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#rivoluzione passiva
rideretremando · 1 year
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LA RIVOLUZIONE PASSIVA CHE CI HA RESI TUTTI BERLUSCONIANI
Domani, 12 giugno 2023
Il 26 gennaio 1994 Silvio Berlusconi annuncia al pubblico la decisione di “scendere in campo”. Pochi in Italia credono nel suo destino politico, molti sono certi che si tratti di un fuoco fatuo. In un paese nato e cresciuto con partiti strutturati, sembra inconcepibile che un avventuriero, che ha messo in piedi un partito come fosse una catena di distribuzione alimentare, possa avere una qualche speranza di arrivare a palazzo Chigi. E si sbagliano.
Un errore che rivela quanto poca attenzione venisse prestata allora al peso del pubblico generalista da parte di chi si occupava di politica.
L’inventore della “tivù spazzatura”, com’era detta senza tanti giri di parole la televisione commerciale, aveva già fatto breccia nella mentalità degli italiani e delle italiane quando lui scese in campo. Proprio come la “Milano da bere”, che era già emblema di una società libera da “lacci e lacciuoli”, spregiudicata ed edonistica.
Homo novus in politica, Berlusconi non era un self-made man come recitavano i depliant di Forza Italia che trovavamo nelle buche delle lettere. Era parte dell’establishment della Prima repubblica, non solo perché amico personale di Bettino Craxi. Aveva ricevuto tanti favori dai politici prima che il pool di Mani Pulite guidato da Antonio di Pietro li atterrasse.
Nel 1984 la Corte costituzionale si era pronunciata per l’incostituzionalità di quello che passò alla storia come “decreto Berlusconi” che permetteva alle emittenti locali di trasmettere su tutto il territorio nazionale. Nel 1990, la legge che porta il nome del socialista Oscar Mammì codificò e regolò nel nome del nobile principio del “pluralismo” quello che era a tutti gli effetti un duopolio.
Quattro anni dopo, il Partito socialista avrebbe chiuso i battenti insieme agli alleati del “pentapartito” guidato dalla Democrazia cristiana di Arnaldo Forlnai.
La prateria d’opinione lasciata libera dai partiti era enorme e già usa al potere televisivo, quello che Giovanni Sartori avrebbe poi battezzato videocrazia. La scesa in campo del tycoon milanese era tutto fuorché un fulmine a ciel sereno e sarebbe stata tutto fuorché un fuoco fatuo.
Ciononostante, il 28 marzo 1994, giorno della vittoria elettorale di Forza Italia, rappresenta uno spartiacque. Una di quelle date che segnano, si potrebbe dire con le parole di Montesquieu, «un impercettibile passaggio da una costituzione a un’altra» pur senza alcun cambio di costituzione, perché ha effetti profondi nella vita di una società, mettendo in moto aspirazioni e timori, lotte tra «chi difende la costituzione che declina e chi porta avanti quella che sta prevalendo».
E in quelle lotte, che mai si sono spente, si formarono un nuovo linguaggio politico e nuovi leader, e vennero sconquassate generazioni e culture politiche. Berlusconi fu il Perón italiano.
Conquistò l’opinione pubblica mettendo la famiglia sul palco, la sua vita privata (costruita per la vendita del prodotto elettorale) nei depliant. Creando le condizioni per una permanente attenzione scadalistica da parte dei media che anni dopo l’avrebbe travolto. Coniando slogan tanto dirompenti quanto all’apparenza avulsi dalla realtà.
Berlusconi entrò in politica con parole di fuoco contro la partitocrazia, alla quale egli doveva molto; e contro il comunismo, che era già tramontato prima ancora della Bolognina.
Ma quegli slogan non erano avulsi dalla realtà, se si considera che Berlusconi era esterno alla classe politica (e poteva quindi tuonare contro la partitocrazia) e che l’idea di una democrazia sociale e di una responsabilità dell’economia verso il bene pubblico era ancora parte della cultura politica diffusa, che egli da liberista qual era identificava col “comunismo”. Nel linguaggio gramsciano quella di Berlusconi fu una rivoluzione passiva.
Gli slogan di Forza Italia aggredivano quella che era una mentalità resiliente. Canovacci di una politica modellata sul Colosseo, che da allora le televisioni misero in scena ogni sera: un politica del “contro” che, scrisse Alessandro Pizzorno, aveva dismesso il giudizio politico per quello estetico, morale e sentimentale, imponendo fatalmente di stare “con” o “contro”, senza mai ragionare sulle questioni sostanziali e sulle vie migliori per attuarle o respingerle. La politica della ragione pubblica era finita.
E per questo, Berlusconi determinò non solo l’identità politica sua ma anche quella dei suoi avversari, costringendoli a imitarlo per combatterlo. Perfezionò una diade identitaria di successo, usata dalla Lega di Umberto Bossi contro i meridionali e poi da Matteo Salvini contro i migranti, fino alla presidenza del Consiglio di Giorgia Meloni. “Noi” contro “loro”, dove i “loro” di Berlusconi erano i giudici, le istituzioni e chi non stava dalla sua parte, quella della libertà contro lo statalismo.
Quello schema retorico populista non sarebbe più scomparso. Avrebbe allevato generazioni di leader di partito di lotta e di governo, a destra e a sinistra. Ha visto giusto Giuliano Ferrara che nel suo Il Royal Baby. Matteo Renzi e l’Italia che vorrà, scriveva che il «teatrino della Leopolda è l’equivalente digitale del cielo azzurro di Forza Italia». Stesso stile stessa politica stesso progetto.
Ferrara scriveva nel 2015, vent’anni dopo la svolta populista dell’allora capo di Fininvest. Il cui impatto restò persistente nonostante le parentesi dei governi tecnici che, da allora e a intervalli regolari, hanno messo in stand by il populismo consentendogli di rigenerarsi invece di indebolirlo.
Il 1994 fu difficile da digerire, soprattutto per quella generazione che, emersa dall’Italia fascista, pensava alla politica come a una sfera autonoma dai poteri tradizionalmente intolleranti dei limiti dello stato: quello religioso e quello economico.
La commistione tra gli affari di Berlusconi e i governi di Berlusconi non placarono mai le critiche, né del resto fu mai risolta, e preoccupò i due maggiori pensatori politici viventi, Norberto Bobbio e Giovanni Sartori. I quali faticarono a collocare Berlusconi nelle classiche categorie della politica.
Era un cesarista? Un despota? Un sultano? Un patrimonialista? O tutte queste cose insieme, indicative di una leadership che usciva dall’alveo dei partiti e di un uso del potere che mal tollerava limitazioni istituzionali, appellandosi direttamente alla “sovranità degli elettori”. Ai quali Berlusconi si rivolgeva dalle sue tivù e da quelle di stato, siglando con il pubblico contratti e accordi.
Nel 1994, Bobbio diede alle stampe l’Elogio della mitezza dove consegnava un’immagine di sé che è diventata iconica: l’intellettuale democratico è “uomo di dubbio e di dialogo”, un “mediatore” in consapevole ambivalenza tra il realista e l’idealista.
La mitezza, una qualità impolitica, era possibile solo se i diritti di libertà erano saldi. E così, Bobbio avrebbe speso gli ultimi dieci anni della sua vita (morì nel 2004) a lottare contro Berlusconi, proprio nel nome di quella mitezza che non aveva agio di godere perché avvertiva che l’Italia democratica era a rischio. Bobbio chiamò Forza Italia un “partito fantasma”, un “partito che non c’è” che violava la regola della trasparenza e della pubblicità: «Come vi si accede? Quali gli obblighi dell’iscritto?».
Giudicò i club di Forza Italia «comitati elettorali, cioè partiti alla vecchia maniera», e si chiedeva: «Ma composti da chi? Diretti da chi? Finanziati da chi? Una democrazia che si regge su una rete di gruppi semi-clandestini è davvero un’invenzione senza precedenti. Bella forza, Italia».
Gli faceva eco Sartori, meno militante ma non meno castigatore di Berlusconi. Sulle orme di Max Weber rispolverava la categoria del sultanato, una forma di dispotismo (e Contro i nuovi dispotismi era il titolo di una collezione di saggi bobbiani uscita nel 2004). Dispotismo e sultanato stavano a indicare l’anomalia della democrazia italiana, che sembrava non avere nei fatti un governo della legge. Il tempo avrebbe mostrato che non si trattava di una anomalia solo nostra.
anti-berlusconismo si consolidò in coincidenza con la proposta berlusconiana di riforma costituzionale. L’appello che lanciò Bobbio con Alessandro Galante Garrone, Alessandro Pizzorusso e Paolo Sylos Labini a votare contro la Casa delle libertà «per salvare lo stato di diritto», segnò una stagione politica nella quale la Costituzione divenne oggetto del contendere tra schieramenti politici, e che avrebbe segnato i successivi due decenni, con altri progetti di riforma, ultimo quello targato Renzi-Boschi. Da un berlusconismo a un altro, si potrebbe dire senza timore di essere faziosi.
Poiché, come nel caso di Perón, con Berlusconi venne inaugurata una nuova forma di politica. Berlusconismo è oggi una categoria politica e una ideologia, un modo di fare politica e di gestire l’immagine del leader politico. Designa anche una concezione del ruolo dello stato e delle istituzioni come meno distanti, nell’illusione che ciò convenga a tutti. Una specie di trickled-down della politica, con una vicinanza tra società e stato ottenuta direttamente dal leader.
Quando venne eletto Donald Trump, nel 2016, commentatori e giornalisti americani non ebbero difficoltà a incasellarlo come un esempio di berlusconismo, il patrimonialismo nell’età del capitalismo finanziario.
Nadia Urbinati (troppo buona)
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toroseduto947 · 12 days
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palmiz · 3 years
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Analisi del giorno..
sento che nelle persone a me più vicine sta salendo la paura, la disperazione (sopratutto tra le mamme , gli insegnanti e chi ha parenti anziani e malati).. da oggi la dittatura sanitaria stringe ancora un pò il cappio intorno al collo degli uomini liberi ... e sanno benissimo che questo produrrà ancora, grazie al ricatto, qualche vaccinato dell'ultima ora ma i dati parlano chiaro e questi dati sono chiari e disponibili a tutti ..
AD OGGI GLI ITALIANI CHE SONO IMMUNIZZATI CON DUE DOSI
(di cui si sa essere comunque una immunizzazione scarsa .. basta guardare ai paesi di pari o superiori dosi) sono
SOLO 36,5 Mln di persone ... il 60%
Per cui nonostante minacce, ricatti, video nauseabondi di medici allineati, nonostante la censura di medici non allineati, nonostante una propaganda martellante modello istituto luce 2.0, nonostante si faccia passare il messaggio che solo i novax (PENTITI EH MI RACCOMADO) muoiano in agonia, nonostante si nasconda la testa sotto la sabbia ad ogni morte improvvisa degli unti dal signore.. nonostante I RICATTI E L'ODIO SOCIALE CHE E' STATO INSTILLATO NELLA GENTE
NONOSTANTE UN PROGRAMMA DI LUNGO CORSO PER POTER PIEGARE LE MASSE MESSO NERO SU BIANCO ...
AD OGGI L'OBIETTIVO E' MANCATO ..
IL PENUTO A FINE AGOSTO DOVEVA BUKARE, PASSANDO CASA PER CASA, L'80% DELLA POPOLAZIONE... ed infatti è SCOMPARSO dai media ..
questa resistenza passiva o attiva del 40% DELLA POPOLAZIONE, o se volete essere pessimisti del 30% se guardiamo alle prime dosi, della popolazione si traduce in 22.758.000 INDIVIDUI CHE DA OGGI SONO MOLTO INCAZZATI
(Al 1° gennaio 2021 i residenti in Italia sono 59 mln 258mila, 384mila in meno in un anno)
I 4 GATTI SONO 20.000.000 DI PERSONE A CUI, DOPO AVERLI PRESI A CALCI IN CULO PER MESI.. DOPO AVERLI SOSPESI DAL LAVORO, DOPO AVERLI GHETTIZZATI E RICATTATI .. A CUI ORA ,OGNI GG, GLI SI DICE NON VI CUREREMO, NON VI FAREMO VIAGGIARE, NON VI FAREMO ANDARE A SCUOLA.. VERREMO A STANARVI, SIETE DEGLI UNTORI DI MMMMM ECC...
Questi 4 gatti pagano le tasse, cari ottusi corrotti miopi e poco lungimiranti governatori di regioni, ministri, parlamentari .. medici , insegnanti, poliziotti .. cari pubblici impiegati .. lo stipendio vostro, SPESSO immeritato, lo paghiamo anche NOI
SECONDO ME STATE GIOCANDO UNA PARTITA PERICOLOSA, NON potete isolare 20 MILIONI DI PERSONE ...
fossi in voi farei un attimo di riflessione cari dittatori de noaltri... perchè se scappa la mano a qualcuno .. non equilibrato , infirtrato , che non ha forse solo nulla da perdere ... ed accende la miccia della rivoluzione violenta .. bhe poi SARANNO CAXXXX AMARI PER TUTTI ...
buona riflessione e STATE TUTTI SERENI :-) .. uniti e compatti non DOVETE AVERE PAURA DI NULLA... SONO LORO CHE HANNO PAURA DI NOI
Manuela Zorzi
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gregor-samsung · 6 years
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Torniamo dunque al Duce. Le sue qualità principali sono quelle forme inferiori dell'intelligenza che si chiamano fiuto e furberia. Di solito, pertanto, se la situazione è confusa e la prospettiva incerta, prima di impegnarsi in una chiara direzione, egli preferisce praticare il doppio giuoco. (Quando ha creduto di fare di testa sua per coerenza con i suoi principi, gli è andata sempre male.)  Nell'agosto del 1914, come direttore del giornale socialista Avanti!, egli sostenne la politica socialista di avversione alla guerra. Ma apparendogli già allora che l'Italia non avrebbe potuto alla lunga restare neutrale e ripugnando al suo spirito attivista la posizione passiva della pace, mentre sul giornale continuava a scrivere articoli contro la guerra, aveva cura di annodare approcci con elementi che lavoravano per far intervenire l'Italia accanto all'lntesa. Un giornale avversario denunciò quel doppio giuoco in un articolo intitolato "L'uomo dalla coda di paglia" e costrinse Mussolini a uscire dall'equivoco e a dichiararsi affrettatamente per la guerra. Nel dopoguerra, durante il periodo in cui tutti aspettavano in Italia una rivoluzione proletaria, egli speculò contemporaneamente, sulla sconfitta del socialismo e sulla sua vittoria. Quando nel settembre del 1920 gli operai metallurgici, seguiti dagli operai di altre categorie, occuparono le fabbriche e a molti sembrò che nulla potesse più arrestare il movimento rivoluzionario dei lavoratori, Mussolini, come ho già ricordato, non perdette tempo, chiese di poter conferire col comitato che dirigeva il movimento e ad esso dichiarò: "Seguo con simpatia l'occupazione delle fabbriche. Per me è indifferente se le fabbriche appartengono ai padroni o agli operai. L'importante è il rinnovamento morale della vita del paese". Quando però il movimento fallì e la paura delle classi possidenti si tramutò in arroganza, allora Mussolini insorse "contro il tentativo di precipitare l'Italia nel baratro del bolscevismo" e si offrì agli industriali come salvatore del paese "dalla minaccia asiatica del socialismo". Dopo la conquista del potere egli liquidò gradualmente tutti gli altri partiti, col doppio giuoco ch'egli stesso definì dell'ulivo e del manganello. Un esempio varrà per tutti. Cesare Rossi, capo dell'ufficio stampa del governo fascista, ha rivelata come nel luglio del 1923 Mussolini impartisse ordine ai fascisti di Firenze, Pisa, Milano, Monza e altre località minori di devastare durante la notte le sedi delle associazioni cattoliche. Nello stesso tempo, secondo un documento pubblicato dallo storico Salvemini, egli spedì un telegramma ai prefetti di quelle provincie perché esprimessero ai vescovi locali la più sincera deplorazione del governo fascista per le avvenute devastazioni. Quando Mussolini ha trasferito sul terreno internazionale questa tattica che gli aveva dato frutti copiosi in politica interna, è riuscito, facilmente a tenere in iscacco la Società delle Nazioni. Chiunque procede a un attento confronto tra la cronaca della guerra d'Abissinia, quale risulta dal libro del generale De Bono, e la politica temporeggiatrice del rappresentante fascista a Ginevra, si accorgerà che tutte le proposte avanzate a Ginevra, coincidevano sempre con l'adozione di nuove misure di guerra. Nessuno può negare che il giuoco non sia ben riuscito e, se non vi fossero andati di mezzo i poveri abissini, nulla m'impedirebbe di rallegrarmi che i governanti inglesi, così prodighi di aiuti ed elogi a Mussolini finché egli ha esercitato la sua arte di governo sui poveri democratici italiani, abbiano avuto occasione di sperimentarne a proprie spese la lealtà.
Ignazio Silone, La scuola dei dittatori, Oscar Mondadori, 1977; pp. 110-11.
[1ª ed. originale Die Schule der Diktatoren, Europa Verlag, Zurigo, 1937; 1ª pubblicazione in Italia a puntate su Il Mondo nel 1962]
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poetyca · 4 years
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Alla cortese Vostra attenzione
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linguistica-mente · 4 years
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PER UN PUGNO DI DOLLARI
30 marzo 2020: Donald Trump annuncia l'invio all'Italia di materiale sanitario per un valore di 100 milioni di $
2 aprile 2020: La Cnn rende noto che gli Stati Uniti non invieranno alcun tipo di aiuto agli altri Paesi
BREVE PREMESSA
Lo scorso 28 marzo Srecko Horvat, esponente del partito paneuropeo DiEM25 (Movimento per la Democrazia in Europa 2025) ha intervistato NOAM CHOMSKY sul tema del Coronavirus.  
La questione è stata affrontata sia a livello linguistico che socio-politico, alla ricerca delle premesse culturali dell'epidemia; le correnti di pensiero influenzano infatti la realtà nella misura in cui ne propongono chiavi di lettura, contribuendo alla creazione di strategie per affrontarne le difficoltà.
Questo assunto pur non dichiarato emerge piuttosto chiaramente dai commenti dello studioso, che (forse anche per via dell'età avanzata) riesce a CONNETTERE agevolmente generale e particolare, invitando a riflettere sulle relazioni che intercorrono tra aspetti della realtà apparentemente slegati tra loro.
Basti ad accettare l'INVITO ALLA LETTURA, al di là di ogni considerazione politica.
LE CAUSE DELLA PANDEMIA
Chomsky menziona le due MINACCE maggiori alle quali è sottoposto il nostro pianeta, la guerra nucleare e il riscaldamento globale, libere di agire all'interno del sistema neoliberista attuale.
La diffusione pervasiva della logica di PROFITTO travalica i confini del buonsenso accettando di procurare danni all'ambiente e alla vita in nome del guadagno. Accade quindi che si decida di continuare a produrre e ad inquinare nonostante l'imminente  CATASTROFE AMBIENTALE che ci minaccia, incuranti di farci mancare la terra sotto i piedi pur di continuare a costruire.
E mentre l'emergenza coronavirus impone all'Onu di annullare la conferenza sul clima CoP26 programmata per novembre a Glasgow, un incurante Donald Trump rincara la dose, ponendo un freno alle regolamentazioni in materia volute da Obama nel 2012. Il caso degli Stati Uniti è emblematico nel mostrare l'INDIFFERENZA totale o parziale di molti governi quando si tratta di affrontare problemi globali senza la garanzia di poterne trarre un profitto economico o un guadagno in termini di popolarità.
Lo stesso accade nell'ambito della SALUTE, perchè la diffusione del coronavirus avrebbe potuto essere contenuta. Il 31 dicembre la Cina aveva già allertato l'OMS circa la presenza di alcuni casi di polmonite atipica a Wuhan, ma per mesi gli appelli dell'Organizzazione ai leader politici sono rimasti pressochè inascoltati.  
Quella che Chomsky definisce "piaga neoliberista" privilegiando il profitto a tutti i costi non avrebbe investito a sufficienza sulla sanità e sulla ricerca. Non sono passati neppure 20 anni dall'epidemia di SARS che ha provocato 774 morti, eppure ci eravamo scordati della pericolosità di una malattia respiratoria di tale portata. Sono passati più di 15 anni, eppure un vaccino non si è ancora trovato.
In modo estremamente semplice, un prodotto viene immesso sul mercato se le aziende prevedono di trarne sufficiente PROFITTO. "L'assalto neoliberista" ha dunque a ragion veduta "lasciato gli ospedali statunitensi "IMPREPARATI", anche tagliando posti letto.
Speculare è il caso della GERMANIA, che si è preparata ad affrontare l'emergenza conservando gelosamente le proprie risorse sanitarie. Del REGNO UNITO e del suo pietoso negazionismo è meglio tacere. Diverse strategie per raggiungere un unico obiettivo di fondo: proteggere la propria economia accettando un certo numero di perdite umane, fuori o dentro i confini, ovvero sacrificare la vita "per un pugno di dollari".  
In un mondo in cui la sfera pubblica, politica, sembra essere improntata all'autoreferenzialità (Chomsky definisce Trump un "buffone" EGOISTA), abbiamo l'occasione di riprendere in mano la bussola delle nostre vite e di riflettere sul panorama internazionale.
Come sempre, ragionare sulle PAROLE sarà la nostra strategia.
PROPAGANDA
L'utilizzo del LINGUAGGIO BELLICO per riferirsi alla pandemia ha incontrato pareri discordanti nel panorama giornalistico. Agli occhi di Chomsky risulta calzante: "Abbiamo bisogno di questa mentalità", dichiara, "per superare questa crisi a breve termine, che può essere affrontata dai paesi ricchi".
Tuttavia dal rigore all'intolleranza il passo è breve. Qualche personalità dotata dei giusti mezzi potrebbe, per essere autorizzata ad instaurare (momentaneamente?) un regime AUTORITARIO dai metodi violenti, decidere di allearsi con il virus "nemico".
Donald Trump ha inizialmente NEGATO la gravità della situazione esponendo la popolazione statunitense ad un numero esponenzialmente maggiore di contagi, pur avendo a disposizione i dati sottoposti all'OMS dalla Cina fin dal 31 dicembre. Dichiarava, tronfio: "Qualsiasi cosa succeda, siamo assolutamente PRONTI."
Mentre in Italia, già da febbraio, il premier era costretto dall'evidenza delle circostanze a parlare di "emergenza economica e sanitaria" e a sottolineare la necessità di impegnarsi per "circoscrivere" i casi, gli Usa si interrogavano sulla veridicità dei dati Oms: "numeri falsi", dichiarava Trump, "ma è una mia impressione".
L'appello di Conte ad affidarsi agli esperti e a dimostrare "prudenza e consapevolezza", "collaborazione" nel rispettare le regole imposte dai decreti, "restando a casa", faceva da contraltare alla banalizzazione del presidente statunitense, che negli stessi giorni riduceva il coronavirus ad una simil-influenza facilmente arginabile grazie ai "confini forti" della nazione. Addirittura, si sbilanciava promettendo all'Italia aiuti per 100 milioni di $ sotto forma di materiale sanitario, salvo poi rimangiarsi la parola nel giro di tre giorni.
Finalmente convinto della "terribile crisi" che stiamo vivendo, che minaccia di uccidere fino a 240 mila persone solo negli Stati Uniti, pur di distogliere l'attenzione dai suoi errori di valutazione oggi punta il dito contro il Venezuela di Maduro e il narcotraffico. Di più, mentre l'Italia raccoglie i frutti degli aiuti inviati a Wuhan, Trump cerca un capro espiatorio, arrivando a dire: "Il mondo pagherà a caro prezzo il fatto che la CINA abbia rallentato la diffusione delle informazioni sul coronavirus."
Non serve mantenere la pace per scongiurare una possibile GUERRA NUCLEARE, basta apparire più forti degli altri.  Non è importante salvaguardare l'ambiente per le generazioni future, sarà sufficiente negare il problema. Non vale la pena di arginare una pandemia, basta evitare di parlarne.
Nel frattempo, però, due milioni di persone in tutto il mondo si trovano in ISOLAMENTO o in quarantena (e parlano tra loro); due le fondamentali conseguenze, sull'ambiente e sulla società.
La forte riduzione degli SPOSTAMENTI sta mostrando i primi tangibili effetti della riduzione delle emissioni, costringendo anche molti scettici a riflettere sui vantaggi che un cambiamento permanente delle nostre abitudini potrebbe comportare.
L'altra conseguenza è il rafforzamento del DISTANZIAMENTO SOCIALE già presente soprattutto negli strati più giovani della popolazione: Chomsky accenna ad un comportamento diffuso, quello di intrattenere conversazioni virtuali mentre ci si trova fisicamente in compagnia di altri. Da un "isolamento sociale autoindotto" siamo passati ad una quarantena imposta dai governi, che il linguista suggerisce di sfruttare per "progettare organizzazioni, pianificare il futuro, riflettere su strategie per affrontare i problemi globali", condividendo le nostre riflessioni sulla piazza virtuale.
Tutto questo sta già accadendo; nel SILENZIO delle nostre case leggiamo, ci informiamo, discutiamo più di prima. Con  le parole costruiamo ragionamenti e interpretiamo la realtà. Ci accompagniamo gli uni gli altri, anche virtualmente, lungo le strade dei nostri pensieri.  
Possiamo riflettere sulle forze che regolano la realtà in cui viviamo e deporre l'atteggiamento di accettazione passiva che la snaturante routine ci imponeva: "In un mondo civilizzato, i paesi ricchi darebbero assistenza a chi ne ha bisogno, invece di strangolarlo. Adesso forse, con l'emergenza, è il momento di capire CHE TIPO DI MONDO VOGLIAMO."
PER UN NUOVO UMANESIMO
Dal punto di vista POLITICO possiamo aspettarci o, come anticipato, una svolta autoritaria, oppure una ricostruzione radicale della società, una rivoluzione culturale.
Solo il tempo ci dirà se sul piano socio-economico si riveleranno veritiere le previsioni di Trump e "l'economia si riprenderà rapidamente" o quelle di Conte, che ammette: "Non siamo in grado di dire ora quando terminerà l'emergenza" e "occorrerà varare un piano di RICOSTRUZIONE".
Per ora possiamo accogliere l'appello di Chomsky, che suona come un invito a dare il via ad un NUOVO UMANESIMO globale, per un mondo "fondato più sulle necessità umane e meno sul profitto privato", in cui le persone si sentano coinvolte.
Questi mesi potrebbero rivelarsi un "momento critico" a causa non tanto del virus in sè quanto dell'isolamento che comporta. Al netto delle inestimabili e ahimè irreparabili perdite umane, potrebbe portarci una "CONSAPEVOLEZZA dei difetti, delle caratteristiche disfunzionali dell'intero sistema socio-economico". E il virus potrebbe rivoltarsi contro chi ne ha approfittato, facendo tremare le fondamenta, i presupposti culturali dell'intero sistema. Con Trump: "Non penso sia inevitabile. Probabilmente lo sarà. Forse lo sarà. Potrebbe esserlo su scala ridotta, oppure su larga scala."
Make The World Great Again
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lavoroconstile · 4 years
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Recensione #Digital Recruiter
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Il futuro del mondo del lavoro è oggi
Ospite de La poltrona racconta è #Digital Recruiter di Silvia Zanella e Anna Martini. Il testo è qualcosa in più di un aggiornamento della prima edizione #Social Recruiter (se ti va puoi leggerne qui la mia recensione). Ti racconterò come potrà esserti utile sia che tu sia alla ricerca di lavoro che alle prese con un progetto di recruiting per la tua azienda. E infine ti spiegherò perché sarebbe opportuno che tu leggessi entrambe le edizioni. Sì ebbene sì sono andata a caccia delle novità pagina per pagina. Ti svelo subito un segreto. Sono due libri profondamente diversi malgrado li dividano solo un paio di anni l'uno dall'altro. Gli elementi di continuità che ne eguagliano il valore sono la ricchezza di case-histories aziendali, contributi tecnici di professionisti noti nel panorama italiano dell’HR tech e uno sguardo attento, curioso e aperto al futuro del lavoro.
Non solo social network
Nel 2017, probabilmente, era alquanto anacronistico, aspettarsi, dalla maggior parte dei responsabili della selezione del personale, un’agenda che comprendesse le seguenti attività: sviluppo di un network professionale che comprenda colleghi, candidati, professionisti con interessi in comune; a seguito dell’attività di head hunting e ricerca passiva verifica della reputazione digitale dei candidati; lavorare su aspetti quali l’employer e il personal branding; elaborare contenuti a integrazione degli annunci da postare sui profili aziendali e personali; esprimersi come un ambassador aziendale e formare la popolazione aziendale in tal senso. Eppure in un lasso di tempo davvero breve la to do list di chi si occupa di recruiting o meglio di talent acquisition si è davvero rivoluzionata. Come emerge dal testo le opportunità del matching perfetto tra l’azienda e le risorse può realizzarsi con canali e strumenti diversi. Ecco perché chi oggi segue la selezione non è semplicemente una persona competente e avvezza all’utilizzo dei social media. In #Social Recruiter le Autrici hanno avviato una rivoluzione professionale importante dimostrando quanto fosse la sottile in azienda la linea che separa le risorse umane dal marketing. Due aree funzionali che devono comunicare all’unisono e che influenzano considerevolmente: l’immagine dell’azienda; la talent attraction ma soprattutto la retention; l’engagement dei dipendenti e il contenimento del turnover; la comunicazione interna/esterna. Oggi potrebbero sembrare delle riflessioni assodate in realtà un po’ come in tutte le rivoluzioni le adesioni al nuovo paradigma avvengono con tempi e modalità assolutamente differenti.La seconda edizione, integra a questa visione l’innovazione tecnologica applicata alle risorse umane. Ti senti preso per mano e condotto nello straordinario mondo delle opportunità dell’HR Tech. Tra un contenuto e l’altro, spesso, come nel mio caso, sei pervasa dallo stupore e non ti resta che constatare quanto è cambiata la nostra professione e come sia un dovere aggiornarsi quotidianamente. Fare selezione del personale oggi può essere ancora per umanisti ma in particolare per chi è pronto a integrare agli strumenti tradizionali: linguaggi di ricerca avanzata: stringhe booleane, universal search method, X-Ray; sistemi ATS (applicant tracking system); AI (per le attività ripetitive e a basso valore aggiunto). Sui temi la parola a due esperti di livello, Luca Tamburrino (account executive Indeed) e Matteo Cocciardo (Co-founder e CEO di In-Recruiting). Degna di nota anche l’intervista a Osvaldo Danzi sulla dimensione del Networking. Un’attività dalla quale proprio non ci si può esimere! La seconda edizione, integra a questa visione l’innovazione tecnologica applicata alle risorse umane. Ti senti preso per mano e condotto nello straordinario mondo delle opportunità dell’HR Tech. Tra un contenuto e l’altro, spesso, come nel mio caso, sei pervasa dallo stupore e non ti resta che constatare quanto è cambiata la nostra professione e come sia un dovere aggiornarsi quotidianamente. Fare selezione del personale oggi può essere ancora per umanisti ma in particolare per chi è pronto a integrare agli strumenti tradizionali: linguaggi di ricerca avanzata: stringhe booleane, universal search method, X-Ray; sistemi ATS (applicant tracking system); AI (per le attività ripetitive e a basso valore aggiunto). Sui temi la parola a due esperti di livello, Luca Tamburrino (account executive Indeed) e Matteo Cocciardo (Co-founder e CEO di In-Recruiting). Degna di nota anche l’intervista a Osvaldo Danzi sulla dimensione del Networking. Un’attività dalla quale proprio non ci si può esimere!  
Dove vai se i tools non ce li hai
La giornata di un recruiter comincia ad essere davvero impegnativa sulla base del numero di profili da ricercare e soprattutto delle difficoltà di reperimento. Sul testo le Autrici propongono, attraverso la descrizione di una giornata tipo, una schedulazione delle attività con alcuni consigli pratici per ottimizzare tempo ed energie.La giornata di un recruiter comincia ad essere davvero impegnativa sulla base del numero di profili da ricercare e soprattutto delle difficoltà di reperimento. Sul testo le Autrici propongono, attraverso la descrizione di una giornata tipo, una schedulazione delle attività con alcuni consigli pratici per ottimizzare tempo ed energie.A tutto ciò si aggiunge una stuzzicante proposta di strumenti che potranno agevolarti nell’operatività: app e ambienti virtuali che favoriscono la comunicazione e la condivisione all’interno di un team (Workplace, Slack, Trello); database per accedere gratuitamente ad immagini per i tuoi post o personalizzarli (Canva); piattaforme di ascolto per mantenersi aggiornati (Google Trends); programmi capaci di gestire la programmazione delle pubblicazioni di contenuti (Buffer, Hootsuite). Il segreto è provare e valutare i tools e integrarli gradualmente agli strumenti più tradizionali.A tutto ciò si aggiunge una stuzzicante proposta di strumenti che potranno agevolarti nell’operatività: app e ambienti virtuali che favoriscono la comunicazione e la condivisione all’interno di un team (Workplace, Slack, Trello); database per accedere gratuitamente ad immagini per i tuoi post o personalizzarli (Canva); piattaforme di ascolto per mantenersi aggiornati (Google Trends); programmi capaci di gestire la programmazione delle pubblicazioni di contenuti (Buffer, Hootsuite). Il segreto è provare e valutare i tools e integrarli gradualmente agli strumenti più tradizionali.
