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#non era quello che le aveva parate tutte al mondiale???
buscandoelparaiso · 1 year
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tulipsletter · 5 years
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𝐑𝐀𝐍𝐃𝐄𝐙 𝐕𝐎𝐔𝐒 𝐖𝐈𝐓𝐇 𝐀 𝐒𝐔𝐍𝐅𝐋𝐎𝐖𝐄𝐑
( 𝐌𝐚𝐫𝐜𝐡 𝟐𝟎𝐭𝐡, 𝟐𝟎𝟏𝟑 / 𝐅𝐨𝐫𝐭 𝐈𝐫𝐰𝐢𝐧, 𝐂𝐀, 𝐔𝐒𝐀 )   𝙲𝙷𝙰𝙿𝚃𝙴𝚁 𝟷
Sospesa a metri d’altezza, piedi nudi su una trave sottile che giungeva due burroni. Sotto di me? Il vuoto. Questo perlomeno era ciò che sentivo in quell’istante. Non ero pronta, non ero sicura e mi sarei buttata pur di non vivere quella dannata agonia un secondo di più. I miei sogni, i miei progetti, il lavoro di una vita frantumato in finissima sabbia che mi sfuggiva dalle mani. Presi un profondo respiro, ticchettando con le unghie sul rivestimento del volante. Probabilmente ero in quella macchina da una mezz’ora bella e buona; a sedici anni mi sono ritrovata una Ford Focus burgundy del 2012 nel garage, nonostante non fosse la prima auto che guidai. Se dovessi fare un rewind della mia vita lo troverei a dir poco caotico, eppure ogni cosa che facevo non mi dava mai quel senso di completezza che tanto si brama quando si è giovani. Avrei mai raggiunto la vetta e ammirato quel panorama di cui tutti parlano? Ma soprattutto, ero sicura di avere le forze per farlo? Mio padre, fedele soldato del Governo, mi ha cresciuta raccontandomi le storie degli eroi di guerra che avevano combattuto al suo fianco, romanzando il tutto in un contesto da favola, quando ero ancora troppo piccola per capire.  Mia madre... beh, mia madre ha sempre qualcosa da fare. Per anni ha fatto la modella, acclamata da numerosi sguardi che ne declamavano la bellezza, poi ha lavorato nell'edilizia, cosicché potesse sfoggiare le sue doti da architetto ed esternare la sua innata energia creativa. Suona il pianoforte, il violino, la chitarra ed ancora non so cosa non sia in grado di fare. Sapevo poco del suo lavoro a quei tempi, lo stretto necessario perlomeno. Da piccola cantava per i cori della della parrocchia sviluppando l'orecchio assoluto. Eppure, nonostante da fuori la nostra potesse sembrare una vita in cui il lavoro ed il benestare fosse il fulcro del tutto, la famiglia ne era il vero nocciolo. Molti dicono che con i figli si allenta l'attenzione sul lavoro, però a mio padre avvenne il processo inverso. Mamma disse che nell'istante in cui sono entrata nella loro vita il suo senso di dovere, di protezione della vita umana stessa incrementò esponenzialmente.  Si arruolò da giovane, il che gli ha fatto passare più notti fuori dal proprio paese con l'odore di salnitro sotto le unghie che a casa. Con gli anni di servizio vennero le medaglie ed onorificenze, decantato da battaglioni, brigate ed intere divisioni. Da primo tenente divenne capitano, poi maggiore fino a al grado il colonnello del proprio reggimento nel 1988. Conobbe mia madre l'anno seguente nel mentre viaggiava di paese in paese per contro della NSA, National Security Agency, di cui sarebbe diventato direttore nel 2006. Si trovava a Cipro per indagare sul traffico di armi russe in Turchia. Non mi hanno mai raccontato molto a riguardo, so solo che passare una notte con mia madre gli è costato un container di prove contro l’ennesimo colpo di estremismo islamico. Ma vivere sotto copertura voleva dire vivere una vita non propria e mio padre aveva bisogno di crearsene una; un frammento di serenità in cui rifugiarsi con le spalle doloranti e che ti possa accarezzare quella schiena tesa dal dovere e dal sacrificio per un bene più intimo: il nostro.  Se ero fiera di lui? Era il mio eroe, non per le vite che salvava ma per il mondo che cercava di ripulire sotto i miei piedi. Per me, per mamma, per i suoi futuri nipoti e per tutti. Fosse stato per lui ne avrebbe levato ogni macchia fino a non sentire più i polsi dalla stanchezza.  