nobilissima e nello stesso tempo così semplice […]. Eredità di formazione millenaria, gli era passata nel sangue e nelle fibre del suo organismo. Una cultura divenuta tale naturalmente, diventata quasi una seconda natura”.
La causa è il cambiamento in atto. E l’impressione non lo abbandona.
La impressioni di Gadda, Corti, Sciffo, le anticipa nella sesta lettera: “Non dall’oggi al domani è sorta la monumentale produzione architettonica […]. Perché un ordine sia accettato e perché non riesca gravoso a colui che riceve, bisogna essere capaci di comandare. Per poter abitare un palazzo è necessario avere nel sangue la signorilità. Come è disgustante il vedere, in una delle nobili ville di questi luoghi […] un qualsiasi Signor X arricchito da poco.”
Ciò di cui Gadda quanto Guardini in fondo aveva nostalgia, era l’ormai antica Herrenhaus, la dimora gentilizia, padronale, signorile, la “Casa del Signore”…
Ma gli toccò d’espiare l’ateismo paterno.
La “fottuta” villa dei figli del Progresso.
Una villa sulla quale l’unica targa adeguata sarebbe questo epitaffio vergato da Gadda: “I discendenti de’ vecchi signori intristirono nelle democratiche giostre”.
Marco Settimini
(fine)
*La prima parte di questo percorso nella Brianza di Gadda la leggete qui.
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pangeanews · 5 years
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È ora di celebrare l’“anarcronismo” di Rodolfo Quadrelli, il genio anticonformista che faceva paura ai baroni della cultura, e che preferì rifiutare il potere e il proprio tempo
Qualche istante di ricreazione. In memoriam R. Q.
La tua scoperta devo a un amico Poeta di solitaria compagnia: Svelata semplicità e senso antico D’idee e di corpi; e poi l’ironia:
Ironia, Commedia, parole e cose, E La fine del tempo a dir del regno Di viali e cascine, infanzia e spose, Nostro comune, ricerca di un segno
Che tutto contenga, celata sfera In cui si muove, attorno all’immoto Attivo, ogni creatura che spera,
Ricreando la vita, suo unico gioco Giocato di notte e mattina e sera E poi altre ancora. E già non è poco.
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25 aprile. Liberazione. Da cosa?
Ogni festa importante dovrebbe avere un senso sempre uguale e nuovo, per cui ecco una piccola proposta un po’ partigiana che ricordi e faccia onore a uno scrittore di cui lo scorso 3 marzo ricorreva l’ottantesimo anniversario della nascita, rimosso perfino dagli stessi conservatori (?) per non dir dei reazionari (?) presi dal centenario D’Annunzio, l’iperliberale, in quel di Pflaum, o Reka, o Fiume, o Rijeka, o Szentvit.
Rodolfo Quadrelli era infatti nato il 3 marzo 1939, nella sua Milano, dove insegnerà nei licei e morirà poco più che quarantenne, nella eternamente sua Milano, Lombardia, punto d’osservazione “privilegiato” sulle mille derive del suo paese, sociali, culturali, psicologiche, ecologiche, antropologiche, rispetto alle quali prese sempre posizioni forti in ragione delle quali fu in parte tenuto a margini della cultura italica.
Proposta. Liberazione dalla pseudo cultura pseudo italiana seguendo la lezione di Quadrelli.