Perchè leggerlo
#Digital Recruiter rappresenta un punto di riferimento per tutti i professionisti delle risorse umane, del marketing, di chi si occupa di servizi per il lavoro e non ultimi proprio i candidati. Se sei alla ricerca del tuo prossimo impiego ci sono degli spunti molto interessanti anche per te! Tanti consigli per sviluppare un network di qualità, proporsi in maniera distintiva ma anche strumenti utili per valutare meglio le aziende e le loro offerte. Se fossi in te leggerei anche #Social Recruiter per avere più riferimenti e contenuti ai quali ispirarti. Come è mia abitudine ti lascio con alcuni passaggi che ho molto apprezzato: L’Autenticità, comprensiva di sbavature ed entusiasmi, è quello che paga; La reputazione e il passaparola virtuale contano sempre di più rispetto a pubblicità e testimonial famosi; Siate originali. Buona lettura! Read the full article
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kommunalka-blog · 5 years
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LA POLITICA DELL’IDENTITÀ. FRANCIS FUKUYAMA. Le democrazie liberali non hanno risolto il problema del riconoscimento. Da qui la sopravvivenza del nazionalismo e dell'estremismo religioso. La politica dell'identità è legata al thymós, al riconoscimento della dignità. L'identità cresce a partire da una distinzione tra io interno e mondo esterno di regole e norme sociali che non riconosce il valore o la dignità di questo io interno. Desiderio, ragione e thymós (la base dei giudizi di valore) sono parti integranti della natura umana, ma il thymós agisce in maniera indipendente dalle altre due. Il sorgere della democrazia moderna è la storia del movimento dalla megalotimia all’isotimia. Il riconoscimento di tutti come eguali. Tuttavia la politica di identità contemporanea parte da una esigenza di uguale riconoscimento per giungere a una esigenza di riconoscimento della superiorità di un gruppo. Dall'isotimia alla megalotimia, di nuovo. Con Lutero nasce l'io interno, con Rousseau si fa critica sociale ma è solo con Kant e Hegel che la ricerca privata dell'io si trasforma in un progetto politico. Hegel sostiene che la lotta per il riconoscimento è la spinta della storia dell'umanità. All'inizio del XIX secolo troviamo già tutti gli elementi del moderno concetto di identità: io interno, considerazione dell'io interno al di sopra delle convenzioni sociali, la comprensione del fatto che la dignità dell’essere si fonda sulla sua libertà morale, la opinione che tutti gli esseri umani sono dotati di libertà morale, la esigenza di riconoscimento dell'io interno come moralmente libero. L'esigenza di riconoscimento egualitario della dignità ispira la Rivoluzione Francese e si mantiene fino ad oggi. La libertà morale non si considera più in senso religioso, come la capacità di accettare Dio, ma in senso politico, come la capacità di partecipare all’esercizio del potere. La democrazia moderna dipende dall'equilibrio tra libertà individuale e uguaglianza politica e tra Stato che esercita il potere legittimo e istituzioni che lo limitano. Due versioni della politica identitaria: la prima esige il riconoscimento della dignità individuale, la seconda della collettiva. La crisi dell'identità individuale porta alla ricerca di un'identità comune che unisca l'individuo a un gruppo: da qui per esempio il nazionalismo e i movimenti religiosi con radici politiche (vedi anche Hoffer). L'identità si sviluppa quindi in due direzioni: il riconoscimento universale dei diritti individuali e il riconoscimento collettivo basato nella nazione. L'islamismo è l'altra faccia del nazionalismo come ideologia volta a un riconoscimento identitario. Entrambi sono il risultato della modernità. In questo senso sarebbe meglio parlare di islamizzazione del radicalismo, più che di radicalizzazione dell'islamismo. Sia il nazionalismo che l'islamismo si fondano sulla vittimizzazione e sul riconoscimento restrittivo della dignità (la colpa è degli altri, il riconoscimento è solo per i membri del gruppo nazionale o religioso). Il gruppo politicamente più a rischio non è quello dei poveri disperati ma quello delle classi medie che stanno perdendo il loro status rispetto ad altri gruppi. Da qui l'auge del nazional-populismo, perché le classi medie si considerano il nucleo dell'identità nazionale. Intanto la sinistra si è concentrata su gruppi più ridotti e sempre più specifici invece di perseguire la sua tradizionale difesa di grandi collettivi sfruttati. Politica identitaria e autostima (trionfo del terapeutico). Intimamente legate nelle moderne democrazie liberali. La politica identitaria moderna si focalizza su gruppi emarginati (a partire soprattutto dal 1968). Il multiculturalismo sostituisce il liberalismo classico come dottrina a difesa dell'identità e dell'autonomia, questa volta predicando il rispetto egualitario delle culture indipendentemente dal loro contenuto. La sinistra si appropria del multiculturalismo nell'ultimo decennio del secolo XX. Tre problemi: la politica dell'identità evita che si parli del problema più ampio della diseguaglianza economica; i gruppi più grandi finiscono per perdere interesse; la libertà d'espressione entra in conflitto con il multiculturalismo e per estensione con il politicamente corretto. Si sviluppa per contrasto una politica di identità nella destra che include tutte quelle identità ignorate dalla sinistra (etnia bianca, religiosità cristiana, contesto rurale, valori tradizionali). La destra adotta il linguaggio e la cornice dell'identità della sinistra. Tutti i problemi sociali oggi si osservano attraverso la lente dell'identità. L'identità nazionale in senso lato potrebbe inglobare tutte queste richieste di identità particolari. Lasciando da parte l'etnonazionalismo, l'identità nazionale può costruirsi attorno a valori democratici e liberali. La sfida dell'immigrazione: definire un'identità nazionale inclusiva e assimilare gli immigrati all'interno di questa identità. Si tratta del principio di un'identità nazionale senza base razziale, come negli USA dove ci si definisce in base ai principi del costituzionalismo, dello stato di diritto, della rappresentatività e dell'eguaglianza di tutti i cittadini. Per questo l'americanismo è sempre stato un insieme di credenze e una forma di vita, non un'etnia. Non le culture ma la cultura nazionale è ciò che crea un'identità condivisa, che richiede qualcosa di più che l'accettazione passiva di un credo. La regressione verso identità ristrette minaccia la deliberazione e l'azione collettiva della società nel suo insieme e porta alla rottura dello stato e al suo fallimento. L'unica identità capace di evitare la disgregazione è quella basata sugli ideali della democrazia liberale, la cui cultura deve considerarsi preferibile rispetto a quelle che questi ideali rifiutano. Le democrazie traggono beneficio dalla diversità ma non si possono costruire identità nazionali fondate sulla diversità como tale. L'integrazione degli stranieri è l'antidoto all'auge populista. Il mondo si muove tra due poli opposti: l'ipercentralizzazione e la frammentazione.
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paoloxl · 8 years
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Caro Michele,
ho letto la tua lettera di addio e vorrei condividerla con le persone che mi leggono per dire che il tuo dolore l’ho provato anch’io. Ho pensato alla precarietà, ai debiti, al peso schiacciante di un’economia che tutto chiede e nulla restituisce, a chi ti dice che sono le tue competenze che contano quando in realtà non contano un cazzo. Alle persone che ti dicono che per lavorare non serve altro o che tutto quel che conta di te è che tu sia bella dentro. Tutte cazzate.
Mi sono abbellita dentro e fuori, ho cercato di restare in marcia sforzandomi di resistere il più possibile e poi, ad un certo punto, mi sono detta che forse il gioco non valeva la candela. Mi sono ritrovata a chiedermi quanto fosse facile cercare di aiutare gli altri e quanto fosse difficile chiedere aiuto per me, perché tutt* sono impotenti rispetto ai problemi altrui e ciascun@ di noi porta sul groppone la propria croce. Come te ho lottato, ho dissentito, ho criticato, non mi sono mai rassegnata al ruolo di vittima e ho combattuto, tra mille errori e tanto disincanto che si faceva strada pur se tra una variopinta e incessante ironia.
Mi sono presa per il culo, ho poggiato la mia testa sulla spalla di chi mi ama, per contare le minuscole opportunità che mi restano. Mi sono sentita sconfitta, vinta, molte volte e ho pensato che in fondo la mia assenza non avrebbe significato nulla perché non posso vincere battaglie già perse in partenza. Il mio contributo può forse dare speranza ad altre persone mentre il mio cuore sente diminuire il battito. Quello delle grandi passioni, di quando pensavi che avresti spaccato il mondo e immaginavi che nessuno ti avrebbe piegato mai. Invece non è così. Ti spezzano, ti piegano.
Ti piega il datore di lavoro che ti immobilizza e ti bacia e tu resti lì, ferma, perché non puoi perdere quel posto altrimenti non sapresti come mantenerti e mantenere chi dipende da te. Ti piega lo schiavista che ti paga in nero e ti tocca il culo, come fosse una cosa normale da farsi e di cui ha diritto per averti pagato due soldi di stipendio. Anch’io come te ho presentato curriculum, ho mostrato le mie capacità, ho accettato di fare qualunque lavoro e all’improvviso è arrivato forte un “perché?”. Perché il lavoro precario, perché la mia generazione deve soffrire e morire senza aver conquistato nulla di buono per sé e per altri. Senza poter lasciare nulla in eredità se non la sensazione di finitezza e scoramento.
Ho continuato a combattere, cadendo e rialzandomi in piedi con l’aiuto di chi mi voleva in piedi, perché fosse stato per me probabilmente avrei deciso di approfittare del momento di riposo e dormire, infine, cedendo ai ricatti, alle mortificazioni e perfino alle infamie di chi non riesce a trattarti da persona solo perché la pensi in modo diverso da l*i. Trovi nemici anche tra quelli che pensavi amici o se non proprio amici comunque caratterizzati da una sorta di sensibilità superiore. Invece trovi che i fascismi stanno dappertutto e che crescere per destreggiarti in un sistema patriarcale, dove comandano patriarchi e matriarche a loro affini, è uno sforzo che non ha mai fine.
Capisco la stanchezza di chi dice basta perché l’ho provata anch’io. Se non hai sogni, diritti, se le scadenze sono fatte di soldi da pagare pur se nella vita non hai guadagnato un cazzo, non basta rifugiarsi nelle storie di vampiri e lupi mannari in cui il bene vince contro il male, mostrato ogni volta sotto diversa forma. Ché poi, in realtà, finisce che mi chiedo se i veri eroi sono loro o chi riceve una cartella di tasse e non si spara in fronte continuando ad affrontare la mortificazione di chi ti tratta di merda perché ti ritiene soggetto non produttivo.
Ai vampiri non succede mai, di ricevere una cartella di pagamento tasse intendo, altrimenti si capirebbe chi succhia sangue a chi, e io sono stata privata di litri di sangue molte volte e molte ancora accadrà perché è del nostro sangue che si cibano certuni. Suicidarsi può essere un gesto di ribellione, forse, o una resa, o semplicemente una scelta da rispettare, con tanto di messaggio da inviare ad un ministro che non viene certo accusato per errore. Che sbaglio sarebbe quello di seguire la voce di gente di merda che ti dice che il tuo nemico è l’altro povero, perché immigrato, o perché ha una identità di genere diversa dalla tua.
Capire che il potere è verticale e che la gerarchia non può mai essere riconosciuta in orizzontale è una forma di consapevolezza della quale pochi godono. E forse chi immagina che il pericolo sia l’altro, quello diverso, continua a sperare in un futuro migliore. Noi consapevoli del fatto che a farsi guerre tra simili non ci si guadagna nulla, perché è di una rivoluzione dal basso che ci sarebbe bisogno, invece viviamo tenendo stretto un sogno, a volte, o un amore, o una maniera di essere che non intende diventare un alibi per togliere fiato a chi spera ancora.
Un gesto di quel tipo può solo suscitare una reazione forte, di rabbia mista ad impotenza, ma la rabbia è cosa buona, anche se le forze dell’ordine non fanno che anestetizzarla per impedirci di indirizzarla nei confronti di chi ci fa del male invece che su noi stessi. Ci teniamo tutto dentro, spesso, per apparire riusciti, perché la vergogna e il senso di colpa incombe e perché è più facile parlare di cose belle invece che di quello che davvero ci succede. Condividere un malessere non è facile, non lo è mai, e non si può mollare la responsabilità all’altro sesso perché non ti accetta, giacché anche quello è uno sfogo che prende di mira le persone sbagliate.
Lo dico a te, Michele, che denunci la tua solitudine sociale ed affettiva e in fondo parli di una alienazione umana che ci tocca in tutti i sensi e che trasforma in un unico blocco nero tutta la nostra esistenza. Quando il bilancio è così grave, per chi pensa di aver fallito su tutti i fronti, quello che si può fare è parlarne ma, vedi, neanch’io riesco a farlo con naturalezza. Non ci riesco se non per minuscoli frangenti che non spiegano niente di me. Con la convinzione che in questo mondo mostrarti vulnerabile significa dare un’arma in più a chi vuole distruggerti e se ti presenti in veste di persona, umana, porgendo uno sguardo triste e un sorriso privo di vitalità, c’è chi ti chiede di mostrarti diversa. Per non guardare dentro sé, per non riflettersi in uno specchio che ti obbliga a spostare lo sguardo. Per non affrontare i mostri che albergano attorno e dentro di noi.
Il mostro più grande, quello che combatto da sempre, è la paura. Ti blocca, ti disintegra, ti immobilizza e così a volte mi sento come quando quel datore di lavoro mi baciò senza che io lo volessi. Immobile, passiva, per poi risvegliare la parte ribelle di me in altre circostanze nutrendo tuttavia disistima per quella me che non ha reagito o non ha reagito nel modo giusto.
Caro Michele, ti parlo come fossi mio fratello, perché lo sei, in fondo, lo sono tutte le persone che vivono degli stessi disagi e che non trovano risposte salvo nel fatto di cercare compagn* di lotta che le facciano sentire meno sole. Rispetto la tua scelta, il tuo intento di eutanasia per una vita che tu dici già spenta. Se muori mentre respiri, se fai finta, tutto si compie e mettere fine all’inganno corrisponde ad un urlo potente che noi riprenderemo e porteremo altrove, perché l’eco del tuo urlo non si spenga e non si fermi.
Io sono te, Michele. Noi siamo te. Finché respiro ci definisce viventi. Finché l’amore ci mantiene al sicuro anche se non lo siamo realmente. Finché lottiamo. Finché, sconfitti, urliamo. Noi siamo te. Fatti di personal/politico senza darci mai tregua.
Con un abbraccio ai tuoi genitori
e un ciao a te.
Non è finita, ancora.
Non è finita.
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gobelluno · 5 years
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Amonn diventa "Ethic green"
Amonn diventa “Ethic green”
PONTE NELLE ALPI – Tra le dolomiti Unesco la rivoluzione verde diventa anche etica con l’azienda Amonn, leader mondiale  nelle vernici per la protezione passiva  dal fuoco, che compie un ulteriore passo in avanti sul tema della sostenibilità ambientale, dotando i propri prodotti di un apposito bollino.
“Ethic green” è il progetto che d’ora in poi caratterizzerà la mission del gruppo Amonn.
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thematrixrw · 5 years
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Con Cam.TV potete farlo 👉https://ctv.im/P18D2A |
Con Cam.TV potete farlo 👉https://ctv.im/P18D2A | Social Network come Facebook sono destinati a sparire se non cambiano. In futuro i social network diventeranno strumenti per tradurre il tempo dedicato su queste piattaforme in una rendita passiva. Come? Semplicemente creando piattarforme social su Blockchain in grado di trasformare i vostri contenuti in like, ed i like in cripto valuta. E' quello che sta accadendo con piattaforme come Cam.tv, che hanno un progetto e con una loro Cripto valuta (LKScoin), convertibile in euro. Non è sicuramente esaustivo, ma potrebbe essere l'inizio di una rivoluzione più grande, se gli individui iniziano a comprendere la necessità di cambiare e che il cambiamento inizia dalle abitudini più consolidate. Presto o tardi saranno in molti a mancare delle risorse economiche necessarie per condurre una vita, non dico ribelle, ma almeno normale. Per coloro che non riescono a fare quello sforzo di ribellione e cambiamento radicale, sicuramente questo nuovo corso della tecnologia potrà essere un aiuto verso la comprensione di qualcosa di più grande. #camtv #BitTube #BitTubers #roccobruno #suggestion #suggestions #matrix #usciredamatrix #homosapiensenonlosa #luomochevienedalfuturo #Alchimia, #esoterismo, #sviluppointernodelluomo, #ego, #essenza, #personalità, #strutturainternadelluomo, #suoistati, #ostacolialrisveglio, #emozioni, #identificazione #WebReset #revolution #industry40 #cooperazione #sostenibilita #innovazione #climatichange #intelligenzartificiale #facebook
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itslucy43-blog · 5 years
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Sex & The Net
Gli anglosassoni definiscono Internet il territorio della nuova rivoluzione sessuale, delle 3 A: Anonymity, Accessibility e Affordability. E sono sempre più numerose le persone che praticano attività sessuali on line: ricerca di partner per sesso in real life; fruizione di materiale erotico; intervento attivo in gruppi a contenuto sessuale.
In genere si tende a suddividere: da una parte la fruizione passiva di pornografia con finalità masturbatorie, dall’altra la partecipazione a siti di comunicazione in cui la sessualità diventa oggetto di conversazione e di scambio. In linea con la propensione maschile all’eccitazione visiva e con la tendenza femminile a un’attenzione per la relazione, è schiacciante la prevalenza di uomini tra i fruitori di siti porno e di donne nelle chat room.
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robymemole84-blog · 6 years
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Tumblr media
Quante volte ho pensato di non riuscire a fare nient’altro nella vita se non balzare da un lavoretto all’altro per arrivare a fine mese?!😨 Poi, la RIVOLUZIONE!! Comprai il kit semplicemente per avere lo sconto sui prodotti e invece... BOOM: avevo spalancato le porte al mio futuro! Ma all’inizio non l’avevo capito, lavoravo ancora come dipendente sottopagata di una Cooperativa locale e mi ero convinta non poter fare altro nella vita... Ma via via che il tempo passava cresceva dentro di me quel desiderio di spingermi oltre... non lo facevo per PAURA del GIUDIZIO DEGLI ALTRI!! Ma è grazie alla persona che è al mio fianco che ho spiccato il volo: mi ha detto:” Fallo! Buttati se è ciò che vuoi!” E così ho fatto... e sono felicissima🤩; il mio Team mi ha presa per mano e mi ha insegnato che qualunque sogno nella vita si può realizzare e chiunque può trovare la sua strada! Amo questo lavoro perché mi da la possibilità di essere me stessa dovunque e con chiunque ma soprattutto perché finalmente ho abbandonato quella sensazione di sentirmi inutile e passiva rispetto alla vita! Io NON MI SONO MAI SENTITA COSÌ VIVA!! #robertasiega #robymemole #Lifework #90daysrun (presso Punta Marina, Emilia-Romagna, Italy)
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FOGLI Fogli sparSi stranA giovanile autobiografia
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esercizi di stile
Esercizi di stile
L’unica cosa che so fare è scopare, ma neanche bene, sono passiva.  Il sesso però mi esaltava godevo e godevo e poi godevo. Sono pazza. Schizofrenica. Ogni giorno ci rifletto mi guardo allo specchio e vedo una vecchia demente che ricorda tutto. Ogni giorno va peggio, il sorriso si è spento. Secoli fa, mezzo secolo fa, già insinuante il pensiero di un ripiegamento e un fallimento, ma  godevo di nuovo senza pensare. Ma profondamente e stranamente, si rinnovava dopo lunghe relazioni l'amore, e il godimento fino a quando uno strappo doloroso  mi ha allontanata da tutto, non voglio più nessuno, mi ripeto serena mentre ascolto musica e leggo o guardo film o ascolto le chiacchiere da bar mentre prendo un caffè. Maligne chiacchiere da bar e stupidi nauseanti pettegolezzi che tradiscono le reali intimità,  sarebbe troppo disonesto e volgare l'ascolto e senza aprire bocca prendo un caffè, senza sorridere se non dentro nell'attesa del mio sabba notturno, nell'amplesso che esalta i miei sensi e li rende vivi.  Ogni giorno della mia santa vita che butterei nel secchio la stessa routine in un lavoro odiato. Con un senso di nausea ogni giorno. I Patriarchi avevano ragione. Mi ricordo di quando sedevano tutti intorno alla tavola, ognuno come di consueto al posto assegnato da sempre, in un ordine immutabile, nel rispetto di una cerimonia ripetuta infinite volte. Quanto spesso mi  ero chiesta se quel ripetersi esatto e misurato, destino che mi legava ad un punto esatto del suolo, non fosse altro che violenza mascherata. Un’ombra mi suggerisce la rivoluzione, mandiamo tutto in rovina fino a toccare il fondo. Insieme sbarcheremo altrove il lunario. Ok tutto all’aria, capovolgiamo tutto in un mondo alla rovescia, ma il tempo è comunque da sempre per tutti un nemico, una partita persa da sempre, una caduta irrimediabile. E il tempo mi tormenta senza lasciarmi la possibilità di voltare la schiena e andarmene, i pensieri  sono solo un errore nella cavità del cervello. Una trama tessuta, un’idea solo cerebrale che architetta la fine di un mondo, la mia anima nel tempo. Ricordo che il secolo scorso a tavola si parlava di politica, brutto affare sicuramente, i ragazzi che eravamo si interessavano al discorso, senza storia, senza capire,  e noi, i ragazzi, avremmo votato con tutta la voglia fresca di impegno.  Nell'illusione eravamo grandi. Le rivoluzioni sono giovani, solito luogo comune, forse le rivoluzione non esistono se non culturalmente.  E secoli fa i greci dicevano già tutto senza noi.
Ora  contemplo silenziosa,  e lo volevo, volevo la libertà mia, ma travolgono ogni spazio i parenti regolarmente santamente sposati, e mia madre non sapendo chi insultare insulta me, io non volevo, ma una famiglia tentacolare stabiliva destini alterni per me, non moglie,  unico necessario sacrificio alla riuscita degli altri. Con maghe e messe nere. alleno il cervello o cerco per non morire troppo presto. E per mano altrui.
Osservo la tavola  scarna, piena di briciole, i prodotti della terra, quella rimasta, quella povera che non dà più i suoi frutti, e  solo a volte, su invito, ascolto la conversazione delle cugine e dei cugini e dei rispettivi consorti, con la voglia di fuggire senza temere l’abbandono.   Solo così renderei giustizia alla volontà mia propria, sollevate le ali del desiderio. Ma sono anziana e ora dal dolore mi salvo con abitudini scandite e sempre identiche mi resta poco da vivere e i malefici non li ho saputi scansare. Amen
Ho fatto amicizia con un uomo su facebook, facebook quel mostro moderno poco adeguato e anzi maligno se penso alla mia giovinezza lontana da questi strumenti informatici di comunicazione,  e nonostante la mia ritrosia, nutro il  desiderio taciuto, e ricambiato, di conoscenza. Un filo di speranza.  Mi rende triste il torpore profondo nel quale mi getta  una famiglia che ricorda aneddoti, eventi di un passato nel quale ormai io non ci sono più. E io che racconto? Qualche parola sbieca. Un tempo sognavo di diventare scrittrice. E ho scritto un libro bruttissimo che nessuno legge. Mi sono ritirata in soffitta a vivere, una splendida soffitta con un computer e un allaccio internet, lontana dal clamore di chiacchiere su  trascorsi troppo lontani che mi annoiano,  un sonno profondo dal sentore di morte.  Mi sento veramente intontita, ma dolce, remissiva, perché ho anche io una mia compagna di vita,  che lenisce ogni ferita,   la mia ombra dolcissima, Priscilla o Scilla, una cagnolina dal cuore d’oro e più minuscola di una gatta. La paura comunque ritorna, mi guarda dagli angoli, si insinua nelle conversazioni, è fatta di metallo, e del metallo ha il sapore, tranne di notte quando la luna si apre a ventaglio, e il biancore d'argento ricopre il corpo nudo e dimenticato. Spegne il fuoco, è acqua che miracolosamente riempie l’anima e l’increspa dopo l’arsura.
A tavola parlano della passeggiata in centro, un paese di provincia, ma io non ho una storia mia da raccontare, in quel vociante mondo intorno. Con la testa, organo delicato, attraverso  nuove ragioni, nuovi orizzonti , eppure non c’è tregua. Il tempo governa tutto. Sono lontana perché sola, e sola ci voglio essere, è la mia natura profonda, sola con Priscilla. Sono fatta d’esperienza laboriosa e un cuore di ghiaccio, da sciogliere, non è pietra d’altronde. la pietra impenetrabile e impossibile da scorticare se non lavorando con la falce. La pietra di cui è fatta la provincia. Sono pensieri incoerenti, scherzi  della mente.   Sono stanca e troppo affaticata da una vita di lavoro e durezze, mi sembra di aver già vissuto, e di vivere un oltre che è una platonica caverna d’ombre ingannevoli, e solo con  fatica, e travaglio, si risale alla luce. All’inizio la luce acceca poi è cristallina. E’ uno specchio d’acqua increspato. Lo tocchi e affondi nell’inconsistenza che avvolge di freschezza. E’ giusto salpare se il coraggio sostiene i remi ma io resto, e non mi disperdo nell’invidia del mio ostinato silenzio, specchio  che riflette reti di amare profondità. Inesplorate.
La mia voce ha un timbro delicato, afono, sembra incantata. La voglia di vivere dimessa, non più follie, ma impazzisco come felina in gabbia, e attraverso con la mente scene colossali in cui tutto sembra riemergere dal passato eppure tutto è quotidiano e dimesso.  Basterebbe scavalcare il muretto per essere al di là. Ma oltre è il nulla. Oltre è il computer e la lena con la quale scrivo racconti che nessuno legge e  chatto su facebook. C’è un uomo in chat che mi attende e forse verrà a trovarmi in soffitta dal Nord, e cucinerà a basso costo una pizza, solo pochi centesimi per una pizza fatta con lievito puro e salsa di pomodoro. Cucinerà lui, io sono un disastro ai fornelli. Ha appena partecipato al Flash Mob vestita da strega con un vecchio cappello della bisnonna fiorito e con la velina, per le grandi occasioni, ma questo non basta a rendermi simpatica a scuola, la scuola nella quale lavoro. Come sono noiose le insegnanti.
Già allora a tavola il nonno raccontava di come le cose fossero proprio storte,  mentre la più energica delle cugine, un volto di porcellana,  giocherellona com’era, smitizzava e si alzava da tavola  per portare i piatti sporchi in cucina e per metterli nella lavastoviglie, con garbo lasciava la sedia vuota per poi ritornare accanto al marito che le cercava la mano intimidito, lui ha meno coraggio, mentre lei sistema i capelli lunghi e biondi con un fermaglio, raccogliendoli sul capo per lasciar scoperto il volto d’angelo. Il nonno ha un modo imperioso e austero, ma è anche piuttosto caustico, e sempre sagace senza mai farsi sgarbato.
Ieri Immaginavo: attenderò il mio fantasma, la voce dolce mai udita, che  non deve sfuggire come  fantasia e inganno. Una misura diversa del tempo se condividerlo è possibile. lo psicanalista che mi cura sbaglia tutto, e il desiderio di ucciderlo è forte. Non ha saputo diagnosticare il parkinson e io dicevo pietrificazione pietrificazione avevo 26 anni e lui era jungiano e io leggevo tanti libri e anche jung e lui diceva anima e animus.  Un lutto conficcato nel cuore e nella scatola cranica,  ma ora  ho un uomo, con braccia forti, ancora solo immaginate,  ma è un paracadutista, ha coraggio, affronta il cielo. Quella penna gentile in chat, con una foto che ne esalta l’azzurro degli occhi, lui, un uomo solo virtuale, si scalderà al mio seno.   
Mi è rimasta solo un’amica, Giulia, che in questo momento sta andando ad un party in una villa fuori zona,  anche lei vive la gabbia del corpo, e non so come farle comprendere che può uscirne. Le mando un messaggio con il cellulare “Al party vengo anch’io ma più tardi, ci vediamo lì.”
Sara
La mattina è stata in chiesa. E’ pasqua e vuole credere nei miracoli. Magari esistono davvero. Una colpa pesa come una maledizione su chi non sa liberarsene, e il maleficio diventa l’ordigno innescato nel cervello trafitto, la testa arrovellata, in briciole, a pezzi, nel buio di una notte senza precedenti. L’animo sgangherato e guastato dall’orrore del delitto esagera l’oscuramento, la vergogna dell’errore diventa deserto vuoto isolamento, resta un’eccitabilità nervosa che raramente solo a tratti si placa, si squaderna e preme il sangue pulsante tra le crepe della testa in fiamme, e ovunque e sempre rimbomba e si ripercuote l’assordante esplosione di un no ripetuto come uno schianto, un colpo d’arma, un tonfo che scuote, un no che è desiderio di pacificazione da quel chiasso interno implacabile, caos primitivo, voragine oscura, abisso satanico e caduta di ogni intendimento.
La notte
La luna e una visione da nottambula, quando si fa buio, e tra le visioni allucinate inciampo goffamente e potrebbero deridermi e mi deridono. La muta di portici. Ma l’ombra torna ogni notte a giustificarmi dal sudario quotidiano. E’ fresca della frescura dei glicini e rigogliosa come uva matura che assapori nei campi quando il tempo ricopre le viti. E’ acqua che lava il bitume, tradisce il giorno per fertilizzare la notte. Dopo un tragitto, tra le pietre arse e le strade deserte. Entra come tramontana d’amore e porta con sé il sapore del mare e della spuma, che non c’è perché la città è fatta di pietra,  ed è dolce il ricordo dei frangenti puliti e della risacca sciabordante che scomposta richiama all’orizzonte lo sguardo, e la voglia pazza di naufragio. La vita si è prosciugata, un’esile speranza soltanto, da quando con una sorta di dolcezza dell’anima, disperato ma forte, un uomo ha inciso una speranza profonda che mi rende impaziente, e mi divora la voglia.  E’ lontano. La mancanza carnale  attraversa ogni tendine, ogni muscolo, mi ricaccia in un disorientamento e un abisso. Solo la notte torna clemente il silenzio, come vento tra i capelli. Ma è avaro di sé e all’alba fugge spezzando l’incanto, per riaffermare la solitudine di sudario e bitume e cenere e mura. Le basta un’occhiata allo specchio per accorgersi che la malattia incide segni, lacrime,  speranza è lui “l’ombra”. Attrazione e repulsione convivono come in un interiore poema mai dichiarato se non in tutti i gli abbandoni,  e nella vita in soffitta con musica e libri e una adorabile cagnolina compagna di vita. Scilla la mia dolcissima ombra la mia bambina con la coda. Uno sconosciuto,  solo un’amicizia su facebook, e poi incontrato in un fine settimana ipocritamente giocoso, parole e sorrisi forzati, è un nessuno uno di fb, eppure serio, divertente alienazione fuggita, pura nel senso, il senso con il quale ci si eleva sopra le mille giustificazioni che sei  obbligata a fornire rispetto alla vita a ritroso, e alla solitudine improvvisa. E’ stato un atto coraggioso invitarlo a dormire in soffitta in due per fare l’amore, nella frenetica emozione. Ha lasciato segni indelebili, pianti di solitudine,  contro i quali non hai rimedi, se non il trucco come apparenza superficiale. Di nuovo al lavoro, di nuovo derisa per il coraggio di mettersi a nudo. Tra le pietre che formano i muri di quella provincia medievale, giocattolo che si svita, prevale il frenetico ricorso a pettegolezzi e malignità, e di lei dicono le megere che è stata ridotta alla demenza per aver preteso troppo. La definiscono  pazza perché ha intrapreso uno stupido cammino psicanalitico durato trent’anni. In realtà è solo fragile e timida.  Intanto la recessione miete vittime. E autorevoli assassini restano a guardare, indifferenti.
Lui scrive un messaggio al cellulare “ti amo”.
 Ho iniziato allora un colloquio furtivo con me stessa e il computer con il quale scrivo, accudisco e proteggo l’anima nascondendo agli altri il vero. Amo il fantasma di facebook, ora che lo conosco e ci siamo divertiti per forza, stonati ci siamo dichiarati le nostre solitudini faticose, i deserti d'abbandono, e la pessima figura mia, che mi sono ubriacata in un’enoteca, e poi ho vomitato anche l’anima, per “l’ombra” come si chiama al Nord, io però l’ho amato appassionatamente, ed è una malattia. Io lo voglio così com’è, con la sua solarità che mi rende sorridente.
E’ ritornato, forse gli sono piaciuta, nonostante tutto.
