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#costume: merc storia
tales-of-asteria-rips · 4 months
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a-tarassia · 1 year
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episodio a caso
Gioco ad animal crossing, sì lo so, con ritardo di circa tre anni. Pare sia un gioco rilassante in cui non devi confrontarti con nessuno, sei tu da solo a compiere missioni semplicissime se decidi di volerle portare a termine, ma nel caso in cui non ha nessunissima voglia e vuoi vagare per la minuscola isola per ore intere senza fare nulla nessuno sta lì a controllarti, non c’è nessuna classifica e non ci sono chat e non ci sono interazioni se non con gli animaletti isolani, tutti tuoi vicini di casa ovviamente visto che l’isola è un quartiere.
Il problema sono sti animaletti, che a prima impressione sembrano sempre gentilissimi e affabili e sorridenti. Ognuno ha la sua fissa, ognuno le sue abitudini e ognuno ha una casa personalizzata a proprio stile e gusto, all’inizio ti presti a visitarli anche perché più interagisci e più ricevi regali e scambi di merce e poi piano piano ti accorgi che sono dei passivi aggressivi. Intanto le cose che ti regalano non servono a un cazzo, tipo che so un costume da coniglio o un grembiule da barman che dici boh ok se proprio dovevi disfartene perché non lo vedi, c’ho l’armadio e lo sgabuzzino pieno  di merda che loro non vogliono e poi una volta finito l’idillio diventano acidi come una suocera che ti odia.
Vai in giro a fare le tue cose e quando ti fermi per salutarli (solo se lo chiede una missione ormai) ti dicono robe tipo: Secondo me dovresti fare più sport Da come corri ogni volta perché non ti iscrivi ai 100 metri campestri? Pensavo non volessi più parlarmi sono 67 ore e 4 minuti che non mi dici ciao Ah che onore che mi saluti, pensavo di doverti chiedere l’autografo Voglio trasferirmi, tu che dici? Se mi dici ok allora me ne vado, dipende tutto da te Vuoi le rape? L’altro giorno sono stato tutto il tempo davanti casa tua sperando che tornassi per poterti salutare, ma non ti ho visto Ehi fermati! Ti volevo chiedere se sai anche ridere ognitanto
Per non parlare di quelli che hanno il negozio e ogni volta che entri ti si incollano addosso come zecche e non puoi muoverti se non calpestandoli
A me animal crossing mi stressa, gli abitanti non sono carucci per niente e ho paura che mi ammazzino di notte
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Ieri ho chiesto a chatgpt se per favore mi spiegava la guerra in ucraina che mi pare nessuno ci capisce niente e l’AI continuava a spiegarmi i fatti del 2014, allora ho modificato un po’ di volte il prompt fino a farlo precisissimo con date e tutto e mi ha risposto che di quello che è successo dopo settembre 2021 ess* non sa nulla. No real time baby. Allora per tirarmi su il morale ho chiesto se mi scriveva una sceneggiatura su un uomo in love with his sheep but unfortunately the sheep loves the sea more. Sbellicata. Chatgpt sta diventando il mio migliore amico, gli chiedo pure i transiti astrologici, fai tu. Io comunque per lavoro già lo uso, per esser seri.
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Sto leggendo Open, cioè, ho quasi finito Open di Agassi. La prima vittoria di Wimbledon ero su un aereo e il tipo seduto vicino a me mi ha vista piangere davanti all’ebook reader. Era un sacco di tempo che un libro non mi faceva piangere. Straconsigliato.
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Sono stata giù dai miei, in Calabria, regione in cui è successa l’ultima tragedia dei morti in mare. Diciamo che finchè non ti muore la gente innocente davanti casa puoi votare tutte le Giorgie che vuoi, però una volta che ti capita davanti e i morti li vedi davvero e sai di cosa si parla quando si parla di umanità allora non ci sono Giorgie che tengono. Sono incazzati. Questo ho imparato.
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Uno dei film che ho visto e che non vi ho listato è See how they run, su Disney+, carino, serata di intrattenimento se non si vuole nulla di pesante o serio, ma si vuole vedere qualcosa di interessante, ottimo cast, storia che regge e intriga, niente di magistrale, ma vale una serata da passare.
