Tumgik
#nella mia estate di insofferenza era
deathshallbenomore · 2 years
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gli amici di una persona tutto sommato socievole e che ama la compagnia ma che - anche dovendo fare di necessità virtù - ha imparato ad apprezzare la notevole quantità di tempo passato in solitudine essere come ‘ci siamo fatti i cazzi nostri per settimane se non mesi, ma ora vogliamo ritrovarci per aggiornarci e raccontarci cose e pianificare di vederci probabilmente proprio quando per te potrebbe essere un problema e NON TI LASCEREMO SFUGGIRE :)’
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haavei-lla · 3 years
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Finalmente sta arrivando l'autunno.
Tra ieri ed oggi ci sono state delle piogge particolarmente intense, con un forte vento insistente che ha spazzato via quel poco che rimaneva ancora del ricordo dell'estate afosa che sta concludendosi.
E devo dire che ne sono veramente felice.
Seppur io sia nata in piena estate, sotto il buon augurio dei regali raggi del Sole, non sono mai stata amante dell'estate. Ricordo però con piacere l'estate della mia infanzia, quando ero un bambina spensierata che correva nel cortile dietro casa dei nonni, in campagna, dove non si superavano i 30°C e il caldo era secco, senza umidità, piacevole, con quella splendida brezza che ti inebriava con tutti i profumi di una stagione vivace e piena di vita.
Tuttavia, da tanti anni a questa parte, l'estate l'ho alquanto ripudiata, e anche il colorito della mia carnagione è testimone di questa mia insofferenza e avversione.
A volte mi manca quella piccola bambina... Ero così piena di gioia e fiduciosa nella vita, nel futuro... Eppure eccomi qua, sola e ancora con nulla in tasca, se non qualche euro che tengo gelosamente da parte per ricaricare la chiavetta delle macchinette e potermi prendere un caffé all'università, ogni tanto.
Poi la solitudine... chi avrebbe mai immaginato che sarei stata così sola, da adulta? Nonostante ciò, però, devo dire che ho imparato a convivere con questa solitudine, anzi, è come se in questi ultimi due anni mi sia creata una comfort zone, con una mia routine e con i miei riti, unici e personali.
Ho cercato diverse volte di darmi un'opportunità con altre persone ed è stato molto interessante osservare quanto io sia cambiata rispetto al passato: inevitabilmente, di pari passo con la mia crescita personale, ho innalzato anche l'asticella delle aspettative/richieste, dove sono riuscita a dare un'occasione a solo un paio di persone di avvicinarsi a me e guadagnarsi la mia fiducia. Peccato che queste persone sbagliarono nei miei confronti, le perdonai, sbagliarono nuovamente, e con rispetto e totale franchezza, ci chiusi. Senza accusare, senza prostrarmi ai loro piedi, senza forzare. Sebbene ci abbia sofferto, ero fiera di me. Avevo sviluppato e accresciuto l'"amor proprio", dettato dall'introspezione e raziocinio che mi hanno aiutata a sbarazzarmi di coloro che invece di donarmi serenità, si nutrivano delle mie energie e mi mettevano perennemente in discussione.
Questo mio essere selettiva mi è costato caro, infatti, perché mi ha portata alla solitudine. Ma d'altra parte non mi dispiace, perché se devo creare un qualcosa con una persona dal punto di vista affettivo, pretendo che quella persona sia corretta con me. Siamo comunque umani, sbagliamo, e dobbiamo perdonare l'altro, sempre in base alla gravità del gesto. Ma lessi tempo fa una frase che diceva "Se ti fa male una volta, è colpa sua; se ti fa male una seconda volta, allora è colpa tua". Il concetto è chiaro, perché se una persona continua a farti del male, è perché tu gliel'hai permesso. Questa frase è delicata da analizzare, perché in realtà io l'avrei messa giù diversamente: se una persona ti manca di rispetto, nei limiti accettabili per un perdono di tale condotta, è giusto imporsi, spiegare all'altro dove ha sbagliato e pretendere che ciò non accada più; una volta che un medesimo episodio si verificasse nuovamente, non incolperei la persona perché ha perdonato quel primo episodio, ma mi allarmerei nel vedere che continua, imperterrita, a perdonare. Penso che quella frase intendesse proprio questo: è giusto perdonare se succede un qualcosa che vale la pena di essere perdonato, poiché non è gravissimo ma è rimediabile, però dev'essere l'ultimo e unico perdono che bisogna concedere. Se si continua a perdonare ed accettare, non solo l'altra persona continua a mancare di rispetto, ma anche chi accetta si manca di rispetto a sua volta.