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“L’elemento estetico sarà l’attrazione del museo all’aperto, dell’Italia come museo all’aperto, dell’Italia da cartolina”, scriveva Quadrelli nel suo denso saggio Il paese umiliato. Era la metà degli anni Settanta e l’autore lombardo e non era certo in errore a proposito della condizione e del destino di un paese il cui unico merito già allora gli sembra esser quello di poter sopravvivere in un futuro piuttosto cupo e scialbo vendendosi – come un luna-park (più “cosy”, non sia mai!) per turisti en masse – possibilmente in braghe corte come gli autoctoni e rigorosamente ricolmi di cliché tra l’altro spesso non per forza falsi –, come un fast-food (più “slow”, non sia mai!) per ghiotti à la page – come una sfilata di moda per essenza effimera e superficiale in pose farsesche d’inaccessibilità per celare il suo orrore –, come arena per il teatro d’opera più stantio –, o per l’appunto come un “museo all’aperto” –, e vale a dire come sfondo romano, medievale, rinascimentale, barocco, in cui si trascina una stridente umanità che s’identifica per lo più, volente, nolente, con una nazione che in oltre un secolo e mezzo non è stata in grado di concepire una singola bellezza architettonica e urbanistica (ambiti in cui l’individualità e il genio di un artista non bastano perché si scontrano con l’inettitudine dei committenti rappresentanti di un popolo; sicché i Carrà, i Casorati, i Morandi, i Nathan possono finire sotto lo sguardo di pochi; mentre i “capolavori” dei Calatrava e Fuksas sono sotto gli occhi di tutti in una vita quotidiana resa ancor più misera da tanta insipienza e assenza di grazia). Niente insomma di paragonabile alle bellezze da tutte le possibili entità geografiche, amministrative, politiche, costituzionali che precedettero “l’Italia” che le ha poi inglobate. E che a stento si è trascinata per oltre un secolo e mezzo dietro a un mito, impolverato e di sicuro alieno alla realtà quotidiana quanto la sfilata degli scrittori nelle aule di scuola.
Se non si può seguire il suggerimento di una delle menti più vivaci della prima metà del secolo, quasi completamente escluso da programmi scolastici, Giovanni Papini, l’autore di Un uomo finito, fece i conti con tutto, e chiudere finalmente le scuole risorgimentali, si potrebbe se non altro ridurre il programma di quinta liceo una manciata di pagine che da sole basterebbero non solo per la letteratura del Novecento ma anche come sintesi della storia e della filosofia, realizzando un inno alla sintesi, non priva di complessità, e che tutto il resto possa esser vita vissuta, lettura viva e vera conoscenza, dunque esperienza, che trasuda dalle poche parole indicate da questa modestissima proposta: Fratelli di Ungaretti; le due versioni in friulano e italiano di Saluto e augurio di Pasolini; il primo frammento de La giornata di un nevrastenico di Campana (e magari spingersi finanche al punto di avventurarsi nel terzo – e farsi dire dal poeta toscano che in attesa degli studenti c’è il “corteo pallido e interessante delle grazie moderne […] che vanno a lezione” – delle studentesse sotto i portici bolognesi sul cui viso appare “raro un sorriso e […] intento e masticato, di prognosi riservata, le scienziate” – propedeutico a chi si accinge a iscriversi a qualche università); e una dozzina di versi rispettivamente dal Belli e dal Porta – o da un altro sommo poeta lombardo, Bonvesin de la Riva.
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A questi testi e ad altri eventuali, meriterebbe poi d’essere aggiunto La mia Milano, l’assai meno noto frammento di Quadrelli assente dalle antologie vergate degli storici ufficiali ma presente in due piccoli gioielli di valore: La fine del tempo, curato da Quirino Principe per la collana “All’insegna del pesce d’oro” di Scheiwiller Milano, e Lo studio della letteratura europea da Dante a Solženicyn, curato da Andrea Sciffo per Il Cerchio di Rimini. Due raccolte di un pregio e di un peso inversamente proporzionale alla loro mole, nonché, nelle quali sono incastonate come un diamante due semplici paginette solo in apparenza marginali e certo estemporanee. Eppure non solo centrali ma anche apicali non solo nella poetica di Quadrelli bensì nel quadro della moderna letteratura italofona, perché l’effettiva estemporaneità corrisponde a una vertiginosa, antimoderna atemporalità. Non per caso e anzi assai giustamente lo stesso Principe ha scritto nella sua breve prefazione che questo è “[i]l più bel testo di ‘ricordi presenti’ in tutta la letteratura italiana del Novecento, cinque pagine tutte collocate nel la zona sublime della scrittura”. E se la letteratura è anche e soprattutto e forse più d’ogni altra cosa l’eternazione, la trasmissione per iscritto di una serie di memorie “istantanee” destinate all’eterno, i conti sul loro valore sono presto fatti, bisogna necessariamente farli con le loro visioni. Ma per farlo bisogna prescindere dai programmi ministeriali che dopo aver forse un poco solleticato i liceali, con Dante e Leopardi, Dossi e gli Scapigliati, ne estenuano la noia e ne suscitano le risate istintive, viscerali, sublimi, con D’Annunzio e con Marinetti… Perché Quadrelli è fuori dalle tristi aule sempre più deserte della scuola italica per il semplice motivo che fu una delle voci meno allineate a qualsivoglia ideologia, e per questo tra le più osteggiate negli anni delle diatribe tra apocalittici e integrati, quando per l’autore milanese l’“integrato per eccellenza” era Alberto Moravia.