Siamo umani, sbagliamo, cadiamo e spesso non sappiamo neppure accettarlo perché l'idea di poter sfregiare le nostre speranze ci terrorizza. Ma aggrapparsi ad una speranza vuol dire aver fede; io ho deciso di aggrapparmi alle mie forze, avendo fede di averne un briciolo di riserva in qualsiasi cedimento.  Non sono mai stata il tipo che corre dai genitori con le ginocchia sbucciate da una caduta in bici... il che mi ricorda quella discesa ripida che feci da piccola, col cuore in gola e il brivido di sentirmi un'aquila di cristallo pronta a frantumarsi alla prima caduta. Mi rialzai, avevo palmi graffiati e mi ripulii con la maglietta ed un po' di saliva. Con gli anni quel mio essere spericolata divenne più controllato, quasi un accendere l'interruttore all'istinto a mio piacimento. Mio padre mi insegnò la disciplina nella lotta corpo a corpo in quinta elementare, portandomi di nascosto nella palestra interrata lontano dallo sguardo della moglie contraria. Lei nel mentre mi insegnava il pianoforte, trovando in quell'attimo una connessione creativa con me. 
                                                        ***
Ma il lavoro non veniva mai prima della famiglia, perché era quello il nostro primo dovere. Questo è il nostro primo dovere.
Con queste parole nella testa spensi il quadro della macchina, uscii e la chiusi a chiave. Il caldo di marzo aveva portato un'afa leggera a Fort Irwin. Mi sbottonai la camicia a scacchi rossi e neri per legarla sui fianchi, rimanendo solo con la canotta grigiastra ed un paio di shorts neri. Mi ero curata di indossare un paio di anfibi muschiati, sapendo che le strade fossero piene di ciottoli e non sterrate del tutto. Per prudenza avevo anche sostato in un parcheggio lontano, sperando di non dare troppo nell'occhio una volta dentro il campo, nonostante la voce sarebbe comunque girovagata in men che non si dica. Una bella camminata mi sarebbe stata solo che di aiuto in quel momento. Oltre il cartello di benvenuto al centro di addestramento vi era il Front Gate, un cancello che proteggeva il campo fedelmente con la sua immensa mole e una robustezza rinnovata di anno in anno. Mi avvicinai e presi un profondo respiro, ma in un certo senso sentivo ancora quel formicolio sulla bocca dello stomaco; pensavo che fosse come per la prima volta che oltrepassai quel confine. Due coppie militari di pattuglia reggevano l'arma sottobraccio e mi osservavano fino a che non fui a pochi passi da loro. « Riposo » dissi decisa per dispensarli dalla posizione di attenti, sorrisi poco dopo riconoscendoli tutti uno ad uno. Il più giovane era Jonathan, noto a tutti come BigCargo per via della sua stazza fuori dalla norma. E pensare che aveva solo ventun’anni.  Portò il piede sinistro di scatto un poco più avanti, battendolo energicamente al suolo; le mani dietro ai reni, l'una nell'altra. Durante parate o cerimonie si mantiene assoluto silenzio. Lui lo fece con me scherzosamente, fino a scoppiare in una fragorosa risata poco dopo. « Smettila di fare lo sbruffone con la signorina » spezzò l’atmosfera il cadetto al suo fianco, prestandosi a richiedere l'apertura del cancello. « Benvenuta a Fort Irwin, signorina Sephir » aggiunse senza lasciar trapelare alcuna emozione fuori luogo.  « Grazie mille e buona giornata, soldato. » Non mi prolungai molto con i convenevoli. Passai i diversi sistemi di controllo e finalmente potei gironzolare per conto mio. Fort Irwin era una sottospecie di Hollywood con lo scopo di forgiare i soldati del domani.  