Ed è proprio questa la mia ideologia, in qualsiasi tipo di rapporto, dal piano affettivo al piano lavorativo.
Da quando ho adottato questo atteggiamento, nella mia vita si sono ridotti drasticamente i "drammi", vivo più serena e vado a dormire tranquilla, senza ansia o preoccupazioni.
Eppure, la cosa che mi sorprende sempre di più ultimamente è che non riesco a trovare qualcuno che scateni in me quel qualcosa, che mi prenda, mi spiazzi e che mi lasci lì, inerte, di fronte a cotanta unicità e splendore. Purtroppo mi rendo sempre più conto che coloro che ho avuto modo di conoscere fino ad ora non scatenavano nulla in me, nessuna curiosità, nessuna ammirazione. Tendenzialmente, tutti indossano una maschera che dà loro un ché di diverso, ma poi, nel giro di poco tempo, si mostrano per quanto siano piatti ed impersonali, come individui. E non capisco perché, sembrano tutti fatti con lo stampino, tutti amanti del calcio, che trascorrono le serate a fare aperitivo con gli amici e dipendenti dai social (ovviamente sto tirando in ballo il popolo maschile, che è quello che più mi ha fatta dannare). Ormai individui prevedibili, per me.
Ma qualcuno che abbia quel qualcosa in più, capace di prendermi e di mettere sottosopra la mia visione delle vita e delle cose, no...
Però sarebbe davvero fantastico. Incontrare quel qualcuno capace di scombussolare tutto, anche me stessa.
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giancarlonicoli · 3 years
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1 gen 2021 11:00
“IO PORTAVO I TURISTI A VEDERE L'ISOLA DELLE ROSE. MA NON HO MAI VISTO FESTE, GENTE BALLARE E BAR COME NEL FILM SU NETFLIX” - MASSIMO FRANCHINI, CHE ERA UN RAGAZZO NEL ’67 QUANDO INIZIÒ L’AVVENTURA DELLA REPUBBLICA ESPERANTISTA AL LARGO DI RIMINI, STRONCA IL FILM DI SIBILIA - “ERANO ANNI SFRENATI, UNA FOLLIA COME QUELLA CI POTEVA STARE. E AVEVA CREATO UN INDOTTO” - SI PARLAVA ANCHE DI UNA STAZIONE DI RIFORNIMENTO PER LE BARCHE, CON CARBURANTE ALLEGGERITO DAL PESO DELLE ACCISE, VOCE QUEST'ULTIMA CHE NON È STATA DEL TUTTO SMENTITA… - VIDEO
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Fabio Pozzo per "la Stampa"
«Io portavo i turisti a vedere l' Isola delle Rose. Ma non ho mai visto feste, gente ballare come nel film su Netflix». Massimo Franchini è un architetto navale, figlio del maestro d' ascia Michele detto Guido, quest' ultimo tra i pionieri della nautica sull' Adriatico, che apre nel 1945 il suo primo cantiere a Riccione. Scali che sono poi portati avanti dalle stesso Massimo, che dagli Anni Ottanta in poi li traghetta dall' artigianalità all' industria. Il padre, giusto per tornare indietro, inventa la «motonave», un barcone nato per portare a spasso i turisti lungo la costa romagnola degli Anni Sessanta. «La prima era stata Marinella, che era il nome di una mia cugina. Arrivavi a portare 80-100 turisti alla volta», ricorda Franchini. E «Marinelle», a Riccione, sono diventate tutte le motonavi di quel genere.
La digressione ci porta proprio al 1967, quando inizia a sorgere l' Isola delle Rose, al largo di Rimini, l' intuizione dell' ingegnere Giorgio Rosa, che vi istituì uno «Stato», la Repubblica Esperantista dell' Isola delle Rose, lingua ufficiale l' esperanto, francobolli, una moneta mai battuta, bandiera, governo e inno, una sorta di «bug» nelle maglie dello Stato italiano (ma era oltre le acque territoriali), che quest' ultimo tollererà fino ad un certo punto, tanto da poi far intervenire gli incursori per demolirla. Una bella storia che è tornata a galla di recente con il film L' incredibile storia dell' Isola delle Rose, in onda sulla piattaforma Netflix.