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Si stanno allungando le giornate, sto meglio. Ciao.
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pangeanews · 5 years
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“La storia comincia con Naipaul che arriva a Buenos Aires per scrivere di Eva Perón…”: un racconto di Roberto Bolaño, “Saggi di Sodoma”
Successe come un capitombolo, passammo a Madrid da una collina con un tempio egiziano a una via che portava alla metro e aveva un nome sudamericano, Santiago e qualcosa, capitando in una libreria dov’erano impilati molti volumi nuovi ma messi in ordine verso il soffitto, al modo della merce antica e polverosa. Il primo di questi che sollevai erano i racconti completi di Roberto Bolaño pubblicati da Anagrama e ve n’erano cinque o sei mai trovati in italiano. Comprensibilmente, li sfogliai come un cane da tartufo mentre Andrea mi aspettava e scrutava il negoziante. Un racconto in particolare mi colpì e lo presi con una fotografia: Saggi di Sodoma era stato composto al volgere del secolo, il nostro aveva vinto un premio abbastanza importante in Sudamerica eppure, chi se lo filava? Era una storia promettente però alla fine non fu inserita in Puttane assassine. Ve li immaginate, i preziosi di Adelphi o i savi editori spagnoli, che s’inchinano davanti a uno scrittore che parla sporco? Io no. La storia è questa, se vi piace, come la tradusse dopo il viaggio a Madrid l’altro Andrea. (Andrea Bianchi)
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Saggi di Sodoma
a Celina Manzoni
Molti anni fa, prima che Naipaul ottenesse il premio Nobel, pensai di scrivere una storia che si sarebbe intitolata “Saggi di Sodoma” e il cui protagonista sarebbe stato proprio Naipaul, scrittore che, peraltro, ammiro. La storia cominciava a Buenos Aires, dove Naipaul era arrivato per scrivere un lungo reportage su Eva Perón, raccolto in un libro pubblicato in Spagna, nel 1983, dalla casa editrice Seix-Barral. Nella storia, Naipaul arrivava a Buenos Aires, credo fosse il suo secondo soggiorno in città, prendeva un taxi, e lì mi sono bloccato, il che non depone a favore della mia capacità d’inventiva. Avevo in testa altre scene che non riuscii a scrivere. Soprattutto, visite in società. Naipaul nella redazione di un giornale. Naipaul nella redazione di un altro giornale. Naipaul a casa di uno scrittore impegnato. Naipaul a casa di una scrittrice dell’alta borghesia. Naipaul che fa telefonate, torna tardi al suo hotel, insonne, prende appunti, rigoroso. Naipaul che osserva le persone. Seduto su una sedia al tavolo in un noto caffè, attento a non perdere neanche una parola. Naipaul a casa di Borges. Naipaul che torna in Inghilterra e rivede i suoi appunti. L’osservazione, breve ma non senza interesse, di una serie di eventi: l’elezione dell’uomo di Peron, il ritorno di Peron, l’elezione di Peron, i primi segni dello scontro all’interno del peronismo, i gruppi armati di destra, i montoneros, la morte di Peron, la presidenza della vedova, l’ineffabile Lopez Rega, l’atteggiamento dell’esercito, la recrudescenza dello scontro tra l’ala destra e l’ala sinistra del peronismo, il colpo di stato, la guerra sporca, le stragi. Potrei sbagliarmi nell’ordine. Forse Naipaul chiude la sua cronaca prima del colpo di stato, probabilmente pubblicò il testo prima che si conoscesse il numero dei desaparecidos, prima che fosse confermata l’entità del male.
