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Staged Photography?
di Carlo Maccà
-- Il festival Fotografia Europea, che si svolge ogni anno fra aprile e giugno a Reggio Emilia, è uno degli eventi imperdibili per l'amatore che voglia tenere aggiornata la propria cultura. La Fondazione Palazzo Magnani, per assicurare quanto meno un minimo di continuità nell'anno in corso dopo l'interruzione forzata, in questi ultimi tre mesi offre due mostre. La più rilevante viene proposta come "la prima mostra in Italia dedicata al fenomeno della staged photography, tendenza che, a partire dagli anni Ottanta, ha rivoluzionato il linguaggio fotografico e la collocazione della fotografia nell’ambito delle arti contemporanee ", con la presenza di autori di grande notorietà, come Jeff Wall, Cindy Sherman, Sandy Skoglund, Joan Fontcuberta e la star mondiale David La Chapelle.
Qualcuno che ha almeno una infarinatura sulla storia e le tradizioni della fotografia, potrebbe rimanere interdetto al sentir definire "rivoluzionaria" una "tendenza" della fotografia che viene denominata staged. Quel termine si addice, ed è stato spesso applicato, a un modo di fotografare in uso fin dai primi decenni della fotografia artistica come di quella commerciale, senza mancare in quella amatoriale.
Per quanto riguarda l'attualità, appare perfettamente legittimata quella fotografa nordamericana di provincia (Leesburg, Virginia) che titola "Staged Photography" la propria attività e il relativo sito Facebook, nel quale così si propone per foto di famiglia e simili: " Staged is a combination of on location natural light and in studio photography. È l'incontro fra un fotografo esperto e un artista rifinito che si specializza nella progettazione di scenografie impareggiabili. Chiamatelo un combinato di menti artistiche. Siamo specializzati in immagini di: Maternità. Neonati, Bimbi, Gruppi, Giovani e Famiglie. Siamo entusiasti della nostra capacità di offrire ai clienti non solo foto mozzafiato dei loro bimbi e delle loro famiglie, ma anche scenografie uniche e magistralmente eseguite".

Staged Photograhy, Facebbok. La fotografa, il suo sito e un'immagine campione.
Quanto poi all'aspetto "rivoluzionario" dello staging nell'attuale fotografia d'autore, a quel qualcuno di cui sopra il binomio "staged photography" richiama inevitabilmente i tableaux vivants nati ai primi albori della fotografia: cioè quelle composizioni fotografiche che pretendevano di sfidare ad alto livello artistico la pittura. Memorabili sono il paradigmatico The Two Ways of Life di Oscar Gustave Rejlender, montaggio di ben 32 pose fotografiche, 1857; o Fading away di Henry Peach Robinson, 1858, con "sole" cinque pose.

Henry Peach Robinson, Fading away, 1858 circa.
Quei Tableux Vivants fotografici, che spesso si ispiravano a opere pittoriche famose, sono da molti ritenuti come le radici della Pictorial Photography, che imperversò fino alla prima guerra mondiale e un po' oltre. E allora quel signore di cui sopra, usando uno zoom adatto a inquadrare bene ogni tappa della storia della fotografia, non avrà dubbi a vedere in un certo settore della Staged Photography un diretto pronipote di quei tableaux, pronipote tutt'altro che rivoluzionario pur se disconosce l'antenato. E a ritenerlo semplicemente un revival messo in moto dall'avvento della fotografia digitale e della sua elaborazione informatica, che hanno aggiornato tecnicamente e facilitato materialmente quelle operazioni che nell'era analogica nessuno aveva più la pazienza di fare, e che da decenni venivano considerate con sufficienza se non con disgusto.
Almeno due fra gli autori presenti a Reggio Emilia possono essere considerati discendenti dei pionieri dell'800, a cominciare dall'approccio fattuale per finire con i temi assunti. L'esempio più calzante è certamente l'Ophelia (2018) dell'inglese Julia Fullerton Batte, un rifacimento testuale del dipinto (1851) del preraffaellita John Everett Millais, già oggetto di attenzione di molti fotografi "ri-creativi" antichi e moderni. A prescindere dalla presunta rivoluzione, all'opera di Julia Fullerton si deve riconoscere, rispetto a tante altre, un fascino quasi pari a quello della pittura originale.

Il rifacimento fotografico di Ophelia (Julia Fullerton) e il dipinto di Millais.
Con uno spirito totalmente diverso, una volontaria apoteosi del kitsch, irriverente e dissacrante, David LaChapelle ha messo mano alla propria revisione dell'Ultima Cena di Leonardo, degli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina e di molti altre opere pittoriche famose.

L'Ultima Cena di Leonardo attualizzata da David LaChapelle.
I capolavori della pittura divenuti le vittime più frequenti degli stagers sono probabilmente le scene di interni dipinte da Vermeer, caricaturate volontariamente ma soprattutto involontariamente da miriadi di velleitari "artisti rivoluzionari" che evidentemente del pittore olandese non hanno capito nulla o non vogliono avere nessun rispetto (e qui sta la "rivoluzione"!).
Già gli esempi sopra citati bastano a suggerire che il termine staged photography, che letteralmente nella nostra lingua dovrebbe diventare "fotografia messa in scena", possa coprire tutto quello che non è una "istantanea" presa al volo: dai tableaux vivants fino ai gruppi e ai singoli in posa. Tutti noi che abbiamo frequentato la scuola dell'obbligo in tempi meno schizzinosi riguardo alla privacy conserviamo in qualche cassetto l'immagine della classe ben distribuita sulla scalinata d'ingresso, coll'insegnante in centro o a lato; molti di noi anche quella della Prima Comunione nostra, del figlio o del nipotino, ciascuno in posa molto pia. Perché, sì, anche il ritrattino d'una persona "in posa" rispetta le premesse di una staged photography.