«Era il 1967, ero un ragazzo e lavoravo come mozzo sulla motonave costruita da mio padre, la Marinella, durante la stagione estiva. Ogni giorno, intorno alle 10,30-11, salpavamo dal porto di Riccione per portare i turisti a vedere l' Isola delle Rose. Era una bella uscita, piuttosto lunga, perché l' isola era a circa 6 miglia da Rimini, ma da Riccione il percorso si allungava: una navigazione di 10-12 miglia ad andare e altrettante a tornare. Tanto che arrivavamo con i passeggeri che avevano lo stomaco in subbuglio».
Nell' estate del 1967 c' era poco da vedere, però. «C' erano gli operai che lavoravano, non ho mai visto altri. Ma funzionava. L' Isola incuriosiva, era un richiamo turistico».
L' anno seguente, meglio ancora. «L' Isola era costruita, ma io non ci ho mai visto molta gente sopra. Poche persone, che mi sembravano un po' dei reclusi».
Nel film di Netflix si ricostruiscono feste, musica, balli, tante barche attraccate o ancorate intorno. «No, mai visto nulla del genere. Mai visto nemmeno l' ombra di un bar, come appare invece nel film.
Però, ripeto, alle tedesche in bikini piaceva l' idea. C' era anche un' altra motonave che faceva un servizio simile al nostro da Rimini».
Due stagioni, dura l' Isola delle Rose. Nel febbraio 1969 è fatta saltare con cariche esplosive dai militari. Rosa e il suo governo vanno in esilio, l' utopia rientra, anche se la sua storia sopravvive. Ci si interroga sulle reali intenzioni di Giorgio Rosa, che voleva fare dell' Isola? «A Riccione si parlava dell' ipotesi di un casinò. Ma ciò valeva un po' per tutte le località della costa.
Quelli erano anni pazzeschi, dove nonostante l' ingessatura burocratica, sembrava che fosse tutto possibile, realizzabile.
Così, dell' Isola delle Rose si diceva anche che avrebbe ospitato una radio libera, tipo quelle inglesi, alla Radio Essex. E poi c' era sempre qualcuno che se ne usciva dicendo che ci doveva essere un "giro di donne", che in Romagna non può mai mancare».
Si parlava anche di una stazione di rifornimento per le barche, con carburante alleggerito dal peso delle accise, voce quest' ultima che lo stesso Rosa non ha mai del tutto smentito.
«Quel che posso dire è che a terra nessuno s' era mai scandalizzato, oppure aveva preso l' Isola delle Rose per una minaccia, tipo la Cuba dell' Adriatico, i sovietici o che altro. Tanto che quando fu demolita in tanti ne presero le difese, amministrazioni incluse».
Franchini insiste ancora sul clima di quegli anni, della Romagna lanciata a cento all' ora nella nuova era del turismo.
«Ripeto, tutto era possibile.
Andavamo a mille, a chi mi chiedeva quando mai dormissi, rispondevo che lo avrei fatto a ottobre, novembre. Erano anni sfrenati, dove anche una follia come l' Isola delle Rose ci poteva stare. Fermo restando che l' Isola aveva creato un indotto, le potenzialità c' erano, e questo per gente abituata a trasformare tutto in business non era male».
Veniamo ancora al film su Netflix. «È carino, ricostruisce l' atmosfera di quei tempi, anche se l' ha butta un po' troppo in caciara, marcando gli stereotipi del romagnolo. La storia dell' Isola delle Rose è un po' romanzata. Diciamo che il libro precedente di Walter Veltroni ( L' Isola delle Rose", Rizzoli) è un po' più aderente agli aspetti storici e documentali, anche se poi indulge troppo sulla retorica del' 68 e del giovanilismo».
Franchini si è fatto una sua idea, su Giorgio Rosa e la sua Isola. «Era un ingegnere, aveva costruito un' opera che non aveva uguali. Probabilmente, aveva anche una vena di stravaganza e di follia dalla sua.
Ma questo era normale in quegli anni. Da noi, in Romagna, se non eri un po' matto non ti davano la cittadinanza. Quindi, probabilmente l' ingegnere è partito con un intento commerciale e poi l' idea gli ha preso la mano, accompagnandosi anche penso a una certa insofferenza per le resistenze che la stessa idea aveva incontrato».