Appena ci troviamo in soffitta tolgo gli abiti e lascio che lui mi penetri. Prima mi bacia mi abbraccia, mi accarezza. Lui che è la luce e il vento tra i capelli. Come in un gioco che abbia smesso di essere un gioco nel limite stravolto e rigettato della realtà netta, veritiera, agonizzante, uno spazio di libertà, accarezza i seni e dona il più dolce degli amplessi, sotto il palmo suo, stretta al suo corpo, sento la pelle fino al ventre, soffoco i singulti perché non mi sentano. L’ombra, mi accarezza mi bacia mi tiene stretta teneramente. Uno scherzo del tempo che mi ridona la grazia. Lui accarezza i capezzoli, e io mi lascio penetrare dolcemente. “Sei vergine” mi dice. Quando riparte lo accompagno alla stazione, intristita.  il sogno di lui che torna come il vento tra i capelli. E’ preziosa la nostra intimità,  amplesso che illumina di mistica luce riflessa le lontananze dolorose, e vorrei il suo calore sulla pelle per affermare la presenza-assenza ancora più dappresso e sentire la voce di lui farsi richiamo invincibile, sicuro. Un richiamo ogni giorno del vento, nella casa che dorme.  Chiudo dentro il piacere serrando le cosce. Perché si rinnovi l’ardore. Amor mio sei la mia meteora, districhi i miei pensieri sciogli le mie voglie.
 Volgi a me beato i tuoi occhi, guarda osserva la mia devastazione. Turgidi i capezzoli chiamano induriti di voglia e premono contro la pelle  sua. . “L’ombra” l’accarezza. Le dita si apprestano a strazianti sfioramenti, il fuoco non si spegne, caldi i seni, i sensi dilatati, la pelle sprigiona umori e chiama il piacere carnale che offre il corpo smunto,   non appartengo ad altri, solo per te sorrido,  aggrappata a te, grido e gemo. Quando tu te ne vai, amore mio pazzo, a volte ostile come in una guerra appena iniziata,  il letto resta caldo e bagnato dei miei umori, a te mi consacro per te abbandono tutto, per te si fa sregolata la testa e premono le tempie. Tu sei il mio nido, per te sistemo il cuscino quando tutto tace. E’ un duello mortale e notturno di pazza sonnambula che trapassa il buio per incarnazioni miracolose. Ma l’ombra rinfresca e purifica la terra, e piccoli germogli vergini radici tornano come per incanto a nutrirsi alla fonte sicura. Non appartengo più a me stessa. Appartengo a lui, al vento, alla notte nella mia cameretta.
Prima di conoscerlo scrivevo così, ormai pregavo per una malattia devastante, perché io le parole non le so, e gli eloqui delle donne mi risuonano in testa come mostruosità, e ne fuggo. Nei fogli persi, perché persi il computer e non avevo registrato su chiavetta usb, e poi ritrovati tra il disordine di carte, scrivevo ingenuamente così. Come di seguito:
In chiesa.
Era troppo veramente troppo. Era necessario cercare un principio essenziale di quiete che tendesse verso il basso, verso la terra per ancorarsi, una forza compiuta, visibile e determinata. Non hanno limiti ora gli angelici cori per le sue orecchie e infinito è il tempo che scioglie l’animo dal mistero di un corpo  abbracciato alla carne, ma ora è ricordo, ora è lontano, e ecco affiorare il filo dei pensieri che riunisce tutte le condizioni di possibilità della sua vita, smarrita nei sentieri inessenziali, fra le dita intrecciate in preghiera lei ammette la necessità di confessare a se stessi ciò che le cose dicono per loro natura fuori dai labirinti ossessivi. Requie eterna - eterno riposo- la preghiera si alza in coro, distratta come ogni domenica ma stentorea; la grazia rallegra e definisce il tempo del  fantasticare psicotico. Sa comunque di aver perso la strada superba e chiara della ragione, ha osato indagare i misteri e ora è solitudine anche nel viso smagrito, sciupato, che pure manifesta nei tratti ingenui e dolci la disponibilità a rimettere in discussione ogni tentativo di risposta per nuove possibilità. Presa da angoscia incrocia le mani, socchiude gli occhi. Ecco un luogo nel quale protetti dalle volte e dalle arcate in ritrovata pace tentiamo di sfuggire alle tempeste e saldare l’ancora della sorte disancorata, per una donna che si vuol riposare i nervi tesi e i giovani cervelli audaci sono musica stridente. Gocce di sudore le imperlano la fronte, ha disimparato la propria bellezza e l‘ha dissolta nell’oceano del dubbio, e tuttavia non si spezza il sogno, la vittoria non giustifica nessuno né redime, perdere non significa null’altro che sacrificio, trovarsi a soffrire e poi chiedersi nel martirio d’amore se un angelo qualunque giungerà a togliere la croce. Sono il trofeo di questo santuario si dice la donna e vuole scordare; dolcissimo angelo condannato a morte, non fiera ma felina , miagola e graffia ad un tempo, col desiderio di uccidere e poi giacere sulla propria tomba, da quando uno spesso fendente ha trafitto il cuore che s’è imbambolato.
 Il cuore spalancato…solo non pensava, però, nulla di simile. Implorava Dio di darle un senso mentre il corpo logoro e stravolto per la malattia la lasciava soffocata dal dolore, e tentava un nuovo amplesso, nuovi baci, soffio vitale, pneuma. Bocca baciata non perde ventura. Sognava sbattendosi tra preghiere in chiesa e richieste d’amore agli occasionali amanti, richieste rifiutate. Un corpo di bambola, un pulsante facile. Sognava un lui che Le tenesse una mano sulla spalla, così Sara se lo figurava, nei messaggi che lui le inviava al cellulare, nella voce dolce melodiosa,  giocoso ma intimamente malato, eppure potente come la terra infinitamente amata. Da tempo lei restava solo ad ascoltare con il mento piegato,  ferita da un vecchio doloroso abbandono, senza far altro che fumare e leggere fino a perdere il sonno. Sara Scrive messaggi al cellulare “Amore sono qui,  con una cagnolina come compagna”. Non era più stato felice lui da quando l’inverno si era fatto spesso e le stagioni della sua tenerezza morte per mancanza di tempo da riempire di carezze.
 Le finestre della  camera di Sara danno sul presbiterio, allora è lì la domenica appena fuori dalla camera, per musiche maggiori di quelle che riecheggiano nella stanza delle sue astrazioni di chimera. Eppure lui, sempre invisibile, ma presente, sa esattamente, così lei lo immagina, roteare abile le braccia forti e i pugni tesi, squadernare quelle pareti anguste, e scoperchiare le volte gotiche per aprire al cielo le preghiere e attraversare le nuvole, per scrosci di pioggia adamantina,  perché i manti verdi non muoiano di siccità e piccoli germogli vergini radici abbiano di che nutrirsi. Ma alla fine resta solo un’ombra, l’angelo, l’anima divina. Gioioso prima, l’incontro un caso fortuito di facebook, solo un’amicizia facebook e dopo, dopo, paura allarmante, che ho fatto mio Dio è peccato? Il senso del peccato è l’arma di delitto, lascia ai singhiozzi la possibilità di farsi strada, perché tutto resti così com’è, marcio dentro, e la scatola chiusa, serrata, trasudante carogne e scheletri del passato.
Ma sussurrano le donne  litanie   alla luna strega. La luna  avvicina  il mondo, è fedeltà al fantasma,  lui solare, affamato di voglia di vivere. Sola nuovamente, Sara è  impietrita e fissata su fondo come Dafne fuggitiva, e lei,  donna  che non si è mai fermata con il tenace desiderio d’amore, lei che ha sempre abbandonato o è stata abbandonata, agogna ora il ritorno scacciando i pensieri di abbandono.
Ricordi. Pupazzi di stoffa come le bambole della sua infanzia che conserva, infanzia lontana come matassa inestricabile,  perduta freschezza giovanile. L’immediatezza è perduta. Sogna il mare e i suoi flutti, sì, le perle di conchiglia raggianti di splendore femminile. E  ascolta; l’amore  non sfugge al serpente, è avido di croci ed essicca i cuori perché resti il deserto degli anni e della cura senza speranza. Allontanare il giudizio non è facile. Da bambina era facile riflette la donna, se ritrovassi la fune che mi allaccia al passato resterei a decifrare la concatenazione degli eventi per annodare le trame del destino. Torna però con poca voglia a quei tempi perché il ricordo è una rivendicazione troppo tardiva. E la morte li allontana in una lontananza indefinita. Pensa alla casa, alla famiglia, solcata di rughe,  con la fantasia eccitata,  da sedare con i farmaci, e ricorda la perduta infanzia e giovinezza come in una saga di fiabesca provenienza. Scorre recitando gli stessi interminabili versi in schemi sempre identici. La casa la solitudine i passi le voci. Tornare a cercare è complicato. Pensa al giorno trascorso, rievoca il limite di attimi, momenti di quiete. Prima del delirio. La sfrontatezza delirante è un ordigno che è la lucida coscienza delle responsabilità, della solitudine e di una guida che ha perso. E’ un’ombra ed è un sogno. Un fantasma e un angelo. Mai indiscreto eppure spregiudicato e imprevedibile le ha concesso la piena libertà delle sue azioni senza fare domande perché non si sentisse intrappolata e suggellando nel cuore un patto d’onestà. Ma battono alle tempie le parole di un cattedratico a lei rivolte.  “ora basta sei perversa sterile non comunicativa”. Ora basta. Non comprende, è inverosimile il suo ostinato silenzio, dopo gli insulti, quasi sfacciato di fronte ad una donna che cerca l’intero. Dicono sia pazzo. Eppure tanta sapienza dovrebbe rendere la saggezza.  Sei perversa sterile e non comunicativa le ha detto ed è scomparso, si è dileguato come impossibile enigma. Sono iniziate le vacanze di pasqua e lui non telefona. Continua assorta a scrivere disordinate parole, frugando nella borsa piena di libri per cercare le sigarette. È tornata da scuola. Le piacerebbe sfidare la sorte e imbrogliare il destino, voglia di rinascere come fiore nella solitudine del deserto senza impronte, e lacrime, e fiori senza i quali si muore di violenza. Ma poi il malinteso si è chiarito. “devi smetterla di sentirti malata,  tu ti allontani con questa ossessione della malattia psichiatrica”.
Le gambe tremano paura furiosa di camminare. Paura del vento tra i capelli, Paura dell’acqua che lava il corpo. Piuttosto che lavarsi accende un’altra sigaretta. Paura nullificante che schiaccia annienta distrugge incenerisce. Ferite inferte ai prigionieri del tempo, un demone nemico canta un canto macabro sibilando alle orecchie il rumore che soffoca, voci fantasie parole taciute,  un orologio  esatto ma vuoto. Scavare le parole come in un museo per trovare il resto, i rimasugli della vita che resta da vivere con uno sguardo al cielo. Una terra nuova, un manto d’erba, ciclamini e nasturzi in giardino, sono riposanti, e quando la notte si alzano le stelle si ricrea l’anima che traduce la croce, curvata sotto il peso, inginocchiata, a fatica rialzata la donna chiusa nella sua cameretta di ragazza prende penna carta intreccia parole che la giustifichino .
La messa è finita
«Sicché tutto qui? Bè,  vecchia mia non so che farmene. Dov’è che hai messo le sigarette? Ora non ho tempo, ritorno al circolo per il bridge - il medico ordina di curare la pressione ma dovrei allarmarmi? Trovami il cellulare nella borsa che lo chiamo. Almeno si decide con questa medicina miracolosa!» Nella calca all’uscita una moltitudine ipocrita vocifera mentre correndo i bambini escono scomposti. Il fendente ha trafitto il cuore e i raggi accecano la vista che sbatte e spalanca. Nulla appare più certo, quattro spiccioli al mese e un po’ d’acquisti sfaticati, scarpe tirate a lucido, un cappotto nuovo, la passerella di domenica al centro per non sfigurare. Ma è come essere nudi. Soltanto la donna, che ha sottobraccio un libro nuovo e lucido di zecca, nuovo acquisto, ha un aspetto un po’ diverso. O almeno dà ad intenderlo. Almeno lei ha un libro, un libro mentre passeggia con fare irridente e discosto sotto il cielo, quasi giustificata come in un certo definito tratto d’anima da quel possesso che la distingue, io no, intende, ritorno ai miei libri e non resto a contemplare, non appartengo al corteo di ombrelli in piazza che attraversa la strada sotto la pioggia.
Cercava riposo in quella casetta di anticaglie dal suo lavoro infaticabile. Scrive un messaggio a Giulia “Allora? Come va?”. Giunge immediata la risposta “Matteo è impossibile non si fa trovare mai è pieno di amanti non ce la faccio più…aiutami incontriamoci” “ok appena posso. Sono inguaiata anche io tra psichiatri e paure”.
Colpevole. Per il momento l’altro, l’intruso amorevole, agognato, spasimato, non c’è. Era il suo quarantesettesimo compleanno quando per la prima volta è entrato nella sua casa nella sua vita. Il concerto lunatico della sua esistenza è una partitura misteriosa, genera sogni e languidi abbagli, e ottenebrata perde ciò che illumina e rischiara la strada nell’ordalia dei suoni strampalati e mutevoli.  Orsaggine e selvatichezza si affacciano, la superbia si fa aspra, e si profila spontaneo e immediato il raccapricciante ribrezzo che è la sensazione di restare sospesa nell’aria. Ha sognato che le entrava nel fianco una mucca con sette zanne il corpo bianco come la neve e la testa di smeraldo. L’analista interpreta i sogni. Lei ha sognato la mamma le ha detto. Probabilmente è un sogno di conversione. Vorrebbe nel suo corpo veder nascere un fiore, una rosa,  ma avverte che è un desiderio impossibile e forse per questo gli acquisti di creme profumi abiti non la soddisfano comunque e diventano un fatto compulsivo. Le manca il giardino da coltivare, la fertilità, e il corpo lo avverte come fortezza.  Il vuoto che dice di percepire nel fianco destro, è il sentimento della sterilità. Lei dice di sentirsi mezza, senza la destra, e forata e che muovendo il braccio destro e la spalla destra sente il vuoto dell’anima.  Cerca l’incomparabile e intangibile, cerca l’anima che dice le hanno rubato. Vogliamo provare ad attraversarli gli specchi?” Ma come si fa? Gli occhiali da presbite nella corsa euforica verso il cancello e la strada deserta, dopo quell’ora nella stanzetta d’oro erano caduti, e lei non si era fermata a raccoglierli.. Si ferma a riflettere, non vuole tornare indietro e prosegue. Teme profondamente le responsabilità. E’ l’inizio di un viaggio. Non più  sola e senza orizzonti disponibili. Chi farà scudo al nemico? In fondo era un capriccio pensa. E inconfutabile ha fallito. L’indecente in tutto questo è l’averlo previsto. Aveva fatto irruzione nella sua vita un angelo che agitava la corrente delle sue monotone giornate, e poi era mutato cambiato. Forse lei non comprendeva. II medico che sistema le “teste ha cura di un arto complicato”. Sylvia Plath. Un ordine ragionevole ammorbidisce il delirio e trasmette la sensazione di una timidezza che deriva dalla vergogna. Carica di divisi pensieri, rivendica un’imparzialità che non trova, è imparziale con se stessa e insieme iniqua.
Una  resa a un nuovo amore, si è fatta improbabile davvero? nutre orrore per la dimenticanza. Una donna smaliziata da fantastiche allucinazioni. Non sopporta il freno alle sue briglie che la immobilizza e la priva di dolcezze. Intrisa di frantumate memorie. Ancora pronta a infiammarsi ma con uno sguardo indietro e il pensiero incandescente di aver subito una truffa del destino. Eppure lo sapeva. “ l’idea di qualcuno accanto mi dilania l’anima. Sono all’altezza sono adeguata sarò capace? la risposta è no non sono all’altezza non sono adeguata non sono capace. Pazienza … Ora si tratta di tentare in quella stanzetta d’oro con un estraneo che ascolta e di trovare chiarezza  e di sapere perché accade. Far luce in questo tumulto per  proteggere l’argine che straripa”. In autobus disegna arabeschi su un foglio, distratta, scarabocchia svolazzi, e  viaggia verso future esultanze, ammesso che il buon senso e il criterio dell’analista siano scienza e snocciolino il bandolo dell’anima. Ma l’analista sembra un cialtrone. Comunque è un tentativo.  Affaticata, giù di tono, indossa una giaccone e jeans. Si ferma in un bar per prendere una birra e fumare una sigaretta. Lo psichiatra è l’assassino, e anche piuttosto venale.
Vede all’angolo del vicolo il suo vecchio professore di università, sciatto, trasandato, occhi bassi, passo lento. C’era stata l’anno precedente una discussione durata ore al tavolino del bar del centro. 
Era impazzito, colpa di una donna, quell’essere sconosciuto che non aveva osato indagare per viltà misogina e stima del suo intelletto grave ma forte, di pietra, e per lenire ferite si era fatto con gli anni legnoso, un burattino senza forza che ratificava per mera necessità tutte le ingiustizie del mondo.
Ora era agonia dubbio scomposizione era diventato un cialtrone biascicava le proprie ragioni camminando a passo lento, senza criterio, allontanato da tutti, tutti schiamazzavano chiacchiere da bar, nei tavolini del centro. Lui con la mente ottenebrata camminava con gli occhi in basso e incurante di quel monologo stralunato e solitario che sfacciatamente ostentava, un canto scandito alla pallida luna rivestita di stelle. Un pensiero grigio cupo, un sogno di riscatto ormai abbandonato, un ricordo che richiama l’illusione, poi il no secco della coscienza e la consapevolezza carica d’odio del male subito senza rimedio. La vendetta impossibile inutile fuorviante. Era  un giorno qualunque tra giorni senza importanza; una mattina d’estate inoltrata, dopo una cena in un ristorante del centro, veloce, camminava per il corso con la voglia di distruggere prima di tornare agli studi tra le carte disordinate. All’uscita aveva intravisto un uomo che usualmente ostentava la massima eleganza con una forma di sfacciata caparbia quasi a dire le mie tasche sono piene e se sono piene le mie tasche anche il mio onore, e lo aveva sorpreso a ridere del suo soliloquio da mentecatto. Comunque il ristorante d’angolo dall’insegna sciatta e all’apparenza poco invitante era poco frequentato.. L’uomo pensava e parlava da solo in un monologo strascicato, tornava con angoscia ripetuta a contare gli attimi i minuti che si rivestivano di significati giganteschi, in quel giorno maledetto, in quell’urto improvviso. Battevano le tempie, basta basta, uscire dalla gabbia dimenticare. Bisognava imparare a memoria le regole della comunicazione come la tavola pitagorica, fame una logica del pensiero, conoscere la realtà iscrivendola in un quadrato o mettiamo un cerchio anche, purché sia iscritta perché faccia parte di un universo concentrato e forse rattrappito d’accordo, ma così era solo paura, del futuro, e lui era già vecchio e gli anni si facevano sentire. bastava esaminare la sua andatura incerta gli occhi bassi la vergogna di esserci ancora il desiderio di restare appartato negli angoli nascosti, lontano dalla folla, per capire quanto fosse infelice per quell’anarchia del mondo insensato, come una trottola impazzita e girava e girava e lui non poteva più giocare come un ragazzino con quell’equilibrio incerto su due gambe come moscerini e la rabbia soffocata. Ci sono anch’io raccoglietemi cercate di capire e d’accordo sono superato ma posso esserci, anche se di lato, nascosto, travestito di memorie e rimpicciolito dal peso di una fatica senza speranza, ad occhi chiusi. Regole e leggi nuove da subire in un mondo grande quanto un guscio di noce ma feroce di fronte alle diversità, ostile con chi aveva modi inusuali o non conformi ad uno stile che lui onestamente definiva da bifolchi e straccivendoli da mercato, bifolchi travestiti da nobili per un’osservanza maniacale ad un’esteriorità solo formale. Un’eleganza in fondo triviale come immancabile travestimento e in fondo era l’invidia trasparente negli sguardi curiosi ed avidi.
Il rapimento della voluttà. Ma io, si disse,  molto più abilmente so volare e levarmi rapido in alto per fuggire da chi non avendo ali cammina e cammina una strada faticosa e sconosciuta senza armi di sorta se non la cura della casa degli anni da trascorrere con quattro spiccioli e un lavoro qualunque, e se ho sottovalutato è per via dell’abitudine alla solitudine e modi da vero selvaggio, come minotauro disabituato alla luce, pensò suo malgrado, ma in fondo era stata sbadataggine, semplicemente uno sguardo poco allenato ai colori e ai riflessi screziati e confusi di un’anima senza traduzioni intellettuali, era l’animo gentile di una donna incrociata per caso; sicuramente in cerca di fuga e con poca sagacia e disabitudine al nuovo aveva lui cieco e sordo al richiamo imprevisto, ascoltato con la noia del già troppo noto e troppo detto, per tornare senza perdere tempo tra i labirintici meandri imperiosi e noti dell’intelletto che ai testi si applica senza posa e non ama distrazioni, eppure era l’animo accorto di una donna forse in pena, ma alla fine chi non lo è a questo mondo? Aveva dimenticato dunque i versi di Dante sull’anima? la creazione dell’anima, da parte di Dio
-esce di mano e lui la vagheggia- prima che sia, a guisa di fanciulla- che ridendo e piangendo pargoleggia-l’anima semplicetta che sa nulla.
Pensò che per la prima volta in anni aveva dimenticato di recitare le preghiere prima del desinare. Tre volte al giorno recitava le preghiere e regolarmente santificava le feste - Ma la donna era un pasto a cui non si era mai abituato; lo attraversò il pensiero cosi, nudo e macabro, e ne ebbe orrore, lo ricacciò nel fondo perché non riaffiorasse. “Se si recita la preghiera non si giunge comunque alla fine della giornata con la coscienza perfettamente in funzione e a posto. Non basta . E’ vero che la preghiera prima dei pasti rende grazie del bisogno concesso ai bisognosi, ma non basta”. Così pensava a voce alta come gli succedeva spesso ormai. Era sempre stato metodico e severo, estremamente puntuale e sempre attento alle orazioni quotidiane. non esisteva il caffè a metà mattinata, o l’abbondanza di vini nella tavola scarna e appena apparecchiata di pane affettati e prosciutti, né sigarette o droghe inquinanti, il caffellatte o la cioccolata con cornetto a colazione erano proibizioni che risalivano all’infanzia, quando i soldi erano pochi e il cibo misero e da dividere in una famiglia contadina nella quale nessuno portava scarpe che non fossero state mille volte fasciate per chiudere gli strappi e tenere legata la suola che proteggeva dalla neve i piedi intirizziti dai geloni. Ora se possibile, pranzo a mezzogiorno e alle sei la cena! Ma prima mezz’ora di ringraziamento per il nutrimento che non mancava e del quale si era grati al signore che non aveva abbandonato quella tavola, e dunque santificare i suoi doni era dovere d’onestà e rendimento di grazie. Ma era  la pazzia di un ordine che si era mutato per sortilegio in un incubo incomprensibile per un uomo che aveva sempre preso sul serio il suo spirito quanto la sua solitudine e che ora, nella vecchiaia, aveva creduto di ricavarne soddisfazione infinita per la quantità di beni accumulata in anni di lavoro.
 Sara
E’ tornata, dopo una lite con un lui che la soffocava, nella soffitta, la sua camera di ragazza.
Suona una canzone alla radio in sordina che suggella il limite estremo del giorno, dalla strada sale il rumore frenetico di motori come note strappate di cingoli che stordiscono e abbacinano. Le orecchie. Gli occhi. Di nuovo gli occhi di un’ombra che schiude il mistero superstizioso del suono e ordina il silenzio. La donna guarda di fronte,  in una sua immobilità senza movimenti, fedele cerca di apprendere quell’arte che è il silenzio tra le morte cose, avanza e si dilata l’ingiunzione dell’ignoto, seduta con gli occhi verso il muro di fronte,   le labbra immobili. Di colpo, nel silenzio delle loro voci ammutolite, sale attimo dopo attimo, veritiero, crudele, il palpito soffocato dei loro respiri, ritmici nell’aria, e l’avversione odiosa, febbricitante, annega in una vibrazione del tempo che scorre mutando i suoni amplificati e disarticolati. Il silenzio è un ombra di luce che ha corpo e nasconde il suono teso a vomitate nauseabonde parole. Denso e grigio si riflette il disgusto, la donna tesa all’estremo urla “non ti voglio io non ti voglio”; l’uomo non risponde non si muove,  pietrificato.  Nero vibrante catramoso    il silenzio, e una lacrima scende riga il volto segnato di Sara , segnato di  vergogna, poi lenta un’altra e un’altra ancora, piano si scioglie il tumulto incessante per un attimo di pietà.
Il dolore inclemente, chiuso isolato liquefatto poi spalancato di lei intenta ad ascoltare i colpi che intontiscono. L’uomo cerca la domanda cruciale oltre quelle sghembe parole gridate, paziente ascolta quei frammenti allucinati. Una spiegazione semplice del complesso, un ordine, procedere per deduzione e sbrogliare l’intrico, comprendere cosa implica e perché, e perché spontaneamente come un boato si produce quel delirio che fulmina, inintelligibile. Trovare l’armonia dell’anima comprendere l’inganno e sfuggire alla trappola che è diventata il luogo di lei smembrata in uno spazio non suo, fatto di sbarre. Non c’è stata una parola tra loro in tutto il giorno ma se anche il vuoto ha un nome in qualcosa si deve tramutare. E’ necessario scampare a questa miseria d’amore e delirio che ha frantumato l’incanto dei loro corpi abbracciati. “ L’amore non esiste. Esiste la solitudine l’abbandono la paura.” Dice la donna guardando straziata fra le cose a destra a sinistra come a cercare l’orientamento nello spazio quadrato che non riconosce, negli angoli negli oggetti nelle pareti nei mobili nella tavola apparecchiata.
Ha creduto di essersi persa in una distanza ignota e tra i singhiozzi ha cercato di orientarsi sorda a ogni muto rimprovero, perché la sopravvivenza è così. Una fine una memoria una fuga un fantasma che appare in mezzo alla più conviviale delle conversazioni ed è un’ombra travestita, nascosta, grave, accesa e spenta all’ombra dell’enigmatico silenzio delle strane cose risucchiate. Trattiene il tempo e ne espande le vibrazioni, ed è come morire senza morire, con un nemico accanto invincibile, sulle prime lo credi un angelo e lo tieni nascosto come l’amante più segreto, sedotta ammaliata , ma il tradimento è vicino, ha un passo e avanza marziale, è un corpo diverso, un vecchio aguzzino rigido travestito di fessure che sono occhi tesi, e annuncia cori di voci disgiunte come parti di un corpo metallico, si prolunga in un’eco sterminata il dialogo forsennato dentro il corpo rattrappito, e si svita la testa di bambola dopo un sonno in cui la ragione conservava fedele i suoi buoni quotidiani argomenti. Un intruso speciale, occhieggiante, non uno come noi, con sguardo imperioso trafuga parole nel vigore estremo del silenzio, cicalecci che incendiano, distruggono, fucilano, prefigurano il gioco temibile di una fuggitiva senza speranza nel brivido della solitudine ad occhi chiusi. Il giorno prima c’era stata una scenata. Piangeva aggrappata ai cuscini del divano e graffiava la stoffa, bella comunque nel suo abito di seta indaco indossato per l’occasione nella speranza di mascherare la prigionia che avvertiva dentro, nonostante si riconoscesse colpevole, e quella gabbia dal canto suo la meritava come ogni altra cosa. singhiozzava”tu mi uccidi mi uccidi io soffoco”. Lui aveva il volto coperto dalle mani.  Si offriva paziente a quell’incubo improvviso e atroce. Poi si era alzato e le aveva strappato il bicchiere di mano e aveva urlato “ora mi dici tutto con ordine”. Lei si era schernita e raddoppiando la lontananza aveva respinto il gesto alzandosi con violenza e tornando in cucina a rovistare nell’acquaio tra i piatti sporchi. Io sistemo la casa lavoro fatico. Questo intendeva con le lacrime agli occhi e la testa in fiamme. Le parole cadono e non si vede il loro peso nel vuoto, eppure cadono nel vuoto ma non toccano terra. Un tuono aveva annunciato la pioggia. Lei aveva balbettato piano con un filo di voce “ sei diventato matto? Non vedi come sto tremando? Sei aspro tu non vedi non ascolti non rispondi” E allora lui si era alzato in piedi e le si era avvicinato.
Le aveva stretto i polsi per fermarla o strapparla a quella risonanza incomprensibile. Impressionante orrore della verità. Aveva respinto il gesto ed era andata a dormire dopo aver preso un sonnifero per chiudere gli occhi e divorziare nel sonno dal suo incubo. L’ombra scompariva quando il sonno penetrava proiettando ombre, e ancor prima gli occhi si chiudevano e si compiva al massimo grado il divorzio dal mondo. Una pausa prima delle prime ombre del mattino. Cosa realmente vuole quell’immagine, quella maledizione dalla voce ambigua che fascia stonata e uniforme, rumore di tenaglie, ferro, pezzi di ricambio, la testa irta di crepe non rimarginate? La vita si è iscritta nell’ipotesi di un’ombra che non tramonta, non si getta, s’addentra in ogni angolo in ogni vuoto meandro. L’aguzzino non ha amore, implacabile traccia segni, persegue, scoperchia il suo sguardo, consuma ombre e beve il giorno, proietta profezie loquaci che occultano il mondo nelle pieghe della testa; in una danza infernale lei ascolta lo strepito macabro e sordo, ecatombe di tamburi, quel mostro che apre le porte ed è ovunque vince ogni fragile no, perché non creda, lei, di poter fuggire prima che si compia il sacrificio del giorno più lungo, l’eclissi del martirio, tormento, scura parabola, proiezione della vita nell’ombra, con gli occhi pupille che mettono a nudo il vecchio armamentario dei suoi sogni e dei suoi giorni quieti. L’ombra dalle fattezze azzurre, giocose scaccia i pensieri.  Tornerà da lei per nuove carezze. Il silenzio è ordine. L’ombra divide lo spazio e divide la memoria martoriata, la speranza è altrove.
 Fuggire.
Sara da qualche giorno, non sa quando, ha perso il senso del tempo diluito tra fantasmi e realtà, è tornata dai suoi. Perché le è impossibile continuare, picchiava sui muri versava lacrime, e allora se ne era andata via per trovare pace. I suoni subivano una sorta di incarnazione  ma la gola restava serrata. Aveva sceso ogni gradino con un intensità che era un crescendo di tonalità fino ad un mostruoso forsennato battere. . Ora è al bar della piazza seduta al tavolino. Ha visto il cielo con infinito azzurro e ha sentito il calore del sole Ha visto l’azzurro del cielo. Un sollievo della testa stanca, un risveglio della vita dal dolore riflesso del vuoto. Sorride al cielo ai passanti alle macchine. Io potrei essere o io sono continua a chiedersi? Il fantasma dai tentacoli aveva ferito la sua esistenza tranquilla per tradurla in una infelicità di orizzonti persi. Solo a volte ha occhi suoi per il cielo per il suo cuore libero dallo strazio di quella catena. Il laccio è finito la tela frantumata. Forse. No, , implacabile il nemico s’acquatta e la sorprende e imprigiona, Io ti amo e non mi vuoi. Sussurra piano con un movimento impercettibile delle labbra sottili. Ci separa il tuo orgoglio contro il quale resto inerme , a niente varrebbe scagliarmi. Nelle profondità del cuore inebriate dal sogno abita l’intruso, è li che ha voglia di ucciderla è li che la vuole come in un faccia a faccia che la ammutolisca per sempre. Un orribile battere, una conversazione alla quale finiva per preferire i volgari pettegolezzi cittadini. Le sue guance hanno assunto un colorito appena roseo, l’esemplare condanna a morte sembra scansata nella casa della sua infanzia e adolescenza, ha occhi e parole nelle ore rare di libertà del pensiero incandescente, tra i ciclamini gli oleandri e i limoni, si concede ipotesi di  vendetta.
Voleva gettare fuori il mondo. I labirinti delle sue ossessioni le toglievano il fiato, la vita si biforca e sente di essere inghiottita da mostruose fauci spalancate in un delirio senza rassegnazione, riemerge alla ricerca di qualcosa contro quell’essere che la fa precipitare, cadere in un’inconcepibile voglia di venir coccolata tutta, stremata implora a se stessa rassegnazione.
 Combatte la sua psiche da un’analista.  Dischiudere un tempio di amarezze e solo fortuite dolcezze. La mattina alla solita ora la seduta, all’uscita ha salutato l’analista cordiale come sempre con un sorriso stampato ed è fuggita vergognandosi di quel timido saluto scambiato e della mano stretta, è scesa a piano terra percorrendo vertiginosamente le scale. II suo analista ha emesso una sentenza. Ha ascoltato lo sconosciuto mentre era distesa sul lettino tutto d’oro. In qualche modo sì sente innocente. Perché non si dovrebbe fuggire?
Il professore
Quella donna chiedeva risposte che non ho. L’ho invitata comunque a sedersi al tavolino del bar.