La cosa che amavo di più era la dedizione con cui ci si prestava ad ogni peculiare addestramento. Finti villaggi cominciarono a spuntare nel deserto. Il punto di queste riproduzioni architettoniche non è più, come nei villaggi di prova della seconda guerra mondiale, trovare metodi migliori o più efficienti di distruzione architettonica; questi edifici e villaggi sono usati per equipaggiare le truppe così da navigare meglio nella complessità delle strutture urbane - sia fisiche che, soprattutto, socioculturali. In altre parole, al livello più elementare, i soldati useranno i villaggi facsimili di Fort Irwin per esercitarsi nelle strutture di sgombero e navigare in vicoli non mappati e coperti attraverso le città senza chiari collegamenti via satellite. Tuttavia l'architettura è principalmente un palcoscenico per il teatro delle relazioni umane: uno sfondo per incontrare e fare amicizia con la gente del posto, controllare la folla, salvare le vittime. Il tutto viene inscenato con attori ben pagati, così da avere una simulazione perfetta - di combattimento e non - e dare ai cadetti una preparazione altrettanto tale. Lo scopo finale è l'eliminazione dei cattivi, il reggimento di Blackhorse. In parole povere, un gruppo di soldati aveva avuto in mano il copione dei cattivi. Nella serie di esercizi di addestramento sul set che si svolgono all'interno del villaggio, l'azione è coordinata dall'alto da un anello di scenografi collegati al walkie-talkie, tra cui un'ampia presenza mediatica interna, che filmano tutte le simulazioni per un successivo replay in combattimento analisi. Hai la sensazione di essere su un set di film elaborato ed estremamente dettagliato. Tentai di non essere d'intralcio a nessuno e raggiunsi il quartier generale del reggimento dopo una mezz’ora di camminata. A settecento metri dal livello del mare, un territorio di diciottomila metri quadri ospitava uno dei centri di formazione nazionale più prestigiosi. Perdersi sarebbe stato davvero facile, ma ormai quel posto era diventato - per me, sia chiaro - come una biblioteca che visitavo di anno in anno.  L'edificio di amministrazione del generale era l'unico che mostrava una certa nota di modernità. Spinsi il portone di vetro balistico ed una folata fresca mi pizzicò le braccia; mi affrettai a rimettermi la camicia e la abbottonai prima che potessi incrociare qualcuno. Avrei aspettato un'ora bella e buona, se non di più, che mio padre potesse liberarsi. All'idea il nodo allo stomaco si dissolse lentamente, così salutai coloro che incontravo nei corridoi, fino a raggiungere l'ufficio di papà... la porta perlomeno.  Mi sedetti sulla poltrona di pelle nera posta in quella sottospecie di saletta d'aspetto e richiesi alla segretaria del mio buon vecchio se potesse procurarmi una tisana. La cordialità di ogni singola persona in quel luogo era qualcosa di stupefacente. Molto probabilmente qualcuno direbbe che sul luogo di lavoro debba esserci comunque ed a prescindere, tanto quanto il rispetto d’altro canto, il che è vero e non posso negarlo. Ma con gli anni imparavo a conoscere le persone di quella fortezza, chi andava e chi veniva. In ambienti come questo ti costruisci una seconda famiglia, con la differenza che qui il regime è più ferreo ed intransigente. Ma, come in famiglia, si tentava di rendere orgoglioso chi si aveva accanto e di ricevere meriti per i sacrifici fatti, per il bene conseguito, per la sicurezza data. Sicurezza, ecco cosa mi mancava quel giorno. Io che ero sicura di tutto - per la maggior parte dei casi se non altro - quel giorno ero in balia dei venti. Avevo bisogno di lui, di mio padre.  Solo in quei momenti sentii le voci oltre la porta diventare più chiassose. Riconobbi quella di mio padre ma l'altra mi fu ancor più facile da captare. « Suo padre si è chiuso con un Tenente Colonnello in quella stanza da un paio d'ore, un Primo Sergente dell'Afghanistan. Dovrebbe finire presto se la discussione arriva a termine. » Margot, la segretaria di papà comparve e mi fece sobbalzare, distraendomi dall'assorbire il più possibile la natura del discorso. Presi la tazza dalle sue mani e le sorrisi cordialmente. Era una donna sulla quarantina: capelli biondo cenere legati in uno chignon ed impeccabile completo da ufficio ben stirato, il trucco era quasi impercettibile. Eppure rispondeva con una risata fragorosa quando riuscivi a strappargliela. Le chiesi come stesse sua figlia, sapendo quanto le illuminasse lo sguardo anche il solo poterla nominare.  