Tutto era possibile, in quegli anni, anche l' impossibile.
Fino a un certo punto, perché poi l' isola è stata fatta saltata.
Resta il ricordo, che ben ha fatto Sibilia ha rinnovare col suo film. «Ho solo un rammarico, sul film. La colonna sonora. Un' occasione mancata per far rivivere la musica di allora, quelle hit bellissime».
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giancarlonicoli · 6 years
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9 lug 2018 16:49 1. DAGO FA 70: ''FINALMENTE SONO DIVENTATO GIOVANE - LA PRIMA SCOPATA? PROSTITUTE, CON PROFILATTICI SIMILE A COPERTONI DI CAMION. QUANDO SCOPAVI SENTIVI IL BATTISTRADA 2. LA FESTA DI NOZZE “ROVINATA” DALLA FEMMINISTA PIVANO – ALL’OSPEDALE CON RENATO ZERO – IN BANCA CON IL CLIENTE ENRICO NICOLETTI – LA DOCCIA DI SPUTI DEI FASCISTI – UNA MARZIANA A ROMA: LIZA MINNELLI – MAMMA E PAPA’ IN CORO: 'ABBIAMO IL FIGLIO FROCIO' 
Alessando Ferrucci per il Fatto Quotidiano
"Mica vorrà parlare dei miei 70 anni". Un po'. "Questo tipo di chiacchierate rischiano di diventare sgradevoli". Perché? "Alla fine sei costretto a stilare un bilancio della vita, e i bilanci sono sempre pesanti, tra attese iniziali e risultati finali; tra castelli di sabbia e realtà di cemento. Non quadra mai tutto", riflette Roberto D' Agostino mentre si accende un sigaro, si sistema la camicia bianca aperta quasi fino all' ombelico, si accomoda in poltrona.
Con lui i tatuaggi sono solo l' apparenza più esplicita, ultima traccia di un' esistenza giocata su note simili a un romanzo di avventura, con venature da saggio esistenziale, o satira di costume. È una sorta di rigattiere delle esperienze, le più diverse; una lavatrice assemblata senza la classica attenzione al bianco o alle tinte: non importa, va benissimo il color-Dago.
Il suo ufficio è come un quadro pop-art: Elvis è appeso al muro e suona a ogni cader di ora; la foto con Renzo Arbore, o quelle nude di Patty Pravo. Forme falliche ovunque. Santini. Falce e martello, il vecchio computer della Apple diventato un soprammobile. Una Simmenthal gigante come tavolino.
Ieri sono diventati 70.
La differenza con i 30 o i 40 anni è la consapevolezza di essere finalmente diventati giovani. E reinventarsi è l'unico modo di stupire sempre se stessi.
Quante volte ci è riuscito?
In tre o quattro casi: l' obiettivo era trovare un lavoro piacevole, costruito intorno a una passione, solo così la fatica non arriva.
Ha iniziato in banca
Entrato nel 1968, felicissimo: la certezza di mettere insieme il pranzo con la cena, e ben 16 mensilità.
Dove viveva?
A San Lorenzo, quartiere unico e proletario, ma solo prima dell' arrivo dei barbari.
I barbari, sono?
Gli studenti universitari. Lì sono cresciuto in una realtà particolare, chiusa, ci conoscevamo tutti e tutti eravamo alle prese con lo choc dei bombardamenti: i miei non andavano da Pommidoro (ristorante noto anche per Pasolini), perché il cantinone era stato un rifugio dove avvenne una carneficina. Una sorta di paesone.
Ognuno con un soprannome.
Il suo?
A 14 anni avevo gli occhiali ed ero balbuziente: mi chiamavano Quattrocchi o Tartaja.
Deriso.
Fino a quando ho pregato mia madre di portarmi dal logopedista e ho impiegato anni per risolvere il problema, o almeno arginarlo: ancora oggi dico "pissicologia".
La sua fuga dalla balbuzie?
Mi rifugiavo nelle letture e quando i libri non bastavano, "comunicavo" con i pugni.
Questione di sopravvivenza.
Il primo rapporto sessuale.
Un' impresa a metà degli anni Sessanta. Con un gruppo di amici siamo andati al Mandrione (periferia romana), dove c' erano le baracche delle prostitute, tutti armati di profilattici simili a copertoni di camion. Quando scopavi sentivi il battistrada, ma già l' idea e la vista di una donna nuda, bastavano.
