Tumgik
#Si c'è una sottile contraddizione in questo
succhinoallapesca · 2 years
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In caso di dubbio: leggere Gramsci
In caso di sconforto: guardare Friends
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Non scegliere me.
Non sono una principessa, non lo sono mai stata. Sono una guerriera, sempre in lotta contro qualche nemico senza nome, e, quando sto per sferzargli il colpo finale, gli sfilo l'elmo e scopro che il mio nemico sono io. Ma tanto, il più delle volte, è lui che sconfigge me.
E tu non puoi scegliere qualcuno che sia troppo abituato a lottare, troppo abituato a perdere - troppo abituato ad avere cicatrici che quasi se le dimentica, finché non cambia il tempo e bruciano.
Non mi scegliere.
Sono quella che non sa mai cosa dire, che se ne sta sempre in disparte.
Divento scontrosa se mi fanno i complimenti, oppure arrossisco - dipende chi è a farmeli. Ma, sempre, in ogni caso, non ci credo mai.
Non riesco a sorridere in foto, e a volte anche nella vita reale, quando il sorriso deve essere finto.
Mi mangio le unghie e ho la testa fra le nuvole.
Non so stirarmi i capelli (non ci ho mai provato seriamente, fondamentalmente) e le scarpe mi interessano solo per poterci camminare.
Per il resto preferisco riempire librerie, anziché scarpiere. Riempirle non solo di libri, ma anche di sogni, di pensieri, di emozioni che mi tengo dentro. Riempirle talmente tanto che alla fine non ci stanno più e sono sparsi ovunque - i libri per la casa, le emozioni dove capitano di scappare.
Penso troppo, e forse ormai ho capito che non riuscirò mai ad essere pienamente felice.
Mi mancherà sempre qualcosa, non mi sentirò mai abbastanza.
C'è chi afferma che per essere felici si debba essere stupidi, almeno un po’. Forse è vero - ma non è con snobismo che te lo dico.
Vorrei essere stupida, se è questo che serve, o almeno non troppo consapevole - a volte lo vorrei davvero tanto.
Ma non si può essere ciò che non si è - e io sono così, semplicemente con una coperta sempre troppo corta.
Quindi non scegliermi.
Perché quella coperta finirei per darla a te, per non farti prendere freddo - e poi un giorno finirei per rinfacciartelo.
Non scegliermi perché forse, temo, non saprei renderti felice - come potrei, se non sono mai felice nemmeno io?
Forse insieme potremmo diventare stupidi per qualche tempo, staccare qualche spina, buttare giù qualche recinto, non pensare, non pensare più - e provare ad esserlo, provare quel genere di felicità che sembra un'ubriacatura, che ti fa dimenticare le cose, brillare gli occhi e ridere senza motivo.
Poi però diventerebbe qualcosa di diverso, di cupo, di sfumato, di profondo e crudele - che vibra, che urla, che non ti abbandona.
Come una maledizione, come una benedizione, come un frutto proibito, un sogno che un giorno ti fa volare e il giorno dopo strisciare.
Forse sarebbe più che essere felici, sarebbe essere veri. Sarebbe avere qualcosa che non si può dimenticare. Mai.
Non mi scegliere. Se no non potrai tornare indietro.
La mia anima è fatta di cose diverse, di contraddizioni.
C'è del ferro, duro e freddo; del vetro tagliente e riflessivo; della carta, fragile e ricoperta di parole - alcune sbiadite, altre ricalcate fino a bucarla.
C'è dello zucchero, sottile sottile in superficie, trasparente, poco attraente. Ce n'è dell'altro più a fondo, che uso di rado.
C'è dell'acqua, tanta acqua. Acqua che cambia forma, che può essere fresca e dissetante oppure melmosa, distruttrice. Spesso evapora, oppure si trasforma in lacrime.
Ci sono delle piume ma sono nere, sono sporche di fuliggine. Non posso lavarle, perché le piume quando si bagnano poi non servono più per volare.