Passai una mezz'oretta a dissimulare la tensione riempendola di domande, così da distrarre entrambe dall'origliare maliziosamente. Ma diciamocela tutta, chi non l’avrebbe fatto? I toni erano accesi, ma compresi ben poco nonostante ciò. Finalmente la porta si aprì ed il Tenente - un uomo di alta statura e dalle spalle larghe - ne uscì, si sistemò la cravatta e ci salutò educatamente. Dalla porta vidi sbucare mio padre, James. Aveva una mano sulla fronte e lo sguardo esausto. Tirò un sospiro di sollievo quando mi vide, sorrise appena ma si sarebbe notato il malumore anche solo standogli a dieci metri di distanza. « Entra, figliola » disse poggiandomi una mano sulle spalle per poi chiudere la porta. Ci sedemmo ed aspettai che potesse prendere un respiro per scrollarsi la tensione di dosso.  « Non mi aspettavo venissi a trovarmi. Come mai sei qui? » chiese e si distese appena sullo schienale della poltrona.  Ed eccomi lì, a diciassette anni non sapevo ancora mostrarmi vulnerabile di fronte a lui. Questo era e sarebbe stato il mio maggior problema; pur di non farmi vedere sanguinante avrei sporcato i miei stessi vestiti e nascosto le ferite, raccolto i ciocchi di fretta prima che qualcuno si voltasse per tendermi una mano.  Non riuscivo a piangere, non riuscivo ad urlare o lamentarmi del dolore. Non riuscivo a mostrarmi triste perché c'erano infinite cose di cui dovevo essere grata. Lo ero tanto che il mio dolore doveva svanire, al costo di assorbirlo nelle vene e non farlo notare a nessuno. Ma in quel momento avevo bisogno di lui, anche perché non potevo uscirne in alcun modo. Lo so, la paura di fargli del male con certe rivelazioni mi avrebbe uccisa. « Una mia amica tornava a Victorville per lo Spring Break, così ho approfittato per fare un salto dal mio vecchio e vedere se ha perso la testa qui. » Piegai il capo di lato, sospirando e sorridendo appena per quella mezza bugia. Ormai negli anni avevo imparato quando e come mentire a mio padre, seppur fossero rari i casi in cui ricorrevo a camuffare la realtà. Maggior motivo per cui avevo la sua fiducia.  Così presi la saggia decisione di rimandare la conversazione a quando sarebbe tornato a casa il weekend, in questo modo potevo aiutarlo a metter ordine nell'ufficio prima della riunione con gli altri capi al settimo piano.  Non fatemene una colpa, non ero pronta a parlarne con lui. Forse non ero nemmeno pronta io ad accettare gli avvenimenti dei giorni seguenti, forse ancora non avevo realizzato. « Che aveva il Tenente? Sembrava su tutte le furie » commentai rigirandomi i moduli di ammissione dei soldati prescelti per il torneo primaverile, curiosando di tanto in tanto nel mentre li sistemavo in ordine alfabetico. « Vuole lasciare l'esercito a giugno, così può continuare i propri lucrosi affari. Non mi va di parlarne, anche perché sono felice tu sia qui e devo andare a quel meeting il prima possibile. Appena mi libero ti chiamo e fai un giro in città col tuo vecchio.  » Si mise la giacca e mi avvicinai per stirargliela con i palmi delle mani sulle spalle, era più un vizio per entrambi. Mi era mancato immensamente, soprattutto passare dei momenti in tranquillità con lui. « Allora, gli augureremo il meglio e continueremo a fare quello che facciamo. Non puoi conoscere il motivo certo, ma ognuno prende le proprie decisioni e si prende le conseguenze. Non penso sia una persona insostituibile. »  Mio padre si voltò, più sovrappensiero del solito, mi accarezzò le spalle con dolcezza e poi mi sorrise. Colsi dell'occasione per avvicinarmi ed abbracciarlo, grata di ogni istante in cui i suoi occhi mi guardavano in quel modo; non so definirlo, ma con quello sguardo capivo quando lui avesse bisogno di me. Lo sentivo sulla pelle, lo sentivo nelle ossa. Per un istante mi preoccupai e lo strinsi più forte, ma lui prontamente comprese il mio pensiero e si staccò.  « Stai tranquilla, nessuno è insostituibile per me, a parte te. Tua madre, forse. » Sghignazzò e si diresse verso la porta.  Lo lasciai andare alla riunione, anche se l'agonia di tenergli nascosta una cosa tanto importante mi rendeva nervosa, così mi affrettai a raggiungere l'uscita al piano terra. Sentii quel pugno allo stomaco risalire l'esofago e strozzarmi nell'istante in cui uscii dal portone dell'edificio. Non ressi. Mi poggiai al muro e mi tappai la bocca prendendo profondi respiri dal naso, inalando a pieni polmoni per far passare le vertigini. « Ma che cazzo, signorina. Si sente bene? » chiese un uomo in uniforme e mi raggiunse prontamente. Non risposi, deglutii ed alzai lo sguardo con la bocca tappata.  Annuii, di certo non avrei chiesto soccorso a lui, ma soprattutto non necessitavo soccorso per delle vertigini. Inspirai con calma e poggiai i palmi all'altezza dello stomaco. Sembrava essermi passata. « Sto bene, lei piuttosto come sta? Ho sentito i toni alterarsi in ufficio ai piani alti » mormorai e mi sistemai la camicia. La nausea stava passando, la sensazione di acido in bocca pure ed il dolore alla testa si alleviò nel giro di qualche minuto. Il Tenente era un uomo tremendamente di bell'aspetto che ormai aveva passato la trentina, forse ne aveva trentaquattro, dagli occhi azzurri e i capelli biondi lasciati crescere leggermente più degli altri soldati. Per una della mia età poteva perfino sembrare uscito da un sogno, ma non per me. Non mi sarei mai immischiata con colleghi di mio padre. « Beh, il Generale non è mai stato il più simpatico a cui ho prestato servizio. Lei dovrebbe stare all'ombra, non al sole, tra l'altro. » Si distanziò e notai solo allora il sigaro tra le sue dita. Lo finì aspirando in una volta quei millimetri di tabacco rimasto, non degnandomi nemmeno di uno sguardo, così mi limitai a sorpassarlo per allontanarmi dopo averlo salutato sbrigativamente; preferivo di gran lunga stare in macchina al fresco che sotto il sole a fare conversazione a stento. « Auguri e figli maschi, gloria alla famiglia Sephir che si allarga, signorina. » Nonostante i rumori dei fuoristrada, dei carri in lontananza e dei cavalli della stalla quella frase fu l'unico suono che captai al volo. Mi fermai e lo vidi in volto. Per poco non mi strozzai col mio stesso respiro nel ritrovarmelo ad un passo di distanza. Eppure, la sua voce era così familiare. Il suo sguardo era tanto familiare da farmi sentire a casa nonostante fossi a chilometri lontano da quella che definivo tale. Suonerà buffo perché per me era quasi un perfetto estraneo, eppure - nonostante io abbia frequentato battaglioni e plotoni di Fort Irwin negli anni precedenti - mi sembrava di conoscerlo. Un sesto senso? Non lo so. So solo che lo riconoscevo come quando distingui i passi di tua madre diversamente da quelli di tuo padre mentre fingi di dormire. I militari dovevano essere sempre ben curati sia a livello fisico che estetico. Era raro vedere un uomo con una barba sbarazzina o una piega in più sul proprio vestiario, le donne invece erano truccate il minimo indispensabile e portavano i capelli rigorosamente legati.  Ma il Tenente Colonnello portava un carisma a dir poco mozzafiato, incrementato dai suoi occhi azzurri capaci di ustionarti glacialmente sotto il loro sguardo. Era quella la fine che avrei fatto di lì a poco. 
