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#impero cartaginese
gregor-samsung · 5 years
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Come quasi tutti i popoli dell'antichità, i romani attribuivano poca importanza al concetto di razza; la distruzione di Cartagine non significò quindi un tentativo di sradicare la civiltà cartaginese. La riforma piú notevole introdotta da Roma col proposito di modificare una consuetudine preesistente fu, a quanto ci consta, la proibizione dei sacrifici umani; a parte questo, le istituzioni religiose, sociali e politiche rimasero com'erano. I cartaginesi continuarono a godere di una posizione privilegiata nel territorio numidico anche dopo la distruzione della città e la morte di Massinissa, i cui successori continuarono a incoraggiare le arti e le tecniche che vi erano state importate da Cartagine. Ciò è chiaramente dimostrato dal fatto che i romani consegnarono ai re numidi il contenuto delle biblioteche cartaginesi, cadute nelle loro mani durante il saccheggio e comprendenti con ogni probabilità molti libri di immediata utilità pratica per dei paesi arretrati, come, ad esempio, il trattato di Magone. Il cartaginese divenne la lingua ufficiale di tutta l'Africa settentrionale, ed è indubbio che una gran massa di numidi fini per impararlo [Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XVIII, 22]. La religione delle popolazioni indigene fu notevolmente influenzata dagli immigrati e certamente anche dalle idee assimilate dai numerosi numidi che avevano combattuto nell'esercito cartaginese. A Cirta, nel regno di Massinissa, c'era un topet [o tophet; area consacrata] dove si sacrificavano vittime umane con gli stessi riti in uso a Cartagine; questa consuetudine scomparve però abbastanza presto. Durante il secolo successivo alla distruzione di Cartagine delle tribú sedentarie presero a coltivare molte delle piú fertili regioni della Numidia, e in particolare quelle corrispondenti all'attuale Algeria orientale. Ma al termine di questo periodo, nel 46 a. C., accaddero due fatti che posero fine alla civiltà mista numido-cartaginese: Giulio Cesare venne in Africa settentrionale per liquidare definitivamente i suoi avversari politici (capeggiati, strano a dirsi, da Catone l'Uticense, discendente di colui che aveva provocato la distruzione di Cartagine), e, mentre si trovava colà, annetté all'impero romano la parte orientale della Numidia e fece sí che Cartagine fosse ricostruita come colonia di cittadini romani. Un tentativo analogo era già stato compiuto in precedenza, malgrado le solenni maledizioni lanciate su quel luogo, ma non aveva avuto successo [Appiano, H.R.-Libico, 136; Plutarco, Vite parallele-C. Gracchus, 10 sgg.]. Nell'Africa settentrionale veniva cosí impiantata una nuova civiltà, ricca di tutte le risorse e di tutto il prestigio del massimo impero che fosse mai esistito.
B. H. Warmington, Storia di Cartagine, Einaudi (collana “Piccola Biblioteca Einaudi”), 1974²; pp. 303-04.
[Ed.ne or.le: Carthage, Robert Hale Ltd, London, 1960]
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CARTAGINE E LO SFRUTTAMENTO ROMANO DELLE RISORSE FINO AL COLLASSO URBANO
CARTAGINE E LO SFRUTTAMENTO ROMANO DELLE RISORSE FINO AL COLLASSO URBANO
Per una decina di secoli, la città-stato fenicia nel Nord Africa, Cartagine, fiorì affermandosi come un potente impero commerciale con vaste colonie. Mentre gli imperi cartaginese e romano espandevano la loro portata in tutta l’Europa mediterranea e nel Nord Africa, le crescenti tensioni sul dominio politico e sul commercio culminarono nelle tre guerre puniche. La conclusione del conflitto segnò…
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Cosa ha consentito a Roma di costruirsi l'impero?
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Cosa ha consentito a Roma di costruirsi l'impero?