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I galloni, con grado di capofila e comandante della gestapo, se li sarebbe presto appuntati il professore, Umberto Eco, il nulla giocoso eretto a genio, le cui pseudo idee ancora oggi si trascinano come spettri nelle menti obnubilate da un trademark che – tra falso progresso e falsa reazione (la quale per salvarsi dalle aporie del progressismo va di solito a parare sulla più moderna e sedicente progressista delle costruzioni quale è la moderna nazione italiana) – si diede non poco da fare per distruggere Quadrelli, forse tra tutte la voce più pura, che Principe, nella sua introduzione dal titolo senz’appello – senz’appello per i suoi osteggiatori – quale è Il poeta colpevole e il tribunale della mediocrità, lo rende fratello, benché in un contesto e con modalità certo più morbidi, come si confà a una fase il cui gran maestro fu Eco, di Pound, di Mandel’stam e di Pasternak – certo non con lo spettro del gulag bensì in un esilio in casa – una casa che intanto si stava facendo sempre più invivibile – l’Italia, da cui la sua Lombardia fu assoggettata.
Ma bisogna intendersi bene sulle parole puntellandosi su quelle scelte con cura da Principe.
Quadrelli, poco noto oggi e ai tempi, non fu affatto un autore misconosciuto nei suoi anni, ma anzi molto ben conosciuto dalla cosiddetta intellighentzia, e proprio per questo osteggiato, perché riconosciuto e capito dai maneggiatori delle italiche lettere, dalle sentinelle gramsciane e conformiste appostate nelle “casematte” del potere più o meno esplicitamente in vigore a partire dalla fine della guerra nella cultura italiana con la connivenza dei potentati cattolici più ipocriti e istituzionali, che criticava apertamente. I potenti nemici cui si riferisce Principe, a cominciare dal postmoderno Eco, esemplare d’intellettuale organico, antitesi altrettanto puntuale di un totale apocalittico quale fu Quadrelli, che li identificava quali cattivi maestri – cattivi necessariamente poiché in fin dei conti “nessuno è buono” (Mc 10,18; Lc 18,19) – e falsi perché tanto per cominciare di maestro “n’esiste solo uno” (Mc 13,32; Gv 17,23) – non essendo però ostile solo ai falsi progressisti e ai veri postmoderni ma a tutto il detestato arco costituzionale.
A fianco della politica, l’università, altra “casamatta” del potere, fondata, quasi dittatorialmente, sullo storicismo, l’antitesi dalla vera tradizione. Non per caso uno dei pochi ad averlo ricordato assieme a Principe e Sciffo sia stato Marcello Veneziani, altra avvocatura purtroppo solo postuma. In un processo forse perduto per la storia di un paese ormai alla fine, ma non per il regno dei grandi poeti e dei veri cristiani, cioè l’anarcronismo. Il rigetto: del potere e del tempo; e del potere del tempo; per stare fuori di essi, nella Realtà e nella Verità.