_________________________________
                      𝙵𝚘𝚛𝚝 𝙼𝚎𝚊𝚍𝚎, 𝙼𝚊𝚛𝚢𝚕𝚊𝚗𝚍 (𝚄𝚂𝙰), 𝟸𝟼𝚝𝚑 𝙳𝚎𝚌𝚎𝚖𝚋𝚎𝚛 𝟸0𝟷𝟸
Una tremenda tragedia ha sconvolto molti piani qui a Fort Meade. Un nostro rinomato agente ha perso la famiglia, totalmente rasa al suolo dalle fiamme in un incendio doloso appiccato appositamente per ucciderli. Quando l’ho saputo non ho percepito più forza alle ginocchia, ho solo chiamato Carla. Mia moglie stette in silenzio alla notizia e scoppiò in un pianto singhiozzante, lancinante per me. Lo conoscevamo bene; era un amico di famiglia ed aveva provveduto a risolvere molte indagini e missioni a lui affidate. Oltre ad essere un buon agente fu uno dei soldati migliori sul campo che io abbia mai guidato, intraprendente, fedele con l’amico e spietato col nemico. L’avevano chiamato perfino l’Angelo della Morte per questo, un nome che portò due metri sotto terra tre sorelle, un padre ed una madre. In Afghanistan venne torturato in modi indicibili solo per poter ricavare informazioni logistiche e militari, informazioni che non diede fino all’ultima goccia di forza in corpo.  Eppure quella forza scomparve quando oggi bussò alla mia porta. La notizia era volata qui un’ora dopo la tragedia, lasciando nello sguardo di tutti sgomento e perplessità nel vederlo passare i corridoi con lo sguardo vitreo e i pugni stretti.  Si sedette di fronte a me, io lo guardai dall’altro lato della scrivania ed aspettai che potesse parlare; inutile dire che ci furono minuti interi di silenzio.  Parlai al suo posto. Non dissi molto, dissi che avevo saputo.  Non disse molto, disse che avrebbe bruciato loro l’anima. Si accese un sigaro e si concesse una sola lacrima. Fumai con il mio miglior Tenente.
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italianaradio · 6 years
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Anche i jeans hanno un problema di ecosostenibilità
Nuovo post su italianaradio http://www.italianaradio.it/index.php/anche-i-jeans-hanno-un-problema-di-ecosostenibilita/
Anche i jeans hanno un problema di ecosostenibilità
Anche i jeans hanno un problema di ecosostenibilità
La Levi’s Strauss dopo 35 anni è tornata sul mercato azionario di Wall Street ed è stato un successo clamoroso, così come testimonia un articolo de Il Sole 24 Ore: “I jeans Levi’s sbarcano a Wall Street e volano, aprendo a 22,22 dollari per azione, sopra i 17 dollari fissati nell’ipo, un aumento del 32 per cento”.
“Per il produttore di jeans si tratta di un ritorno a Wall Street dopo quello del 1971, a cui seguì un delisting nel 1984. L’azienda puntava a una valutazione di circa 5,8 miliardi di dollari, ora nettamente superata e stando ai valori dei primi scambi vicina ai 9 miliardi”.
Un esordio che ha ben poco a che fare con la fortuna se si pensa che la Levi’s non ha solo brevettato il tessuto come capo d’abbigliamento ma ha praticamente inventato il mercato dei jeans nel mondo.
Tutto cominciò con un sarto del Nevada, Jacob W. Davis, che aveva realizzato un paio di pantaloni in denim commissionatogli da una donna per il marito. La sollecita massaia raccomandava la massima resistenza, dato che il consorte li avrebbe indossati per spaccare la legna.
Davis allora ebbe l’idea geniale di rinforzare le giunture con dei rivetti di rame, e fu così che iniziò la storia. 
Venne allora il 20 maggio del 1873, giorno in cui Jacob Davis e Levi Strauss ottennero il brevetto per i blue jeans.
Genesi dei “Genes” e origine del termine
Questi, all’inizio non erano neanche blu; pare infatti che i primi jeans prodotti da Levi Strauss fossero di un colore marroncino cachi e che una volta terminata quella stoffa gliene fosse spedita una del classico colore blu.
In realtà la storia dei jeans era iniziata secoli prima, nel XV secolo per l’esattezza, e non negli Stati Uniti ma proprio in Italia, a Chieri vicino Torino. dove infatti si produceva un tipo di tela blu usata per coprire le merci nel porto di Genova.
Tant’è che la traduzione di Genova in francese “Genes” sarebbe all’origine della parola Jeans. E anche la parola denim non sarebbe altro che un’americanizzazione della denominazione francese “serge de Nimes”, un tessuto nato nel medioevo a Nîmes, in Francia, con cui si facevano i calzoni indossati dai marinai genovesi.
I jeans diventano famosi ed iniziano a diffondersi durante la Seconda guerra mondiale, quando i soldati Usa li indossano fuori dagli orari di servizio.
Ai tempi ancora erano considerati come abbigliamento di scarsa qualità, l’etichetta non aveva una gran considerazione per la moda e i jeans erano ben lontani dall’essere il capo d’abbigliamento che noi tutti conosciamo oggi.
Molto famoso l’aneddoto risalente alla primavera del 1951, protagonista il cantante e attore Bing Crosby.