Lo storiografo greco Polibio (II secolo a.C.) individua nella Costituzione romana la ragione prima della travolgente conquista romana. Polibio passa molta parte della sua vita a Roma, ospite coatto della famiglia Scipione. Coatto, perché ostaggio. Infatti, nell’imminenza dello scontro con Perseo, figlio di Filippo V di Macedonia, i romani chiesero alle città della Lega Achea di allearsi con loro. E Megalopoli, patria di Polibio, faceva parte di quella Lega. Questa si dichiarò neutrale, ed allora i romani, per garantirsi quella neutralità, si fecero consegnare mille ostaggi, persone di alto prestigio sociale, dalle città della Lega Achea, e li distribuirono per tutta l’Italia. Tra questi Polibio, figlio di una famiglia eminente di Megalopoli, e già in vista come autore di opere storiche. Megalopoli esiste tuttora, è al centro nord del Peloponneso, non lontano da Olimpia, nella regione dell’Arcadia, zona divenuta mitica nella cultura europea, sito dell’ideale vita campestre, amena e pastorale. Gli Scipioni lo vollero in casa loro, e divenne precettore dei giovani di casa, in particolare di Emiliano, figlio naturale del console Paolo Emilio vincitore di Perseo a Pidna, e nipote adottivo di Scipione l’Africano. Secondo l’uso romano dell’adozione, il suo nome da Emilio divenne Emiliano, ed entrava a far parte dell’onomastica del giovane, che quindi fu Publio Cornelio Scipione Emiliano. Egli conquistò Cartagine e la distrusse nel 146 a.C. , e sul sito fece spargere il sale a significare che nulla più avrebbe dovuto nascere là. E Polibio era presente, e ci riferisce che il suo giovane allievo, invece di festeggiare, pianse. Alla domanda di Polibio rispose: “Piango questa città così importante ed ora distrutta. E penso a Roma, e mi angoscia il pensiero che possa finire così anche lei!”. Ed allora divenne l’Africano Minore, essendo il nonno adottivo l’Africano Maggiore: junior e senior. Ed Emiliano fu l’animatore del circolo culturale, che diede un potente impulso alla cultura romana, che evolvette nelle tematiche e nella lingua, sotto il magistero della Grecia. Polibio in primis.
La Costituzione romana secondo Polibio è perfetta, e garantisce la stabilità politica necessaria alla formazione di un grande impero. Non sembri strano questo tifare di Polibio per un grande impero, che era stato vagheggiato ormai per secoli, un impero che, unendo tutti i popoli rivieraschi del Mediterraneo, fondasse il regno della pace. Alessandro Magno era stato quello che più di tutti l’aveva fatto intravvedere, ma era morto troppo presto, che l’opera non era ancora ultimata. I romani – dice Polibio – mettono in equilibrio reciproco le tre forme PURE di costituzione, le quali da sole e senza equilibrio reciproco, sono destinate a scadere nelle forme degenerative corrispondenti: così la monarchia diventa tirannide, l’aristocrazia (forma pura) abbatte la tirannide, ma dopo un po’ degenera nell’oligarchia, e questa a sua volta viene abbattuta dalla democrazia, che poi degenera nell’anarchia convulsa. Dimentichi dell’esperienza storica precedente, ci si affida all’Uomo della Provvidenza. E si ricomincia da capo. I romani hanno messo insieme le tre forme pure: i consoli ed i pretori sono come i re (monarchia), ma sono elettivi, a tempo (1 anno) e collegiali (almeno in due); il senato ha il ruolo della forma pura dell’aristocrazia, mentre i comizi popolari sono la veste romana della democrazia. Finché monarchia, aristocrazia e democrazia coesistono, tutto fila liscio. E a Roma esisteranno equilibrandosi a vicenda, lo Stato sarà stabile e potente. L’interpretazione appare affascinante e fondata, ma ha un evidente difetto dico io: la Costituzione è perfetta, e la perfezione non appartiene all’uomo. Allora è preferibile una Costituzione imperfetta, che meglio si adatta all’imperfezione umana, e questa forma si chiama democrazia, forma imperfetta e illimitatamente perfettibile. E chiedo scusa per l’intrusione personale. Polibio comincerà ad avere anche lui qualche dubbio, e lo scrive.