Nella mia storia, Naipaul camminava semplicemente per le strade di Buenos Aires e, in qualche modo, avvertiva l’inferno che si addensava sulla città. In questo senso, la sua cronaca era una profezia modesta, minore, che non raggiungeva i livelli di Abaddon el exterminador di Sabato, ma che, guardandola con buona volontà, apparteneva alla stessa Famiglia, la Famiglia delle opere nichiliste e bloccate dall’orrore. Quando dico “bloccate dall’orrore” non lo dico in senso peggiorativo ma letterale. Penso ai bambini che rimangono immobili davanti all’assalto di un orrore imprevisto, incapaci persino di chiudere gli occhi. Penso alle ragazze che subiscono un attacco di cuore e muoiono prima che lo stupratore finisca il suo atto. Alcuni artisti della scrittura sono come quei bambini e bambine. Nella mia storia, nonostante se stesso, Naipaul era così. Aveva gli occhi aperti e la lucidità che di solito lo caratterizza. Aveva qualcosa che gli spagnoli chiamano “latte cattivo” e che serve da antidoto per combattere gli assalti della canaglia sentimentale. Però captava anche, o le sue antenne captavano, l’elettricità statica dell’inferno nelle notti per strada di Buenos Aires. Il problema era che non sapeva come decifrare quel linguaggio e questo è qualcosa che di solito confonde alcuni scrittori, alcuni artisti della scrittura.
La visione che Naipaul ha dell’Argentina non potrebbe essere meno lusinghiera. Col passare dei giorni il paese, e non solo la città, gli diventa più sgradito, più insopportabile. Si direbbe che ad ogni nuova persona che conosce, ad ogni visita che fa, si accresce il suo disagio per il luogo in cui si trova. Nella mia storia, mi pare, Naipaul s’incontrava con Bioy al tennis club dove Bioy soleva andare non per giocare a tennis ma per prendere un vermut e chiacchierare con gli amici e prendere il sole, e sia Bioy che gli amici di Bioy e il club di tennis sembravano a Naipaul un monumento vivente alla stupidità umana, una performance della cretinizzazione di un intero paese. La stessa impressione ricavava dai suoi contatti con giornalisti o politici o sindacalisti. Di notte, mentre dormiva dopo ogni giornata estenuante, Naipaul sognava con Buenos Aires e con la pampa, in effetti sognava con l’Argentina, con tutta l’Argentina, e i sogni inevitabilmente si trasformavano in incubi. Non è che gli argentini siano eccezionalmente apprezzati nel resto dell’America Latina, ma posso assicurarvi che nessuno scrittore latinoamericano ha scritto pagine di critica demolitrice più dure di quelle che Naipaul ha scritto. Neanche i cileni hanno scritto nulla di simile. Una volta, mentre chiacchieravo con Rodrigo Fresan, gli chiesi cosa ne pensasse del testo di Naipaul. Fresan, che conosce la letteratura inglese come nessun altro, ricordava a malapena la cronaca di Naipaul, anche se è tra i suoi autori preferiti. Per farla breve, Naipaul ascolta e trascrive le sue impressioni e, soprattutto, cammina per Buenos Aires. E all’improvviso, senza che il lettore della sua cronaca sia preparato, si mette a parlare di sodomia. La sodomia come usanza argentina. Una pratica che non si limita alle relazioni omosessuali, infatti ora che ci penso non ricordo che Naipaul menzionasse l’omosessualità. Parla di relazioni eterosessuali. Ci s’immagini Naipaul seduto sulla sedia più anonima del bar (o di un emporio, se preferite) ascoltando le conversazioni dei giornalisti, che per prima cosa parlano di politica, il paese si muove con sicurezza e allegria verso il precipizio, e poi, per alleggerire l’umore, di vicende sentimentali, conquiste, amanti. Quelle amanti senza volto, senza eccezione, ricorda Naipaul, ad un certo punto sono state sodomizzate. L’hanno preso nel culo, scrive. Di una cosa che in Europa, riflette, causerebbe vergogna o almeno un silenzio discreto, nei bar di Buenos Aires si parla apertamente come di un segno di virilità, di possesso completo, perché se non l’hai messo nel culo alla tua amante o alla tua ragazza o a tua moglie, non l’hai posseduta davvero. E così, come la violenza e l’incoscienza in politica lo terrorizzano, la pratica sessuale di “prenderlo nel culo”, che implica, secondo Naipaul, una certa componente di violenza, può solo causargli repulsione e disprezzo.