Questi amava i jeans e li indossava abitualmente nel tempo libero. Si presentò, al termine di una battuta di caccia nei boschi della Columbia Britannica, così vestito in un hotel di lusso di Vancouver.
Il portiere obbiettò che, presentandosi in jeans, non si poteva pretendere di alloggiare in quell’albergo e fu solo grazie ad un fattorino, che aveva riconosciuto il crooner più celebre d’America, che Crosby riuscì ad ottenere ospitalità.
La voce circolò in fretta così la Levi’s spedì all’artista un intero abito su misura confezionato totalmente in denim con un’etichetta molto particolare che diceva “Tuxedo Levi’s. Attenzione: al personale di tutti gli hotel. Questa etichetta garantisce al suo portatore di essere convenientemente ricevuto e registrato, con cordialità e ospitalità, in ogni momento e in qualsiasi condizione. Rilasciato a Bing Crosby. Firmato: l’Associazione degli albergatori americani”.
Oggi quello smoking è esposto al Northeastern Nevada Museum di Elko.
Dalle parate sulla Piazza Rossa ai problemi di ecosostenibilità
I jeans dovranno aspettare qualche anno per essere sdoganati come capo d’abbigliamento per tutte le occasioni, il 1955 per l’esattezza, quando James Dean li indossa in “Gioventù Bruciata”, diventando così il capo preferito da una generazione di ragazzi pronti, una decina d’anni dopo, a rivoluzionare il mondo.
Due anni dopo, in occasione del Festival Internazionale della Gioventù e degli Studenti di Mosca, anche i russi scoprirono il denim e fu rapidissima la diffusione dei jeans anche da quelle parti.
Il capo aveva conquistato il mondo fino ad essere quello che è oggi, con un mercato nel 2023 raggiungerà i 60,09 miliardi di dollari.
Un aumento che si tradurrebbe nella vendita annuale di circa 2 miliardi di jeans, con un aumento esponenziale che arriverebbe fino al 12,1% proprio nelle zone più disagiate del mondo, prima fra tutte quella del Sudamerica.
Una crescita talmente enorme che oggi ci si pone anche un problema sulla composizione del denim e sull’ecosostenibilità del jeans.
È stato calcolato infatti che da una balla di cotone si ottengono circa 215 paia di jeans, dunque se è vero che le coltivazioni di cotone coprono 34 milioni di ettari della superficie della terra e, secondo Ethical Consumer, utilizzano il 25% degli insetticidi del mondo e il 10% dei pesticidi, possiamo dedurre che produrre jeans non è sempre sostenibile.
Tant’è che la stessa Ethical Consumer ha studiato una guida online per l’acquisto dei jeans, classificando le varie marche disponibili sul mercato in base alla loro condotta etica, e secondo questa guida le due aziende più rispettose dell’ambiente sarebbero entrambe inglesi: la Howies e la Monkee Soil Association.
La Levi’s Strauss dopo 35 anni è tornata sul mercato azionario di Wall Street ed è stato un successo clamoroso, così come testimonia un articolo de Il Sole 24 Ore: “I jeans Levi’s sbarcano a Wall Street e volano, aprendo a 22,22 dollari per azione, sopra i 17 dollari fissati nell’ipo, un aumento del 32 per cento”.
“Per il produttore di jeans si tratta di un ritorno a Wall Street dopo quello del 1971, a cui seguì un delisting nel 1984. L’azienda puntava a una valutazione di circa 5,8 miliardi di dollari, ora nettamente superata e stando ai valori dei primi scambi vicina ai 9 miliardi”.
Un esordio che ha ben poco a che fare con la fortuna se si pensa che la Levi’s non ha solo brevettato il tessuto come capo d’abbigliamento ma ha praticamente inventato il mercato dei jeans nel mondo.
Tutto cominciò con un sarto del Nevada, Jacob W. Davis, che aveva realizzato un paio di pantaloni in denim commissionatogli da una donna per il marito. La sollecita massaia raccomandava la massima resistenza, dato che il consorte li avrebbe indossati per spaccare la legna.
Davis allora ebbe l’idea geniale di rinforzare le giunture con dei rivetti di rame, e fu così che iniziò la storia. 
Venne allora il 20 maggio del 1873, giorno in cui Jacob Davis e Levi Strauss ottennero il brevetto per i blue jeans.