SPQR, Senatus PopulusQue Romanus, la famosa sigla, che ben sintetizza i primi 500 anni circa della vita politica romana: il Senato e il Popolo. In epoca monarchica (753-510) alla morte del re il Senato ed il Popolo eleggono il successore: una monarchia elettiva dunque e non ereditaria, almeno fino ai re etruschi (Tarquinio Prisco, Servio Tullio, Tarquinio il Superbo). Il popolo (la plebe) ha sempre dovuto lottare contro i privilegi dei patrizi (i discendenti dei Patres, i vecchi patriarchi dei cento clan iniziali), per strappare i propri diritti, ed il sistema ha funzionato fino alla fine della guerra annibalica (202). Poi la ricchezza ha preso il sopravvento, con la nascita del latifondismo e dell’urbanesimo: la plebe di fatto fu declassata, ed il popolo perdette di autonomia: uno dei tre pilastri, quello democratico, iniziò a perdere di forza. E Roma iniziò a traballare.
Perché Roma conquistasse l’Italia, ci vollero circa 500 anni, con una serie infinita di guerre feroci contro popolazioni irriducibili e battagliere: etruschi sanniti galli latini ed anche campani diedero ai romani tanto filo da torcere. Alla fine Roma li sottomise tutti, ma le occorsero 500 anni. E questi popoli, che tanto avevano combattuto il dominio romano, tuttavia all’arrivo di Annibale restarono per lo più fedeli a Roma, contrariamente alle attese del cartaginese, e consentirono ai romani di resistere per 16 anni, una sconfitta dopo l’altra, fino alla vittoria di Scipione a Zama. Come mai? I romani lasciavano ai popoli sottomessi larga autonomia amministrativa, imponendo pochi obblighi. Niente più politica estera, ormai prerogativa di Roma, i tributi alla capitale, le truppe in caso di bisogno. Ma poi anche strade, templi, abbellimenti di città, acquedotti, terme e vasti territori pacificati, nei quali muoversi senza problemi. Inoltre i romani evitavano l’arroganza verso i vinti, perché non escludevano affatto di poter imparare qualcosa da tutti. Poi loro magari la perfezionavano. Ed avevano cura di trovare una forma di cooptazione con i potenti locali.
I 500 anni di asperrime lotte con gli italici avevano forgiato una forza militare praticamente invincibile. Le migliaia di morti seminati in tale lungo periodo avevano fornito ai romani un’esperienza, che in oriente nemmeno potevano sognare. Ed i romani abbatterono con irrisoria facilità tutti i regni orientali e nordafricani, stendendo dappertutto l’ala della pax romana. Il dominio romano toccò la massima estensione territoriale con l’imperatore soldato Ulpio Traiano, all’inizio del II secolo d.C.
L’esercito dunque è stato un altro importante fattore dell’impero romano. Per circa 500 anni il servizio militare era sentito, più che come un dovere, come un diritto, la maniera principale per affermare il proprio status di civis romanus. La disciplina era ferrea, e l’imperium del console o del dittatore era terribile. Il console Tiberio Claudio Nerone, che si era accampato nei pressi del campo di Annibale, saputo che il duce cartaginese attendeva l’arrivo del fratello Asdrubale con un secondo esercito, lasciò nel campo alcune centinaia di uomini, con l’ordine di agitarsi, per dare ai cartaginesi la convinzione che i soldati romani fossero ancora là. Invece nottetempo li fece uscire zitti zitti, ed a tappe di circa 60 km al giorno li portò a sorprendere Asdrubale sul Metauro nelle Marche. Dopo la vittoria, a tappe rapide fece il cammino a ritroso, e, come messaggio terribile per Annibale, mandò a gettare nel campo punico la testa di Asdrubale. Era l’episodio che invertiva l’inerzia della guerra. Gli eserciti romani subirono delle sconfitte da parte degli schiavi guidati da Spartaco. Assunse il comando Licinio Crasso, che mise in fila i suoi uomini e ne fece uccidere uno ogni dieci: era la decimazione, con la promessa di fare peggio, in caso di ulteriore sconfitta. Disciplina ferrea e tremenda.