L’ascoltavo annoiato, e lei chinava la testa. Un bel nome Sara. tornava a rialzarsi e guardarmi, sempre in base al mio discernimento che sapeva dosare le parti, semplicemente misurando il linguaggio in base al tempo e allo scorrere e al dubbio che ogni sospensione lasciava in lei quando le toglievo ogni spontaneità nel trattare con gli oggetti e i cibi di quel tavolino apparecchiato in un caffè piuttosto alla moda del centro, perché tutto diventasse un evento e un paradosso. Giocavo con lei come un’Alice nel paese delle meraviglie, “hai braccia e gambe lunghissime; se abbassi lo sguardo li vedi scomparire i tuoi piedi, e lei guardava in basso perplessa, e il tempo che ti occorre per portare alle labbra il cucchiaino di gelato è fuori portata, senza contorno, ti si scioglie prima che tu riesca a organizzare i movimenti di quest’oblungo braccio segaligno e dinoccolato che ti deve essere piuttosto d’impiccio più che d’aiuto, e finisci naturalmente per sporcarti l’abito di gelato, e lei fermava la mano e riponeva il cucchiaino nella coppa gelato che andava sciogliendosi e gocciolando ai lati. Hai gli occhio strani, stamattina devi esserti svegliata un po’ diversa ma non ti ricordi quando, probabilmente ti chiedevi chi diavolo eri, comunque questa non è una tavola pitagorica e non si tratta della metafisica del numero, spicciati con questo gelato. Finirai per protestare di non averne neanche sentito il sapore e non tossire così mangia piano altrimenti ti strozzi. Vorrà dire che lo lasceremo ai piccioni, questo gelato per essere grande è grande davvero. Le venne il singhiozzo. Nei miti indigeni le fanciulli folli di miele non sono sazie di miele e mai sazie dei piaceri del sesso e finiscono divorate dalle accorte formiche. Guarda una formichina sulla tovaglia un’altra, il tempo passa e tu non ti sbrighi a finire questa coppa sei ancora a metà. E lei osservava la tovaglia di cotone blu pensando di veder comparire un formicaio. Non osava disubbidire. Vorrei vederti con le corone di pan di zucchero, sai cosa sono? La deridevo, sta attenta a quel che fai non sai muoverti….sai qual è la seconda lettera dell’alfabeto ebraico? bet e bereshit significa in principio e bet e ben figlio e figlia e bait casa e banha costruire. A te manca un bereshit e ogni mattone tu poggiassi lo poggeresti sul nulla per questo sei sterile vuota e non comunicativa. Niente principia dal nulla se non il nulla stesso. Non capisco se stai singhiozzando o belando, comunque non sai che strada prendere perché senza bereshit non esiste strada. L’amore comunque dice un grande filosofo non prende mai le strade maestre. Ma per prestare il fianco alle frecce d’amore devi dimenticarti di te e ritrovare il tuo principio, e si vede dagli occhi che sei un angelo vagabondo. Se singhiozzi o beli, non mi è ancora chiaro, è perché ti manca il verbo e in principio è il Verbo. Ti appartiene la strada ma dubito che sarà una strada maestra e sicuramente non il principio di un cammino ma qualcosa di sospeso per caso in un risveglio improvviso in un luogo impreciso, neanche tè saprai quale e perché.
Continuava a ricordare, fermo il pensiero a quell’Alice triste eppure forte.
Trovare il modo di rivederla. Aveva anche un nome dolce Sara, “Ma ora, che fare? Se solo ci fosse con me il mio collega che ha il dono di saperne di più risolverebbe l’enigma…” Si soffermò con piacere a pensare al vecchio amico.
Ma poi facebook è stato il lieto fine di tanti incontri-scontri. Siamo tutti amici su fb. Scriviamo lettere inviamo messaggi e immagini. E sono restata una dolce schizofrenica con un uomo accanto che mi sopporta, non so per quanto tempo ancora mi sopporterà. Ma è lui la conoscenza fb. Un incontro dolce dal primo quasi immediato bacio. Fb nasconde il tempo. Ci amiamo da vegliardi con saggezza e comprensione. E rinunciamo alle liti adeguandoci a quanto esiste. Un diario fb. Siamo piattaforme face book, ma lui è vero in carne ed ossa e l’anima mia carnale ringiovanisce. Un paracadutista. Io ho trovato il farmaco giusto contro la mia liquefazione. Una schizofrenica, amore sto per venire da te.
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11:55pm
29
Mar. '13
le brume
Le brume
Lui -Alle prima luci il canarino inizia i suoi gorgheggi. Lei se ne è andata. Ha telefonato ieri sera in preda all’agitazione. Lei - Vienimi a prendere ne ho bisogno.  
Lui -Per tutta la sera ha parlato di lui anzi d’amore—
Lei- lui lo dimentico, devo —
Lui - bene che te ne fai d’altronde
Lei - si ma ti pare facile - giro con frammenti di un discorso amoroso sempre tra le mani. Anche a te l’ho regalato per natale? Lo vado regalando a tutti-E ora capisco che è una un’illusione —
Lui - piantala con lui ti fa del male –
Lei - sì ma vedi lui mi sbarra la strada. — E poi che mi faccio passare la vita così? E il vuoto, lo sai vuoto cos’è no? -
Lui -Lei non si stanca delle visioni immateriali di lui che le consumano materialmente il corpo e l’anima - E’ venuta con voce eccitata ma tremante, intesse da anni il putiferio dei suoi ricordi con la fatica tutta sua di non deporli. E’ col cuore e il corpo affamati ostinata nel non voler destituire la coercizione della nostalgia alla quale si appiglia per non ricomporre un ordine già demolito da tempo. Sfavillava luce in quegli occhi castani grandi spalancati che riponevano lo sguardo nello stupore di osservare tutto quanto fosse nuovo, come a scoperchiare in ogni cosa fuori e dentro la materia spirituale, toccando lieve e assorta tutto quanto trovava per scovare mille cose vive e nessuna morta - vuole luce chiara riposante
-un riverbero cordiale, per muovere l’anima che si è fermata, rimasta indietro per non correre avanti. L’amore è la corrente che riguarda in lei le cose del passato, quasi un po’ morta per l’altro il futuro. Ma eros è una potenza universale, le ricordo, e per amare bisogna amare in modo rinnovato. Io come amico potevo lenire il suo pensiero incandescente e fame pensiero di carne. Volevo il suo pensiero fatto di carne, il pensiero sensuale del corpo che a lungo ha riposto in un armadio, sicura di renderlo più vivo poi, nell’attesa del ritmo del respiro giusto e simultaneo. Mi ha fatto balzare alla mente inatteso il ricordo di versi di Montale, lei stessa mi è apparsa una donna di Montale e ripetevo dentro le parole de La casa dei doganieri, lo sciame dei suoi pensieri. Erano tanti e si affollavano, e con pazienza volevo placarla, ma rimane lo spettacolo che ho dentro del vivace suo apparire - vivido e mosso, con la visione di un pensiero nascosto, la sua fragile arrendevolezza.
Lui -Smettila di girare ti muovi come se avessi l’argento vivo addosso non ti fa bene
Lei - ok suonami qualcosa — senti questa è una di quelle case in cui non si fuma vero?
Lui - per stasera ti concedo di accendere poi vediamo
Lei- l’importanza del sesso per esempio, io credo che in definitiva un sano sesso mi rimetterebbe in piedi, conferisce al corpo di rispondere, e mi renderebbe meno furibonda non credi? pensa al corpo come unico strumento del quale possiamo godere a piacimento
Lui -  non male
Lei -  sì ma la sai una cosa, sono anche anorgasmica, però fammi fare sesso stasera ne ho bisogno, il vero sano sesso quello che scalda piano, senza imbarazzo
- chiudiamo i miei pensieri prima che faccia giorno e discorriamo di corpi, anzi coi corpi, e per stasera voglio ignorare tutto, anche me stessa che penso per sentire rifluire all’interno il sangue pulsante, non alla testa che mi vincola mi tiene stretta alle sue braccia al solo pensiero che non c’è-prova a stringermi senza che le tue di braccia siano braccia che si accavallano ai pensieri, prova a essere presente e assente. Pensa a Platone, una pedagogia dell’anima e del corpo si rivela effettivamente corretta solo quando è in grado di portare a maturità queste due realtà nel modo più perfetto e armonioso. Un po’ filosofa ci sono. No?
Lui -Ma l’armonia in lei difetta della sintesi, eppure è bella ma non lo avverte converte lo spirito in qualcosa di talmente incorporeo da perdere il palpito solo carnale del piacere, per il gusto in realtà di non esserci mai, di esserci senza amore, e se non c’è amore la legge che si dà è che non vi sia al contempo nutrimento per il corpo, solo anima assottigliata, esile come la sua guizzante nervosa figura. E’ la sua dolce arroganza.
Le appare un grossolano errore esporsi al pericolo di essere acciuffata e dover restare, si sentirebbe presa al laccio e vuole rimanere inafferrabile, mentre sogna cose inaspettate, possessi troppo sovrumani.
 Lei - tu credi che le anorgasmiche, quelle che ci diventano o ci sono, abbiamo una qualche possibilità di riuscita?
Lui -  penso di sì
Lei - poi tu pensi ancora a tua moglie  Posso farmi una doccia qui? Non ho fatto la ceretta e non mi sono lavata lui si sposa e io conto le mie rughe insieme al tempo- ma è che mi divoro-e l’ansia divora l’ansia per finire in una voragine d’ansia senza fondo, è una caduta - e non sogno che di lui –meglio nascere brutte che diventarci non giochi mai gli specchi che alla fine devi allontanare per cercare l’essenza e nell’essenza trovi il vuoto, un’eco una balbuzie –
Lui - sei sempre la stessa, le rughe non contano, è che hai una volontà docile e continui a soffrire, ma perché fai confronti e non sai neanche con chi, torna a rivivere, è ora
Lei - lo dici tu — non prendermi per pazza ma l’ho chiamato di nuovo oddio piantala —
Ok sesso allora parliamo di sesso — vado a farmi una doccia- c’è un accappatoio? Sai  questo bagno è rassicurante? Una doccia calda e poi tutto sesso. Penso che tu sia in grado sai di risolvere la mia situazione per stasera, lo credo seriamente, in fondo l’uomo molto più grande, hai vent’anni più di me necessariamente sei così saggio, è meglio del ragazzo. I tempi per esempio si allungano  come le rughe d’altronde— ti piaccio? —
 Lui - volevo dirtelo da un po’ il tuo modo di entrare di muoverti di parlare mi ricorda una poesia di Montale La casa dei doganieri - desolata t’attende dalla sera in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri - — sì capisco l’anima ma la bellezza non richiede Montale sai e neanche l’anima alla fine - le nostre parole sono le migliori, ma hai ragione “il calcolo dei dadi più non torna” –
Lei - insomma ora mi sento prigioniera e non preoccuparti di me  mi sento spettrale e non mi finisce non mi riesce di finirla con il pensiero di lui-
Lui - Mente a se stessa. Non è lui che vuole, ma rimarcarlo ogni volta le  consente di far correre i pensieri a briglia sciolta, e tessere trame
d’abbandono per l’idea che vuole dare di una cattività, e di una coercizione non volute. Perché difetta di un io voglio, di una volontà decisa, e perché ogni vincolo allora le sembra catena, richiede il tempo condiviso lo specchio dell’anima che maschera e nasconde per puerile paura, e inizia a soffocare ed è costretta a lasciare. Credo.
Forse, comunque il suo discorso non torna. Essere di lui lontano (sarà vero che non la ama?) le serve a non appartenere se non a se stessa. comunque
con l’accappatoio e i capelli bagnati sembri un pulcino bagnato —
Lei - mi       metto a letto— oddio è freddo—ti rendi conto che parliamo di sesso e siamo imbarazzati a darci anche un bacio? — o abbracciarci, impossibile come se fossimo immagini di noi stessi svuotate di qualcosa - cos’è che manca al sesso per essere solo sesso? non oserei darti neanche un bacio l’altro era amore e lo baciavo — noi che facciamo adesso? —
Lui - Ti posso massaggiare vuoi?
Lei -  sì mi tolgo l’asciugamano — oddio bello chi ti insegna? — sembra divino i massaggi hanno qualcosa di divino — le spalle premi sulle spalle e la schiena — ora che fai —
Lui - perché cos’hai ho solo posato la testa sulla tua spalla, che hai? —
Lei -  perché mi blocchi, ti appoggi me e non sappiamo baciarci — ci pensi? io nuda, tu mi frizioni e massaggi tutta tutta,  senta paura, e abbracciarci ci atterrisce? Nel massaggio c’è la distanza giusta per essere altrove, in Frammenti  io mi leggo nell’Assenza, la scrive con la A maiuscola -è la privazione - so a memoria il passaggio - il desiderio è qui ardente eterno: ma Dio è più in alto e le braccia levate non raggiungono mai l’adorata pienezza - Dobbiamo provare tecnicamente a baciarci? Lui - «ma sei pazza? Il bacio tecnico?» —
Lei - e allora il massaggio, mi priva della privazione è incorporeo etereo e insostanziale – Da Frammenti - il desiderio si spegne sul bisogno, ma se togli desiderio e bisogno si spegne l’Assenza, e di conseguenza si dovrà accendere qualcos’altro, forse un modo diverso un cuore diverso, un cuore muscolo che palpita ovunque magari nelle cosce nei gomiti nella mani nei piedi , perché sei bravo e mi fai venire il vero sonno e non mi chiedere di ritornare a casa, la tua di casa è bella è immersa tra la terra e il verde ci sono i vetri appannati come nella casa dei doganieri sembra irreale quanto i luoghi della lontananza, dell’assenza, e del c’era una volta.
Altrove non mi sarei fatta manipolare così, ma è poesia questa tua casa, l’accesso anche, nel viottolo sconnesso come un labirinto di sassi e dirupato - sembrava di allontanarsi per entrare in un altro regno, un diversa forma di riposo che viene dal suolo e dalla nebbia, e dalla luce che sa di caldo e di occulto di qualcosa di solitario, il magico interno brumoso di un faro. Ma dicevo di frammenti amorosi - lo so a memoria -nell’Assenza due ideogrammi - le braccia levate del Desiderio e le braccia tese del Bisogno. Il desiderio si spegne sul bisogno. Immagine fallica delle braccia levate, immagine bambinesca delle braccia tese - sì continua così ti prego, i polpacci devi premere e, oddio devo smettere di fumare, e ora dove vai? cosa é  questo? è bello,  talco — mi stai facendo buttare fuori tutto ciò che mi inquina dentro, è una delizia svuotarsi la mente, un esercizio che ho sempre tralasciato.
Lui - Sembra che la sua impressione - timore di me sia verginale. C’è il lei l’onestà della fedeltà al proprio patto con se stessa, si è imparata a conoscere attraversando relazioni ma negando l’anima sua bella. L’anima che tiene chiusa nella sensualità di un no ripetuto, e di un’eccitazione che solo la lontananza di un lui le dona. Non è inconsapevole. Sa di non saper attraversare gli stadi dell’erotismo perché vuole essere presa solo nella parte che di lei è più corporea, l’anima. Il resto dopo. Non vuole per una ragionevole ma involontaria giovanile musicale passione per le ragioni del cuore-anima cervello, e separa con pertinace insistenza il suo io dal resto pretendendo il riconoscimento di un tocco d’anima di due che sono sensualità e spirito in una sferica presenza - fosse pure contro il tempo – e questo solo è presentimento di una reale carnale scoperta, ancora non si accende in lei il desiderio se non attraverso chi le faccia avvertire la materia di cui è fatto l’incontro, ossia una rinnovata verginità dell’anima, per esserci senza memoria, intatti puri come avorio. Credo si avverta ogni volta superiore e recita la parte dell’abbandonata con l’agilità di chi già è altrove.
Ma dove? Dove non c’è che lei sicuramente, nel cuore e nella mente.
Lei - Una brusca svolta della macchina e sono entrata in un sentiero nel quale discendevo sempre più eccitata, un viottolo ogni volta trasversale e ritorto, discendevo in una nebbia che scioglieva già ogni mia tensione. Mi avvertivo furtiva e clandestina come il luogo, un rifugio nebuloso. Qui il mondo si riposa, pensavo di fronte al cancello, e il freddo bagnato d’umido aveva il sapore delle macchie selvatiche con gli alberi scheletrici e il suolo rosso-ingiallito da cui evaporava brina densa-e solforosa - Ora anch’io mi riposo ho pensato, e così è stato. Ho parlato parlato, le mie parole erano le stesse di sempre, quelle presenti, ma erano un disco incantato, mentre concepivano per me del tutto inversamente i miei piedi maneggiati le ossa dei miei gomiti i polpacci le braccia. Avevo la sfrontatezza del dominio su tutto, su di lui e le sue cose. Imponevo me quasi fossi un impero. E pensavo senza pensare, parlavo per ripetere le solite noiose cantilene, gustando al contrario la forza del meditare realmente carnale, quel bellissimo limpido riposare nella testa, per il quale era facile non ascoltare se non da un’estrema lontananza indefinita le mie solite terribilmente noiose parole, erano vuoti simulacri per i miei piedi e polpacci rinati, chiudevo involontariamente gli occhi e avevo la voce per intimare “io qui ci voglio restare” e non mi alzo. Non avrei potuto avevo il corpo già tutto assopito, meravigliosamente rilassato, e il trauma di alzarmi non glielo avrei concesso. Credo avesse delle preoccupazioni. Ma naturali - spero capisca un giorno quanto il disgregare smembrare ponderose speculazioni troppo ardite è ciò di cui ho bisogno, è questa l’assenza, quell’intelletto sempre attivo rozzo e ineguale, non eguagliabile ai miei piedi polpacci gola giro vita cosce e capelli. Sono una così, con me stessa senza divisione. Ma per parlare ripetevo come la ballerina di un carillon le parole d’amore perduto, i frammenti letti di discorsi d’amore, togliendo alle nostre parole l’autenticità dell’essere solo nostre, con astuzia forse troppo argomentativa, meccanicamente ribadivo il già detto, ormai saputo a memoria. Ma la scatola era vuota, alzato il coperchio le parole se ne volavano dopo aver per troppo tempo traboccato. Avrà sicuramente già capito tutto, o forse non capirà, sentirà di avermi fatto del male e non sa quanto bene mi mostra con la sua docile pazienza.
Glielo dirò con un dono gli voglio regalare “Pensare con i piedi” di Osvaldo Soriano. Capirà. E dimenticherà le mie parole, Il carillon incantato, perché sa farmi pensare, finalmente con coraggio, cervello sì, ma con cuore fegato e sesso, e tutto il resto.
Lui - sei dura come il diamante
Lei— sono legnosa, me ne accorgo tu hai mani d’oro — però non mi rispondi — mi massaggi  in un modo che sembra il tuo lavoro da sempre—ma frammenti di un discorso amoroso, che ne dici, ti è piaciuto? — come diceva ti ricordi — sì qui i polpacci pigia più pigi e meglio è  così pizzicato è perfetto la schiena le braccia— neanche ti stanchi ? — Ti ecciti?
Lui - sì ma non è l’eccitazione che conta —
Lei- comunque dicevo niente tenerezze 
Lui - ti ho già spiegato io non mi impegno, c’è mia moglie, sono separato d’accordo, ma non mi impegno     
Lei - non fare lo scemo io rifletto — quanti pochi frammenti d’amore — i discorsi amorosi insomma, non ne pensi niente? — ti ho fatto vedere le foto hai visto cos’ero e come sono adesso che sono appena tre anni che se ne è andato e ho solo pensato a lui e si vedono i segni dei pensieri sul viso - ho un’ ossessione — sì ma continua non ti fermare - però non ti sdilinquire in queste tenerezze - insomma è un massaggio con la frizione, il massaggio da massaggiatore - ma voglio dire poniamo i romantici discorsi d’amore - ti rendi conto che il mio corpo è nudo? - non lo temi  perché non lo temi? Ma senti il fatto che non lo temi significa anche che non lo scopri? E nell’«amorosa quiete delle tue braccia?». E’ un paradosso sai non c’è nulla di amoroso e c’è qualcosa di mostruoso nella tua facilità a trattare il mio corpo e nella pazienza anche
Lui - se ti friziono così puoi anche raggiungere l’orgasmo— Lei - Come puoi solo pensarlo io credo che la citazione di Montale ti sia servita a rendere quel minimo di poesia al movimento delle tue mani - però non fermarti - Penso con insistenza alla bella e la bestia - la fiaba - mi ci fai pensare con insistenza - non parlare di orgasmo, l’orgasmo tecnico non mi appartiene - guarda che se vai all’interno coscia ti accorgi di quanto sono asciutta –
Lui - si sei dura durissima ma hai di bello gli incavi gli incavi del tuo corpo sono belli, e sei bella qui sei un loto
Lei — sarebbe bello mettersi a litigare d’amore, l’amore ce lo siamo dimenticati — il massaggio è divino ma lo sai che mi sento di non esistere? — insomma chiunque fosse qui donna in queste condizioni si riposerebbe con il tuo frizionamento instancabile — mi chiedo cosa te lo faccia fare — forse sei molto generoso — quelli che mi amavano non mi hanno mai massaggiata così per ore e forse così mi stai aprendo un vuoto -e la vista appannata della tua finestra in alto per tutta la parete ha l’apparenza reale del fiabesco — e l’odore di nebbia e di muschio — ma l’espressione tua  è la stessa, hai sempre la stessa espressione di sempre solo un po’ stanco e insonne, si vede che ti manca il sonno, domani non avremo però la sensazione di essere stati in un letto nudi insieme—e lo sai neanche adesso — eppure questa è generosità — vorrei giurare di non fumare più ma è impossibile —
Lui – lascia perdere non ci riesci.
Lei - Chissà cosa vuole lui scoprire di me, e anzi cosa scopre, il mio irrompere strano e impaziente, le mie sconnessioni disciolgono il suo quotidiano metodico movimento sempre uguale forse, o gli sono l’impiccio di una invasione improvvisa e improvvida, oppure gode giustamente di         un’innocente voglia di godere del suo faro, nonostante la trascuratezza delle mie parole, e gli ordini che impartisco, difendendo le zone più intime, negandogli le carezze che forse avrebbe per me ma io non voglio. Mi ostino a ripassare formule svuotate, quelle dello sgabuzzino della memoria, quelle sempre pronte e rigurgitanti, basta attingere, e riafferrare vecchi interludi, quelle overtures sempre uguali. Dovrei dargli tregua, almeno un intermezzo.
Il polpaccio l’altro — senti che legno che sono — sono un legnaccio — un pezzo d’albero e lì sono sempre dura — insomma dicevo il bacio la tenerezza— sai io mi pento di un uomo che non ho avuto e era dolce perché era uomo e protettivo e mi parlava con paterna premura e ironia - la schiena inizio a sentire –con l’olio così- una settimana tra le tue mani, diventerei un’altra e brancolerei un po’ meno — sai che ho perso il tatto? —ma hai mani possenti - le immagino pelose - come quelle della bestia – hai anche la dignità alla fine della bestia di fronte alla bella— ma tu perché non    parli? –
 Lui - perché non serve, ascolto lo sciame dei tuoi pensieri — parli te e sei un pulcino impaurito –
Lei - mi fai accorgere di una cosa - i piedi sì, dio i piedi ho il cervello nei piedi io le mie molecole migliori sono nei piedi - mi sembra di rinascere, anzi mi fai crollare dal sonno - è la prima volta che non penso niente non ho pensieri - però la riflessione filosofica te la dico - So che c’è tua moglie e io non sono emozionata e non ti bacio perché mi sentirei tecnica e tu saresti tecnico a letto - ma dimmi la verità - tra l’essere folli d’amore e l’essere tecnicamente sempre pronti non mi dire che non ti piacerebbe essere pazzo d’amore - o vuoi che il desiderio si spenga sul bisogno, il tempo fugge e l’attesa ci profana lo sai? aspettare che lei - lui chiami come un condannato a cui si rifiuta la grazia - “squilla squilla accidenti” e ogni volta si fa qualcosa sperando che serva — sai del tipo se accendo una sigaretta e preparo il caffè quando sbuffa la caffettiera allora squilla - ma sono preoccupata sai dimmi un po’ ma tu frizioni passi con le mani nelle zone più dure e contratte e mi sciogli, come se mi smontassi per rimontarmi meglio la testa che ha smesso di funzionare ma inizi dal basso dai piedi- ma è perché hai capito che soffro? - oppure sei un santo? –
Lui - anche a me metterebbe in imbarazzo la tenerezza —
Lei - figuriamoci se mi penetrassi - non riesco a unire quest’uomo del massaggio - mettiamola così, ti chiamo così - all’uomo che ansima e gode mettiamo alla penetrazione della mia vagina - scusa fammi dire però fica - sennò mi sembra veramente qualcosa  troppo meccanico tutto - Io sono sicura che sto bene da morire, ma domani non sarò emozionata, ma senza le tue mani il calore delle tue mani mi sentirò legata- ora provo a non parlare - non dico più una parola - l’altra cosa che ti ho segnato ti ricordi su frammenti del discorso – “Dopo un crollo la psicosi da crollo ci difende dalla psicosi del crollo. La psicosi riproduce psicosi”- Telefonarti mi ha salvato - stavo crollando un’altra volta e questa volta ho trovato la casa dei doganieri e le potenti mani della bestia - io la bella ok? - c’è una cosa che non ti ho detto quella foto di te piccolo sul pianoforte io devo averla sognata - c’è un dejà vu - lì ti vedo - e non credo al modo in cui mi parli della tua separazione - e il tuo ordine spaventa - è un ordine cattolico? Questi libri sui vari Don mi fanno un po’ orrore - bellissimo così continua il giro vita tutto, il giro vita  da tutte e due le parti ne ho bisogno - stasera mi sono accorta di una cosa io ho perso il mio corpo - devo fare qualcosa che mi risvegli - si è anestetizzato - si è fatto tardi per attendere - la vitalità richiede che se ne abbia cura perché il successo non dobbiamo concederlo a chi ci sigilla la vita
Lui - La materia di cui siamo fatti è uno dei fattori determinanti dell’opera, l’armonia alla quale ritmo e melodia si aggiungono come personali momenti, mai assolutamente coerenti, anzi mutevoli sempre, come tempo che si applica alla materia pensante e irrora trasformazioni che mutano la nostra sorte, se il tempo del ritorno dell’essere sempre ripetuto consente a noi impigliati nella tela di ragno l’apparizione di una improvvisa epifania. E’ ciò che lei vuole, un improvviso inaspettato apparire che muti il corso sempre uguale di un fiume regolare la cui ansa non fa che ritornare su se stessa. Qualcosa la rende perennemente insoddisfatta, e diventa una fortezza inespugnabile. Ma il  perché, non si comprende.
Lei - Che ne dici della danza o qualcosa che mi ridia il mio corpo? - se oggi ci fosse il bacio e le parole tenere e il discorso amoroso con questo massaggio divino e lungo ci sarebbe un principio -  e invece mi fa un sacco bene essere maneggiata ma mi sembra  fisioterapia e l’anima scusa? - sembri  il     medico che mi rimette in sesto - insomma io sono qui nuda tu tocchi tutto intero il mio corpo e una tenerezza mi farebbe tornare indietro  guarderei con terrore il tuo corpo -  in questo momento il tuo corpo per me non esiste - è solo scienza - voglio dire come se fossi un medico - il         resto ci potrebbe solo annoiare - non sarà che il massaggio serve per riempire il tempo come se non avessimo nulla da dirci -  perché non ci sono le carezze? - però sei carino forse hai capito quanto sono disperata - ma ora sto zitta ora provo il silenzio.
Lui - Si è addormentata. Un sonno profondo.
 Lui -Ho maneggiato per ore il suo corpo che ha definito legnoso, era diamante. E in effetti era dura e contratta come un blocco di marmo, ma bella però. Io a malapena ho dormito - Per un po’ ho pensato di lei sol una cosa. Pensavo Al la Casa dei doganieri, quando gliel’ho detto e quando glielo dicevo si arrestava confusa, era un pulcino bagnato che chiede premure. il corpo di legno sì ma bello ben fatto solo contratta sofferente.
Ho recitato i versi fi Montale mentre lei non riusciva a stare un attimo seduta come se il suo corpo scattasse per lei involontariamente si alzava tornava a      sedersi si rialzava girava le stanze assaporava il limoncino di Sicilia e se ne versava per scaldarsi e forse voleva sciogliersi con l’etilico e le sigarette Aveva l’accappatoio e i capelli bagnati e ho capito che si sentiva poco donna.
Desolata t’attende dalla sera in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri, le parole di Montale. Si sentiva separata ne sono certo, forse tranne da questa casa che è immersa in un verde disabitato selvatico con la nebbia bassa e quasi sulfurea. Era disarmata di fronte alle sue ragioni, sulle quali deve aver riflettuto molto e da molto, e alle mie risposte si vedeva ferita. Non comprendi non è a te che mi rivolgo quando parlo della tenerezza che ci manca, voleva dire, e io continuavo la mia tiritera involontaria ma non troppo, forse troppo maschile sul fatto che non siamo più ragazzini e ci è nota ogni cosa. Ha ragione a parlare del bacio, e dello scoprire nudità con la semplicità con cui trattiamo oggetti dei quali siamo troppo sicuri. Ho letto in Frammenti di un discorso amoroso - scrutare vuol dire frugare.. sono come quei bambini che smontano una         sveglia per sapere cos’è il tempo.
Mi ha fatto riflettere. Ho massaggiato il suo corpo e ho parlato con estrema facilità di orgasmo e giustamente mi ripeteva - ma se neanche abbiamo il coraggio di una tenerezza di un bacio? –ma io imponevo  il mio io con la pesantezza di un grande         ancoraggio, forse l’incoscienza, non ho compreso L’intelligenza delle sue parole, a lei che per non amore mi ha regalato frammenti di un discorso amoroso ho solo risposto “ti ho avvertita non voglio impegnarmi” - non l’ho capita o mi sono difeso? Pretendo che l’abilità delle mie mani potenti da Bestia come le ha chiamate le sostituiscano la tenerezza di un uomo? E la mia presunzione poi, lei è la prima, a non volersi impegnare non con me, ma io maschio mio malgrado stabilisco l’ordine delle priorità sono io a dirlo per primo
non voglio impegnarmi -con la sicurezza del no, che è inevitabilmente l’affermazione di una certezza, che dall’altra parte ci sia una richiesta speculare e ribaltata. Non le passave per la testa di volere di più da me, bastava riflettere sulle sue parole, non è una ragazzina e se avesse voluto mi avrebbe semplicemente avuto, con il sesso tutto quanto. Mi diceva qualcosa di grande mi diceva che l’imbarazzo che aveva nei confronti della tenerezza la faceva soffrire, è un imbarazzo da giovaneche ancora non vive il sesso per il sesso e non vuole il tempo però della costruzione, quello dell’età della ragione. La mia risposta era la risposta di un vecchio, riguardava il tempo il fare progetti di vita che proclamavo virilmente impossibili a lei, per la quale nulla di questo poteva interessare, tanto meno trattenerla a pensare al futuro a lei dall’aria così sbalordita che faceva da padrona perché le davo la possibilità di non pensarmi, di sapermi senza sapermi. Io questa note  non c’ero per lei, in lei la tenerezza è un pensiero che rimane giovane e senza tempo, è la sua giovane vergine bellezza. Bastava capirlo con un banale volgare ragionamento: che cosa le avrebbe impedito di fare realmente sesso? Nulla non è vergine di certo, e di baci ne ha avuti e ricevuti, e appena ho poggiato la testa sulla sua spalla ha detto no questo no. Per lei sono stato veramente una sorta di massaggiatore. E a lei ho parlato di orgasmo. Ma forse è giusto, solo che ora non ci sarà altro, né tenerezza né parole più intime ho reso tutto poco intimo con la mia povertà di giudizio, e la mia tutta maschile e meccanica possibilità del sesso comunque Ma se esistono due specie di movimento, l’alterazione e la traslazione, qualcosa in lei un       passaggio deve esserci stato, un movimento verso uno scopo diversamente determinato. Qualcosa di traslato che le tolga finalmente l’immobilità di non essere in nessun luogo e in nessuna cosa. E l’anima? non me ne sono dimenticato mai, non me ne sono dimenticato con lei nuda nel mio letto - non voleva che le         accarezzassi in nessun modo neanche lievemente i seni Montale mi è saltato alla testa involontariamente e ancora rimane nei miei pensieri. Le parole di un poeta. Ma alle mie parole manca l’intimità, alle mie mani nell’Assenza la tenerezza, alla mia bocca, nell’Assenza, il sapore del primo bacio vergine con una donna sconosciuta, ai miei pensieri la giovinezza che queste tre cose insieme consente, al mio ordine il disordine di consentirle al risveglio una sigaretta dopo il caffè, alla mia voce la dolcezza intrisa com’èra dell’asprezza del risveglio al nuovo giorno, spezzato l’incanto (ma quale incanto?) « ieri ti ho consentito le sigarette, stamattina mi dispiace no». Il vero incanto erano i seni che non si faceva neanche sfiorare. Timidamente ha detto, era un canarino vergognoso, perdona il mio russare se ci fosse stato. La mattina cosa era cambiato perché lei non potesse godersi in santa pace una sigaretta? Come quel messaggio di scuse al cellulare, un continuoi  “mi dispiace mi dispiace di non poter uscire con te”, un messaggio poi lungo troppo lungo, mentre ho saputo poi che lei era con gli amici fuori e io messaggiavo replicando in scuse per la mia involontaria assenza. Ha ragione lei, siamo immagini della privazione, ma c’è in lei un’invidiabil giovinezza che la rende d’argento. Il desiderio ancora intatto virginale di un lunghissimo bacio, nuove carezze ai seni che difende dal triviale contatto, e il no deciso a me alle mie mani su quelle perfette intatte rotondità, un troppo per le nostre troppo maschili facili disinibizioni. Il mio seno non lo tocchi, intendeva, non lo puoi visitare né ispezionare, è come materia pura dallo spirito umido che vi dimora più denso, solo mio. Li tu non c’entri. L’anima, ciò che muove se stesso. L’anima è l’incorruttibile. Lo stesso furore di lei ha qualcosa di incorruttibile che trapassa senza farsi attraversare dalla molteplicità degli incontri, e non replica se non sempre e tenacemente «io sono altrove». Odia ed Ama con furiosa sconnessione, come molla che si allenta per poi ritornare alla situazione di partenza negando di esserci stata. A che è servito? Direbbe  forse qualcosa - ma per fortuna non abbiamo fatto l’amore, aggiungerebbe, questo ti rende nobile, mi dic l’eco delle sue parole rimaste, penserebbe  «la tua generosa sottomissione  è l’attenzione sensuale di cui ti sono grata nella perfetta armonia che ci rimane, Tu il faro di una notte, sapersi senza l’immane pensiero di sapersi nel tempo insieme». Fugge e so che non vuole in nessun modo restare… per essere imprendibile e salpare altrove con il suo solitario pertinace remare nel vento. E questa è la sua vera Assenza. Ed è la sua essenza, lo sciame dei suoi pensieri.