Un disprezzo per gli argentini che cresce man mano che il testo procede. Naturalmente, nessuno si salva da questo costume nefando, o meglio una persona sì, una sola, che cita, che senza l’enfasi di Naipaul rifiuta anch’essa la sodomia. Gli altri, in misura maggiore o minore, l’accettano e la praticano o l’hanno praticata, il che conduce Naipaul a concludere che l’Argentina è un paese testardamente machista (un machismo che vela una scena di sangue e di morte) e che Peron, in quell’inferno di uomini senza freni, è il supermacho, ed Evita è la femmina posseduta, totalmente posseduta.
Qualunque società civile, pensa Naipaul, condannerebbe questa pratica sessuale in quanto aberrante e vessatoria, tranne l’Argentina. Nel suo testo, o forse nel mio racconto, la vertigine che coglie Naipaul si fa sempre maggiore. Le sue passeggiate diventano interminabili vagabondaggi di un sonnambulo. Il suo stomaco si indebolisce. Si direbbe che la sola presenza fisica di questi argentini che incontra e che parlano con lui gli produca una nausea che riesce a stento a contenere. Cerca spiegazioni. Quella che gli sembra la più logica è ricondurre la passione nefanda all’origine degli argentini, terra di emigranti i cui nonni erano poveri contadini di Spagna e Italia. I contadini spagnoli e italiani, di costumi barbari, portano nella pampa non solo la loro miseria ma anche le loro pratiche sessuali, tra cui la sodomia. Questa spiegazione sembra soddisfarlo. Anzi, è tanto ovvia che la prende per buona senza starci troppo a ragionare. Ricordo che rimasi un po’ sorpreso quando lessi il paragrafo in cui Naipaul espone quella che crede sia l’origine delle abitudini sodomitiche argentine. La spiegazione, oltre che inconsistente, mancava di basi storiche o sociali. Che ne sapeva Naipaul dei costumi sessuali dei braccianti e dei terroni spagnoli e italiani degli ultimi cinquant’anni del diciannovesimo secolo e dei i primi venticinque anni del ventesimo? Forse, nelle sue scorribande per i bar di Corrientes a tarda notte, avrà sentito un giornalista sportivo raccontare le prodezze sessuali di suo nonno o bisnonno, che si scopava le pecore nelle notti di Sicilia o delle Asturie. Può darsi.
Nella mia storia Naipaul chiude gli occhi e, in effetti, s’immagina un pastorello del sud che fotte una pecora o una capra. Dopo, il pastorello accarezza la capra e si addormenta. Sotto la luna il pastorello sogna: vede se stesso, molti anni dopo, con molti più chili e centimetri addosso, con grandi baffi, sposato e con numerosi figli, i maschi che lavorano nel campo, con il gregge che è cresciuto (o diminuito), le femmine che lavorano a casa o in giardino, sottoposte alle sue carezze vogliose e a quelle dei  fratelli, e sua moglie, regina e schiava, sodomizzata ogni notte, che lo prende nel culo, scena perfetta che corrisponde più ai desideri erotico-bucolici di un pornografo Francese dell’ottocento che alla cruda realtà che ha la faccia di un cane castrato. Non dico che la sodomia non sia praticata negli onesti matrimoni contadini di Sicilia e di Valencia, ma non con l’assiduità di un’usanza destinata a sopravvivere oltre i mari. Se i migranti di Naipaul fossero venuti dalla Grecia, chissà, potremmo anche crederci. Magari con un generale Peronidis l’Argentina ci avrebbe guadagnato. Non tanto, solo un po’, ma sarebbe già qualcosa. Ah! se gli argentini parlassero demotico. Un demotico Porteño, influenzato dal gergo del Pireo e di Salonicco. Con un gaucho Fierrescopulos, felice copia di Ulisse, e un Hernandikis macedone che aggiusta a martellate il letto di Procuste. Ma, nel bene o nel male, l’Argentina è quello che è e viene da dove viene, cioè, sappiatelo, da tutto il mondo tranne che da Parigi. (1999-2000)
Roberto Bolaño
* traduzione di Andrea Giovannini
L'articolo “La storia comincia con Naipaul che arriva a Buenos Aires per scrivere di Eva Perón…”: un racconto di Roberto Bolaño, “Saggi di Sodoma” proviene da Pangea.