Altro fattore di forza era la ferrea logica che presiedeva alle decisioni. Annibale aveva nelle sue mani diecimila soldati romani, dei quali chiese il riscatto. In senato si disse che, se il riscatto conveniva ad Annibale, non conveniva ai romani. Quindi che li uccidesse pure. Ma non ne ebbe l’animo. Ed il riflesso tuttora tangibile della logica ferrea lo si coglie nella lingua, un modo di esprimersi quasi da computer. Noi diciamo: “Potremmo fare una gita.”. I romani dicevano: “Possiamo fare una gita.”. Insomma o si può o non si può: potremmo non ha senso. Una lingua concreta, direi ancorata al mondo. Cicerone diceva: “Quando io ero console”, e non “Durante il mio consolato”, dato che ‘consolato’ è una astrazione. E Polibio dice che i romani, quando si ficcano in testa di fare una cosa, la fanno, non illudersi che rinuncino.
I tribuni della plebe Tiberio e Caio Gracco, e dopo di loro il tribuno Livio Druso, tentarono una riforma agraria, tesa a restituire la dignità del lavoro ai plebei, restituendo loro la libertà economica perduta con l’urbanesimo. Ma andarono a toccare interessi ormai troppo grandi e consolidati, e quindi morirono di morte violenta: era l’inizio del tramonto. Lo storico Tito Livio, di epoca augustea, dice che è incredibile la rapidità con cui Roma ha sottomesso l’intero mondo allora conosciuto, una crescita di potenza sotto il cui peso l’intero edificio inizia a scricchiolare. Le disuguaglianze economiche avevano scavato un solco largo e profondo tra classe dirigente e popolo. E questo cominciò a sognare l’Uomo Carismatico, che si chiamò imperatore, un sistema prossimo allo Stato Etico, che tutto cristallizzò, in un crepuscolo in apparenza senza fine e dorato all’inizio, a partire da una crisi demografica cronica, di cui si rese conto Augusto per primo, e che invano cercò di guarire. Una crisi demografica cronica di un popolo, per perdita di identità nebulosità del futuro difficoltà del presente, è il lento suicidio di massa di quel popolo. Si crea un vuoto di popolazione, e, come nei vasi comunicanti si sposta l’acqua, così nei territori si trasferiscono le persone. Quando i barbari arrivarono, trovarono un fragile guscio vuoto, in apparenza integro, ma ormai senza difese. Non sono state le invasioni a demolire l’impero, ma questo era già svuotato dal suo interno a dispetto delle apparenze. E per i barbari fu facile.
Virgilio al tempo di Augusto indicava ai romani il destino che loro competeva: “Parcere subiectis, debellare superbos”, comprensione per i sottomessi, punizione per i superbi. Cento anni dopo, Tacito scriveva: “Fanno il deserto [i romani], e lo chiamano pace.”. Ma straordinaria è l’eredità di valori che ci hanno lasciato, che sarebbe salvifico riscoprire nella nostra epoca così disorientata: “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”, diceva Terenzio. Sono un uomo, e nulla di ciò che tocca un altro uomo lo ritengo a me estraneo. E’ l’humanitas, l’antidoto al vitello d’oro, cioè il dio profitto uno e quattrino, il PIL, e ai valori dell’humanitas sarebbe necessario educare i nostri giovani, nella prospettiva di un nuovo e urgente umanesimo. Nuccio Ordine, professore emerito, ha scritto un prezioso volumetto, “L’utilità dell’inutile”, dove l’inutile sarebbero le materie umanistiche, secondo alcuni. E vi si dice che, se il criterio di giudizio si impernia sull’utile, allora in una nostra casa lo spazio più importante è il cesso. Come per Ferreri ne “La grande abbuffata”.