 Lui -Sono tornato a casa stanco. Ha squillato il telefono era lei
Lei - Ciao, te lo devo dire sei divino, ho un regalo per te spero ti piaccia, è un libro, so che ne hai letti molti ma questo forse ti manca-spero- E’ di Soriano, Pensare con i piedi, il giorno che ci vediamo te lo do. Mi hai offerto il sonno più bello del mondo, e ora penso tutt’altro sai, se ne andasse al diavolo lui, in fondo ero solo arrogante, ero troppo assillata, non me ne importa più niente, so cosa pensare e lo devo alla tua pazienza - di’ chi ti ha fatto così, paziente e generoso, sembri irreale, quasi un’anima a  parte. Io sono sempre impaziente e divoro tutto, sabato ci vieni a vedere Prendimi l’anima di Faenza?
Lei -Sono tornata a casa con l’idea che mi avesse fatto bene. Ma poi ho riflettuto, sì non nego nulla, è un principio senz’altro. Ma cosa non mi pace di lui? Non sa ridere di sé di noi di me e ha perso l’anima del ragazzo quella che fa di un uomo l’uomo  da desiderare e tutto da baciare, riempire fino a traboccarne di tenerezze e giochi e accortezze. E allora ho gettato un cencio di poesia - io non sono un poeta – ma ho nell’anima il mio trobar oscuro.  rimani un ragazzaccio. Ho ricordato il mio primo amore e le lezioni della mia insegnante che ci parlava di quel ragazzaccio di catullo
Chi mi dice ti amo
chi mi guarda e si volta
chi mi scruta e non vede
chi mi rigetta
cento occhi intorno non sono i tuoi occhi importanti
smarriti per aver perso l ‘occasione
di un campo di margherite
di una salita pazza tra capelli scarmigliati
e giunchi scostati
Il ragazzo vuol essere ragazzo e pellegrino
Con l’onestà tesa perché tu salga ripide salite
Per discendere placata dal mare
Dalle forti bracciate dalle immersioni dagli
Schizzi giocosi
Dalla risacca sotto il sole
Tu e il pellegrino.
Con adolescente ridente
Scattante preghiera
Sii mia ora, intende
girandomi
Intorno in un divertente
Girotondo
Mentre le ossa dei morti dimentichiamo
Dimenticavo tra le sue zampe feroci, felino
E dolce
Allacciato alla vita
A i fianchi sempre più dimessi
Alla pelle che si insabbia mentre sale
e sale ancora e ritorna il mare
E si scolora
L’osso duro del cranio
Aggiogato
Ai pazzi pensieri
sono suoi i pensieri
mio
L ‘altare mie le braccia mia la pelle di felina
Mia la ferita che attraversi
Quando con accorto clamore   irrompi
con il tuo o traboccante spumeggiante
liquore
Ed ecco allora il ricordo di un prato sterrato
intorno plastica smessa e io ora io
sopra come un giunco mosso dal vento
catturavo l’estasi e lo sfinimento
In ricordo di questo ti chiamo
Ragazzo
Dall‘arco d ‘acciaio
Punta sui miei i tuoi occhi
se ti cattura la voglia
Ritorna esclamo senza vergogna
Nei profondo di un recesso incarnato
Carne viva essiccata, dimenticata
 ad asciugare come bianco panno steso
 Al sole di un’estate vecchia e opaca
Abbiamo i luoghi
E perdiamo i nostri luoghi
Ragazzo
ferisci la mia profonda
voraginosa
Ferocia
quando lasci e abbandoni
Chi soffre per te
Ora è cranio lavorato
le tue membra di tigre più
non curano lacunose profondità
ma se il giunco non spezza
ritorna il ricordo di te
pellegrino
ritorna la tempesta
ti invoco
dal paese straniero
del tempo
c’era una volta
racconto
intorno al camino
E soggiogata nel letto di spine
Quando vinta la fatica di essere
sono fanghiglia
Tra il verde fango e le crepe terrene
Allora é desiderio esultare
Di un giusto santo accordo
Ma ora è ricordo
Il nostro
Di noi
ragazzi
Luogo santo
Un verde prato di margherite
Dov’è
Ora?
Ora
Possiamo stringerci
Ti fai un po’più in là
Non così ora
Ma insomma che fai
Sgualcisci il lenzuolo, sistema meglio
Quella gamba
Prova ad alzare un attimo magari così che dici?
La carne limpida e levigata
Quella di una santa
Ma guarda un po’ che santa
Il ragazzo non torna
Lo invoco
Ora è un uomo
Si guarda indietro  
distante?     
Dove sei e chi sei ora?
fra le brume?
io torno al
mare
quando è
brumoso
perché là giacciono e mi attendo
le parole che non dico
e lì devo farneticare
troverò occhi neri profondi
e verdi
e troverò
le parole
sconosciute
là sarà
la mia consistenza al tramonto
sul mare,
·          
5:53pm
25
Mar. '13
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·          
3:36am
26
Feb. '13
il flauto magico
Breve premessa
Sintesi della trama dell’opera Il Flauto magico
dal Dizionario dell’Opera
…In un antico Egitto immaginario. Un paesaggio montuoso con un Tempio sullo sfondo. Il principe Tamino disarmato, è inseguito da un serpente; sfinito cade svenuto. Dal tempio escono tre dame velate che uccidono il serpente, e dopo aver ammirato la bellezza del volto del principe, si allontanano per informare della sua presenza la loro signora, Astrifiammante, la Regina della Notte. Tamino, ripresi i sensi, crede di dovere la propria salvezza a un curioso personaggio comparso nel frattempo: è Papagheno, un uccellatore vagabondo vestito di piume, che canta accompagnandosi con un piccolo flauto di Pan.  Papagheno conferma le supposizioni di Tamino, ma subito le tre dame lo smentiscono e gli chiudono la bocca con un lucchetto d’oro.  Poi le fanciulle mostrano al principe il ritratto di Pamina, figlia della Regina della notte. Il giovane se ne innamora all’istante.
Con fragore di tuono appare nel cielo Astriffiammante: ella spiega a Tamino che la figlia le è stata rapita dal malvagio Sarastro e gli chiede di liberarla , promettendogliela in sposa. Le dame donano al giovane, che si è offerto di salvare Pamina un flauto d’oro dai poteri magici: liberato Papagheno dal lucchetto consegnano anche a lui  un dono un carillon fatato e gli ingiungono di accompagnare Tamino nell’impresa.
Sala nel palazzo di Sarastro, Pamina che ha tentato di fuggire per sottrarsi alle insidie del moro Monostatos, viene ricondotta indietro da costui con la forza. Sopraggiunge Papagheno, e Monostatos, spaventato dal suo strano aspetto, fugge. Papagheno rivela alla fanciulla di essere stato inviato dalla Regina della notte, insieme con un giovane principe che l’ama, per liberarla.
Un bosco. Guidato da tre fanciulli, Tamino giunge dinanzi a tre templi: mentre l’accesso a quelli della Ragione e della Natura gli viene impedito, la porta del Tempio della Sapienza arcanamente si apre. Un Sacerdote spiega a Tamino che Sarastro non è un essere malvagio e che Pamina è stata da lui sottratta all’influenza materna per superiori, giusti motivi…
Atto secondo
Sarastro chiede ai sacerdoti degli iniziati di accogliere Tamino nel tempio, dove verrà sottoposto alle prove che gli consentiranno di appartenere alla schiera degli eletti  e di sposare Pamina…la richiesta viene accolta e tutti  invocano Iside e Osiride affinchè donino alla nuova coppia spirito di saggezza.
Le prove
Prova del silenzio
Prova del fuoco
Prova dell’acqua
Superate le prove i Sacerdoti celebrano la vittoria della luce sulle tenebre. L’amore di Tamino e Pamina
 Il  Flauto Magico”
Frequentava le conferenze del ragazzo. Ora il ragazzo è un uomo. Il suo volto ha qualcosa di non definito, non calcolabile.
Ha descritto un’opera. Un ingegno particolare, ma oltre a questo molte ombre si addensano intorno a  parole troppo irreali e troppo giuste per essere solo frutto di studio. A chi si rivolge, si chiede? A me? «Mi guarda senza guardarmi, mi osserva e non guarda e ascolto quella melodia di strane parole come una funambola all’inizio della sua carriera di artista. Sono attenta, non perdo una parola. Ascolto per non perdere l’equilibrio delle parole». L’opera è il Flauto magico di Mozart. Il ragazzo è molto veloce  e si stenta a prendere appunti. «Vorrei ricordare non solo capire, eppure quelle parole sono troppo esatte per non essere comprese e troppo presenti per non essere dimenticate. Capisco le parole, il loro ordine il senso dei gesti, alcuni errori ripetuti, lapsus frequenti, scambi di nomi. C’e però un mistero».  C’è un incanto che prende tutte, eppure lei avverte se stessa come non si è mai avvertita. La percezione di un centro e di un centro forse virtuale.
«sto leggendo Alice nel paese delle meraviglie e attraverso lo specchio, mi sembra di attraversare meraviglie attraverso giochi di specchi.
Alice…non fece neppure in tempo a pensare che era meglio fermarsi, perché si trovò subito a sprofondare lungo quella specie di pozzo veramente profondo.
               O il pozzo era molto profondo oppure Alice cadeva lentamente: il fatto certo è che , prima d’arrivare in fondo, ebbe tutto il tempo di guardarsi intorno e di chiedersi che cosa le stesse capitando
«La presenza di me era così fisicamente percepibile  da risultare l’unica presenza all’interno di una folla neanche anonima». Crede di capire eppure non comprende. E non si chiede, solo partecipa e osserva, come negli scaffali di una preziosissima libreria alla quale si è inadeguati, perché è suono vista e qualcosa di non definibile, una memoria, una versione costruita per un fine… E’ tutto questo messo, insieme, «l’artefice è lui ma il centro immancabilmente «sono io» si dice la ragazza, presa da un turbamento che la rapisce. Il giovane.  Descrive la corsa in musica, la corsa è giovane i bimbi dice corrono non verso una meta corrono per il solo correre, parla di un’energia interna e dalla natura della corsa dei bimbi come loro propria natura. L’Opera è il flauto magico. Il video mostra Tamino che entra in scena correndo inseguito dal serpente, e la musica è veloce con schiamazzi e come forti pestate. E’ bello è una musica descritta umanamente. Correndo calpestiamo, e allora la musica riproduce esattamente il suono. E’ un giovane pestare, una corsa disordinata, una fuga mal eseguita, perché la direzione di Tamino bambino è la direzione che non può esserci nei bambini. Fugge e sgorga l’energia correndo, trapassando dall’una, la fuga, all’altra la corsa senza un fine e un traguardo. 
Usa queste parole, come prese da una memoria che torna e da un luogo colto a prestito ma esattamente osservato da una visuale obliqua, come di traverso, «non deforma nulla dice ciò che suona a tutti noi come il nostro proprio vissuto la nostra personale memoria, a volte il rimpianto». Evoca ciò che non si ricorda se non come un passato perduto, c’è una giovinezza il lui invidiabile, la giovinezza di chi già non ha nulla da sapere e racconta agli altri ciò che hanno vissuto e non potranno più vivere. I luoghi santi della giovinezza. E la giovinezza è amore… La sua versione è tale da diventare quella di ognuno. E’ un’arte magistrale, è molto poco in concreto il discorso, brevemente riassumibile, è un dire ipnotico nel quale ognuno vuole riconoscersi per perdersi e ritornare… In tre conferenze di tre ore ciascuna, le parole dette sono molte, l’arte di dire è raffinatissima, e il vissuto di ogni parola è misura del presente, l’ascolto, e della memoria personale di ognuno, il passato. Dentro ognuno si cala il ricordo. La versione appropriata al ricordo  la dà l’ascolto delle parole del ragazzo. Ci fa sognare, «a me fa sognare», dice e pensa la giovane. «Io sono il presente, sono l’unica nel presente l’unica lì a sognare ancora e a sognare un futuro d’amore e d’assoluto». Quattro i personaggi in gioco anzi cinque, Tamino e Pamina, lo spirito, Papagheno, uccellatore dalle piume e Papaghena, la carne, ma in realtà non parla di sensi lui, ma dei giovani che di spirito poco vogliono sapere e invece di contorcersi nelle riflessioni di noi che dallo spirito siamo posseduti trascorrono la vita tra discoteche e giochi e spiritosaggini. E Astrifiammante, la Regina della notte, i lati isterici delle donne, delle madri, dice lui. Accenna al suicidio spesso. “Gli adulti si uccidono per denaro, il giovane per altro, anche solo perché è giovane”, Cita aneddoti romantici sul suicidio, Kleist, per esempio, che cerca una donna per uccidersi nell’acqua la trova e poi lascia che sia solo lei a uccidersi. E’ una strana esaltazione del suicidio, Romantico e giovane. Insiste molto poi sul Tempio, l’educazione sacerdotale, e il contrasto tra il flautino di Papagheno e il Flauto magico di Tamino “Ora scusatemi,…pausa, Il flauto di pan il flautino di Papagheno sta per l’organo sessuale” In sala echeggia una risposta soffocata di tutti. E’ piacevole  ascoltarlo è divertente, lo sa dire lascia intendere una sua potenza. Il flautino non gli appartiene. E infine il carillon magico che incanta e seduce come in una sospensione, come quando le giostre sembrano fatte apposta per essere solo osservate e fermarsi e fermare i pensieri e perdere la cognizione del tempo e dimenticare di aver vissuto di vivere il dolore.. «Mi avverto diversa. Mi proietto attraverso le sue parole in un futuro senza passato. Non penso alla memoria, la sto abbandonando, e sono troppo giovane per non subire l’incanto di un futuro attraverso l’unità stessa della memoria» pensa la ragazza e torna a casa e prende appunti sul suo diario, ma le appare uno svilimento, perché sono parole troppo presenti sono «le parole se stesse» così le definisce «le mie parole hanno il se stesso, mi ci imbatto, le trovo per caso cerco di sfuggire ed emergere, ma il se stesso delle parole è discordante e mi sembra non di disputare un incontro, ma di allontanarlo» Prova a prendere il dizionario dei luoghi comuni, a modificare, legge Byron e Puskin, Eugenio Onegin, ma è sempre se stessa, variabile mutabile, mentre lui il giovane, discute dei Werther e dei loro tormenti, e al contrario dell’importanza capitale di condurre la vita secondo schemi di regole e leggi fisse e immutabili, come nell’arte della fuga di Bach. Le leggi del contrappunto «E’ inverosimile, o è un falso o un paradosso, è troppo giovane per questo» scrive la fanciulla. .Ed è già memoria, è già tutto detto attraverso l’oblio delle parole. «L’oblio mi spezza le redini. I legami mi si sciolgono e l’unica cosa che avverto smisuratamente fuori luogo sono le mie nude parole. Sono casuali, quelle di sempre quelle inevitabili, quelle senza storia o senza proiezione, semplici parole con tutta la pesantezza delle pietre lanciate. Incanta i miei occhi». Ascoltare con gli occhi dà una specie di euforia. Sembra che gli occhi percepiscano un’eco rimandata da un passato che annuncia un abbandono. Tamino e Pamina, «due assoluti invincibili». E’ lei a dirlo del tutto involontariamente . «Perché invincibili?» Chiede lui. «Pamina non può essere comunque vinta». «Perché?». «Ma Pamina rimane se stessa anche attraverso un’altra veste o qualsiasi veste. L’anima è la volontà di vivere è il combattere, e non solo segue Pamina ma ha l’anima per combattere. Ai quattro angoli manca qualcosa, una forza in più, una pari dignità d’anima. E poi sbagliare, sbagliare per cosa, per rimanere dove, e perché?» «Ma  noi capisci cosa sbalglia Pamina? Sbaglia nell’affrontare con lui le prove, sbaglia perché lo segue, mentre dovrebbe fermarsi.  Non le appartengono le prove, eppure non rinuncia a lui, non aspetta partecipa».«Ok, sai ciò che trovo veramente orrendo? Che le prove le vedi di lui e non di lei, lei è amore, ma non solo»  «Sono nomi strani nomi di nessuno, nomi irreali a non adulti» scrive poi la ragazza nel diario, «perché si ostina a volere Pamina inferiore?. Storna lo sguardo, vede un orrore in me? Forse, forse c’è qualcosa nelle mie parole di troppo. Un tono, un modo, un qualcosa di impossibile. Sento di essere disumana, non sono nessuno, o forse non ho le parole o la voce e comunque non esiste in lui nulla da capire. Sta affermando, è rivolto a me, e alla fine chiedo: “Ma chi sono Tamino e Pamina?” “Allora hai capito risponde“». Nel finale dell’opera interviene in modo strano quanto affascinante. Un finale che colloca Tamina Pamino, In una lontananza offuscata, un mare, un’isola, e da lontano si intravede una veste sacerdotale di entrambi. Si sono persi entrambi, sono sacerdoti, e forse l’immagine è quella di un equilibrio di morte. Le prove, la prova del silenzio del fuoco dell’acqua, sono superate ma ciò a cui sono condannati è la loro stessa serietà, il loro gioco estremamente serio e la vulnerabilità di lei che segue un destino non proprio. «”che destino?» Chiede di nuovo. la ragazza. Tiene il suo diario molto perplessa per le sorti di Tamino e Pamina e infine racconta nel suo diario da cui attingiamo
 «Mi guarda con occhi vacui e gira la testa guarda in basso. C’è un rovesciamento, un ribaltamento delle prospettive in tutto ciò che dice. Il centro sono Tamino e Pamina, e alla periferia Papagheno e Papaghena. Ma mentre riferisco su questi fogli sparsi  il contenuto logicamente catturato, so anche che emotivamente è a me che si rivolge. E mi chiedo quali prove dovrei superare, e in quale Tempio regno dovrei entrare.  Ha gesti sensuali , ma un colorito esangue.  Gli ossequi alla fine di ogni conferenza sono immancabilmente cerimoniali durante i quali ci allontaniamo, perché le mie parole sono così mie e così carnali, sensuali. Cioè vuote?. Nella circonferenza alla quale appartengono le sue stesse parole  carillon io aggiungo un raggio, impulsivamente, per fare da Pamina, vorrei dire, e invece temo cosa? Di essere la solita Papaghena, la solita sciocchina! Non comprendo quello sguardo senza espressione, quel vuoto negli occhi se rovista dentro trova qualche cianfrusaglia e molto poco Spirito. Quando mi si rivolge c’è quell’indecisione della parola che fino a poco prima non c’era in lui. E’ come se scendesse dal pulpito, è un Dio privato del suo regno, della potenza della distanza. Le sue parole ora sono sue e mie, anzi nostre. Altri discutono. Risponde senza guardarmi, ma sento sempre di essere un centro. Le parole ora sono di tutti, sono risposte, e di nuovo manca quell’evanescenza del monologo, quell’intenzione diretta a chi solo ascolta senza nulla dire. Non ci sono contenuti, ma non comprendo ancora. Comprendo però la sua fatica ad avvicinarsi, Capisco quanto orrore abbia ora delle parole, e negli occhi da vicino vedo ombre di incalcolabile vuoto. Qualcosa preme nel petto. Non è un dolore, ma l’affanno di essere troppo osservata, innaturalmente osservata. Quel momento è impresso nella mia mente e ha la nitidezza di una foto a colori.. Gli stessi gesti di lui li ho nella mente come un imprinting, una forma di orrore splendore, lo splendore di un sogno d’assoluto che già va frantumandosi prima ancora di essere pensato. Il destino di una morte in vita per una resurrezione in vita. Ogni volta aggiungo qualcosa una parola una definizione una precisazione e mi accorgo involontariamente di parlare solo d’amore. E’ Mozart o Armony. Eppure lui accoglie le parole con il  fastidio di un troppo. Ne sto facendo un’oracolo d’amore. Ma insieme le pesa e le rimanda nella loro esattezza e verità strappalacrime. E impensabile un amore per un nuovo Mozart, ma allora tutti sono dei Mozart? E Papagheno? Aggiungo, non sarà una dialettica di Tamino e Papagheno. “Forse è una rovina, forse lei può rovinarsi, ma non può comunque morire” «Credo di essere presa da una vertigine, è l’amore che sognavo? Ma l’uomo che amo, che per lo più è un ragazzo, e questo lo rende perfetto, può essere tale? Ossia Tamino che in alcuni momenti di raro splendore si scioglie e si rende Papagheno solo per amore?.  Tento di risalire da un qualche strano abisso in cui mi si sta collocando. Perché parlo così tanto di Pamina, perché cerco per lei la salvezza, perché sento le parole specchiate, e non riesco a fermarmi, qualsiasi cosa lui affermi io la ribalto in un destino di salvezza. La mia risposta sgorga comunque da un luogo sconosciuto. Mi sento ogni volta gettata a terra e ogni volta mi rialzo frastornata ma sono ancora io. Ho l’impressione di essere schiaffeggiata. Purtroppo è blando, non mi schiaffeggia, non mi insulta, non fugge irritato dalla folla di corteggiatori intorno. Ho paura di qualcosa, la fine è tragica, vorrei concepire una salvezza, eppure è così inutile discutere di amore quando si tratta in realtà di musica solo Musica!. Eppure tutti ci stiamo invischiando in questo desiderio di amore. Le nostre parole sono molto personali e vissute, intorno all’amore. E’ quasi ridicolo. Ognuno senza volerlo parla di sé, e tutti allegramente ognuno col suo bagaglio, migliore di qualsiasi squallido presente, sovrapponiamo aneddoti di amore e abbandono, e la musica è quella chanson che ci fa ricordare il momento in cui decidevamo che sì era meglio amarsi da lontano, amarsi per sempre pur sapendo, e questo lo dice bene Wenders in Paris Texas, dico io per vezzo, citandoun capolavoro,  ma non so se c’entra, quanto sia impossibile ed inutile la vicinanza, quanto ci distrugga e ci annienti. E’ molto eccitato anche un uomo che credo stia vivendo una relazione molto difficile, e sembra indeciso sull’esito e sul futuro. Sono giochi involontari. Sta giocando con noi e tira fuori i nostri passati e il nostro presente, e ci mostra come si tratti sempre e solo di amore e di abbandono. “Quello che mi ha lasciata si è sposato ed è ingrassato subito dopo, già lo vedo con le pantofole e il giornale” dico con un fil di voce, è l’unico momento in cui ride sorpreso. Sono l’unica a capire, mi dico. L’altro ragazzo se la prende con me, è irritato, trova sconveniente la mia risposta, non pertinente. “Voglio dire, è comunque Mozart”. Il problema è che è innamorato di me e soffre di gelosia.  Lui sorride di nuovo,  parliamo di noi o del Flauto Magico?. Ma che  situazione è, mi chiedo spaventata, è tutto così affascinante e tutto così strano. Sento di dover allontanare un pericolo, e sono sempre le parole a invischiarmi in qualcosa di sconosciuto, una spirale verso la quale sono attratta dalle parole. Sono parole-calamita, un dire solo per gioco eppure esaltante per tutti e di fatto si tratta di Teatro in musica. E’ un dire che calcola. Una combinazione soffocante. Percepisco tutto questo e già sono in qualche modo legata. E’ il primo laccio. La combinazione delle parole, mi fa avvertire il peso smisurato di ogni mio intervento. Cosa manca? La causalità del dire, la naturalezza di una fondata riflessione intorno ad un oggetto esterno. E’ arte?. E’ sapere? E perché applaudiamo così coinvolti, così affascinati da un mondo solo intravisto nella musica ma profondamente sentito dentro ognuno di noi. Ci ha dato la memoria, ci ha fatto dimenticare Mozart e fa nascere in noi il sogno di un’esperienza da vivere e in parte già vissuta. E’ desiderio sublimato, la musica sostiene la memoria personale  con delle sospensioni di ascolto sublime. Peccato non li abbia saputi valutare i miei uomini, penso, ho giocato poco con loro, li prendo troppo sul serio, veramente troppo. L’amore non si calcola. Solo chi avesse un vuoto totale alle spalle, o rimpianti di ciò che non ritorna può sentire un’esclusione e il dolore di una perdita rinnovato  da qualcuno che proietta  una speranza, se il tempo consente speranze. Le parole. E’ il peso esatto delle parole. Parole in cui ci si rispecchia, parole specchio di un amore, i miei Delly me lo dicevano, parole volute per un fine sconosciuto. Ma il fine è amore? Sembra un gioco molto serio. La passione di quel calcolo esatto di parole e amore, quel modo di costruire un puzzle dandoci l’oblio del passato per un futuro da sognare è il calcolo di qualcosa di impronunciabile? Rispondere è impossibile, le domande lo irritano, significa parlare di sé e solo di sé. Fuori da quell’auletta scarna ma romantica è inevitabile forse per un’incoscienza e un’esaltazione improvvisa non riconsiderare il nostro passato e noi stessi, e seppure alcuni tra di noi hanno una perfetta conoscenza della musica siamo trascinati da qualcosa che forse è sogno, forse illusione, e memoria di libri, aneddotica amorosa, i casi letterari di follia amorosa, e sempre si parla in un coro di voci sovrapposte, di sé, dimenticando il resto, nel caos di un’ esaltazione di nuovi eroi ed eroine, in crocchio allegri e orgogliosi di vivere da sempre  ciò che quel giovane di talento, che incanta e seduce, ha descritto come storia della stessa giovinezza. Aggiunge una cosa, sempre con modi e toni che oscillano tra il parlare di sé e il considerare con oggettività il mondo, e attraverso le sue stesse parole gli altri  leggono se stessi. “Il giovane supera l’amore. Ma chi di noi non ha lasciato pur amando. Insomma io mi ricordo che l’amavo non avrei voluto altre che lei ma le complicavo comunque la vita con un gusto anche un po’ sadico per la sua sofferenza perché guardavo inevitabilmente oltre, perché già sapevo che l’avrei dovuta lasciare pur amandola ma questo doveva costare, a lei e a me.” Sento una ferita, forse è gelosia, non vedevo altre che lei era lei che amava. Esalta in questo modo l’amore e se stesso, e suscita un desiderio, il desiderio di essere scelta per l’esperienza  assoluta, quella dell’amore così descritto, dell’amore potente perché la voce i modi i gesti i giochi stessi della voce creano un’illusione di potenza e di qualcosa di sconfinato mai provato prima, mai sognato perché nessuno fa sognare attraverso poche facili parole un regno così misterioso, un regno difficile da definire, un modo del sogno che si incarna attraverso  la sofferenza, ma non riesco a capire di chi sia la sofferenza, di chi parla, descrive in fondo un’intenzione di sacrificio, un sacrificio di una donna, e un dolore mai superato. Allora o scritto un racconto sul primo ragazzo che mi ha lasciata.
Vado ad aprire. Alzo la cornetta del citofono, “vieni” e spingo il pulsante. Aspetto, e dopo un pò lo vedo percorrere il corridoio, deve aver fatto una corsa. Ora il tempo passerà ad ascoltare l’impercettibile voce del suo lasciare intendere, è in ogni suo gesto e in ogni sua parola, tutto lascia intendere, che mi ha abbandonata ed è il più forte, ma non vuole lasciar intendere che questo per me non costi sacrifici, lacrime, ferite, mentre io conto i suoi gesti e le sue parole come se manegiassi un giocattolo smontabile. I pezzi sono sempre quelli, si monta e si smonta, ma questo è un suo gioco incosciente, perché gli manca uno specchio ,perché gli manca il cielo per pensare. Tiene il casco con un braccio, e sbuffa per sottolineare il caldo la stanchezza e la giornata di lavoro. Non ci faccio caso, si passa la mano sui capello radi e rasati. Gli dico di entrare e non far caso al disordine. “perché ti sei vestita così?” chiede, e lo trovo come sempre stupido “è un vestito, cos’ha che non va?” “lo trovo eccessivo” ci tiene a dirlo, sottolinea inoltre così la mia timidezza, lo ha sempre fatto, ma non me ne importa, solo un po’, anzi mi infastidisce. Lo fa apposta, so cosa vuole dire, vuole lasciar intendere che non ce n’è bisogno, non per lui, e il mio modo di vestirmi non gli è mai piaciuto. “Come stanno i tuoi?” “bene. Senti siediti, preparo un caffè, ne ho bisogno”.  Mi urta subito il modo poco civile di entrare in casa mia, non so se se ne accorge, E’ di fatto il suo modo,  è una grossolana scortesia, e un’affermazione di possesso. Si sente di casa ovunque, è la sua alternativa all’essere un “materialista”. Il sentirsi di casa significa possedermi,  è purtroppo un cafone nei modi, per quanto la sua famiglia sia tra le migliori. D’altronde l’anticonvenzionalità è il suo orgoglio, e ormai è troppo tardi per educarlo a modi più civili.  Si guarda intorno osserva gli oggetti,  con lo sguardo e un lieve tentennare del capo mostra l’intenzione esplicita di un giudizio che vuole essere negativo. E’ una sua forma di invidia. Vado in cucina ma lo prego di attendere nel salone, non mi piace essere guardata mentre preparo il caffè e inoltre la cucina è in disordine. Li definisce convenevoli ipocriti, io mi sento inseguita quando qualcuno entra in cucina, desidero preparare il caffè o altro da sola. E’ una delle mie piccole idiosincrasie. Non posso spiegarlo, e quindi spesso le amiche o gli ospiti entrano in cucina. Questo mi rovina il gusto della solitudine, non sono per niente casalinga, ma la mia cucina è così originale che qualsiasi intrusione mi appare una violazione alla privatezza. In cucina mi sento protetta, sono sola e pregusto  il caffè. E’ un piacere, e mi distoglie. D’altronde so cosa lui ha da dirmi e non ho nessuna curiosità, le solite parole e il mio silenzio. Vuole spiegare cosa è andato storto. Dovrei dirgli che non me ne importa, ma non lo capirebbe. Odia lasciare senza lasciare rimpianti. Ama i miei rimpianti, in realtà sa quanto avverto volgari le sue parole. Il problema è banale: desidera da me un riconoscimento di una profondità che purtroppo non ha, e ogni volta è sempre peggio. Non riesce a darmi spunti, e io cerco di abbreviare le sue visite. D’altronde se questo lo umilia, gli lascio credere ciò che vuole, non ha da dire molto di noi, e io non ricordo quasi nulla. Il caffè è pronto. Prendo le tazzine, lo zucchero e porto in sala.