E io forse non saprò come essere felice, ma so come si fa a volare: se mi scegli ti porterò via con me.
Quindi non farlo.
Non farlo se non sei pronto a partire, a lasciare qualche certezza.
Non farlo se hai bisogno di aggrapparti a schemi e binari, se ti dà fastidio il vento.
Fallo se sei ancora un po’ bambino.
Se hai l'incoscienza creativa, la caparbietà irrazionale dei bambini. Se, come i bambini, più ti dicono di non fare una cosa e più ti viene voglia di farla.
Ma no, neanche in questo caso allora dovresti scegliermi: perché sarebbe solo per sfida che lo faresti, per spirito di contraddizione, per capriccio.
Se però, oltre a questo, hai anche la consapevolezza dell'adulto che ha capito cosa vuole dopo un lungo cammino, dopo sbagli e maschere che diventano strette, allora forse sì, allora sceglimi.
Sceglimi se hai capito che sono io quello che vuoi, che non vuoi nient'altro - nonostante quello che tutti dicono.
Compresa io, compreso il buon senso.
Sceglimi con il cuore, con il cervello, con l'anima e con la pelle.
Se no - non scegliermi affatto…
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soleannasblog-blog · 7 years
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Non scegliere me.
Non sono una principessa, non lo sono mai stata. Sono una guerriera, sempre in lotta contro qualche nemico senza nome, e, quando sto per sferzargli il colpo finale, gli sfilo l'elmo e scopro che il mio nemico sono io. Ma tanto, il più delle volte, è lui che sconfigge me.
E tu non puoi scegliere qualcuno che sia troppo abituato a lottare, troppo abituato a perdere - troppo abituato ad avere cicatrici che quasi se le dimentica, finché non cambia il tempo e bruciano.
Non mi scegliere.
Sono quella che non sa mai cosa dire, che se ne sta sempre in disparte.
Divento scontrosa se mi fanno i complimenti, oppure arrossisco - dipende chi è a farmeli. Ma, sempre, in ogni caso, non ci credo mai.
Non riesco a sorridere in foto, e a volte anche nella vita reale, quando il sorriso deve essere finto.
Mi mangio le unghie e ho la testa fra le nuvole.
Non so stirarmi i capelli (non ci ho mai provato seriamente, fondamentalmente) e le scarpe mi interessano solo per poterci camminare.
Per il resto preferisco riempire librerie, anziché scarpiere. Riempirle non solo di libri, ma anche di sogni, di pensieri, di emozioni che mi tengo dentro. Riempirle talmente tanto che alla fine non ci stanno più e sono sparsi ovunque - i libri per la casa, le emozioni dove capitano di scappare.
Penso troppo, e forse ormai ho capito che non riuscirò mai ad essere pienamente felice.
Mi mancherà sempre qualcosa, non mi sentirò mai abbastanza.
C'è chi afferma che per essere felici si debba essere stupidi, almeno un po’. Forse è vero - ma non è con snobismo che te lo dico.
Vorrei essere stupida, se è questo che serve, o almeno non troppo consapevole - a volte lo vorrei davvero tanto.
Ma non si può essere ciò che non si è - e io sono così, semplicemente con una coperta sempre troppo corta.
Quindi non scegliermi.
Perché quella coperta finirei per darla a te, per non farti prendere freddo - e poi un giorno finirei per rinfacciartelo.
Non scegliermi perché forse, temo, non saprei renderti felice - come potrei, se non sono mai felice nemmeno io?
Forse insieme potremmo diventare stupidi per qualche tempo, staccare qualche spina, buttare giù qualche recinto, non pensare, non pensare più - e provare ad esserlo, provare quel genere di felicità che sembra un'ubriacatura, che ti fa dimenticare le cose, brillare gli occhi e ridere senza motivo.
Poi però diventerebbe qualcosa di diverso, di cupo, di sfumato, di profondo e crudele - che vibra, che urla, che non ti abbandona.
Come una maledizione, come una benedizione, come un frutto proibito, un sogno che un giorno ti fa volare e il giorno dopo strisciare.