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Lo storiografo greco Polibio (II secolo a.C.) individua nella Costituzione romana la ragione prima della travolgente conquista romana. Polibio passa molta parte della sua vita a Roma, ospite coatto della famiglia Scipione. Coatto, perché ostaggio. Infatti, nell’imminenza dello scontro con Perseo, figlio di Filippo V di Macedonia, i romani chiesero alle città della Lega Achea di allearsi con loro. E Megalopoli, patria di Polibio, faceva parte di quella Lega. Questa si dichiarò neutrale, ed allora i romani, per garantirsi quella neutralità, si fecero consegnare mille ostaggi, persone di alto prestigio sociale, dalle città della Lega Achea, e li distribuirono per tutta l’Italia. Tra questi Polibio, figlio di una famiglia eminente di Megalopoli, e già in vista come autore di opere storiche. Megalopoli esiste tuttora, è al centro nord del Peloponneso, non lontano da Olimpia, nella regione dell’Arcadia, zona divenuta mitica nella cultura europea, sito dell’ideale vita campestre, amena e pastorale. Gli Scipioni lo vollero in casa loro, e divenne precettore dei giovani di casa, in particolare di Emiliano, figlio naturale del console Paolo Emilio vincitore di Perseo a Pidna, e nipote adottivo di Scipione l’Africano. Secondo l’uso romano dell’adozione, il suo nome da Emilio divenne Emiliano, ed entrava a far parte dell’onomastica del giovane, che quindi fu Publio Cornelio Scipione Emiliano. Egli conquistò Cartagine e la distrusse nel 146 a.C. , e sul sito fece spargere il sale a significare che nulla più avrebbe dovuto nascere là. E Polibio era presente, e ci riferisce che il suo giovane allievo, invece di festeggiare, pianse. Alla domanda di Polibio rispose: “Piango questa città così importante ed ora distrutta. E penso a Roma, e mi angoscia il pensiero che possa finire così anche lei!”. Ed allora divenne l’Africano Minore, essendo il nonno adottivo l’Africano Maggiore: junior e senior. Ed Emiliano fu l’animatore del circolo culturale, che diede un potente impulso alla cultura romana, che evolvette nelle tematiche e nella lingua, sotto il magistero della Grecia. Polibio in primis.
La Costituzione romana secondo Polibio è perfetta, e garantisce la stabilità politica necessaria alla formazione di un grande impero. Non sembri strano questo tifare di Polibio per un grande impero, che era stato vagheggiato ormai per secoli, un impero che, unendo tutti i popoli rivieraschi del Mediterraneo, fondasse il regno della pace. Alessandro Magno era stato quello che più di tutti l’aveva fatto intravvedere, ma era morto troppo presto, che l’opera non era ancora ultimata. I romani – dice Polibio – mettono in equilibrio reciproco le tre forme PURE di costituzione, le quali da sole e senza equilibrio reciproco, sono destinate a scadere nelle forme degenerative corrispondenti: così la monarchia diventa tirannide, l’aristocrazia (forma pura) abbatte la tirannide, ma dopo un po’ degenera nell’oligarchia, e questa a sua volta viene abbattuta dalla democrazia, che poi degenera nell’anarchia convulsa. Dimentichi dell’esperienza storica precedente, ci si affida all’Uomo della Provvidenza. E si ricomincia da capo. I romani hanno messo insieme le tre forme pure: i consoli ed i pretori sono come i re (monarchia), ma sono elettivi, a tempo (1 anno) e collegiali (almeno in due); il senato ha il ruolo della forma pura dell’aristocrazia, mentre i comizi popolari sono la veste romana della democrazia. Finché monarchia, aristocrazia e democrazia coesistono, tutto fila liscio. E a Roma esisteranno equilibrandosi a vicenda, lo Stato sarà stabile e potente. L’interpretazione appare affascinante e fondata, ma ha un evidente difetto dico io: la Costituzione è perfetta, e la perfezione non appartiene all’uomo. Allora è preferibile una Costituzione imperfetta, che meglio si adatta all’imperfezione umana, e questa forma si chiama democrazia, forma imperfetta e illimitatamente perfettibile. E chiedo scusa per l’intrusione personale. Polibio comincerà ad avere anche lui qualche dubbio, e lo scrive.