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Colette’s 5☆ image from the “Merc Storia x Tales of Asteria Collaboration Campaign“ event (February 17, 2016 to March 14, 2016)
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pangeanews · 5 years
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“Il politicamente corretto è il grande ordine mentale che giustifica la società classista planetaria del capitalismo globale”: Diego Fusaro dialoga con Matteo Fais sul suo ultimo libro
Credo che a Diego Fusaro vada riconosciuto un grande merito, a prescindere dalle astiose considerazioni degli hater. È riuscito a portare all’attenzione del grande pubblico tutta una serie di tematiche che, altrimenti, non avrebbero trovato spazio nell’informazione mainstream. Lui, con il suo linguaggio indiscutibilmente di rottura, ha saputo veicolarle. Se poi lo si debba considerare la Chiara Ferragni della filosofia è veramente una questione oziosa – tra un’influencer come la ragazza in questione e uno che, nel bene o nel male, per usare un eufemismo, qualche libro l’ha aperto, oltre ad aver per esempio ritradotto Marx, a mio avviso non sussistono neppure gli estremi per un vago paragone. Al netto di tutte le possibili critiche, secondo cui accademismo e mediaticità non sarebbero coniugabili, le questioni da lui portate sul tavolo non sono irrilevanti. E, infatti, non è che siano a milioni, in Italia, i filosofi che le trattano – neppure a decine, a voler essere onesti. Per tutta questa serie di motivi, siamo ben felici di averlo nuovamente come nostro ospite su Pangea, questa volta per parlarci del suo ultimo libro, Glebalizzazione. La lotta di classe al tempo del populismo (Rizzoli, 2019).
Il nuovo ordine mentale impone una certa prassi discorsiva, il politicamente corretto. A questo si contrappone quella che tu chiami una lotta di classe culturale, in cui i dominati vorrebbero invece chiamare le cose con il loro nome. Ce la potresti descrivere in breve?
Oggi la lotta di classe è tra un’élite finanziaria apolide da una parte e le masse nazionali delle classi lavoratrici e dei ceti medi dall’altra. Questa non è soltanto materiale, cioè indirizzata verso la gestione dell’economia e della società, ma è anche culturale – Gramsci docet. L’obiettivo della classe dominante, per mezzo dei suoi intellettuali e degli architetti delle superstrutture, è fare in modo che i dominati non siano tali solo a livello strutturale, ma subiscano il dominio anche nell’ambito culturale, accettando le proprie catene ed essendo disposti a battersi in loro difesa. Essenzialmente il politicamente corretto è il grande ordine mentale che giustifica la società classista planetaria del capitalismo globale. I dominati hanno dunque tutto l’interesse a tornare a chiamare le cose con il loro nome: “sfruttamento” anziché “competitività”, “appropriazione rapace delle risorse pubbliche” in luogo di “privatizzazione”, “distruzione programmata delle democrazie” al posto di “cessione di sovranità”. In ultimo, lo sguardo dal basso è quello che svela la verità del rapporto di classe. Nel libro, parto proprio da una citazione di Pasolini in cui si dice: “dovremmo smetterla di parlare il linguaggio dei nostri nemici”. Questo è il punto fondamentale, riappropriarsi delle grammatiche di classe.
Tu parli di una mondializzazione della disuguaglianza e coni a tal proposito il neologismo glebalizzazione. In cosa consiste questa?
La globalizzazione è un progetto fantastico dal punto di vista della classe dominante, startupper e delocalizzatori, agenti della finanza e ammiragli del sistema bancario. Osservata dal punto di vista della classe dominata, invece, è quanto di peggio possa esserci. Essa consiste in una glebalizzazione, cioè un massacro di classe che, mediante la leva della competitività globale, rende sempre più poveri, subalterni e senza diritti, i ceti popolari. Accade così che il piccolo imprenditore borghese di Vicenza viene spazzato via dai grandi colossi dell’e-commerce, dalla competitività sleale condotta a mezzo di prodotti infimi a basso costo. Parallelamente, anche il lavoratore di Fiat-Mirafiori perde i suoi diritti sociali, le sue conquiste, per essere competitivo con chi in Bangladesh o in India fabbrica gli stessi articoli a prezzi più bassi e senza diritti. La glebalizzazione è la legge della competitività globale che determina la distruzione dei ceti medi e delle classi lavoratrici che vengono abbassate a una condizione neoservile.