Una delle poche fotografie staged di (ma solo in senso passivo) Gianni Berengo Gardin. [1]
Fino alla metà dell'ultimo secolo del millennio scorso, nel linguaggio comune esistevano due modi di ripresa dei soggetti fotografici che includono persone: la "istantanea" catturata al volo, e la "posa". Il secondo, non necessariamente legato a maggiori tempi di esposizione, era quello in cui i soggetti si mettevano o venivano messi “in posa”; gli amatori, se abbastanza abbienti da permettersi un apparecchio con autoscatto e un cavalletto, con una corsetta durante il tempo morto tra la pressione sul pulsante di scatto e l'azione del diaframma o della tendina, riuscivano ad includere se stessi nell'immagine fotografata (in pratica, facevano un selfie - vi immaginate qualche politico attuale fare i selfie con in suoi fans se non esistesse lo smartphone?).

Helmut Newton, They are coming (dressed), 1981.
Messe in scena, cioè staged, sono anche le fotografie di studio, e in particolare quelle di moda, fra cui compaiono immagini prodotte da veri maestri della fotografia (Figura 5). E nascono staged anche le Stage photos, ossia le "foto di scena" del teatro, del balletto e del cinema, dove stage viene dal termine inglese per palcoscenico. E dall'insieme non dovremmo escludere neppure le fotografie di oggetti inanimati meticolosamente "messi in posa", come quelle immagini impropriamente chiamate nella nostra lingua "nature morte". e nei paesi anglosassoni still photography, fotografia "immobile" [2]. Ma questi tre generi fotografici sono ufficialmente esclusi dalla Staged Photography dei "rivoluzionari" [3]. A meno che non siano, per esempio, scene storiche composte con pupazzetti di plastica e altri oggetti (come nella seguente immagine.

David Lawrence Levinthal, Dallas 1963.
La vera rivoluzione nella fotografia è l'avvento del digitale, che ha aggiornato tecnicamente e facilitato tutte le operazioni che fino a per un secolo e mezzo avevano richiesto abilità, tempo e pazienza, soprattutto quando allo staging doveva seguire una ricomposizione delle immagini (quella che una volta si chiamava "fotomontaggio"). Tutte le altre presunte rivoluzioni non sono che fasi dell'adattamento dell'arte al mutevole spirito dei tempi, nel bene e nel male. Adattamento attivato nei secoli soprattutto dai progressi tecnici: la pittura ad olio... la stampa.. .la fotografia... la computerizzazione digitale...[4].
E allora converrebbe assegnare al "fenomeno" oggetto di questi commenti, o piuttosto a ciascuna delle sue differenti anime (presenti solo in parte nella mostra di Reggio Emilia) una denominazione diversa, più appropriata, meno generica ed equivoca, facendo riferimento a quanto è stato scritto dai vari autori che si sono impegnati ad anatomizzare l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità e della creazione digitale [5], (alcuni dei quali, come Jeff Wall e Joan Fontcuberta, sono stati tradotti in italiano). Si dovrebbe riparlarne. Per il momento, può bastare un generico "fotografia messa in scena", come da vocabolario, abbastanza discriminante rispetto alla semplice "foto in posa"? [6].
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[1] Da: Gianni Berengo Gardin, In parole povere. Un'autobiografia con immagini. Contrasto, 2020, p. 17.
[2] Still è anche, sostantivato, il "fermo immagine" d'un filmato.
[3] Per i compilatori frettolosi dei comunicati stampa di qualsiasi mostra d'arte, dalle internazionali alle paesane, le opere devono essere "decostruttive", "dissacranti"; o almeno "inquietanti", e se non altro "intriganti": qualificazioni che, esimendo da ulteriori chiarimenti, facilitano il loro lavoro. Ma l'attributo che assicura il massimo richiamo sembra sia: "rivoluzionarie".
[4] Progresso fondamentale ai fini della nascita della fotografia digitale, del quale Padova può gloriarsi almeno un poco, perché il creatore del primo microprocessore (http://www.fagginfoundation.org/it/biografia/) e autore di molti altri sviluppi in questo campo (fra cui il sensore Foveon usato negli apparecchi fotografici Sigma), il vicentino Federico Faggin, si è laureato in Fisica all'Università di Padova. Si legga l'autobiografia Silicio, Dall'invenzione del microprocessore alla nuova scienza della consapevolezza, Mondadori 2019. (Lo scrivente, vanagloriosamente, si compiace di ricordare la fraterna amicizia del proprio padre col padre dello scienziato).
[5] Necessario, anzi fatale aggiornamento dell'opera di Walter Benjamin.
[6] I francesi considerano quella che altrove viene chiamata Staged Photography come una categoria della Photographie Plasticienne (Dominique Baqué, Photographie Plasticienne, l'extrême contemporain, Éditions du Regard 2004, pp 88 e seguenti, capitolo Scénographie de la Culture). Questo termine sembra non abbia trovato corrispondenza nello specifico linguaggio italiano.
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