Così difficile avere un rapporto?
 Dago 1965 a Londra
A bocce ferme, lo possiamo dire: l' unica rivoluzione che è diventata realtà non arrivò dalle ideologie ma dalla farmacia, dalla scienza, a partire dagli anni Settanta grazie alla pillola, e poi con il Viagra - siano sempre benedetti.
Torniamo a San Lorenzo e gli studenti
Un giorno mi fottono la 500, vado al bar da Er Patata, entro incazzato: 'Ma questi che vojono rubà a casa dei ladri?'.
E il Patata?
Affranto, risponde: 'Si sono sbagliati, scusa'. Poco dopo ritrovo l' auto.
(Scocca l' ora, Elvis canta "Hound dog")
Cosa leggeva?
Io e Paolo Zaccagnini (critico musicale), il fratello che non ho avuto, nel 1964/65, eravamo prigionieri felici dei libri della Beat Generation, il nostro manifesto di vita era l'introduzione di Fernanda Pivano a ‘’On the road’’ di Kerouac, poi fui stregato dal situazionismo e dal profetico ‘’La società dello spettacolo’’ di Guy Debord.
Come ha conosciuto Zaccagnini?
Nel 1965 frequentavamo gli stessi due posti: lo studio radiofonico di Bandiera gialla e il Piper; in particolare al Piper si è formato un gruppo di "reietti sociali", capelloni con abbigliamento considerato perfetto per il gay pride, tra cui brillavano Nicoletta (Patty Pravo), Renato (Zero) e Loredana (Bertè).
Chi era il più talentuoso?
Nessuno. Ma non per mancanza, solo perché tutto il mondo attorno a noi era lontanissimo dalla nostra sottocultura pop.
Innamorato della Pravo?
No.
Della Bertè?
Aveva le gambe più belle, uno stacco di coscia che accendeva sogni proibiti: quando entrava al Bandiera gialla gli occhi erano solo per lei.
Chi era il leader?
Paolo era trascinante, mentre io, ancora balbuziente, ballavo, tanto da finire tra i Collettoni di Rita Pavone, e poi comparsa in un paio di film di Lina Wertmüller (“Rita la zanzara”). E sempre con Paolo nel 1965, vado a Londra senza il becco di un quattrino: dormivo per terra nella sua stanza, felice.
Conosceva l' inglese?
Mi arrangiavo con un vocabolario circoscritto ai testi dei Beatles, Bob Dylan e Rolling Stones: compravo Sorrisi e Canzoni e traducevo i loro pezzi Fino al 1968 è stato un periodo felice, culturalmente effervescente, ogni giorno una sorpresa; poi dal '68 al '78, dieci anni folli, salvati solo dalla liberazione sessuale.
Il primo film porno?
A casa di un collega di banca, era organizzato con il proiettore sparato su una parete bianca; all' epoca esisteva un contrabbando di pellicole hard, visioni che riservavano dei coccoloni ormonali, mentre per scopare dovevi frequentare i gruppuscoli politici.
Il più fecondo?
Lotta continua, il migliore per promiscuità, mentre Potere Operaio era zeppo di maschietti picchiatelli. In Lotta continua alla fine comandavano le donne. Furono loro, nel 1978, al congresso di Rimini, a chiudere la baracca.
La prima volta si è sposato nel 1972.
A 24 anni con Tina Semprini. Mia madre morì a 50 anni per un tumore, mio padre, saldatore alla Breda, la pagò con un cancro al polmone. Volevo una famiglia.
Grandi festeggiamenti?
In chiesa con i familiari e serata in casa con gli amici. Bisboccia "rovinata" dalla mitica Pivano; a un certo punto, chiede silenzio: 'Ora i maschietti vanno in cucina a lavare i piatti, pulire i bicchieri, mettere a posto. Noi donne restiamo qua a chiacchierare'.
Anche Zero in cucina?
Non c' era, ma con Renato ho condiviso molto altro.
(Abbassa la testa e mostra una cicatrice sul cranio)
Cosa è successo?
Correva l’anno di grazia 1965 e correvamo di notte con la 500 di un amico. All' incrocio di via Sicilia, una precedenza non rispettata e veniamo travolti da un' altra vettura: entriamo direttamente dentro un negozio di pompe funebri.