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Principe parla di un “processo silenzioso”. Ma quali sono state le colpe di Quadrelli? Principe stesso ne indica tre fondamentali: 1) una sua vocazione a vedere – il fatto che egli accantonasse concetti e concezioni per tornare alla visione, all’idea, che sta all’origine delle parole, che ne è la fonte stessa, per rivendicare così una “perentoria verità di quel che si vede”; 2) un’insanabile indipendenza – dalla quale scaturisce la moralità di ciò che ha scritto, in un linguaggio che è tanto popolare “quanto comunicabile e riconoscibile”, ma non innocuo, perché la poesia, precisa Principe, “è innocua solo quando non è poesia”, mentre quella vera è “una tremenda minaccia per il linguaggio su cui si fonda il potere”, come ha bene insegnato Pasolini; 3) la sua vocazione realizzata – di poeta, vocazione non riducibile e compiuta in modo integrale, scrive Principe, messa in atto senza pensare al giudizio esteriore, ma pronta giudicare l’esterno, senz’assoggettarvi nulla allo scopo di ottenere un posto, un ruolo, nella cultura ufficiale al potere e subordinarsi cioè a un sistema che, lungi da qualsivoglia esclusivismo, è aperto a tutti; tale sistema è infatti, come spiega Principe, per vie più politiche che letterarie, è accogliente come una grande meretrice, pronto a offrire consenso a chiunque mostri la necessaria mediocrità e si renda servile nei confronti dello Stato, della sfera pubblica e del falso progresso, della rivoluzione e dello scientismo, tra i mille “-ismi” scandagliati, smontati e denunciati dal poeta. Una lista: americanismo, consumismo, ecologismo, fanatismo, filisteismo, giacobinismo, gnosticismo, gramscismo, illuminismo, industrialismo, irrealismo, liberalismo, manicheismo, marxismo, massonismo, materialismo, modernismo, perfettismo, pragmatismo, progressismo, protestantismo, psicologismo, puritanismo, radicalismo, razionalismo, scientismo, settarismo, spiritualismo, storicismo, strutturalismo, utilitarismo.
Sulla scorta di Guido Ceronetti, Alberto Arbasino e Camillo Langone, si potrebbero oggi aggiungere, sempre in rigoroso ordine alfabetico: ambientalismo, animalismo, antispecismo, femminismo, immigrazionismo, minimalismo, multiculturalismo, nichilismo omosessualismo, postmodernismo, terzomondismo, veganismo, vegetarianismo. Con due importanti annotazioni riguardanti l’una il filisteismo (Quadrelli ne Il paese umiliato parla esplicitamente di una “mezzacultura filistea” mentre altrove si scaglia contro “il cretinetti borghese […] decisamente illuminista e variamente progressista”) e l’altra l’ecologismo (Quadrelli attacca quello privo di cultura, tutto “materialista” o tutto “spiritualista” in stile New Age, distinti dalla vera ecologia umana che è religione, nesso tra corpo, anima, o psiche, e spirito). E una terza che riguarda la differenza tra il vero Cristianesimo, il vero Cattolicesimo, e “le mediocri versioni del cattolicesimo ufficiale” da un lato e dall’altro le derive letterarie atee e gnostiche sempre più di moda.
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Il tutto lo si potrebbe riassumere più ancora che con la locuzione anch’essa molto alla moda di radical-chic, con un neologismo forse più forte ed efficace, quello di radical-nich, un radicalismo nichilista che si è sempre più impossessato dei modi pensandi et operandi delle masse novecentesche, per non dire di quelle del terzo millennio, riguardo alle quali vale più che mai la frase, di uno dei cinque grandi riferimenti anglofoni di Quadrelli (assieme a Shakespeare e Shelley, a Belloc e Lewis, e a Eliot e Pound), e vale a dire G. K. Chesterton (ma che in realtà risale a Il genio del Cristianesimo di Chateaubriand), stando alla quale una volta che si smette di credere in Dio è più facile credere a tutto, se non che, a fronte di una simile condizione di “crisi d’identità”, di fronte a un simile “umanesimo sconsacrato”, come recita una semplice ma puntuale strofa quadrelliana…“Rifare tutto è impresa assai imponente / ed è possibile che l’uomo si spaventi: / ma più arduo assai è credere nel niente / e darsi e perdersi al vento e ai venti.”
Questo è risultato di un intervento esterno, di un qualcosa d’alieno alla cultura dei luoghi, lampante in Lombardia, imposto da fuori e che ha causato una lenta crisi per via di una forma di colonialismo – l’Italia, esito risorgimentale prima e poi fascista.
Marco Settimini
(prima parte)
*In copertina: Rembrandt, “Autoritratto”, 1640
L'articolo È ora di celebrare l’“anarcronismo” di Rodolfo Quadrelli, il genio anticonformista che faceva paura ai baroni della cultura, e che preferì rifiutare il potere e il proprio tempo proviene da Pangea.
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