“hai molti mobili, troppi” “perché  troppi?”. “A cosa servono? Che te ne fai di tutta questa roba?”, “Può essere, ma cosa te ne importa?”. So che questo lo irriterà, prende spunto da “cosa te ne importa”. Il suo profondo desiderio è leggere in quel “cosa te ne importa” un rimpianto, un’accusa di abbandono, la ricerca di un contatto” e non trovandoci poi altro che un normale “cosa te ne importa” si sente svilito. Per me è semplice. Gli sto solo sottolineando quanto poco lo riguardi, lui lascia intendere la sua superiorità e la superiorità di chi abbandona, ma non avrebbe senso spiegargli che mi sento libera perché non ama crederlo. La vuole far diventare una lite e non ho voglia di sprecare parole, sono inutili.  Non si tratta neanche di un pregiudizio, è il suo desiderio, essere il centro di un’attenzione. E’ un orgoglio forse molto maschile, ma non azzecca mai i modi. Non riesce a darmi un rimpianto. Sente minacciato il suo potere, ma d’altronde non è una richiesta d’amore, forse invidia, del mio silenzio e della mia noia. Trovo sciocco il sorriso, non sincero, potrebbe sinceramente sorridere di tutto e sorridere anche con me di tutto. Ma questo per lui significherebbe perdere. “E’ che ho sempre desiderato il tuo benessere, e non sono riuscito mai a trovarlo, né a vederlo”. Non ho risposte. Il mio benessere non è con lui, lo trovo piuttosto volgare.  Ha in odio il mio silenzio, lo sente carico di una verità, di un vuoto che percepisco in lui. Vorrebbe degli orpelli, degli ornamenti di parole per rendere poetico il momento. “mi dispiace” rispondo. Questo lo manderà in bestia. E’ un libro aperto, desidera qualcosa come uno stupore, un sottolineare la profondità del suo animo, la ricercatezza della sua sensibilità, e odia il mio sguardo. So che è vacuo, ma non ho niente da dirgli né da rimproverare, semplicemente trovo il lui un vuoto, e lo privo involontariamente degli orpelli fino a renderlo nudo. Non comprende che non ho nessun desiderio fisico di lui, e questo rende inutile qualsiasi spiegazione.  Lui ha conservato intatto il desiderio fisico di me, ma è il desiderio fisico in realtà di qualsiasi donna, e non vuole rendersi conto di quanto poco abbia importanza per me. Nella sua nudità riflessa non vede nulla. Si ama solo quando gli orpelli gli rendono l’illusione di se stesso. Non oso dirglielo. In quel momento il suo vuoto è il mio vuoto. Non mi sfugge il minimo particolare del suo volto, e ne provo fastidio. Le stesse espressioni, non cambiano mai. A volte basterebbe un visibile e improvviso rossore a cambiare tutto. Non arrossisce mai, è un estroverso ma non pensa nulla pur con la sua buona dose di intelligenza. “Te lo dico, ha un certo punto non ce l’ho fatta più, ero sempre io a dover parlare, credevo nella tua sensibilità, ma non la dichiari” “E allora?” “E allora che cazzo vuoi?” alza il tono “io non voglio proprio nulla, non mi serve” Dovrei aggiungere nulla, ma tolgo l’ultima parola. Non mi voglio spiegare, non ho molto da spiegare. “E allora perché ti crei sempre questa fama di ragazza sensibile?” “Cosa c’entra?” Di cosa parla? Chiede parole che non ho per lui e si rispecchia in un vuoto. Quando il silenzio lo sovraccarica sorride come sadicamente “Ecco il tuo sorrisetto” lo sottolineo sempre ma per fargli capire che se vuole parole deve prima averne. “Stronza” lo dice tra i denti, sibilando. E’ lui stesso a non avere parole, ed è molto chiaro. “lei ama il mio coraggio, e la mia forza, è la prima cosa che mi ha detto. Non trova in nessuno lo stesso coraggio” Non gli faccio notare la superficialità dell’affermazione, manca addirittura un contesto. Purtroppo è così, il contesto delle parole gli manca. Ora questo vuole essere anche un suggerimento, del tipo”lo riconosci anche tu finalmente?”.
“E’ probabile, ma non so che dirti nel merito”.
Mi sto stressando, ho un senso di nausea. Vorrei che se ne andasse.
“Senti io mi devo preparare adesso, ho poco tempo da dedicarti, mi spiace”  dico in preda alla claustrofobia. “Va bene vado anch’io, sono stato già troppo”, si è alzato di scatto, desiderava rimanere, è  stupido dire “vado anch’io” considerato che siamo a casa mia e “sono stato già troppo” quando è lui a desiderare questi incontri. D’altronde è il suo problema. Vorrebbe gli riconoscessi una cultura e una profondità che non ha. Vorrebbe che parlassi di libri letti e di ciò di cui si fa un orgoglio insincero; perché a parte  qualche sporadica lettura leggere lo annoia, ma dirglielo è inutile. Finirà col citare il solito libro, lo cita da sempre sottolineando la stessa particolarità, non del libro ma sua personale, il personaggio nel quale si riconosce. “L’hai letto poi L’arte della fuga di Pontiggia?” Non l’ho letto ma gli vengo incontro “In chi ti riconosci?” “E’ strano - intanto accenna a un riso, questo sta per “In quel libro ho scoperto una mia natura speciale” - non accade a nessuno, ma non mi vedo in chi cerca, ma in chi è fuggito. E non si troverà mai più. E’ un giallo senza esito. Chi fugge scompare ed è inutile la ricerca. Vittorio è rimasto piuttosto perplesso. E’ raro identificarsi in chi non c’è, non accade praticamente a nessuno” “Ti ha chiesto Vittorio se questo ti è accaduto durante la lettura o anche nello stesso finale?” (Nel finale la ricerca rimane un’indagine senza soluzione).  Vittorio gliel’ha sicuramente chiesto.. Un’ espressione seria “Anche nel finale”  Dimentica la domanda ha fretta di arrivare alle sue risposte, e ora la risposta è sempre la stessa. Non capisco una cosa: cerca un riconoscimento, ma di cosa e perché e perché proprio da me? Ha appoggiato intanto il gomito ad una mensola, come a voler proseguire una discussione di raro interesse.  tiene il casco nel braccio, e io senza volerlo guardo insistentemente il casco nella speranza che si decida ad andarsene. Nota la direzione del mio sguardo. “Guarda mi dispiace devo proprio andare” e sottolinea le parole spostando il casco nell’altro braccio. Vuole comunque credere nella mia sofferenza. L’idea della mia sofferenza gli è necessaria, forse cambierebbe il suo modo di raccontare questa storia, vuole una ricercatezza della memoria, qualcosa da esibire, un piumaggio ornamentale. Il suo dispiacere è il non avere parole per raccontarmi, ma non le trova in se stesso e io non ho da darne a lui. E poi che rottura, vuole sempre dimostrare qualcosa. E’ solo arrogante. Taglio corto “In effetti” “va be’, comunque” calca sul comunque, sottolinea con questo il suo andarsene altrove, un andarsene molto speciale. “Non scomparire però” non coglie la mia ironia buona, pensavo all’Arte della fuga, “Non ti riguarda” E’ strano come la sua   estroversione gli faccia dimenticare sempre l’ironia.  Da me in realtà vuole il sesso. Sono bella. Ma io no non ci voglio stare sono stufa e poi perché è finita. Forse perché il suo tono di voce  è sempre troppo alto ancora non conosce l’ironia. “Dove vai adesso?” “E  vado, non lo so dove vado, e non me lo chiedere sempre” è una domanda come un’altra e conosco già la risposta “Ok comunque adesso vai perché devo veramente preparami”. Lo accompagno alla porta, “ciao” “ciao”, sono intimidita, ogni volta che accompagno qualcuno alla porta mi intimidisco, mi sento poco ospitale, e mi sembra di lasciar andare gli ospiti senza aver dato loro molto. Quando si giunge ai convenevoli del saluto inizio a credere  di aver offerto una brutta ospitalità o di non aver saputo godere abbastanza della compagnia, e  appena chiudo il portone ho la sensazione macabra di tagliare fuori il mondo o di esserne tagliata fuori. Ne ricavo sempre una reale impressione di solitudine e vuoto. Mi accade sempre così.. Sono i momenti in cui mi sento un po’ abbandonata. La mia casa è molto strana, molto barocca, molto disordinata. E’ carica di oggetti, ha vetrate liberty, tappeti persiani, archi con colonne, soffitti molto alti con stucchi, librerie troppo cariche, collezioni di porcellane, e l’arredamento e la disposizione dei mobili ne fanno una casa d’antiquariato più che un convenzionale appartamento. Sarebbe necessario abituarsi a spolverare regolarmente gli oggetti, trovare un detersivo per i tappeti, migliorare le librerie e ordinarle, riempire sempre il frigorifero e tenere bibite in fresco, rinnovare la biancheria e acquistare qualche tovaglia nuova, ma si può sempre fare, basta decidersi.
Insomma scopro improvvisamente un elemento vanitoso, sta dicendo del suo potere nei confronti delle ragazze, di un potere di seduzione, e del sacrificio necessario. Non è diverso dall’altro, ma spero lo sia, perché con l’altro la noia è stata molta, e se veramente è me che vuole mi deve volere bene. Per questo difendo Pamina, il suo essere parimenti spirito contro ogni differenza che la vuole solo accanto e non partecipe come eroina altrettanto potente e carica di tensioni sensuali-spirituali di sostanziale medesima specie, solo donna nel modo più perfetto, recettiva sì, ma anche cielo non solo terra accoglienza, ma cielo simile al cielo di lui.  E’ una visione alta, eppure così espressa è in fondo troppo recitata da darmi una pena indicibile. Avverto il dolore, non il suo dolore, ma il dolore impossibile di una donna, qualcosa ha rovinato quella donna, quella giovane che implorava il ritorno. Vedo che parliamo veramente tutti in coro allegri gli altri divertiti, ma io mi smarrisco e alloro riporto tutto ad un ordine oggettivo “Comunque quello che mi ha lasciata si è preso una talmente brutta ma talmente brutta che mi chiedo come possa solo guardarla”. Lui Sorride di nuovo con giocosa ironia. Capisce che sono l’unica ad aver veramente compreso mentre gli altri si lasciano incatenare. Eppure questo è un laccio, sta legando la mia vita a sé forse, oppure è un gioco da ragazzi, oppure ha bisogno di provare il suo effetto su un uditorio attento, e vuole capire cosa è stato catturato da noi estremamente attenti. Non cerca in quel momento complimenti, scopre, e vi riesce, cosa cattura in noi l’ascolto di una musica letta attraverso doppie lenti, l’autore, Mozart, e un altro autore, che inscena uno spettacolo mostrando una conoscenza altissima e quasi ossessiva e al contempo una sua propria produzione di parole per la musica e per l’incanto di una trama tutta da raccontare come in una fiaba per adulti, iridescente come una lampada magica, mi sento vestita dell’iride delle sue adulazioni. Per questo mi chiedo: ma il mio Spirito così tempestoso come quello di Pamina, come può essere improvvisamente pacificato, e divenire  mite e mansueto.  A tutti mi sono ribellata, e non sono mai stata  quieta né  placida o imperturbabile.  A volte rabbiosa, a volte mansueta, ma mai quieta. Eppure è a Papaghena che si rivolge lo so, perché di Spirito lui ne ha in corpo già in eccesso, e ci vuole qualcuna o qualcosa che mitighi le sue smoderate passioni per i fatti dell’anima. Mi appare tutto come  un romanzo nel quale ogni soggetto che legge può trovare parti di sé, o tutto ciò che è depositato nella memoria, ma io in particolare scorgo stupidamente in me un vuoto. Parla di sé dopo essere stato oggetto di ammirazione stupita e parla di amori fuori dall’ordinario. C’è qualcosa di estremamente potente, il racconto di sé è forzato fino a diventare un modo della giovinezza e dell’arroganza. E’ uno strano omaggio alle donne, la potenza del loro amore sembra equivalere alla potenza del loro sacrificio. Sembra dare senso a tutto. Non ha perso nulla, il ricordo di sé è chiaro e netto e filtrato da una volontà sempre attuata. c’è in ciò che descrive un sogno coltivato in segreto, i miei pensieri nascosti, e le complicazioni di cui parla parlando di sé e insieme di ogni giovinezza mi rendono i miei sogni filtrati da letture ottocentesche.
Sto rileggendo Alice nel paese delle meraviglie e attraverso lo specchio: mi incanta:
«Chissà quanti chilometri di caduta ho fatto fino ad ora» disse ad alta voce. «Ormai debbo essere vicina al centro della terra. Vediamo: sarebbero più di seimila chilometri di profondità, mi …»
«Voglio rileggere Viaggio al centro della terra. Deve essere divertente e dolce. Il cadere trasportati è così strano. «Chissà se attraverserò tutta la terra. Sarebbe divertente capitare fra la gente che cammina a testa in giù». I viaggi di Gulliver anche e i Lillipuziani. E The King of the Ring. Il titolo è così affascinanate.  Nella lotta si deve perdere l’anello? Perché. Che maleficio è nell’anello?».
12/12/97
Abbiamo fatto l’amore, nella sua casa tutta da amare. Ho poche parole. Solo voglio dire questo. Mi avvertivo “poca” lo voglio dire così, perfettamente insufficiente. Avevo acquistato della biancheria di pizzo e una camicia da notte rosa e una vestaglia di identica seta. Abbiamo atteso mentre la musica riempiva le mie orecchie, perdersi nella trenodia per le vittime di Hiroschima. Forse è la prima prova mi sono detta, e ho ascoltato con un libro in mano, Ho letto per intero Effi Briest. Poi finalmente una cena veloce, un po’ di prosciutto e mozzarella e mi sono preparata. Eravamo tutti e due timidi. Io so di essere poca cosa a letto e invece è accaduto qualcosa. Sono entrata tra le lenzuola e anche lui, ma mi attraversava immancabilmente il pensiero di tutti gli uomini che ho avuto e con i quali non ho goduto. Trattenevo lo sbadiglio, e mi sono avvicinata per il solito usuale abbraccio. Troppo annoiata, troppo già saputo, troppo imperfetto. Allora con un tono deciso forte ma calmo ha detto “Questo no” allontanando le mie braccia con un gesto rigido del suo braccio destro. “Questo è un gesto che hai ripetuto con tutti, non con me, con me non puoi mostrare la tua noia”. Allora mi sono impaurita il silenzio era vero corposo denso. Mi sono girata verso il muro e il suono della seta trascinata era amplificato e quasi era un chiasso di stoffa e corpo e morbide forme. Ero così girata pensando di dovermi addormentare e allora lui ha infilato un braccio sotto il mio a sentire i seni tra la seta rosa. Ha sospirato di un vero sospiro, strepitoso e sommesso. E io mi sono voltata e ero finalmente io solo io, senza le mie convenzionali braccia o i miei convenzionali seni e mani. Mi accarezzava e saliva la voglia di lui solo lui, e della sua potenza. “Vieni dentro ho pregato con una voce esile. Mi devi implorare ha risposto con ironia paterna, giusta, non con sarcasmo, ma con la dolce presenza di chi è di più perché mi ha tra le sue mani. E poi è entrato, ed è stato il mio lago.
“E come immergersi in un lago ha detto alla fine”.
 Lui è il mio Tamino e io sarò la sua Papaghena.
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Feb. '13
il gelo
Il Gelo
Per il papà era molto piccola molto brava. E dava pochi baci. Perché? La prendeva tra le braccia con amore e diceva “Questa bambina si vergogna anche di respirare”. La bambina soffriva di laringospasmo e odiava gli ospedali i camici bianchi e le siringhe. A casa della nonna materna - un paesino bello e di provincia, con la chiesa nel vicolo giù basso – aveva giochi animati, che placavano le paure- in campagna prendeva una minuscola ochetta da crescere e allevare, come una vera mamma, e l’ochetta era dolcissima e seguiva passo passo i suoi passi di bambina – bambina che temeva il diavolo il buio, e la possessione del male che ti acchiappa, ed è la cattiveria, quella cattiveria della quale tutti parlano e le appartiene in realtà per difesa, ma lei non dice mai “Sto recitando, gli incubi sono altri, l’incubo è la diversità mi tira fuori dal mondo mi rende un angolo”. Un muro la separa, io voi noi loro, ma chi esiste veramente? Dio esiste? non lo sa – però nella cameretta, dai nonni sente solo uno splendido rassicurante odore di cipria e borotalco.  In casa erano tanti, il bene dei nonni erano braccia accoglienti e cibo e letti per tutti, tanti, e tutti cugini zie e zie. Amava le  vacanze al mare, sempre in acqua sempre abbronzatissima con i lunghissimi capelli dall’odor di sabbia e salsedine. Il papà sapeva affrontare il mare. Era un sub e un ingegnere. Non si faceva scalfire dalla viltà, educava al coraggio. In un viaggio in India con la mamma aveva affrontato l’oceano indiano su zattere insieme agli indianini, come li chiamava lui. Aveva il colore di pelle di un indiano, e gli occhi. Neri profondo ma cangianti nel blu. Nella provincia la nonna era terziaria francescana, nella parrocchia del vicolo di sotto, e la portava ogni giorno con sé la mattina presto alla messa. E a messa c’erano i gemelli che facevano i chierichetti. Ospiti dei frati, frequentavano il liceo classico con il chiostro e le volte a botte. Un minuscolo gioiello di provincia. Erano grandi e seminaristi e chiamavano la nonna la Regina di Saba. Lei e la nonna insieme,  andavano  a portare a quei due orfanelli in convento le crostate fatte in casa e la pizza di Pasqua cotta nel forno a legna - e i prosciutti che pendevano dai ganci nella dispensa. La nonna stendeva lesta la pasta sfoglia, tagliava la pasta con arte magistrale, coglieva dall’orto ogni frutto e ne ricava conserve o prelibatezze. La terra donava tutto ma l’arte di coltivarla richiedeva un sapere antico. Lei piccola immaginava e pensava “Chi sono quei due? Perché in convento?”,  mentre uno di loro la confessava, e una volta per pentimento le aveva imposto quaranta Padre Nostro e quaranta Ave Maria da recitare - tanto che la nonna si era preoccupata “Ora voglio proprio sapere che hai fatto” aveva esclamato. Giocavano i seminaristi.  lei era l’unica bambina a messa e ai vespri, tranne la domenica quando si riempiva la chiesa. Le signore avevano il banco col nome su lamina di bronzo inciso, ma il loro nome  di famiglia era il più importante perché erano conosciuti e stimati “la famiglia più onesta” dicevano tutti.  Solo a Natale anche il nonno ci andava a messa, e faceva con la  solita ironia, la vera totale confessione che durava due ore, e la nonna si ingelosiva e in un tono duro reclamava  “Ma che c’avrà da dirgli, io un giorno lo devo sapere”. Il papà non ritorna e neanche il nonno e la nonna. Il papà ha avuto poco amore, anzi no, il dovere l’ha ingannato, nella legge del più forte hanno stritolato quell’uomo dal carattere complesso, ma ricco di energia e voglia di vivere. D’altronde oggi è chiaro. Tolgono il lavoro torturano ti stritolano e spremono fino a che non puoi più uscirne e sono tutti, tutti quanti, con la voglia di denaro facile, gli strozzini gli aguzzini la mafia. E questo è un ricordo oggi sempre più attuale. Ti dicono è sempre accaduto, la storia insegna che il bene non esiste. Sì è vero ma è come dire sempre si nasce e sempre si muore. Lei non è riuscita a comunicare, e non l’ha dimostrato. Il dramma delle parole mancate. Mancano dentro o mancano fuori. Sono state pietre lanciate le parole di lei ragazzina. Anzi le parole intorno, quelle degli amici che vedevano una fanciulla di rarissima bellezza e la prendevano con facilità, come giocando o armeggiando con un oggetto che poi getti a terra, e resta in frantumi. La trasgressione. Nel delirio del pensiero di una identità aveva scelto i più forti, i ragazzi di sinistra con i ciclostili e i comunicati. Ma intanto senza capire la vita, la viveva attraverso i romanzi. E attraverso musica e film. Al cinema era abituata fin piccola, fin dai film di Totò e Anna Magnani e Aldo Fabrizi che la facevano ridere tanto nel salotto della nonna, la sera dopo cena. Nella famiglia di sinistra era diverso. Non si accendeva il televisore, è male, diseduca. Ma non sanno neanche Totò? Se andavano a trovarla nella splendida villa nella quale abitava ridevano di lei e del parco e di quello che loro chiamavano il parco macchine, poi spegnevano il televisore e cianciavano parole ma erano cianfrusaglie. Intanto comunque scoprire il mondo significava leggere. Ma perché quelli con il ciclostile figli dell’insegnante erano tanto bravi senza leggere un libro, era strano da capire. La professoressa esibiva in casa con fare disinvolto tutte le sue nudità, e per questo non c’è niente di male, ma era un orgoglio. Le mutande un orgoglio? Poi parlavano molto della rivoluzione sessuale, ma un’educazione sessuale ai figli non la davano. Chiaramente tra i tanti libri finalmente capitò tra le mani “L’amante di lady Chatterly” e finalmente aveva detto al ragazzo “Io non voglio te voglio un boscaiolo”. Ma l’autrice più affascinante era Jane Austen così dolce raffinata, giochi d’anime intrecciate. Poi Pasolini “Amado mio”, ma i due ragazzi di sinistra, non conoscevano né il libro né il film,  non sapevano niente.  Ma il silenzio è l’eco delle parole ingoiate e nel silenzio della notte quando tutto tace ecco i mozziconi di parole farle da contrappunto a lei balbuziente che si ascolta. Papà è partecipe a tutto. Così dice la mamma.  Il tempo l’allontana da quel giorno maledetto da quei giorni lunghi lenti dolore ripetuto silenzio del dolore che attanaglia. Non vuole dimenticare vuole restare lì, tornare indietro tornare tutti i giorni a ricordare, ma non è proprio così, le pugnalate subite dopo l’immane fiducia riposta sono una ferita prolungata nel tempo. Lei oggi è bipolare non si risolve il binomio modernità tradizione. In fondo era approdata nella capitale dopo aver giocato per strada nel calore di una famiglia patriarcale. Aderire o dividersi, e l’io resta diviso perché lo scarto non si ricompone. Andare via fuggire per essere uguale agli altri. Una follia. Era partita di nascosto per un viaggio in autostop con il ragazzo di sinistra, il giro d’Europa. E a Barcellona era finita la dittatura e il fumo era legale ed era stato bello. Le visioni. Ma premeva il giudizio di un mondo generoso fatto di chiacchiere femminili intorno al fuoco e camini abitabili, dovere portato all’estremo. Ma perché era così, perché sbagliare così tanto era facile, non è comprensibile neanche a lei che ora adulta riflette e legge i vecchi presagi come parole d’indovini mentre si macchiava di sangue. La colpa. Leggere i casi clinici di Freud  era come leggere straordinari gialli sempre a lieto fine. Ma quel Dio solo punitivo lei non lo pregava non riconosceva la Croce come simbolo non capiva. Bisognerebbe essere indulgenti con se stessi. Pretendevano  la verginità come valore assoluto e solo dopo il matrimonio la donna poteva congiungersi. A casa c’era stato uno scandalo. Che orrore questa parola priva di ogni intimità. Comunque la cugina più bella aveva sedici anni e aspettava un bambino. Il matrimonio era un obbligo. Papà e mamma avevano implorato gli zii di non commettere un delitto così inutile. E lei ragazza  era testimone di nozze ma il bambino non c’era e nessuno lo sapeva. Non c’era più, un aborto spontaneo. Ma lei ascoltava De Gregori, e ascoltava musica “Ma io non ci sto più ridò lo sposo e poi, tutti pensarono dietro ai cappelli lo sposo è impazzito oppure ha bevuto ma la sposa aspetta un figlio e lui lo sa non è così che se ne andrà”. Nella casa di sinistra discutevano il problema “Ma io non posso farci niente” diceva lei. Ma poi è stato un matrimonio d’amore. E i ragazzi di sinistra in realtà sono diventati dei veri borghesi, distanti inutili, e in fondo la Storia si ripete, matrimoni borghesi una casa borghese una famiglia borghese. La morte è accadimento inevitabile. Non è il giudizio né la memoria di un lutto non risolto a porre il problema, ma un dubbio sulla storia del se impossibile da scrivere, ma bella da pensare. Se quella sinistra lei non l’avesse mai incontrata sarebbe oggi diversa, una donna felice forse. Forse. In fondo a cosa è servito, proprio a nulla. Perché quando è restata senza tetto e senza nulla il ragazzo di sinistra diceva come se fosse pazzo “mors tua vita mea” e intanto la voleva scopare, lasciare e scopare. Era una violenza. L’amico di sinistra del ragazzo scriveva libri bruttissimi ed esaltava le scopate. Scopare era tutto. Ma realmente tutto non è, una dolcezza ricambia l’anima bella. Quella violenza e quel dissidio hanno scatenato una schizofrenia mai risolta.  Le parole sono un  errore insieme ai gesti. Per le parole bisogna pensare e pensare è complicato, non è vivere tranne quando lei vuole fare di testa sua, con confusione e poi tutto si sistema anche dopo un gran caos.
La somma degli attimi non l’ha mai capita. Come si dovrebbero sommare gli attimi. E sommarli a cosa equivale. Prendiamo la matematica. Il comune denominatore in una relazione,  io tu lui noi o gli altri? Ogni relazione si compone dei suoi elementi. E’ unità? Somma? Qualcosa manca dalla visuale. Sarà la zona d’ombra di Lacan. E’ troppo vasta forse, nella relazione lei è  la zona d’ombra e una parte di sè minima si disperde ai lati. Ai lati sfuma in qualcosa e a malapena lei si percepisce come fattore determinante in positivo. D’altronde il problema non è la relazione. Il problema è l’ordine poetico. Per esempio: Scrivere una poesia d’amore, o concepire un prato fiorito e qualcosa come una resurrezione dei sensi. Esercizio quotidiano: Descrivere angoli della casa settecentesca unico incantevole nido. Costruita seguendo lo schema di una quinta teatrale e di una casba, l’elemento estetico dannunziano  è palese. Si trasforma muta cambia appena un frammento del tutto si modifica anche solo per la posizione o visuale o punto di vista. E’ un arte sublime e da questa si comincia.
Ha bisogno della cosa più semplice del mondo. La vita le si fa contro con il peso di qualcosa di insopportabile.
Questo scriveva anni or sono ma ritorniamo all’oggi e oggi si tratta di ricordare ed ecco prima di tutto un po’ di cronaca.
Il bacio mancato, la principessa ranocchio,  la pietra l’assenza.
 Lei era  andata in analisi appena vent’enne, dopo un lutto. Il mito del secolo, l’analista. Per conto suo aveva trovato soluzioni ideali nella musica e nei libri. Ma l’analisi prometteva tutto. Con altri termini si nominavano le sofferenze, da sempre ritenute sacrificio necessario dai cattolici, e pazienza sopportazione crocifissione avevano finalmente nomi diversi, atei o agnostici. Non eri abbandonato da un Dio punitivo, soffrivi di nevrosi associata a sindrome abbandonica. Non eri una donna ferita ma soffrivi di una comune risolvibilissima frigidità. Ma il suo problema  - da sempre suo da quando era piccina e il maestro chiamava i genitori preoccupato – questa bambina è un libro chiuso diceva - era quello di una timidezza patologica dall’origine infantile, e nell’adolescenza una incapacità a raggiungere l’orgasmo.  E un pensiero ossessivo. In realtà non comprendeva l’essenza. In cosa consiste un’unione come sola condizione della donna in un abito nuziale di fronte ad un sacerdote. Il bacio era il primo passo e l’unico prima delle nozze. E del poi non sapeva nulla tutto era il bacio consentito e non negato, il resto erano atti impuri. Il suo bacio prima di bambina poi di fanciulla era incantevole. Aveva incubi. Due sogni ossessivi. I nazisti identificati in  persone conosciute soprattutto per caso la inseguivano e lei faticava faticava in maniera immane nella ricerca di fuga. E  l’altro sogno molto ricorrente ed emblematico – mentre cercava di parlare le davano un gomma da masticare. La gomma diventava una gigantesca palla di cemento che cementificava i denti e la bocca e le impediva la parola e la rendeva muta.  Una psicosi. Manie di persecuzione. Era bellissima. Lei adolescente già  si arrovellava nel cervello. Si sentiva diversa.  Quando con il ragazzo, un ragazzo all’apparenza simpatico,  con il quale, piuttosto per moda che per altro, o meglio lei solo per inquietudine pura, ricerca di vita avventurosa, ma ancor più quel voler essere “come gli altri”- quando con il ragazzo  lei appena sedicenne girava  il mondo in autostop, si arrovellava in silenzio mentre facevano l’amore e lei non capiva - fingeva con gridolini acuti l’orgasmo - come nei film d’amore deve essere - rifletteva. E lui non si accorgeva di nulla mentre cresceva dentro di lei il risentimento. Una volta sola l’aveva raggiunto l’orgasmo, e aveva diciassette anni e improvvisamente aveva avvertito straordinarie forti incontrollate contrazioni delle mucose vaginali. Non sapeva perché. Non era cambiato nulla era successo improvvisamente. Aveva avuto paura, qualcosa di improvviso che sfuggiva al controllo. E un’altra volta aveva avvertito un piacere intensissimo mentre facevano l’amore distesi sul prato di margherite della Pineta Sacchetti o ancora tra la sabbia e la risacca delle dune di Ostia. Godeva senza volerlo. Ciò che l’allarmava era l’impossibilità  della scelta razionale e di un io voglio deciso e di un ora sì ora vengo ora lo voglio. Ora. Di nascosto aveva aperto il dizionario enciclopedico alla parola frigidità e aveva letto: incapacità femminile a raggiungere l’orgasmo si cura con la psicanalisi. Aveva poi annunciato nel salone di fronte alla televisione ai genitori “Io andrò dallo psicoanalista” “Ah cominciamo bene!” aveva risposto il padre. Frigidità, timidezza, complessi adolescenziali - temeva furiosamente il suo odore, il bacio. Di baci il fidanzato la tormentava e di carezze, alla scoperta di quello oscuro arcano che era il corpo di fanciulla, ma lei credeva tutt’altro – lui, giovane dal raro fascino e talento e dall’acuta sensibilità - lui non si sottraeva alla rinuncia per un aiuto necessario, al sacrifico, il sacrificio di un giovane che si dona nonostante i rovelli, le parole mancate, i silenzi tra un libro e l’altro, la voce stonata quando pronunciava debolmente un sì o un no. Nel nido tutto era più accogliente rispetto a quell’intruso speciale ma nemico. Nel nido erano cento persone in una tavola riccamente apparecchiati con cristalli lavorati e piatti di ceramica con oro zecchino all’interno di un ordine sempre identico. A capotavola il nonno, a sinistra la nonna poi tutti gli zii e poi i ragazzi per ultimi, i più chiassosi. Non aveva mai capito la fatica che questo comportava. La nonna era sempre elegante non trapelava mai la stanchezza nonostante la tavola abbondante. Comunque uscire era un dovere oppure una necessità In televisione e ovunque si parlava di quanto accadeva. Gli attentati i sequestri le stragi. Il femminismo. La vita della donna era complicata perché non si capiva molto. D’accordo il femminismo e combatto per i miei diritti. Non la verginità fino al matrimonio il piacere la liberazione. Eppure la nonna e il nonno erano splendidi per l’amore e la passioni che li teneva uniti da sempre. “Ti amo come se fosse il primo giorno” diceva il nonno. Ma quando provavi a dire “ma fuori di qui è tutto diverso e non sanno neanche giocare come facciamo noi e non sanno le torte, le tavole non sono apparecchiate e le donne si vantano di non saper cucinare e il sesso è libero e la coppia deve essere aperta” non trovavi una strada giusta una risposta ai due lati opposti di un volto. Tradizione rivolta.  Pazzia. Ma questo ragazzo accanto è noioso non legge è strano, d’accordo di sinistra ma la destra allora cos’è. Comunque abbiamo sbagliato tutti. La tradizione liberale del nonno, antinazista sfuggito alla fucilazione, è stata tradita dalla Storia, la Democrazia Cristiana, il voto della nonna, non aveva scoperto il suo volto oscuro. Gli intenti erano onesti, ma quelli di molti di tutti forse. Con innocenza ero femminista non poteva sicuramente essere maschilista. Forse sfugge l’arte alle determinazioni non la Storia.
Da Alda Merini no, non chiudermi ancora – “no, non chiudermi ancora nel tuo abbraccio,/ atterreresti in me quest’altra vena/che mi inebria dall’oggi e mi matura./ lasciami alzare le mie forze al sole, lascia che mi appassioni dei miei frutti,/lasciami lentamente delirare…/e poi còglimi solo e primo e sempre/nelle notti invocato e nei tuoi lacci/amorosi tu atterrami sovente/come si prende una sventata agnella.”
In realtà troppo tardi dopo quattro lunghi anni aveva scoperto la vera natura di quel ragazzo, un ragazzo volgare triviale - quando il padre era morto e lei doveva occuparsi del fallimento ossessivamente e con gusto dopo averla immediatamente abbandonata amava ripeterle “mors tua vita mea”- era stata solamente  fanciulla, una agnella in mani selvagge.  Nella stanzetta che lei aveva preso in affitto lui si presentava per scopare e insultare- scopava e diceva – Mors tua vita mea – Lei non intendeva essere il suo ostacolo un sinistrorso sicuramente di talento. Oggi è un uomo  oggi forse comprende. la vita. La vita non è violenza carnale e se lei restava acquiescente era solo per la solitudine nella quale l’avevano gettata e la miseria. Ecco perché questi rovelli - e donnaccia da mercato poi che voleva dire. Questo. Un lui triviale che ti usa per uno  sfogo. Il tempo passa gli anni sul groppo giunge il perdono. Ma è rimasta frigida- e sola.