A proposito di cosmopolitismo liberista, tu paventi un’unione sacra tra la destra del denaro e la sinistra del costume. Ma, dunque, queste sono due facce della stessa medaglia?
Assolutamente. La destra finanziaria del denaro è quella che vuole distruggere gli Stati nazionali per eliminare i diritti sociali e le democrazie; deportare schiavi dall’Africa per sfruttarli senza pietà e abbassare i costi della forza lavoro; e che ambisce a eliminare la famiglia intesa come l’ultimo baluardo di una microsocietà non a forma di merce. La sinistra fucsia e liberale del costume, anziché opporsi a questo progetto di classe, lo giustifica sul piano teorico dicendo che chi difende lo Stato nazionale è un fascista regressivo; chi supporta la famiglia tradizionale un omofobo patriarcale e, ancora, che chi si oppone alle pratiche della deportazione di massa, dette dell’immigrazione di massa, è uno xenofobo. Tutto ciò che la destra del denaro fa la sinistra fucsia del costume giustifica. Sono le due ali del medesimo sistema liberista e cosmopolita.
Com’è che la Sinistra è potuta passare dall’internazionalismo socialista al globalismo?
Ciò ha richiesto un lungo processo, la cui genesi situerei nel ’68 e il cui spirito è ben incarnato dalla canzone di John Lennon, Imagine: “And the world will be as one”. Questo brano è il sogno del globalismo. Il mondo diventa uno perché trionfa un solo mercato senza confini. Le sinistre che sono passate dal rosso al fucsia, dalla falce e martello all’arcobaleno, hanno abbandonato l’internazionalismo proletario del lavoro e sono passate – anzi si sono vendute, senza neppure saperlo fino in fondo, in molti casi – al cosmopolitismo liberista del capitale. Per cui continuano a chiamare internazionalismo quello che in realtà è, essenzialmente, il globalismo capitalista. Questo è il dramma che le porta a confondere le due realtà, senza capire che il cosmopolitismo capitalistico combatte gli Stati nazionali per imporre il mercato unico. Invece, l’internazionalismo socialista presuppone gli Stati nazionali e implica un rapporto tra questi, non la loro distruzione.
Qual è il senso della sovranità nazionale e perché, a tuo avviso, la si vuole mettere in crisi per disgregare le democrazie?
Dopo il 1989, il capitalismo ha di fronte a sé un unico ostacolo, quello degli Stati nazionali sovrani. Questi sono gli ultimi fortini della democrazia, dei diritti sociali, del welfare, e della lotta di classe. Se si toglie lo Stato sovrano nazionale, si toglie di fatto la politica – che da sempre è suo appannaggio –, lasciando solo il bellum omnium contra omnes del mercato globale. Si elimina così la possibilità della lotta di classe, cioè il guardarsi in faccia tra servi e signori e il lottare per ottenere dei diritti. Resta solo un massacro di classe delocalizzato. Non c’è democrazia nella modernità che non sia nello Stato nazionale. La classe dominante afferma di volerlo superare per evitare il ritorno dei fascismi. In realtà, lo fa per eliminare la democrazia e i diritti sociali. Da questo punto di vista, occorrerebbe combattere il cosmopolitismo e il liberismo riproponendo un internazionalismo sovranista e socialista che lotti contro tali tendenze.
Chi è questa figura che tu definisci “l’anima bella globalista”?