Forse sarebbe più che essere felici, sarebbe essere veri. Sarebbe avere qualcosa che non si può dimenticare. Mai.
Non mi scegliere. Se no non potrai tornare indietro.
La mia anima è fatta di cose diverse, di contraddizioni.
C'è del ferro, duro e freddo; del vetro tagliente e riflessivo; della carta, fragile e ricoperta di parole - alcune sbiadite, altre ricalcate fino a bucarla.
C'è dello zucchero, sottile sottile in superficie, trasparente, poco attraente. Ce n'è dell'altro più a fondo, che uso di rado.
C'è dell'acqua, tanta acqua. Acqua che cambia forma, che può essere fresca e dissetante oppure melmosa, distruttrice. Spesso evapora, oppure si trasforma in lacrime.
Ci sono delle piume ma sono nere, sono sporche di fuliggine. Non posso lavarle, perché le piume quando si bagnano poi non servono più per volare.
E io forse non saprò come essere felice, ma so come si fa a volare: se mi scegli ti porterò via con me.
Quindi non farlo.
Non farlo se non sei pronto a partire, a lasciare qualche certezza.
Non farlo se hai bisogno di aggrapparti a schemi e binari, se ti dà fastidio il vento.
Fallo se sei ancora un po’ bambino.
Se hai l'incoscienza creativa, la caparbietà irrazionale dei bambini. Se, come i bambini, più ti dicono di non fare una cosa e più ti viene voglia di farla.
Ma no, neanche in questo caso allora dovresti scegliermi: perché sarebbe solo per sfida che lo faresti, per spirito di contraddizione, per capriccio.
Se però, oltre a questo, hai anche la consapevolezza dell'adulto che ha capito cosa vuole dopo un lungo cammino, dopo sbagli e maschere che diventano strette, allora forse sì, allora sceglimi.
Sceglimi se hai capito che sono io quello che vuoi, che non vuoi nient'altro - nonostante quello che tutti dicono.
Compresa io, compreso il buon senso.
Sceglimi con il cuore, con il cervello, con l'anima e con la pelle.
Se no - non scegliermi affatto…
Catherine Black _
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yesiamdrowning · 7 years
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e se poi te ne penti?
Cambiare è difficile per tutti. Quanto difficile sia analizzare i motivi che ci portano a mutare o non mutare nulla nei nostri percorsi non è invece cosa agevole. A volte cambiare converrebbe, eppure, allo stesso tempo, se non vogliamo mutare è per il nostro interesse. Sembra una contraddizione, ci conviene cambiare corso, eppure ci conviene conservar tutto com'è perché temiamo di perdere quel che abbiamo, o di alienarci simpatie, o di mutare equilibri. Se questo è vero per le decisioni della nostra vita, decisioni che dobbiamo prendere noi, è anche vero e a maggior ragione per gli artisti ai quali siamo costretti a delegare la nostra voglia di buona musica. E deleghiamo più volentieri a due categorie di musicisti: quelli che ci danno o almeno ci promettono di volta in volta una palingenesi totale, che proprio per essere una palingenesi e totale non potrà mai avvenire o capita difficilmente senza trovarci davanti un altro gruppo, oppure quelli che si assolvono dicendoci che esistono mille miliardi di sfumature e loro sono solo una di queste, prendere o lasciare. In una scala da 1 a 1O, un David Bowie è stato un punto 9 tra i primi e Lemmy Kilmister tra i secondi esponenti. Ho imparato a conoscere con diffidenza anche una terza categoria, quella di chi vuole che tutto venga preso allo stesso modo, ossia bene, come viene viene. Come gli attuali pesi massimi di categoria: i Kasabian, che prima erano rock, poi pop, poi psichedelici, poi elettronici e ora una roba rock da FM per gente che gira con le borchie sulle scarpe da ginnastica. Insomma, diffido della buona fede di quanti non sanno che pesci prendere per fare il famoso grande salto.