Ma il male peggiore era in lei. Una psicosi per la quale non riusciva a tradurre i pensieri già adulti, buoni, in parole. Un distacco pensiero-espressione. La parola strideva. Era d’altronde un’adolescente. Aveva aderito insieme a quel ragazzo e ad un gruppo di giovani al partito radicale…aborto carcerazione preventiva Cicciolina deputato il drammatico caso Tortora che ancora oggi dovrebbe far riflettere soprattutto intorno alle cause sociali del tumore. E le ingiustizie solo subite da uno Stato assassino. Poi aveva preso presto le distanze dal partito radicale e considerava la politica un inganno. Ma quelle prime battaglie avevano un valore poi la direzione è mutata in modo catastrofico
 Comunque era vissuta dai nonni che adorava e di fatto aveva perso la verginità prima del matrimonio non dopo e la nonna diceva che era peccato. Non prima dopo. Che pensieri bambini. Non si è mai sposata però. Peccato ha stima del matrimonio. Il sogno della giovinezza – una vita da dividere insieme. Ora è frammentata. Gli uomini hanno solo voglia di scopare.
Era assolutamente incapace di comunicare e solo rideva o sorrideva, ma era di una bellezza incantevole, un modello di bellezza diceva ingenuamente il ragazzo. Temeva la bocca. Le parole stridevano. Irrompevano e straziavano e poi il silenzio. Le parole sono pietre.
Si nutriva di letture e cinema. Tutti i casi clinici di Freud, Jung Ricordi sogni riflessioni, Psicologia e alchimia.
Libri che l’incantavano. E  grazie ad una insegnante che assegnava letture integrali leggeva  e sognava e amava. Tutta l’autobiografia di Simone De Beauvoir Dostoevskij Delitto e castigo e I fratelli Karamazov,  Puskin, L’Eugenio Onegin. Checov, l’aveva incantata Colette, e La peste di Camus… forse è il senso? Discuteva così con gli amici e tutti leggevano e sognavano grandiosi futuri.  “Grandi speranze illusioni perdute”. Una piccola Don Chisciotte. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse.  Un segnalibro. Dostoevskij le apparteneva nel profondo e il romanticismo tutto l’incantava come il primo casto pudico esaltante bacio.  Io leggo - diceva fin da bambina - quando il nonno  e la nonna, odorosa di cipria,  la chiamavano a tavola e per toglierle il libro di mano  dicevano sempre “ chi mangia e ride a tavola e a letto è un matto perfetto” e lei aveva paura di diventare matta e chiudeva il libro per sedere composta a tavola.  Nel girovagare pazzo con il primo ragazzo, erano gli anni settanta, aveva solo uno zaino un sacco a pelo lunghissimi capelli sciolti, scatolame per mangiare qualcosa e i libri di Jane Austen che leggeva a “letto prima di dormire”, ossia nel sacco a pelo matrimoniale dopo aver fatto l’amore sopra un verde campo di margherite. Ma rimuginava nella testa, e serpeggiava tra le “crepe del cervello” – come scrive Sylvia Plath - la pazzia, il “medico che cura le teste ha cura di un arto complicato” sempre da Sylvia Plath, cita a memoria forse sbaglia.
La vita è un assurdo e un paradosso. Un fallimento economico, ogni tentativo di aiutare il padre imprenditore costruttore è inutile, il padre si uccide la famiglia resta senza tetto, il ragazzo prende ad odiarla l’abbandona, le ripete ossessivamente mors tua vita mea mentre lei si occupa del fallimento e di cercare un riparo, non hanno più casa una famiglia dispersa, e lei sola come una cagna randagia che abbia perso anche il fiuto.
Lei non ha una casa non ha radici non ha una città- la madre torna in  provincia. Vive ospite della sorella e insegna in un liceo in provincia. La ragazza è  sola in una cameretta in affitto a Roma e singhiozza per un anno intero poi il pianto si placa. Mors tua vita mea. La frigidità è diventata incurabile. Il disorientamento totale. Durante il natale trascorso a casa della sorella della madre giungono a breve distanza due lettere anonime di minaccia alla madre. Parlano della vita dei figli con minacce di morte.
Dopo il no secco a Mister x e Missis y – dopo spese inutili e danni irreparabili ripara anche lei in provincia e chiede a Her Doctor la giusta cura. Anche Her Doctor non comprende, pazienza è comunque un riparo, ma sembra uno qualunque. Non concepisce un’anamnesi neanche lui. Dottori dell’anima l’anamnesi conta ascoltate e non parlate- siete dei sordi pieni di soldi.  Lo dice così non ha troppe parole. Comunque pazienza, questo passa il convento, e chiede all’illustre Her Doctor di rimetterle in sesto il cervello. O l’anima. Neuropsichiatra cioè medico. Lei  sa già che esiste un corpo e lo sta disprezzando e conosce  la timidezza di ragazza che tace. Il dramma della parola me lo spieghi lei Her Doctor, la imploro Her doctor, le parole puzzano sono pietre lanciate, preferisco la mia eco nel silenzio della casa che tace, la parole hanno peso ma cadono nel vuoto.  Posso baciare. Mi dicono tutti che profumo e sono bella Her doctor intensa e bella da baciare. Ho paura sono delicata. Il pene è violento l’uomo non lo conosco. Perché mors tua vita mea e perché quello voleva comunque scopare, suonava scopava insultava e se ne andava. Un sinistrorso pieno di soldi che non mi offriva un pranzo o un cinema.
Ecco che ritrova la prima versione della prefazione  vecchia di anni ora la lascia intatta così,  cela timidezza,  nasconde la verità della malattia.
E così un’idea del tempo  dispiegata attraverso i pensieri in un oggi ieri domani riassorbiti in unità. Eppure un’altra versione ancora dell’anima, così un tempo scriveva e descriveva la giovinezza e l’età adulta le lacrime e le risa, un modo forse più astratto ma ciò che conta è proprio questo “anni or sono” con il quale si restituisce l’idea del tempo come in una scatola cinese, un altro tempo ancora, l’identità è la stessa nel tempo eppure muta. Muta ovviamente, ma come restituire le trasformazioni se non scrivendo piano nel tempo mentre gli anni oggi hanno imbiancato i capelli, mentre quanto segue è frutto di una lingua giovane di un’energia diversa. Un modo di tradurre il tempo forse è questo, attraverso scartafacci, legati da una comune intenzione. Parole mutate forme indefinite.
 Gli ostacoli tra il nostro desiderio di liberare l’anima che si è rappresa e assottigliata per sofferenza e le possibilità offerte dal mondo ribadiscono forse per un’incosciente sbadata disattenzione il tragitto faticoso verso la conquista di sé che ogni paziente analitico tenacemente intraprende pure tra mille difficoltà e naturali insicurezze.
Legge da GillesDeleuze «La scrittura è inseparabile dal divenire: scrivendo si diventa-donna, si diventa-animale o vegetale, si diventa molecola fino a diventare-impercettiibile»
Un tempo, da giovanissima, quante cose credeva di sé, anzi credere non è esatto, e di sé ancora meno, aveva però la perfetta illusione di essere un giorno qualcosa di cui meravigliarsi, qualcosa intravisto attraverso specchi labirintici dei suoi puerili pensieri, eppure già arroganti. Illusioni sogni di futuro, sognare  sempre lì nel presente con il dominio della giovinezza a far da guardia a giorni pieni di sofferta mai compiaciuta inconcludenza!
Ma non era certamente l’odio a renderla inetta, quanto una forma di insicura incapace inedia, per la quale era adatta solamente alle letture e tutte ottocentesche. Quelle, del sogno e dell’educazione tutta femminile, un regno per le donne che amano e finiscono per denutrirsi anche per amore. Era secca come un chiodo. Un fuscello, esile e nervosa.
Sempre da Deleuze «come dice Lawrence, “se io sono giraffa, e gli inglesi ordinari che scrivono su di me dei bravi cani beneducati, è tutto qui: sono animali diversi …voi detestate istintivamente l’animale che sono io»
La Provincia
Quindi i sogni. Ciò significava  credere involontariamente qualcosa di importante di sé, e senza progetti che le sfiorassero seppur minimamente la mente. Era l’esperienza a renderla estrema? O le condizioni, impossibile essere forti nella privazione di tutto. Era come avvolta  in una vulnerabilità che la rendeva indomabile, bizzarra e spesso imbizzarrita, faceva appello alle sue ragioni con  scompigliata insolenza, cercando di attribuirsi l’importanza che la giovinezza chiede… A volte passava alla descrizione del dolore, poi all’ironia che mitiga e al pianto, dell’agnello sgozzato, dicevano. Giovane e timida…Questo perché era in parte un po’ esclusa realmente, impacciata, priva di una possibile collocazione nel mondo, le dispiaceva il suo non sapersi collocare. Esile come ragazzina, un po’ troppo assottigliata, e assolutamente indifesa. E non le riusciva di crederci però. Il quotidiano confronto le dava il tormento. Essere senza difese Troppo forti gli altri, le altre. Non desiderava pensarsi insufficiente o carente. Bastava poco ad annichilirla, in una perfetta invidiabile incoscienza. Di fronte agli ostacoli ne cercava altri mille però, perché il tempo non la curava, e il tempo si faceva rarefatto, e le mancavano curiosità importanti, conoscenze che le ridonassero il terreno perduto dall’anima che si andava assottigliando, il desiderio di un uomo che ti coccola più di quelli già avuti. Ora la solitudine ha  forma di sacro terrore.  E l’uomo spaventa atterrisce. Inizia a pensare di più alla solitudine protratta. Forse alla noia, teme di non riuscire a trovare ciò che realmente per anni ha cercato senza mai arrestarsi. Percorre strade tortuose intrecci di vicoli e viuzze per il timore in corpo di essere sprovvista di qualcosa, nutre una tale ansia per il futuro. E la città  è fatta di anfratti e viuzze trasversali, di salite illuminate da un cielo di un azzurro violetto ghiacciato per il freddo pungente, sferzante… Ma la posizione è cambiata. Ricorda i suoi ventidue anni. Nonostante il dolore di un abbandono, l’impaccio la solitudine, un uomo oltre i quaranta, che aveva scelto per essere accanto ad un uomo qualsiasi, (orrore della solitudine sentimentale, orrore di trovarsi nel vuoto), le ricordava sempre la sua natura e la sua bellezza  al risveglio, rispetto agli impossibili risvegli delle quarantenni, sosteneva l’uomo con l’amarezza  nella voce, fin troppo decorate la sera dal trucco, e spoglie di ogni orpello la mattina, irriconoscibili. Ora sa cosa intendeva quell’uomo il cui ricordo è solo appena percepito, troppa memoria e troppa esperienza nelle donne, vergini le menti ragazzine. E ora?…E’ fondamentale poter credere di ritrovarsi la mattina tra la braccia di un uomo senza che neanche il tempo sia intervenuto a modificare se non per un accrescimento la natura propria, riuscire a sapersi nel tempo con l’esatta sensazione di una continuità e di un orizzonte di fronte allo sguardo pur sempre smarrito, nell’incertezza del futuro che ognuno di noi ha. Immancabili gli sfoghi, ma quanto veri anche.  Ma il rovello esiste, è ora una donna così la chiamano quando per strada ragazzi e ragazze chiedono con timida cortesia all’adulta indicazioni o informazioni… Deve farsi schermo con le parole, provare con questo. Le parole fanno da specchio e da schermo, riflettono l’immagine esattamente come il luogo di promanazione del principio vitale, del respiro spirituale, dell’orizzonte che si chiede.
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Ma è illusione, e comunque questo le rende necessario il vuoto che suppongo nutra dentro. Non sono più io non sono più la stessa. Ma forse sta acquisendo anche un ordine. Forse ora sono me stessa? Un ordine finalmente.  E suppongo anche che assorba per questo gli elementi di un’associazione giusta tra sé e il mondo esterno. Ma è sempre povera in canna… Si lascia accompagnare dalla musica, La musica è senza tempo, e la memoria le dona spettacolarità… E questo sempre, con regolarità, attraverso il tempo con modi e forme diverse, ogni volta con qualcosa  che sfugge come una maglia persa, da riprendere con altri anelli, migliori. Fruisce delle sue stesse parole dette o non pronunciate come in un libro tutto da sfogliare, le parole e i pensieri. La  preparazione filosofica, approssimativa, e molte  sigarette, insieme a piccole ferite da rimarginare, le consentono di certo un ordine all’interno del disordine, una forma all’interno del caos, un esserci all’interno di un possibile svanire. Svanire era questo, io credo per lei: privarsi dell’amore. Ma per lei Amore significa qualcosa come un orizzonte, e nel mentre avverte la perdita di uno sguardo sul futuro allo stesso tempo avverte la sconfitta dell’Amore. Ha perso la terra amata. Amore dunque, ma non solo per qualcuno anche per qualcosa  o per se stessa, oltre la noia che l’attanaglia, e rende vacuo il risveglio e utile il primo caffè e la prima sigaretta.  Solo che ora l’amore è diventato il suo straccio vecchio. La coperta di linus troppo logorata dall’usura e non più così rassicurante. La incontriamo così, ora. Ha sognato molto e cerca amore, quello personale soprattutto. Ha fumato troppo ed è stato così parziale l’ordine in cui è vissuta che non sa più esattamente come collocarsi, che spazio il mondo mi assegna, si chiede, credo deliri di nuovo intorno a qualcosa, una meta irraggiungibile. Il sogno. Si dice che il delirio sia un superamento del terreno coltivabile, lo scavalcamento sterile verso l’altrove che non si può non si deve frequentare perché è terreno sterile, sterilizzato. Ma il non coltivato oltre il limite non può forse essere fertilizzato?  E divenire allora memoria di carta, per la natura che è identica nel tempo ma soggetta a trasformazioni, da un’origine verso una metamorfosi-accrescimento trasformazione sempre riproponibili, o rinnovati o da rinnovare. Perché il cuore viene spesso divorato, ma si può riconquistare, basta la tenacia di sapersi, forse riuscire a non confondere l’anima impigliata dalla potenza che lo stesso arresto dell’anima ha in fondo con sé, il principio di un cammino per un cuore-anima da riconquistare. Domande sostanziali come: ami? Sei buona? Conosci la bontà? Le risuonano come corde stese ad essiccare e che il sole abbia prosciugato per il frequente utilizzo-abuso. Musica troppo innaturalmente suonata. Preferisce allora nuove forme. Musica che non sia musica, credo, musica anche prosciugata da troppo sole e troppo fragore ma non  abbandonata, musica che si concepisca nuovamente.  Un delirare oltre, oltre i confini del già stato, oltrepassare lo steccato per coltivare una nuova forma-natura al di là della soglia del disseccato, ma senza oblio, perché la memoria torna come fertile presenza ma dimessa. Fertilizzare oltre il confine. Con le parole.  Non lo sono forse sempre fertili le parole anche nel de-lirare, nel delirio di coltivare il non coltivato, dell’essere e dell’essere stato ma anche del sarà. Aveva voglia di morire un po’ e poi rinascere alla pace e al risveglio. Concepire se stessa nuovamente, delirare di nuovo forsennatamente, con animata sostanziale voglia di non arrendersi al quotidiano esserci senza speranza, ossia privandosi d’orizzonte, ma vagabondare invece con le parole per una nuova indeterminatezza e forse un orizzonte di parole di carta. Tentare non nuoce, si ripete. Parole-orizzonte… Il tutto per non morire, e protrarsi così come vorrebbe essere, cervello cuore fegato sesso, e armonia delle parti -  una parola un circuito denso di parole, uno spirito rinnovato e come ribaltato, una carezza nuova e protratta, danno la cura, quella del cuore rinato liberato. E questo solo attraverso poche facili dimesse parole.
GELO
Un coro di voci sovrapposte rende faticosa la percezione dei suoni. Il bar è affollato i tavolini disordinati e sporchi raccolgono gruppi scomposti e disordinati di ragazzi e ragazze in una gazzarra di voci sovrapposte, sovrapposto fragore di suoni scomposti e andirivieni distratti. E’ un’inedia estiva, ultima propaggine di un sole che non scotta, le prime piogge allenano all’autunno e all’inverno sotto altro cielo, meno libero, più convenzionale, più sacrificio, meno scomposizione. La ragazza siede misurando gli angoli dei tavoli insieme alla sua angosciante magrezza. Al lato, seduta accanto alla colonna di marmo, sente  spigolose le profondità di quel  bailamme allegro, putiferio e sarabanda di buona sana festiva dimenticanza. “Quella?” Dice uno agli amici. Parlano di lei i giovani accanto.  Ascolta la ragazza - fingendosi partecipe al gruppo al lato dal quale in realtà si  ritrae, e così in fondo può meglio catturare il brusio e il mormorare poco sommesso dei ragazzi che la indicano con voglia. “Da’ retta a me, quella non te la dà, anzi sapete che vi dico non la dà ne a te né a te né a me” La ragazza pensava ai funerali, al decoro con il quale ogni cosa era stata disposta. Il suicidio del papà l’uomo generoso dagli occhi vivacissimi nero profondo a volte trascoloranti nel verde, il Fallimento, l’ossessione claustrofobica dei creditori. Dopo un Fallimento, senza più un tetto,  come continua la vita, e come si cura un fallimento e qual è il futuro quando si perde tutto? Il papà non c’è più. Prima di morire hanno tutti tentato di salvarlo, non credere al denaro abbiamo l’amore, ma un giorno il papà ha detto non avrò più mille lire da dare ai miei figli e parlava di banche e banchieri con un rovello che lo ossessionava fino a smungerlo, tanto era bello, comunque. Occhi vivaci profondi nerissimi a volte verdi,   barba folta scura capelli lunghi neri morbidissimi, ancora un ragazzo. E un giorno ha poggiato con un gesto d’abbandono, un addio,  whight rose la barboncina dolcemente tra le braccia della tata della figlia, non l’aveva mai fatto, a lei la padrona di casa - così umana aveva eletto il papà a capo branco e impazziva al ritorno del papà la sera tardi dall’ossessivo lavoro.
Le voci, sempre le voci, tante voci e tanti passi, l’avevano distolta.
L’amica era venuta a portare qualcosa da mangiare.”Dovete nutrirvi” diceva Concetta e lo ripeteva sempre più volte “Io vengo per ripetere solo questo, voi vi arrabbierete e io lo ripeterò sempre” “Ma che c’entra adesso” risponde qualcuno  in un tono alto, in un caos. “Non mi interessa, tu arrabbiati, io vengo solo per questo. Voi dovete sedervi e mangiare e assaporare”
Lei avverte giustizia in quelle parole ma teme il coraggio di Concetta. “E se non la capissero?” Concetta è la filosofa collega della madre, e i filosofi possono non essere compresi. Una filosofa straordinaria dal cuore d'oro,  un angelo. Diceva sempre di essere stata troppo puritana e un tempo si raccontavano  ridendo di quanto l’avesse sconvolta la lettura di Anna Karenina “Continuavo a pensare ma che vuole questa, abbandona la famiglia e un figlio? e ha un amante!” e tutte ridevano, perché la mente di Concetta non è così, è alta, bella e troppo intelligente. Lei teme per tutti. Cambia tutto. Il papà non c’è più. E tutti discutono, vorrebbe chiudersi in cucina con Concetta, o sdraiarsi sul divano e chiudere gli occhi, ma tante persone discutono e sono discussioni accese, definire i termini della questione del fallimento, chi se ne occupa, non si sa ancora. Concetta porta piatti che mostra e dice con il vassoio alto tra le mani “questo ve lo mostro” - dell’insalata russa, un piatto ovale giallo canarino decorato con uova e tonno ad arte, e pasticcini mignon, molti perché molti in casa aspettavano discutendo non proprio sommessamente. “Si ma non sono da offrire ma da masticare e ingoiare”. Le parole complicavano tutto, trovare cercare parole adatte. Risposte del cuore? Complicato. Dov’è il cuore? “Dove preferite che sia sepolto?” “ per me fa lo stesso” risponde senza la voce giusta la ragazza e non trova la risposta. “Forse non qui è meglio la tomba di famiglia, è più in ordine “ dice qualcuno. “E’ meno disperso”.  Sente il peso di averlo detto, con tono tanto aspro, forte, per prendere la decisione finale, ciò che rimane. “Non credo che conti comunque” aggiunge, ma desidera tanto la tomba di famiglia, dove ci sono gli altri, e il Nonno materno. E’ una bellissima tomba di famiglia, e da piccola coi nonni il giorno dei morti si chiamava un frate e si faceva dire la messa nella cappella e lei partecipava con l’acqua da svuotare e portare e si divertiva molto perché c’erano tante bellissime foto sul marmo, ognuno aveva scelto un modo e si parlava delle cappelle di ognuno, sempre fiorite. Lei andava col cugino più piccolo perché stavano sempre dai nonni, la Nonna e il Nonno. “Dovete comunque scegliere “ Si sceglie la tomba di famiglia, la famiglia di mamma, e ora  la ragazza è più serena, non sarà perso nel Verano, è più vicino. Con la nonna paterna, dal nome di Stella Alpina ogni volta era complicato andare a cercare il figlio perso giovane, perché la nonna piangeva e si confondeva e lei non trovava la strada. Il papà, fratello di quel giovane zio dalla vita stroncata in un incidente a soli ventiquattro anni,  solo un bambino,  soffriva e continuava a soffrire quella perdita incolmabile. Ora anche il papà non c’è più. Franco, papà, E Carlo, zio Carlo. Alla ragazza il papà e la mamma hanno messo nome Alessandra Giulietta perché la mamma voleva Giulietta ma Franco e la nonna paterna, Alessandra. Così Anna la mamma si era trovata Alessandra tra le braccia mentre aspettava Giulietta. Secondo nome.  I parenti e gli avvocati hanno infinite questioni da decidere, Il fallimento le Banche i creditori, Prima di morire il papà aveva pagato gli operai tutti, ma le Banche - alle ultime questioni ancora non ci si pensa, ora riordinare sbrigare accertare fogli numeri calcoli. Denaro. E’ complesso. Carte sul tavolo al centro, fogli analizzati e non riposti. Gli incartamenti si tengono nell’armadio della stanza accanto, dice qualcuno, una voce di donna, ricordarsi di trovare una disposizione - ”Qua manca qualcosa, Sei sicura di aver letto tutto?” – c’è una registrazione dei regali “costosi” tangenti ai quali il papà era costretto. Ma la mamma teme per i figli, hanno voglia di portare quella registrazione alla polizia e la mamma sa che è potere e il potere annienta due giovani. Anna è mamma e lo sarà sempre fino a diventare nonna lei stessa. Insegna Italiano e Latino è un’insegnante forse amata forse da qualcuno dileggiata, i giovani sono così e la scuola è così.
La casa - le vetrate mandavano l’eco del buio nel  giardino ed oltre, spazio chiuso dalla notte. Una casa splendida dalle pareti esterne solo di vetro e un parco immenso e selvaggio da ammirare con incanto distesi in poltrona con un libro in mano e la dolcezza del verde intenso delle querce secolari dei salici del cielo bizzarro dell’arcobaleno o del sole cocente o la pioggia furiosa. Amore per il passato trascorso così nel mondo incantato scelto per il bene della famiglia. Il papà simpatico e bello di una bellezza immane  terribilmente forte ed esuberante amava ridere e dire sempre: “melius abundare quam deficere – prendi il meglio offri il meglio e avrai il meglio –“ Sarà il passato non è più il presente né il futuro”.
Di notte invisibile, di giorno la brina fitta ricoprirà il prato fuori,  il giardino così bello e scomposto. Selvaggio.
La mattina c’è stato il boato. I figli sono a letto, dormono. Due piccole quadrate camere divise da un ulteriore quadrato e due archi con tendaggi ocra, poggiati ad aste dorate attraverso grandi anelli che pendono come giganteschi gioielli. Il primo suono è un boato, e schianta il cuore che batte. Il pensiero non cede. Non è non bisogna crederci. Cos’è un incubo suono? E’ la prima volta. Un incubo-suono che squarcia il petto e toglie il respiro.  Un urlo. la madre urla chiama «correte papà s’è ammazzato». La porta del bagno. Papà è nel sangue. Respira ancora forse si può salvare c’è speranza aiutateci. Muore all’ospedale, in sala rianimazione. Lei lo vede mentre lo trasportano di corsa in sala rianimazione. La testa è fasciata ricomposta. Gli occhi aperti, i suoi splendidi occhi. Specchio di un dolore anima animazione da sempre incolmabile. Una signora anziana madre semplice e bella dice esclama dal cuore « povero ragazzo» amare lei e le sue splendide parole del cuore. Ragazzo è il papà di fronte all’anziana madre in quel momento madre di ogni ragazzo finito. Si ritorna a casa. Lei è in macchina con gli zii materni. Ripete lo zio sempre con tono alto  come con un canto urlo lamento funebre “pover’uomo, l’ha ucciso la sua generosità, pover’uomo, pover’uomo, l’ha ucciso la sua generosità”.  Accanto l’altro zio  soffre smarrito col silenzio e l’ascolto per il quale l’ha sempre amato, perché è un uomo che ha la bontà scritta nel viso e negli occhi. Ogni parola, a volte gli sguardi,  sono elogi funebri, Ragazzo generoso. Le parole degli altri quelle esclamate ripetute gridate col tono del lamento lo ricordano già per ciò che sempre sarà, il ragazzo generoso che amava il mare e la pesca subacquea.  Wight Rose, la barboncina aspetta alla porta di casa, seduta come sempre aspetta da ore come faceva ogni sera,  riconosceva da lontanissimo il rumore della macchina, e andava a suonare i campanelli che pendevano dalla porta di vetro e ferro lavorato oltre la quale delle scale di leggero ferro battuto portavano al grande cancello di ferro chiuso con una semplice catena e un lucchetto da ferramenta. Poi c’è stata la grande nevicata. A Roma. Dio ha in qualche modo salvato con la neve, che contemplare dalle grandi vetrate era riposo. E la neve è tanta è attesa silenzio bianco immacolato.  Lenta la neve fiocca fiocca fiocca. La poesia che la mamma le raccontava prima di andare a letto da piccina perché a lei piaceva tanto la neve che fioccava e la vecchina che cantava la ninna nanna – ancora una volta mamma -  E così di fronte alle vetrate con la distesa di bianco e la bufera di bianchi fiocchi aveva letto l’Idiota di Dostoevskij e se l’era divorato e poi molti libri, ma la madre era preoccupata per il tetto e voleva farsi ospitare dalla zia paterna per sicurezza. La madre è venuta a ferirla con le sue paure, la solitudine già l’attanaglia, e per lei, la madre,  la solitudine è amplificata dalla neve, è naturale forse, è giusto. Teme per i figli. Ora dovrà essere padre e madre insieme, lei che era la giovane di rarissima incalcolabile bellezza si è trasformata. Un infarto. Il medico per i farmaci. Il metabloccante. La neve la separa da quel che resta, e restare significa unirsi ai figli. Crescerli? Ma la madre ha però interrotto spezzato la calma di un momento di divina grazia. La neve pacificava, il silenzio sopiva, la neve è manto di pacata placida remissione. La neve fiocca. La neve tanta in giardino da calpestare il meno possibile, la neve che cadeva dai rami, era l’intermediario giunto improvvisamente per una strana sorte a dare attimi giorni di conciliazione.
La ragazza ritorna in sé, il fragore, scalpore di applausi concitati. Le risa brillanti di ognuno e sono tanti le servono a non essere comunque presente. Non può essere di fatto brillante in nessun modo.  .
“Sai l’ora?” le  chiede urlando il ragazzo dalla bella testa riccia e nera  girata verso  gli occhi volti a lui, occhi profondi occhi negli occhi.  “Non ho l’orologio” Manca le verve di una risposta al richiamo, si smorza l’allegro sorriso dell’altro, lei reclina involontaria l’invito alle chiacchiere, troppo composta, troppo seria nei modi, poco adatta al clamore della folla che ride. La ragazza ritorna al fragore,  L’ultimo libro l’aspetta nel silenzio della camera. Emily Bronte. Leggendo spinge brutalmente da parte le voci, sempre le voci nella casa questa volta del mare, quella che c’è ancora quella che è rimasta, della nonna materna,  Sempre con gli oleandri e i glicini in fiore e i limoni. Con tutti i parenti, zie zii cugine. Se nulla e nessuno l’avesse fermata al cancello al ritorno sarebbe stata riconoscente. Le parole divine di Caty la facevano tremare d’ansia per il ritorno, non riusciva a tener testa a tutta quella felicità intorno, alle voci, un coro, non si univa la sua. Però se Caty e Heatclif si sono amati si può amare anche così: Come solitari randagi abbandonati. “Non posso non amarlo, è più me di me stessa” le parole di Caty,  la brughiera  asseconda il pensiero colorato di verde e selvaggio di vento. Il selvaggio Heatclif è perso per Caty e per se stesso.
Ma il ragazzo chi è, si chiede la ragazza e si volta. Un ragazzo che siede scomposto con una voce fragorosa .  Il ragazzo si alza veloce “ Dimmi una cosa, tu non me la racconti giusta” prende una sedia e con un giro abile si porta al suo tavolino e le siede accanto “sei molto timida?” “Perché, mi trovi timida?” “Non ti ci trovi?” “La timidezza è giusta, dimostra rispetto, in fondo la sottovaluti” “Complicato, fai discorsi complicati” “Sì studio filosofia” “Io faccio architettura” “Bravo”. Niente paura mormora a se stessa. Senza casa e con una famiglia già disfatta, il peso di esserci non si sa come, né dove. La casa del mare è un riparo, sempre la stessa, da quando la madre e il padre lì si erano conosciuti e fidanzati. Ma lei non è desiderata, perché non sta benissimo, e oggi ha tolto il pezzo di sopra del costume e la zia ha fatto una scenata ”Non sarai più considerata figlia nostra, per noi questo eri, più che nipote, figlia, io mi chiudo in camera, come hai potuto, ci ha svergognato.” “il vostro puritanesimo è inclemente, riguarda sempre le vostre figlie, le altre sono perfette, noi imperfette”.  E’ la sorella della madre, e in due generalmente dosano discordia e accordi. Ma ora è diverso. Ogni giorno mangiano come sempre da sempre tutti assieme, con i cugini e le cugine, ma loro stanno bene e lei sa di essere malata non ha aiuti ma si immagina nugoli di critiche piovute addosso non sa perché, se non perché deve inventarsi un futuro, ed è incapace. Rimane seduta in silenzio per ore sulle scale della grande scalinata d’ingresso alla casa anni cinquanta semplicemente cubica e immensa, un labirinto di camere una cucina con il camino. I tre scalini in alto prima del portoncino d’ingresso con la madonnina di ceramica sopra sono sempre il luogo ambito per le chiacchiere femminili. Chissà perché. “andiamo sugli scalini” si chiedono le cugine “no sono occupati ci sono la mamma e la zia”. Tre scalini una sigaretta e le chiacchiere riposanti. Siede e passa tutto, non vorrebbe spostarsi di lì, siede con un libro in mano.  finge di niente e accumula qualcosa di non buono nella testa. Le parole ripetute di Concetta “Dovete sedervi masticare ingoiare digerire, sentire i sapori”. Cerca di darsi l’identità. Dopo le critiche, il disonore arrecato al pudore, è andata ad asciugare i piatti in cucina e ha pianto. Ma il pianto non  era vero. Le lacrime però sono vere. La zia ha ragione. In quel gesto togliersi il reggiseno c’è già un insulto, di fronte al padre non l’avrebbe fatto. Quel gesto urla la solitudine e la morte del padre. Il naturale  pudore non lo avrebbe voluto. Però pensava anche a quei film in cui la cucina è un riparo e le donne piangono in cucina. Si vede così come ripresa dall’esterno, e l’interno è la calma e l’accortezza con cui ogni goccia viene tolta col panno di cucina, piano lentamente, lucidando posate, riponendo ordinatamente. Teme le chiedano sforzi eccessivi. L’amore può salvare. L’incanto amoroso che lenisce le ferite. I libri evocano i mondi intorno al fuoco, la tranquillità del sacrificio, tessere ricamare aspettare. Il Sogno di Zola l’orfana tessitrice tesse pepli con arte straordinaria nell’attesa di Cristo, il suo amore lo sarà. Lo avrà per un giorno per il giorno delle nozze per poi morire. Sogno della vita la nuova aurora. Il ragazzo si chiama M. fa architettura, è bello, forse coraggioso e molto estroverso. A lei l’altro l’ha lasciata, la situazione in famiglia era troppo complicata. Le lacrime  per l’abbandono sono anche nella secchezza della pelle. Asciuga i piatti, perché pensa che la cucina le ridia  la vita. Nei film anche è così. E Jane Eyre ha sofferto, un collegio, l’esclusione, ma forte e decisa ha superato il suo calvario e si e sposata, perché ha una grande anima anche se la ricchezza le manca e anche la bellezza.