Un esempio potrebbe essere rappresentato dalla Boldrini. In generale direi chi pensa che, per essere democratici e per realizzare le libertà di tutti, si debbano superare gli Stati nazionali, creare la democrazia e il popolo globale, per porre in essere una forma di cosmopolitismo delle libertà. In realtà, non può esistere una democrazia globale. La democrazia implica sempre l’esistenza del demos e questo non è mai globale, ma sempre territoriale, radicato nel suo territorio, nella sua storia. Allo stesso modo, la politica non può mai essere globale. Questa è sempre collocata in spazi e territori precisi. Se togli gli Stati nazionali e i territori, togli per ciò stesso la possibilità di un controllo democratico. L’anima bella globalista è dunque quella che dice, almeno a parole, di voler realizzare la democrazia, ma in realtà favorisce sempre e solo la classe dominante. In una parola, la sua caratteristica fondamentale è la mancanza di concretezza. Come in Hegel, questa figura si muove su un piano totalmente astratto.
La dialettica servo-signore di Hegel viene da te ripresa e riadattata al nostro tempo. Per tal motivo tu parli di un servo populista e sovranista e di un signore demofobo e globalista. Ti chiederei di chiarire ulteriormente questi concetti per i lettori.
Il polo dominante ha tutto l’interesse a distruggere gli Stati sovrani nazionali, per imporre il cosmopolitismo liberista. Il signore è quindi sicuramente nemico del populismo e del sovranismo, cioè dell’idea che il popolo si autodetermini nel suo spazio territoriale – non perdiamo mai di vista che la nostra Carta Costituzionale definisce la democrazia come sovranità popolare, nell’articolo primo. È chiaro che il signore globalista non è né sovranista né populista, ma contro il popolo. La parte dominata ha a questo punto da essere sovranista e populista, deve cioè difendere la sovranità come base della democrazia e della riconquista dei diritti sociali. Perciò c’è tanta demonizzazione del populismo e del sovranismo, perché sono i due nemici principali della parte dominante. Dal suo punto di vista non dovrebbe essere il Parlamento a decidere, ma i consigli di amministrazione delle aziende.
Tu sostieni che l’internazionalismo socialista sia coniugabile con l’indipendenza di ogni nazione. Come è possibile questo?
Nel libro vi sono frequenti richiami al tema marxista della questione nazionale. Già Engels, nelle sue lettere, afferma che l’internazionalismo presuppone nazioni forti che si rapportino tra loro in maniera pacifica e solidale. L’internazionalismo socialista, a differenza del cosmopolitismo e del nazionalismo regressivo, presuppone che lo Stato nazionale non sia vettore di aggressione verso gli altri Stati nazionali, ma stia con essi in rapporto solidale. Il nazionalismo è l’individualismo pensato al livello dello Stato, proprio come l’internazionalismo è il comunitarismo pensato al livello degli Stati. In Europa noi abbiamo avuto solo nazionalismi regressivi nel Novecento e, al momento, abbiamo un cosmopolitismo liberista dell’Unione Europea. Manca un internazionalismo socialista.
Se non possiamo dirci globalisti, al contempo respingiamo anche il nazionalismo. In qual senso questi sono entrambi fenomeni da combattere e che direzione prendere per superarli?
Io parto da un punto molto bello dei Quaderni dal carcere di Gramsci, in cui si dice che Goethe e Stendhal erano nazionali ma non nazionalisti. La Nazione non è necessariamente il nazionalismo – che di questa è una patologia. Esso è da evitare in ogni modo, ma non per questo bisogna abbandonare la Nazione come invece recita l’assioma dei cosmopoliti dominanti. Occorre semmai valorizzarla nel suo rapporto di riconoscimento con le altre, in una forma di internazionalismo di tipo relazionale. Per fare ciò occorre a mio giudizio creare un blocco antagonista di Stati sovrani socialisti che si confederino fra loro, senza cedere la propria sovranità, riconoscendosi parte di una costellazione che si oppone fermamente al globalismo americano – nel libro, io sostengo che il globalismo sia sostanzialmente un americanismo, un’americanizzazione del mondo.
Non so se tu abbia letto l’ultimo pamphlet di Christian Raimo, Contro l’identità italiana. In estrema sintesi, lui sostiene la non sussistenza dell’identità nazionale sulla base del fatto che questa sarebbe fondamentalmente una costruzione ex post.