Così, quando i canadesi Arcade Fire hanno iniziato a promuovere il nuovo disco, quel Everithing Now che già dal titolo pare abbozzare manie di onnipotenza che metà bastano, a suon di falsetti (nel singolo Electric Blue) e approccio generale disco-oriented (i singoli di Signs Of Life ed Everything Now), stampa, social e webzine si sono scatenati. Tra entusiasmo, sarcasmo e indignazione per ciò che sembra essere un nuovo corso degli autori dell'epocale Funeral – spartiacque e unità di misura a cui riferire di lì in avanti tutto il resto. Ottenendo la prova tangibile di che Mondo siamo e perché non ci spostiamo mai in centimetri  ma in trend - nonostante l'apparente buona volontà di tutti.
La novità fa male, soprattutto per chi vuole rimanere fedele a sé stesso a torto o a ragione ma anche a chi aspetta un passo in un'altra direzione per vedere l'effetto che fa. La novità altera la realtà, per come siamo abituati a percepirla. Ma non occorre essere dei critici o storici per capire che il futuro musicale, interessato da alti tassi di denatalità artistica, sia condizionato dall'ispirazione fruttuosa o meno dei più talentuosi. Negli anni passati, in molti si sono scatenati verso le evoluzioni musicali di chicchessia, quasi sempre a torto. E ciò che accade oggi con gli Arcade Fire è figlio dei precedenti con gli Horrors, e prima coi Primal Scream, e prima ancora con i New Order, e tutti gli altri casi per i quali ci siamo persi in chiacchiere conviti che il pozzo non si sarebbe mai esaurito. Certo si sono sprecate colonne e fior fior di caratteri in disamine per elogiare o schernire le varie mute stilistiche di chicchessia, ma mai a nessuno era venuto in testa che un giorno avremmo dovuto far affidamento (anche) su di loro perché i miti sarebbero morti tutti, a uno a uno.
Per farlo non ci voleva coraggio, ne senso critico: per quelli serviva essere lungimiranti che poi è da sempre la cosa più difficile. Che si tratti di musica, politica o della vita. Che è una cosa diversa dal “ora che vedo nelle classifiche rock gli Imagine Dragons sto rivalutando Marilyn Manson” perché qui non stiamo parlando di salvare il meno peggio o chi brucerà più lentamente, il discorso è un po' più sottile. E non si tratta nemmeno di incoraggiare l'abiura dell'onestà intellettuale, che è un'altra cosa ancora. Si tratta di non giudicare sul nascere, costringendo gli artisti a tornare sui propri passi o, più di rado, a spingere sul piede dell'acceleratore verso idee pessime. Pensateci, è per questo che alle idee sviluppabili da Get Ready, Peter Hook preferisce quei memorial tanto dubbi quanto lucrosi, i Primal Scream sfornano dischi di trascurabile copia e incolla invece di proseguire per la strada di Evil Heat e gli Horrors sono spariti dopo i sobbalzi di mille pareri per il cambio di rotta. Discorso analogo si potrebbe fare per The Strokes o i Marlene Kuntz in Italia. A me, che non sono certo stato sempre immune a questo tipo di giudizi affrettati, la scintilla si è accesa per puro caso, con l'ultimo lavoro degli Arcade Fire. Scintilla nel senso di meccanismo della mente tanto semplice, quanto necessario, da esser stato puntualmente ignorato da tutti quelli più scaltri di me: meglio allontanare certi pensieri, ma non per timore, bensì – che è molto peggio – sapendo (o sperando) che la bomba è troppo ghiotta per non detonarla. Tanto tra dieci anni sarà impossibile rintracciare le responsabilità di un'esplosione sulla band di turno. Giovanni Ansaldo de L'Intenrazionale la usa per promuoverli, però sottolineando forse lo zampino del contratto con la Columbia; su Pitchfork, Jeremy Larson la usa per sfottere chiedendosi dopo la disco dove andranno a finire. Claudio Lancia su Ondarock, la usa per additarlo come primo candidato ad album peggiore dei canadesi ma poi gli mette 6,5.  Lo stesso è successo ovunque, dal vlogger Anthony Fantano e il suo milione di iscritti al Times che di lettoni ne ha un tantino di più, passando per Rumore e La Repubblica. Lo stesso successe agli Editors di In This Light And On This Evening, che hanno tenuto botta per qualche anno e, dopo il nuovo gioco al massacro per l'ulteriore passo di The Weight of Your Love (4 sul NME, addirittura 1 sul Rolling Stone) si sono ributtati sui sentieri più nu-nu-wave che li avevano fatti conoscere e resi celebri. Discorso inverso invece, per esempio, con Gwen Stefani che, nata con un background punk e ska, trovandosi letteralmente mitizzata per la sua svolta un po' Madonna un po' Salt 'N' Pepa, ha abbandonato progressivamente del tutto i panni della skater per indossare quelli della starlet. Ecco, in un verso o nell'altro, che poi non so quale sia peggiore, cerchiamo di non giocarci pure gli Arcade Fire.