SPQR, Senatus PopulusQue Romanus, la famosa sigla, che ben sintetizza i primi 500 anni circa della vita politica romana: il Senato e il Popolo. In epoca monarchica (753-510) alla morte del re il Senato ed il Popolo eleggono il successore: una monarchia elettiva dunque e non ereditaria, almeno fino ai re etruschi (Tarquinio Prisco, Servio Tullio, Tarquinio il Superbo). Il popolo (la plebe) ha sempre dovuto lottare contro i privilegi dei patrizi (i discendenti dei Patres, i vecchi patriarchi dei cento clan iniziali), per strappare i propri diritti, ed il sistema ha funzionato fino alla fine della guerra annibalica (202). Poi la ricchezza ha preso il sopravvento, con la nascita del latifondismo e dell’urbanesimo: la plebe di fatto fu declassata, ed il popolo perdette di autonomia: uno dei tre pilastri, quello democratico, iniziò a perdere di forza. E Roma iniziò a traballare.
Perché Roma conquistasse l’Italia, ci vollero circa 500 anni, con una serie infinita di guerre feroci contro popolazioni irriducibili e battagliere: etruschi sanniti galli latini ed anche campani diedero ai romani tanto filo da torcere. Alla fine Roma li sottomise tutti, ma le occorsero 500 anni. E questi popoli, che tanto avevano combattuto il dominio romano, tuttavia all’arrivo di Annibale restarono per lo più fedeli a Roma, contrariamente alle attese del cartaginese, e consentirono ai romani di resistere per 16 anni, una sconfitta dopo l’altra, fino alla vittoria di Scipione a Zama. Come mai? I romani lasciavano ai popoli sottomessi larga autonomia amministrativa, imponendo pochi obblighi. Niente più politica estera, ormai prerogativa di Roma, i tributi alla capitale, le truppe in caso di bisogno. Ma poi anche strade, templi, abbellimenti di città, acquedotti, terme e vasti territori pacificati, nei quali muoversi senza problemi. Inoltre i romani evitavano l’arroganza verso i vinti, perché non escludevano affatto di poter imparare qualcosa da tutti. Poi loro magari la perfezionavano. Ed avevano cura di trovare una forma di cooptazione con i potenti locali.
I 500 anni di asperrime lotte con gli italici avevano forgiato una forza militare praticamente invincibile. Le migliaia di morti seminati in tale lungo periodo avevano fornito ai romani un’esperienza, che in oriente nemmeno potevano sognare. Ed i romani abbatterono con irrisoria facilità tutti i regni orientali e nordafricani, stendendo dappertutto l’ala della pax romana. Il dominio romano toccò la massima estensione territoriale con l’imperatore soldato Ulpio Traiano, all’inizio del II secolo d.C.
L’esercito dunque è stato un altro importante fattore dell’impero romano. Per circa 500 anni il servizio militare era sentito, più che come un dovere, come un diritto, la maniera principale per affermare il proprio status di civis romanus. La disciplina era ferrea, e l’imperium del console o del dittatore era terribile. Il console Tiberio Claudio Nerone, che si era accampato nei pressi del campo di Annibale, saputo che il duce cartaginese attendeva l’arrivo del fratello Asdrubale con un secondo esercito, lasciò nel campo alcune centinaia di uomini, con l’ordine di agitarsi, per dare ai cartaginesi la convinzione che i soldati romani fossero ancora là. Invece nottetempo li fece uscire zitti zitti, ed a tappe di circa 60 km al giorno li portò a sorprendere Asdrubale sul Metauro nelle Marche. Dopo la vittoria, a tappe rapide fece il cammino a ritroso, e, come messaggio terribile per Annibale, mandò a gettare nel campo punico la testa di Asdrubale. Era l’episodio che invertiva l’inerzia della guerra. Gli eserciti romani subirono delle sconfitte da parte degli schiavi guidati da Spartaco. Assunse il comando Licinio Crasso, che mise in fila i suoi uomini e ne fece uccidere uno ogni dieci: era la decimazione, con la promessa di fare peggio, in caso di ulteriore sconfitta. Disciplina ferrea e tremenda.