Ci spacchiamo la testa. Sanguinanti, arriviamo in ambulanza al Policlinico e lì accade un altro incidente: io al reparto maschile mentre Renato, in pantacollant glitterato, capelli sulle scapole, lo portano dalle donne.
Roba da scenetta comica.
Urlo: 'Cosa fate! Non lo vedete che ha il cazzo?'. Gli infermieri non erano omofobi, erano davvero convinti del fascino femminile di Renato, che era bellissimo, usciva di casa vestito "normale", arrivava da me, si cambiava nel portone, e prendevamo la circolare direzione Piper.
Matrimonio finito per?
Anche per eccessi sessuali: allora è successo di tutto.
Vuol dire?
Totale sregolatezza, comprese le droghe di qualsiasi tipo: c' erano persone che tornavano dall' India con le palline di oppio in tasca, i finanzieri neanche capivano.
In banca come la guardavano?
L' agenzia era a Centocelle, quartiere inzeppato di immigrati del sud; dopo un anno si erano abituati alle mie stravaganze, compresi i capelli lunghi; l' unico accenno di aperta insofferenza, per gli zoccoli olandesi: troppo rumore.
In quegli anni a Centocelle viveva Enrico Nicoletti, poi cassiere della Banda della Magliana.
Lo conoscevo benissimo, in teoria aveva una concessionaria d' auto, in realtà prestava soldi a chi non otteneva fidi dalla banca: uscivano da me con un "no" e si rifugiavano da lui che staccava assegni.
Tipo losco
Simpatico, come capita spesso ai delinquenti. Un giorno lo accompagno nel caveau: 'Come mai hai due pareti di cassette di sicurezza?'. E lui: 'Apri'. Obbedisco, e mi ritrovo davanti a una distesa di sterline oro: unica valuta non tracciabile.
Vero professionista.
Ribadisco, uno simpatico e con regole: una mattina ero allo sportello, servivo un cliente, arriva il figlio, mi interrompe. 'Un attimo e ti do retta'. Il ragazzo inizia a insultarmi e Nicoletti parte con due schiaffoni al figlio: 'Porta rispetto'.
Nicoletti è stato carabiniere.
L' ho visto accompagnato da un generale dell' Arma tutto impennacchiato: 'Ti hanno arrestato?' 'È il mio autista'. Così nessuno lo fermava.
Passo indietro: Bandiera Gialla. Lei ha dichiarato: "Arbore non si tocca, un mito, mentre con Boncompagni non ho mai legato troppo".
A quei tempi Gianni era già straordinario e forse noi sbarbatelli gli risultavamo noiosi, fragili culturalmente; è andata meglio quando a metà degli anni Ottanta ho partecipato alle sue Domenica In: ero cresciuto e abbiamo legato.
Si sente un numero uno?
In assoluto no, però in alcune occasioni ho dimostrato coraggio e incoscienza, specialmente nel 1978 quando mi sono licenziato dalla banca. Avevo tutti contro, sa il posto fisso…
Partecipò all' Estate romana dell' allora assessore Nicolini
Renato è stato fondamentale per uscire da quegli anni Settanta di paura e morte, dove la gente la sera restava in casa, atterrita da pallottole volanti e scontri con la polizia.
Ha permesso ai romani di riconciliarsi attraverso la cultura: sola e unica politica.
Ha sentito la paura?
Una mattina, con l' eskimo d' ordinanza, passo in piazzale Clodio e vedo uscire dal tribunale un gruppo di fascisti. Non scappo, tranquillo della presenza delle forze dell' ordine. Col cazzo. Mi circondano e iniziano a sputarmi, uno schifo non descrivibile.
Partecipava alle manifestazioni?
Una volta con mia moglie Tina per scappare dalle cariche e dalle molotov in piazza Santa Maria Maggiore ci rifugiamo con altri compagni all' interno dell' Upim; fuori ci aspettavano i celerini, mia moglie era disperata, 'ti buttano fuori dalla banca', così prendo al volo un completo grigio, entro nel camerino, lo indosso, pago. Esco. Sembravo davvero un bancario.
Si ritiene sopravvissuto?
Solo uno che ha vissuto, con i suoi errori, e con la fortuna di essere nato nel 1948 e di aver goduto di decenni fantastici, compresa l' attuale rivoluzione digitale.
I suoi anni Ottanta
Grazie a Quelli della notte, sono entrato nei famosi salotti romani, ho iniziato a frequentare persone in grado di maciullarti con una sola battuta, personalità come Ettore Scola o Paolo Villaggio, Sergio Corbucci e Achille Bonito Oliva. La prima regola? Dissacrare il banale e la retorica.