Seppure non siano paragonabili neanche di striscio alla rivoluzione apportata da Bob Dylan quando abbandonò l'acustica per l'elettrica, la domanda resta: e giusto o no demolire qualcuno per la voglia di novità; cosa è meglio, sputtanarsi o persistere?
Questo credo: che la mente del singolo individuo, libera di esplorare ovunque, è la cosa più preziosa al mondo. A patto che non nasconda inganni e scorciatoie, per questo sono disposto a battermi: per la libertà dell'intelletto di imboccare qualsiasi direzione decida, senza dettami. E contro questo devo battermi: qualsiasi idea critica che limiti o distrugga l'individuo come artista. Questo è ciò che sono e ciò che voglio. Capisco bene perché un sistema costruito su una serie di schemi ripetitivi tenti di annientare il libero pensiero: la mente indagatrice è capace di distruggerlo. Lo capisco e lo odio. E intendo combatterlo per perseverare l'unica cosa che ci distingue dalle bestie prive di creatività. Se si può uccidere questo stato di esaltazione creativa, allora siamo perduti.
Reactor di Neil Young, Zoo Tv degli U2, Experimental Jet Set dei Sonic Youth, Figure 8 di Elliott Smith, The Great Destroyer dei Low, Perdition City degli Ulver, Alternative 4 degli Anathema, Option Paralysis dei Dillinger Escape Plan. Tutti dovremmo vedere i mutamenti come possibile opportunità. Trattarli coi guanti di velluto. Il futuro della musica che ascolteremo è troppo fragile per darlo in pasto a gente a caso. E troppo importante per abbandonarlo a giudizi utopici o distopici. Altre immaginazioni e altri punti di vista potrebbero essere il punto di partenza per futuri slanci. Dovremmo attingere a tutta la follia, l'intuizione e l'imprevedibilità. La fiducia, d'altra parte, è fiducia. O c'è o non c'è. Indipendentemente da quanto siano severe o liberali le regole del gioco. E' un attimo. Si accetta di c(r)edere alle nuove opportunità della vita oppure no.
Come abbiamo visto non è semplice decidere (e azzeccare) ma l'analisi storica è dalla nostra parte: il mercato della musica ha affrontato una crisi simile a questa dovuta all’introduzione di una nuova tecnologia, ben più grave di quella odierna, e morti illustri, ugualmente impareggiabili come quelle odierne. Negli USA tra le due guerre, l’avvento della radio determinò il crollo di vendite dei dischi, affiancata alla scomparsa di icone del calibro di Bessie Smith, Robert Johnson e Maurice Ravel. Si dovranno aspettare gli anni Cinquanta per una ripresa. Dovuta alla chiusura delle radio? Alla nascita di nuovi Glenn Miller e Charlie Patton? Macché: è stato il Rock a fare ripartire il mercato e l'amore per la musica. Una novità. E anche in questo caso, credo che sia stata la musica a salvare la musica; ma non dal normale ciclo della vita, bensì dal mercato del pesce, venduto un tanto al chilo – più un featuring.
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