Altro fattore di forza era la ferrea logica che presiedeva alle decisioni. Annibale aveva nelle sue mani diecimila soldati romani, dei quali chiese il riscatto. In senato si disse che, se il riscatto conveniva ad Annibale, non conveniva ai romani. Quindi che li uccidesse pure. Ma non ne ebbe l’animo. Ed il riflesso tuttora tangibile della logica ferrea lo si coglie nella lingua, un modo di esprimersi quasi da computer. Noi diciamo: “Potremmo fare una gita.”. I romani dicevano: “Possiamo fare una gita.”. Insomma o si può o non si può: potremmo non ha senso. Una lingua concreta, direi ancorata al mondo. Cicerone diceva: “Quando io ero console”, e non “Durante il mio consolato”, dato che ‘consolato’ è una astrazione. E Polibio dice che i romani, quando si ficcano in testa di fare una cosa, la fanno, non illudersi che rinuncino.
I tribuni della plebe Tiberio e Caio Gracco, e dopo di loro il tribuno Livio Druso, tentarono una riforma agraria, tesa a restituire la dignità del lavoro ai plebei, restituendo loro la libertà economica perduta con l’urbanesimo. Ma andarono a toccare interessi ormai troppo grandi e consolidati, e quindi morirono di morte violenta: era l’inizio del tramonto. Lo storico Tito Livio, di epoca augustea, dice che è incredibile la rapidità con cui Roma ha sottomesso l’intero mondo allora conosciuto, una crescita di potenza sotto il cui peso l’intero edificio inizia a scricchiolare. Le disuguaglianze economiche avevano scavato un solco largo e profondo tra classe dirigente e popolo. E questo cominciò a sognare l’Uomo Carismatico, che si chiamò imperatore, un sistema prossimo allo Stato Etico, che tutto cristallizzò, in un crepuscolo in apparenza senza fine e dorato all’inizio, a partire da una crisi demografica cronica, di cui si rese conto Augusto per primo, e che invano cercò di guarire. Una crisi demografica cronica di un popolo, per perdita di identità nebulosità del futuro difficoltà del presente, è il lento suicidio di massa di quel popolo. Si crea un vuoto di popolazione, e, come nei vasi comunicanti si sposta l’acqua, così nei territori si trasferiscono le persone. Quando i barbari arrivarono, trovarono un fragile guscio vuoto, in apparenza integro, ma ormai senza difese. Non sono state le invasioni a demolire l’impero, ma questo era già svuotato dal suo interno a dispetto delle apparenze. E per i barbari fu facile.
Virgilio al tempo di Augusto indicava ai romani il destino che loro competeva: “Parcere subiectis, debellare superbos”, comprensione per i sottomessi, punizione per i superbi. Cento anni dopo, Tacito scriveva: “Fanno il deserto [i romani], e lo chiamano pace.”. Ma straordinaria è l’eredità di valori che ci hanno lasciato, che sarebbe salvifico riscoprire nella nostra epoca così disorientata: “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”, diceva Terenzio. Sono un uomo, e nulla di ciò che tocca un altro uomo lo ritengo a me estraneo. E’ l’humanitas, l’antidoto al vitello d’oro, cioè il dio profitto uno e quattrino, il PIL, e ai valori dell’humanitas sarebbe necessario educare i nostri giovani, nella prospettiva di un nuovo e urgente umanesimo. Nuccio Ordine, professore emerito, ha scritto un prezioso volumetto, “L’utilità dell’inutile”, dove l’inutile sarebbero le materie umanistiche, secondo alcuni. E vi si dice che, se il criterio di giudizio si impernia sull’utile, allora in una nostra casa lo spazio più importante è il cesso. Come per Ferreri ne “La grande abbuffata”.
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