Sempre, chiunque.
Una sera arriva Liza Minnelli, girava a Roma un film e doveva restare in città almeno tre mesi. Finita la cena le chiediamo di cantare, lei ci rivolge uno sguardo semi-schifato. Torna qualche giorno dopo, stessa scena. Alla terza cede, va al pianoforte e intona qualche pezzo.
Scalpo ottenuto
Dalla volta successiva inizia a cantare a ripetizione, e noi pronti a sciabolare cinismo: 'Che palle, questa ricomincia, vedi, ora fa ‘Money Money’, non c' è nulla in Tv?'; quando Scola appariva sulla soglia del salotto di Irene Ghergo, esclamava: 'Deve essere stata davvero un’impresa mettere insieme tanta brutta gente'. E tra i presenti c' erano Alberto Moravia, i Rosi, Ruggero Guarini, Dario Bellezza, ecc.
Quanti anni ha impiegato per sentirsi a suo agio?
Avevano una cultura strepitosa: uno come Federico Fellini mi intimoriva, così come Enrico Lucherini o Sergio Corbucci.
Corbucci non amava Sergio Leone.
Rivali di spaghetti western. L' aveva soprannominato: "Francis Ford Caccola". Ma le cene erano battaglie: chi partecipava si preparava a casa con aneddoti e battute, non si andava impreparati, mangiare era un optional.
Lei timido
Da trentenne, da adulto solo con Alberto Arbasino e Federico Zeri.
Insieme a Zeri ha scritto un libro.
Un lavoro di sei mesi, e vivere con lui è stata un' esperienza non replicabile. Un genio. Magari parlava in inglese, la barzelletta in tedesco, la battutina in francese, la calata in romanesco.
Quanto ha lottato con la calvizie?
Colpa dei capelli verticali.
Eh?
Fine anni Settanta, parto per New York, dovevo assolutamente vedere lo Studio54 – all’epoca era come il Colosseo a Roma. Ci riesco. E incontro John Sex (performer) con il suo grattacielo tricologico, un fantastico monumento al pidocchio selvaggio.
Un' illuminazione.
Per anni ho mantenuto la stessa acconciatura e con degli sforzi improbi, coadiuvati dalla lacca Cielo Alto. Potentissima. Dopo il buco dell’ozono, ha bucato pure il cervello. E per mantenere la forma dormivo con i piedi fuori dal letto.
Una mandrakata.
Quando mi rendo conto di non poter più tamponare il crollo, mi affido a un guru statunitense. Arrivo nel suo studio romano e scopro che è pelato. Ohiboh.
Si presenta il figlio, anche lui calvo. Altro boh. Ma il meglio è stata la moglie: aveva quattro capelli in testa!
Se n' è andato
No, ho provato lo stesso, mi hanno spalmato in testa dei prodotti osceni e puzzolenti; alzo la testa e accanto a me c' era Federico Fellini, un genio tormentato dal boccolo in caduta libera.
Del gruppo anni Sessanta, chi frequenta ancora?
Sono legato a tutti, insieme abbiamo attraversato l' ostilità della società: quegli anni valgono più di un grado di parentela. (Si ferma, sorride) Con Paolo sono stato cacciato di casa.
Per cosa?
Nel 1967 andiamo al concerto dei Rolling Stones e restiamo folgorati dall' abbigliamento di Brian Jones: pelliccia di lupo e scarpine rosa.
Impossibile non imitarlo.
Torno a casa, apro l' armadio di mamma e le prendo una orribile pelliccia di astrakan, lastricata di vermoni pelosi; Paolo fa lo stesso, con un visone. Usciamo, direzione Piper. Al ritorno trovo i miei sul balcone e in lacrime hanno sentenziato: 'Abbiamo il figlio frocio'.
Negli anni le hanno dato spesso del gay.
In particolare ai tempi di Quelli della notte. Non mi andava di salire in cattedra con tanto di bacchetta a giudicare il look degli altri. Ero il primo a mettermi in gioco.
Si piace?
Se mi piacessi intellettualmente, raggiungerei il massimo dell' imbecillità.
(Sulla parete ha affisso al neon una frase dei Nirvana: "Nessuno muore vergine, la vita fotte tutti". Auguri)
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