Guarda, sarò sincero, il tempo della vita è breve e le letture interessanti da fare tante. Io leggo Spinoza, Fichte. Sinceramente il signor Raimo lo leggerò, qualora dovesse avanzarmi del tempo, in una vita futura. Conosco, comunque, bene le posizioni dei soloni del cosmopolitismo liberista. Che le identità nazionali siano storicamente determinate e non naturalmente date è talmente ovvio che Christian Raimo avrebbe potuto risparmiare la carta su cui ha scritto. Partendo dal presupposto che le Nazioni hanno una loro valenza culturale e storica, gente come lui arriva ad asserire che devono essere superate e che bisognerebbe andare contro le varie identità. Assolutamente sbagliato. Peraltro, l’identità nazionale italiana è tale per cui non esclude chi ha un certo colore della pelle, o è nato altrove. Lo include a patto che questo si riconosca in essa, ne accetti i valori e diventi parte di una comunità, che non è una comunità di sangue e suolo, ma storica e sociale, fatta di persone che si riconoscono e vengono riconosciute. Il discorso di Raimo è una sorta di avatar di altri mille discorsi che si riproducono come l’agente Smith in Matrix. Sono le posizioni del cosmopolitismo liberista, degli armigeri del pensiero unico della classe dominante. Il solo merito che hanno costoro, grazie al quale occupano “il davanti della scena”, è che sono gli intellettuali giusti al momento giusto per difendere l’ordine dominante. Se fossimo nel ventennio fascista, questi sarebbero con la camicia nera a sostegno dell’ordine costituito. Invece oggi, nel mondo del cosmopolitismo fucsia liberista, indossano una camicia di diverso colore e divengono le brigate fucsia che giustificano il nuovo manganello invisibile dell’economia di mercato. Usano l’antifascismo come strumento per poter agire in maniera fascista, con uno squadrismo che fa esattamente quello che faceva il fascismo a suo tempo, ovvero impedire la libertà d’espressione. E, per loro, diviene fascista chiunque non accetti il pensiero unico. Purtroppo, il fascismo non è ancora morto, ma è passato dal nero al fucsia. Oggi è il fascismo del cosmopolitismo liberista e del mercato, di cui i personaggi che mi hai citato sono a tutti gli effetti un’espressione.
Tu menzioni come antitesi al cosmopolitismo anche Giacomo Leopardi. Questa tesi è stata avanzata anche da Adriano Scianca, in La Nazione Fatidica. Come motivi questa contrapposizione?
Ho letto con piacere il libro di Adriano Scianca e condivido appieno la tesi sul Leopardi non cosmopolita. Però, attenzione, perché l’autore di L’infinito era pur sempre un figlio critico del suo tempo. Sicuramente andava contro un cosmopolitismo astratto, ma non era nemmeno un nazionalista irredento. A ogni modo, certamente Leopardi riconosce che il cosmopolitismo produce una sorta di individualismo assoluto. Non crea una grande patria, ma spacca quelle esistenti e trasforma ogni individuo in un’isola.
Per quanto la questione esuli dal tuo libro, cosa ne pensi dell’avvenuta censura da parte di Facebook delle pagine di Casapound?
Penso che, il giorno successivo a quello in cui venivano censurate su Facebook le pagine di Casapound, la medesima sorte toccava su Twitter agli account dei comunisti cubani. Oggi viviamo in una sorta di totalitarismo che ti permette di essere liberamente tutto ciò che vuoi, a patto che tu sia liberale. Semplicemente, non ti è permesso di essere altro da ciò e questo l’aveva già ben compreso Pasolini. È vergognoso comunque come il potere vinca a mani basse: quando vengono censurate le pagine dei fascisti di Casapound, le sinistre giubilano; quando vengono censurate le pagine dei comunisti cubani, i fascisti fanno altrettanto. Questo è il grado ultimo dell’idiozia divisiva.
Matteo Fais
L'articolo “Il politicamente corretto è il grande ordine mentale che giustifica la società classista planetaria del capitalismo globale”: Diego Fusaro dialoga con Matteo Fais sul suo ultimo libro proviene da Pangea.
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