Genesi dei “Genes” e origine del termine
Questi, all’inizio non erano neanche blu; pare infatti che i primi jeans prodotti da Levi Strauss fossero di un colore marroncino cachi e che una volta terminata quella stoffa gliene fosse spedita una del classico colore blu.
In realtà la storia dei jeans era iniziata secoli prima, nel XV secolo per l’esattezza, e non negli Stati Uniti ma proprio in Italia, a Chieri vicino Torino. dove infatti si produceva un tipo di tela blu usata per coprire le merci nel porto di Genova.
Tant’è che la traduzione di Genova in francese “Genes” sarebbe all’origine della parola Jeans. E anche la parola denim non sarebbe altro che un’americanizzazione della denominazione francese “serge de Nimes”, un tessuto nato nel medioevo a Nîmes, in Francia, con cui si facevano i calzoni indossati dai marinai genovesi.
I jeans diventano famosi ed iniziano a diffondersi durante la Seconda guerra mondiale, quando i soldati Usa li indossano fuori dagli orari di servizio.
Ai tempi ancora erano considerati come abbigliamento di scarsa qualità, l’etichetta non aveva una gran considerazione per la moda e i jeans erano ben lontani dall’essere il capo d’abbigliamento che noi tutti conosciamo oggi.
Molto famoso l’aneddoto risalente alla primavera del 1951, protagonista il cantante e attore Bing Crosby.
Questi amava i jeans e li indossava abitualmente nel tempo libero. Si presentò, al termine di una battuta di caccia nei boschi della Columbia Britannica, così vestito in un hotel di lusso di Vancouver.
Il portiere obbiettò che, presentandosi in jeans, non si poteva pretendere di alloggiare in quell’albergo e fu solo grazie ad un fattorino, che aveva riconosciuto il crooner più celebre d’America, che Crosby riuscì ad ottenere ospitalità.
La voce circolò in fretta così la Levi’s spedì all’artista un intero abito su misura confezionato totalmente in denim con un’etichetta molto particolare che diceva “Tuxedo Levi’s. Attenzione: al personale di tutti gli hotel. Questa etichetta garantisce al suo portatore di essere convenientemente ricevuto e registrato, con cordialità e ospitalità, in ogni momento e in qualsiasi condizione. Rilasciato a Bing Crosby. Firmato: l’Associazione degli albergatori americani”.
Oggi quello smoking è esposto al Northeastern Nevada Museum di Elko.
Dalle parate sulla Piazza Rossa ai problemi di ecosostenibilità
I jeans dovranno aspettare qualche anno per essere sdoganati come capo d’abbigliamento per tutte le occasioni, il 1955 per l’esattezza, quando James Dean li indossa in “Gioventù Bruciata”, diventando così il capo preferito da una generazione di ragazzi pronti, una decina d’anni dopo, a rivoluzionare il mondo.
Due anni dopo, in occasione del Festival Internazionale della Gioventù e degli Studenti di Mosca, anche i russi scoprirono il denim e fu rapidissima la diffusione dei jeans anche da quelle parti.
Il capo aveva conquistato il mondo fino ad essere quello che è oggi, con un mercato nel 2023 raggiungerà i 60,09 miliardi di dollari.
Un aumento che si tradurrebbe nella vendita annuale di circa 2 miliardi di jeans, con un aumento esponenziale che arriverebbe fino al 12,1% proprio nelle zone più disagiate del mondo, prima fra tutte quella del Sudamerica.
Una crescita talmente enorme che oggi ci si pone anche un problema sulla composizione del denim e sull’ecosostenibilità del jeans.
È stato calcolato infatti che da una balla di cotone si ottengono circa 215 paia di jeans, dunque se è vero che le coltivazioni di cotone coprono 34 milioni di ettari della superficie della terra e, secondo Ethical Consumer, utilizzano il 25% degli insetticidi del mondo e il 10% dei pesticidi, possiamo dedurre che produrre jeans non è sempre sostenibile.
Tant’è che la stessa Ethical Consumer ha studiato una guida online per l’acquisto dei jeans, classificando le varie marche disponibili sul mercato in base alla loro condotta etica, e secondo questa guida le due aziende più rispettose dell’ambiente sarebbero entrambe inglesi: la Howies e la Monkee Soil Association.
gabriele fazio
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