 Comunque la musica. La musica è la soluzione. Segue in provincia le conferenze di musicologi sulla sinfonia e la musica lirica, teatro in musica,  e sono tornati come conferenzieri i due chierichetti della chiesa giù il vicolo. Sono affascinanti o è affascinante la musica e ha appuntamento per una cena con uno dei due che ora è un uomo e bello e libero dai conventi ma incarna una tradizione sacerdotale forte. Avrà amore da entrambi il giovane architetto e l’ex seminarista ora musicologo. Sense and sensibility scrive Jane Austen. E grazie al genio estetico della madre con quel poco che resta avrà un nido,  una casa antiquaria in provincia preziosissima e di rarissimo fascino. Un inno alla gioia. Per dimenticare o ricordare sempre e per sempre. Una scalinata di marmo rosa di Venezia al centro della casa fatta d’archi e colonne di porfido rosa una balaustra liberty in ghisa vetrate liberty putti d’oro settecenteschi una collezione di madame in trine lampadari di cristallo di Venezia, la cucina con marmi di Carrara e libri e musica ovunque, una casba una quinta teatrale una casa d’artisti. Con  quel poco che resta e i quattr’occhi lungimiranti della madre che studia molto e ha genio attraverso lenti speciali che le restituiscono il mondo.
Segue le conferenze del chierichetto fatto uomo su “Il flauto magico” di Mozart.
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Feb. '13
remissione clochard
Costruiamoci una scala per la luna
“Costruiamoci una scala per la luna” Scrive un poeta su facebook. Ecco, è così, così è sognare. La luna,  raggiungere il sogno, l’argento di notte. Un lume di speranza, la luna e i suoi bagliori.  Un faro, un porto. Un sonno sereno con i raggi notturni, un miracolo improvviso, tra le persiane i bagliori, e nei brandelli di carne, nelle viscere, una sorella,  la luna, un sollievo dopo estenuanti profezie di calici frantumati.
Sono una puttana, e l’anima se la sono fottuta tutta fino in fondo. Ormai il tempo è trascorso. Inizia l’analisi del Tempo. La vecchiaia è un mistero, insinuante dubbio sul Tutto,  scopre e scoperchia le ombre nella fissità estrema di una deposizione, si attorciglia nella suppurazione della pelle, nel sudore, nelle piastrelle del bagno, e  l’odore di cicche impregna la malattia. la condanna dell’ io è psiche, la maschera  un corredo  di abiti sportivi, jeans e giacconi e sciarpe. Un letto d’ospedale in un reparto psichiatrico. La vecchiaia di una puttana è un bagno caldo e profumato, è sentire di nuovo sulla pelle le emozione di un tempo, di quando era allegria, e i fiori si aprivano come ventagli.  Il volto livido la mattina, i capelli irsuti e tinti. Ricordo appena qualcosa degli anni trascorsi. Non la storia che si studia sui libri. Dei libri ho dimenticato tutto. Ricordi furtivi che ingannano il Tempo. E il delirio, paradossale, tragicamente sottratto al futuro, il Tempo è perso, si fa strada una scala che conduce alla luna. La morte e la fanciulla di Schubert.   Resta qualche vago ricordo appena percepito. Sono assorta, di notte, una ruota che non gira,  un penombra, presenze vaghe, le inferriate dell’anima, i ricordi senza emozioni. Un video. il Tutto, il Tempo, la Parola. La fuga e la circonferenza che chiude e rinserra. La pioggia e l’amore in uno scrigno e in un anello perduto, in un bicchiere affogo e annacquo il cervello.
Ricordo un tempo nel quale tutto era più facile. Un tempo lontano, ero giovane e bella. Ma perché ricordare se la storia si dimentica. Il poeta parla di emozioni. Dove sono, nel cuore? O sono ripudiate, hanno perso la grazia della rugiada mattutina? Tempo per trascorrere il tempo, come pregando. Resto confusa. Gli amici si sono allontanati, sono sola e non cerco nulla. Scavalcare il tempo, il muro oltre la siepe. Depressa. Ma che significa depressa. Forse svitata, mi deridono  quando esco di casa e senza proferire parola prendo un caffè e una sigaretta al bar di fronte. Che caos la vita. Ti riducono alla fame. E se resti sola non hai risorse di sorta. Giocare sarebbe bello, ma con chi e come. La vastità del mare era un gioco da ragazzi. Un giorno lontano  era  così. Non solo così. La giovinezza era la voglia di scoprire il mondo. Il mondo erano gli altri, nemici e amici. L’inquietudine era tanta. Erano i fiori sbocciati. Un segreto dentro da sciogliere. E un usignolo nel cuore.  Chi sono o come sono, le domande ripetute, all’ombra dei glicini, e tra le limonaie, e l’orto ricco e fertile. I colori delle principesse. E quella timidezza bifronte, un momento le risa un momento il rossore, la voce stonata. La avvertivo fuori tono. Non c’era accordo. Ascoltavo nelle conchiglie il trasporto del mare. Ma sempre quella timidezza che non mi abbandonava mai, e mi ricacciava negli angoli, mentre emergere è essere come gli altri. E poi chi sono gli altri. Incomprensibili domande. La famiglia materna ha origini  patriarcali. Ma giunge doloroso il ricordo. Fare l’amore era la più disgraziata delle trasgressioni, il primo peccato, peccato mortale, prima del matrimonio non si deve. Ma  quando si trattava di crescere, il nido era protetto. Caldo. La vita era quella di un pulcino.
“Costruiamoci una scala per la luna”. La soluzione lontana. Presente, poche parole gigantesche.  Resterò a sognare e invecchierò senza luna, a morire dolcemente, vorrei l’anima leggera, come la spuma del mare. Ma il bacio assassino mi ha tradita, per sempre? Qualcosa manca. La parola, dolce poeta, non ho il verso.
Non so perché ma non mi sento a posto. Non mi sento nei luoghi. La morte ha un luogo per esistere che non conosco.  Schegge di libertà la vita, ma ho le ossessioni, la morte nel ventre e nella voce, aspra come  un colpo di pistola. Un luogo esatto dove stare non ce l’ho. Una casa sì ma ci vivo appoggiata, oggi ci sono, domani forse neanche esisto più. Sepolta sarei terra. Non esistere non mi preoccupa. La vita come impegno è molto più complicata. E’ fredda la vita, l’affetto cos’è, forse immaginazione, forse è dove non esiste il nulla, e allora tocchi l’essenza ed è amore. Le emozioni si sono rarefatte, appiccicate al sempre sì della vita, al sissignore, è dovere non piacere, il mondo siete voi a voi la misericordia. Si danno molto da fare qua. Sanno le vittorie e le sconfitte. Io non conosco il discorso. Io resto a contemplare, ed è come se ascoltassi dissonanze, si sono fottuti la mia anima, e non ce l’ho più. Non è nel cuore, nelle labbra, non è l’abbraccio, né il mio cuscino o le lenzuola gualcite, non è tra le mani, o nel perimetro del mio corpo secco e aspro di fronte ai labirinti di specchi, o nell’insonnia, o nei versi che non ho. Sono suoni sbilenchi, senza melodia, i miei,  non parlo più perché avverto la mia eco. Tra gli spari.  Frasi, toni, e non capisco il senso. Ma sono tangibili come lame affilate. Ma perché tutti parlano così e sono tante voci, e io come puttana non ascolto e penso ad un fiore chiuso. Forse è l’onore perduto. Forse  sono io un po’ raccapricciante, forse malata, forse cattiva, e maligna. Cosa dico io se non bestemmie con la bocca impastata di sigarette e caffè. Vagabondo in questa provincia mentre le ore passano e il tempo non si riempie se non di apprensioni e di tensioni, eppure all’improvviso sorrido lieta e mi sembra di sentire una voce che mi intende, e mi dà forza, spensierata oltre il muro.
Se tento di dire che il mio vuoto non è un vuoto psichiatrico non mi capiscono. E’ reale, non immaginato. È vero, quanto sono vere le mie spoglie, la mia oscurità, il mio destino comune, un oltre vuoto, la mia bestialità, il mostro è dentro, lo combatto, ma sfonda il petto, è asfissia,  non so il senso.  L’aborto. La bestia dentro. Lo voglio inventare il senso, non ho l’amore non lo provo, lo invento, provo tento, forse ci riesco forse no. Alla fine ho trovato la luna. E’ un’immagine. Un poeta che scrive “costruiamoci una scala per la luna”. Ed è stata luce. Un frammento tra le sbarre. Mi sentivo buia, nel buio doloroso di una bestialità mia fatta di stracci e pesi, fuori dal tempo e dallo spazio.  Stiamo a vedere. Accada quel che capita, sono parole, sono il perdono per i miei troppi delitti, per la mia coscienza esangue, che ha spazzato via tutto, per il freddo che mi rabbrividisce e mi lega alla bottiglia, al vino rosso che scalda, e non penso, così mi gira la testa e non devo chiedermi niente, e fluiscono le parole, che non diventano chiodi ma musica e caciara.
Il sacrificio ogni giorno senza un frutto non mi va giù, non mi serve affannarmi tanto. Che ne è del mio seno, del battito, della rima che non ho, dell’ago e del cuore trafitto. Pallida la luna ascolta la preghiera.
Io comunque sorda e muta evito i molti giudizi e sono colpi di frusta,  non li capisco. A volte sono sciocchezze e credo che loro non abbiano capito il sentimento. In breve non dicono nulla, e molto è il vuoto, sempre la stessa monodia, un ritmo e gesti identici. Questo vuoto, comunque, stranamente, ha un peso. Anche pazzesco a volte. Se hai un lavoro te lo tolgono senza motivo, e trasporti il tuo misero corpo altrove, per una minestra calda la sera. L’ultima sigaretta non si rifiuta neanche al condannato a morte. Qualcuno pensa ai libri che ho letto. Spiego sempre che è niente, uno scivolare,  e neanche li ricordo. Ho perso la memoria lavorando. So cucinare qualche dolce questo sì, ma non so se possono piacere. E so lavorare all’uncinetto.
E poi è sempre tempo perso, è l’inverno della mia vita, questo caos di emozioni non diventa cosmo. Mi piace rivedere i film su youtube e poi metterli su fb. Mi piace stare in silenzio, non parlare mai, non dire nulla, e non me ne importa niente delle ultime battute su tasse e pifferi. Mi piace la letteratura al femminile. Le eroine sconfitte mi prefigurano da sempre la mia sconfitta. Il cazzo è un organo come un altro tutto qua. Cazzo fica buco di culo…insomma che c’è di male. Cuore fegato cervello sesso. Non mi stupisce, né mi incanta. La luna  si specchia. Note a Urlo di Ginsberg
Mi piacciono a volte le stagioni. Le avverto carnali. Sono nella pelle e nelle ossa. Ritornano. Sono vive, più di me, che non so che vivo a fare dal momento che non mi diverto, e mi sembra un inganno, un secolo troppo distante il mio, lo ricordo da sola, e comunque non serve, non piace a nessuno. C’è da trascorrere l’inverno. E’ inferno nei miei capelli, nel cervello. Troppo complicato e annebbiato.
La parola mi intimidisce, è aborto, sangue, pietra. Ma il poeta ha parole che sono il cielo e mi fanno respirare, trasforma la mia balbuzie in melodia. 
D’altronde parlare è un’arte che non possiedo. L’abile oratoria non fa per me.  Un’ossatura che non ho. L’arte è l’atto dell’artista, non conosco gli artisti ma sono elezioni.
La luna, e una scala. Lo dice un poeta. E allora aspetto la luna, e mi ritorna in mente il “Poema dei lunatici”. Comunque.  Non la ricordo la luna. Ho  rivisto una scena straordinaria, senza parole, da Nostalghia di Tarkovkij.  La neve, un uomo seduto in una sorta di arena vuota con   arcate aperte, la solitudine, si siede a terra, aspetta, il silenzio ovattato, il vuoto,  nevica, grandi fiocchi. Il mio deposito è una soffitta anzi un soppalco soffitta. Lì vivo le notti e i giorni come una reclusa. Ne esco per un’altra reclusione. Volevo abbandonare i miei dati anagrafici. E ora lavoro sola, in una polverosa biblioteca. E ora proprio in biblioteca sono. Mi vado a fumare una sigaretta. La mia insegnante di liceo al biennio mi diede da leggere “Il fu mattia Pascal”. Non so perché questa scelta. Mi è rimasta impressa, e quando ho voluto dimenticare, e soprattutto farmi dimenticare, mi sono rimossa così. Togliermi. Sono non essere, femmina malata, perché dovrei avere un peso, non avrebbe senso.  Per i cristiani avrei un’anima, io non ci credo, nel bene e nel male. Del male pago le conseguenze, comunque ho una coscienza che si è fatta da sé, nel tempo. La coscienza ha trovato il vuoto, dopo una strada senza uscita. Tutti chiacchieravano a non finire e io sbagliavo. Da sempre trovo inutili le parole.  Le mie intendo. Richiamano i morti, preferisco le lanterne, e i vecchi busti delle signore in carrozza.
Quando ero piccola ero cattiva, lo dicono tutti.  E ora non lo so più. Indifferente. Acqua e sabbia. Pietra rosa.
 A volte la rabbia mi prende e si confonde con la noia.   E’ ovvio che se il senso non è l’anima, e non è il denaro, che non c’è, il senso si sposta da qualche altra parte, ma quale esattamente ancora non mi è dato saperlo. Comunque non soffro. Vivo semplicemente, come un riccio. Uno bravo mi ha spiegato così la vita, il senso; “Fare” ha esclamato con enfasi, per dire è solo questo. Non sapendo cosa rispondere ho detto “abitare”, anche perché non ho niente da fare e non voglio fare niente. Il lavoro non mi piaceva, fino a quando non ho travato tra questi libri la solitudine. La sinistra parla di impegno, in teoria si impegnano, poi un caffè non te lo offre nessuno. Tanto meno una sigaretta. Le sigarette costano, e in fondo mi piace solo leggiucchiare e fumare e ascoltare musica e vedere i miei vecchi film, per i quali ero già troppo sbagliata, sbagliata per la mia famiglia, era peccato e non dovevo, e poco trasgressiva, o comunque sempre sbagliata, anche per la sinistra, ero poco ciarliera e poco rivoluzionaria. E poco figlia, mi ero perduta come una Capinera. Avevo un fidanzato che si definiva molto di sinistra e “un bravissimo campeggiatore” e intanto io ero comunque fuori luogo. In realtà era il figlio della mia insegnante. Un abbaglio, un’ingenuità. Dava del tu alla mia insegnante e c’era il comunicato stampa e il ciclostile. Mi sono chiesta che mondo è, io non lo conosco. Per questa scoperta ho trascinato una storia di quattro anni, piuttosto antipatica. Non mi piaceva quel mondo, non mi piaceva nessuna realtà. Io volevo restare da parte, gli uomini non li so se non come promesse mai mantenute, le amiche parlavano d’amore e mi soffocavano, mi rabbuiavo. In realtà sceglievo i libri, i romanzi, non le persone. Sceglievo i film, il sentimento estetico, non gli altri. Sceglievo la musica. E’ senza luogo ogni luogo, tranne nella pagina scritta, o in una bella immagine, o in uno spartito. Torno a leggere “Gabriella Garofano e cannella”. Sto bene, sta per nevicare, ma sento un tepore dentro. Forse le memorie scaldano. Visto che vivo alla giornata, senza darmi significati ultramondani o complessi, scrivo, scribacchio, per non chiudere gli occhi. E mentre scrivo di dolore immagino il paese delle meraviglie.
Tengo gli occhi aperti sul video, le mani sulla tastiera. La terra e la gente. Ecco è questo. E’ vero, è vera la terra è vera la gente. E dopo  racconto dei fiori e dei mandorli in fiore,  arriverà la primavera.  Non è complicata la vita, basta abituarsi al niente. Una storia. Una rosa. Senza troppa fatica si vive. O per lo meno si sopravvive. Uno psichiatra ha detto che il mio destino è il suicidio, e dovrei correre ai ripari con rimedi vari. Io penso il velo di Maja, basta non volere niente, per non chiedere niente, neanche il suicidio che è il grido estremo.  Ascolto Pierangelo Bertoli. Dolore e arte, Sublime. Magari lo psichiatra mi aveva traumatizzata, parlava frenetico, anche abile d’accordo, ma parlava di bisturi, e necessarie lobotomizzazioni. Molto veloce nel discorso, forse capace. Sta di fatto che capivo o percepivo solo il sadismo dei medici. Sono fuggita e mi sono sfogata con un amico. A volte, non so perché, se l’ascolto non è musicale, impazzisco. Non amo le parole, saranno anche giuste, ma non sono quelle dei libri. Non è arte. Al limite eloquio, velocità, o battute, ma il sarcasmo non mi piace più. Neanche l’ironia. Preferisco le tele strappate. Io mi organizzo le parole meccanicamente. Non mi ascolta nessuno comunque. E quindi per evitare di diventare troppo cattiva, sono diventata un riccio. E non rido mai né piango. Semplicemente mi alzo la mattina, un po’ sfatta, ho incubi, e mi immergo nella vasca. Poi senza dire una parola vado fuori con la mia cagnolina. Con lei parlo tanto. Anche nella soffitta, e lei ascolta e si emoziona e mi riempie di baci. In realtà mi educa lei, e se potessi ricominciare la vita la dedicherei agli animali. Gli uomini mi sfiniscono, le donne altrettanto.
Io mi trovavo in difficoltà con i soldi. Quindi dovevo un po’ starci, come sempre, è un farci non un esserci. Mi serve, ma non ne ho mai ricavato niente. La mia generosità è stata sempre strumentalizzata. Non so se è generosità o azzardo, ma io ci vedo proprio la mia noia. Il denaro mi annoia, come mi annoia un uomo o un orizzonte. La mia soffitta è calda accogliente. Lì sono sola, senza questo tutti che mi assilla. Comunque non ero in soffitta. Avevo acquistato una casa in una zona della città un po’ complicata e il prezzo è comunque altissimo. Il mutuo è alto. Poi mi ero trovata senza soldi. E io vivo di caffè e sigarette. E così ho steso la mano e ho trovato una sigaretta e un caffè. Un’estate torrida. Ero su una panchina, chiedevo qualcosa, una sigaretta a chi passava. Lui si è seduto e mi ha detto “Come ti chiami?” e ho risposto.  “Ce l’hai una sigaretta?” ho chiesto, e poi “Tu che hai fatto?” “Trent’anni di galera, rapina a mano armata, c’è scappato il morto” “Me lo offri un caffè” “Sì vieni abito qui”. Poi gli ho dato una camera dell’appartamento mio, e lui cucinava e mi offriva sigarette. Ho parlato con i servizi sociali e poi gli ho trovato un appartamento. Gli amici non mi hanno mai dato nulla. Niente di niente. E tanto meno gli uomini. Gli uomini proprio mi hanno ridotta in miseria. I  cattolici qualche predica del tipo “date da mangiare agli assetati, date da bere agli affamati”. E io che ho fame no,  perché a me niente, non lo riesco a capire. Molte prediche, in concreto il vuoto. Una valanga di chiacchiere che mi fanno dormire. Solo i nonni davano tutto, a tutti. E anch’io avevo la tavola migliore e un’ochetta da allevare. E’ il tempo. E’ così. E’ il destino. Io ho come destino il furto. Come se mi bevessero tutto il sangue che ho in corpo. Forse se avessi il dono cambierei. E ci sono i furti d’anima, strappano la pelle. Mentre chiedevo l’elemosina andavo al cim dagli stessi psichiatri che hanno il privato. Ho sempre pagato analisti per un niente di fatto. Mi assaliva una grande paura, a volte ritorna anche oggi, ma finalmente dopo vent’anni ho trovato la cura. Ma questo è successo dopo. Al cim mi avevano dato un farmaco, senza controllo, che mi aveva resa obesa. Io sono magrissima. La fiducia non va accordata ai  medici dell’anima, prendo ora solo una pasticchina d’en, e a parte una maschera  nella follia di cui mi travesto, per non farmi fottere l’anima sempre, o per vaneggiare di mirto maggiorana fiori d’arancio,  sono stati trent’anni di imbrogli, e comunque  lo ribadisco sono pazza e quindi non c’è niente da chiedere. Solo  un passaggio su questa terra con la mente che gioca con gli equivoci, e in un sudario di insulti. Poi i soldi sono comunque loro, degli analisti, mai miei. Io ho la pazzia, e l’anima, e una bestia dentro, e neanche vado in chiesa, mi drogo mi faccio canne frequento i peggiori. Ma non è vero. Io non mi drogo, sogno con i libri e la musica. Ma ora le pareti sono dure, si è frantumata la mia grammatica. L’ossessione della voce e del ventre, secco, aspro. Magari tento di dire agli psichiatri che la vita me la sono fatta con gli amici, non con i loro vaniloqui, piuttosto costosi. Ma d’altronde a mia insaputa cado dalla padella nella brace. Gli uomini col cazzo bene in vista per scopate eccellenti. Sono le loro, io gemo come una gallina in fuga, però ci credono un sacco e magari gli piaccio parecchio. A volte azzardo un “sarei frigida, potresti aiutarmi?” ma è un niente di fatto, non comprendono o non vogliono comprendere. Troppo faticoso, un’anima vuota e comunque frigida. L’anima vuota si sfoga nel sesso. Io no. E’ il mio modo di rivalutare tutto è tutti. Per lo meno sentite il vostro corpo, sangue e angue. Avete le abilità, la cura, i sacrifici. Io ho una soffitta, me stessa e una cagnolina. Si vive anche così in fondo. Manca il senso, i libri nel tempo li dimentichi, non sono un’eroina.   Con cure migliori sarei realizzata. Oggi posso vivere o morire senza cambiare nulla. Non se ne accorgerebbe nessuno. Al limite ho il passo lieve. Sono nata e muoio senza frutti né altro. Io, sola, vivo per niente. Quel niente che non è attesa, non mi aspetto nulla. Tutto è sempre uguale. Nella mia vita. Nessuno dovrebbe ricordarmi, anche se sono generosa, nessuno mi ha avuta veramente. E credo onestamente di non aver lasciato ricordi. Ma allora perché scrivo, anche questo mi chiedo. Se scrivo è perché cerco uno spazio nel tempo. E’ il mio inverno, vorrei trovare il senso. Nell’assenza il dolore si avverte.  Attendo, e questa sofferenza è il mio mostro che mi guarda sempre e scopre ogni velo. Scopro la vita, la dissotterro, poi trovo un fiore, e penso che se fossi un albero sarei serena. Avrei i miei fiori, i miei frutti, i miei secoli le radici. Senza storia non si trasforma il nero in bianco. Il nero è un colore che amo, ma il bianco mi dipinge, la sposa, ma ora non ci sto più, ora basta. Mi accontento di un fondo tinta e di un rossetto. I farmaci mi hanno sfigurata. Sono dimagrita ora, sono tornata come prima, qualche chilo in più semplicemente. Ora torno a casa e mangio la minestra. Il piatto. La cucina. Un ordine che non c’è mai stato. E naufrago nei ricordi, la tela annerita e frantumata, graffiata. Vorrei credere nel senso. Dio il destino qualcosa. Credere è necessario. Tranne a sapersi divertire molto. L’io. Io mi diverto. Io mi annoio. Oppure l’ascesi. Oppure io naufrago, e io riemergo. L’inferno.  Una terra distrutta,  un incubo spoglio, mi risveglio al nuovo giorno,  impietrita, tumefatta dopo il grigiore di notti allucinate nel baratro del mio inconscio, da sempre così, un tumulo senza luce, appena qualche chiazza di colore  che porto dentro, nelle rughe, i ricordi, e un essere qualunque, figlia di nessuno, semplicemente una donna con la luna storta. Ecco un luogo:
Sembra tutto molto esplicito per la particolare disposizione del luogo, una stazione di provincia,  e la folla mostra all’apparenza caratteri chiari, stampati su fondali di cemento. D’accordo qualcosa è cambiato. Intorno alla scuola, nel perimetro che la circoscrive le saracinesche sono chiuse, le vetrine vuote, a parte una tabaccheria, il bar della stazione e qualche self service, e nell’insieme l’impressione di un vuoto o di uno svuotamento non è artificiosa ma reale,  i motivi si perdono in meandri troppo complessi, ma ad occhio nudo la miseria è lampante. La miseria di chi chiede l’elemosina e il risultato è  questo, un’interminabile serie di prospettive senza attrattiva all’interno di varchi vuoti. Escono i ragazzi da scuola, scomposti, entrano nella pizzeria d’angolo per una sosta prima di ritornare a scuola per l’autogestione. Intorno è un labirinto di case e di vite a porte chiuse. La sera dalle finestre affacciano rettangoli di luce, ma molti restano nell’androne della stazione nonostante la pioggia incessante e il freddo. Una chiesa di lato alla scuola, nascosta,  poco visibile a chi non ne conoscesse l’esistenza, comprende un piccolo giardino molto curato e pulito, in realtà l’unico luogo geometricamente curato in quella macchia fittissima di casermoni fuori dal centro storico, e che del centro hanno solo l’apparenza di una serie interminabile di labirintici agglomerati, in una sorta di gioco a nascondino. Per la polizia e i carabinieri la zona è realmente a rischio ed è necessario un controllo, comunque è ipocrisia, se si guarda al tasso di povertà registrato negli ultimi anni in tutta la provincia. Ma è un disordine al quale ci si è arresi da tempo, del quale si entra a far parte all’inizio con un istinto ribelle, poi lo spirito diventa sempre più arrendevole anche se rimane la delusione, visibile e palpabile, e una città in distruzione. E’ troppo difficile ed è come se di colpo il sentimento di un oltraggio rendesse inutile qualsiasi domanda, ti chiedi solo chi abita in questa casa o in quell’altra e perché ogni ordine diventa trascurabile, e inopportuno.   Benedetta è in biblioteca con un berretto di piume calcato sul capo e una stufetta per un po’ di calore. In quella scuola è bibliotecaria, un ufficio come un altro, solo può fumare una sigaretta ogni tanto prima di tornare a casa nel condominio di un palazzo centrale, al primo piano di una palazzina liberty, dopo che svogliatamente nella biblioteca  ha ascoltato le richieste, risposto educatamente, registrato prestiti e restituzioni, in un antro polveroso fittissimo e carico di libri, tracce di una documentazione durata un secolo, volumi importanti mai letti. Prima di entrare ha bisogno di un momento per riflettere e per capire che le colleghe la osservano con poca amabilità, e solo Sara protegge la sua infelicità da sguardi indiscreti, la collega  non la ferisce mai, è impegnata, e Benedetta può restare silenziosa e immobile alla scrivania, così magari legge un giallo e dice solo che sono tutti d’accordo e tutto va bene. Ogni tanto Giulio dalla bidelleria passa in biblioteca per un saluto, anche lui con abiti d’occasione, visto il tempo che tira, miseria e scarpe vecchie, ma  Giulio comunque ride e concede battute e fa sorridere, fino a saldare, anche se per poco, i pezzi di un puzzle scomposto. Ricompone i dettagli di un  vuoto che Benedetta si è costruita tra le sbarre di quello sgabuzzino carico di libri, in un silenzio distaccato.
Benedetta era delusa. Ogni fede riposta era stata un insuccesso. Vedeva il vuoto, voleva dire qualcosa ogni tanto, ma non riusciva. Magari provare a spiegare, spiegare i sogni di bambina e poi le cose rimaste, un grumo povero, restavano le stagioni con i contorni sempre identici, la pioggia incessante e una vecchia signora senza arie né abiti adeguati. Qualche roba vecchia e una finestra che dalla camera  di una casa accogliente affacciava sul pendio di un piccolo giardino pubblico, e al rientro la sera poteva osservare il buio dai vetri appannati, e mentre pensava e contemplava l’esterno sdraiata nel letto sotto il piumone caldo, rifletteva su tutto, e tutto si era fatto cosa, cosa e ingiurie, anche se lei lasciava correre e non voleva discutere e non amava chiedere, non voleva parlare. Una biblioteca è migliore rispetto alle urla di presidi e vicepresidi frastornanti. In fondo non era male, la scuola era la migliore in assoluto, nessuno urlava e almeno lì non esercitavano il potere ipocrita e indiscreto nei confronti di una nessuno aggrappata allo stipendio, che serve per mangiare. Com’è futile il potere. Mettevano in ridicolo la sua solitudine, mogli irreprensibili in una provincia irreprensibile fatta di celebratissimi personaggi, eppure i quotidiani parlavano di povertà e in fondo molti recriminavano, oppure gli abiti eleganti  nascondevano le sconfitte  e gli stati depressivi. Per molti la forma era una sostanza, e la sostanza era denaro, altri come Benedetta avevano accantonato gli orgogli per non sperare più e non restare amareggiati, altri, molti, stendevano la mano e forse mancava anche un tetto, e comunque gli inverni erano troppo rigidi. Pioveva a dirotto, continuamente, dopo un’estate talmente torrida da togliere il respiro. Il senso di vuoto, ancora, nonostante tutto, lasciava spazio all’attesa, ma l’attesa impegnava, a volte ripugnava, svuotava d’energia, e voltarsi indietro era impossibile. La pienezza ormai era un’illusione perduta, nei rimpianti si dilatava l’esistenza,  le recriminazioni interiori erano la bestia dentro da placare.    C’è un momento in cui bisogna rendere conto a se stessi della propria intera esistenza. Non esistono più anticipazioni, esiste una sola possibilità, una disposizione ad arrendersi al destino già dispiegato, e il caso e la volontà hanno ormai stabilito. Una volontà sbadata, il caso poi va da sé, per un pezzo la vita sembra che la giochi come in una scacchiera, poi tutto cambia. La volontà si fa ridicola, ha sbagliato e non tornano i conti, e il caso ha piegato le faccende dell’intera vita, che si dimentica tutta insieme, tanto il futuro non cambia, il passato annoia, i ricordi potrebbero farsi morbosi. Meglio pensare a un piatto caldo al rientro a casa, serve il sapore e un nido, come serve credere in quegli abiti preziosi confezionati a scuola o nei ricami raffinatissimi, o nei dipinti di artisti su tele  colorate. I colori del mare che non c’è, di arcobaleni perduti, di case lontane, lavori di pazienza e tecnica magistrale. Placano l’umore, e nel lavoro eserciti la metodica successione senza scarti o salti, che alterano la personalità. All’uscita da scuola la sera prende l’autobus. Il traffico è intenso, clacson e motori sulla strada in salita verso il centro. La quiete del ritorno pacifica. E finalmente cessa la battaglia, il miracolo di una casa di una tavola. La resistenza è un po’ questo, un campo di battaglia e una collina fatta di pietra. Cadere disarmati è facile  restare feriti e arrendersi, basta una parola di troppo, e la ferita si strappa. Una battaglia, una collina, il silenzio. L’omertà. I passi spingono attraverso il buio, la resistenza è ogni giorno ogni attimo, sfuggire ad un inseguimento con un vecchio armamentario, la ribellione è finita, le speranze rastrellate, è remissione, ma con una luna amica. Il nostro cielo. Di lunatici extraterrestri.
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Feb. '13
caseyweldon:
‘Chewie’ for my show ‘Lose+Find’ opening next weekend at Trifecta Gallery in Las Vegas.
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1:05am
21438 notes
via: caseyweldon
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Feb. '13
il teologo e ipazia
Il Teologo e Ipazia
 Il paradiso è del cuore, il paradiso è nei piedi nei gomiti nella gola tua di cigno, nelle cosce tornite, nelle mani nervose.
Il paradiso deve essere qualcosa con corpo verderosso, il colore del cuore. Questo è inferno – se ne voleva andare. Ha la bellezza nella quale io mi brucio come legna da fuoco e lei se ne voleva andare. Pensati brutta, le dicevo, ciò che non ti ha ucciso ti ha fatto più forte, ma sai perche -    perché non ti senti te stessa, non sai il tuo fascino e   questo esalta il tuo candore e ti fa bella.. E’ iniziata con un invito e un dono. Sono entrato nella sua casa settecentesca già affetto da lei. Avevo acquistato Otello nella versione video in bianco e nero di Orson Wells. Eravamo timidi e beati della nostra stessa timidezza, di quella beatitudine e grazia vorrei vivere in eterno. Volevo dirlo con un omaggio, un omaggio coraggioso  « ti rendi conto si di cosa significa chiedersi  -chi è, di  lei, e d’improvviso, come avendo mutato improvvisamente la sua carne nel suo spirito  - e Desdemona, adesso perdonami – devo dirlo - è un pò idiota, Jago ha ragione  cita Cassio con la noia di citarlo troppo veramente troppo. Jago ha ragione, e ha ragione il padre di Desdemona – Desdemona ha tradito suo padre tradirà anche Otello».
 E te  naturalmente rispondevi messa in un angolo già dalle mie parole – impossibile non commentare un oggetto se è un dono, è un dono di parole che richiede infinite parole per essere detto -«Desdemona, non è poi così stupida »- e parlavi di amicizia uomo donna. «È possibile  io ne ho molte di queste amicizie», è come aver già citato Cassio ti ho risposto. Ti lusingavo e non te ne accorgevi. Ti rendevo volgare per non darti scampo, il tono duro e severo del mio discorso la mia austera e immobile figura, parca di parole, solo quelle essenziali o quintessenziali ti davano la misura dell’angolo in cui eri – non potevi che difendere Desdemona o cadere nell’impiccio, rispondevi intorpidita curvando ogni volta per dire no alla morte, al delitto, anche se ti acceca la passione.
Ti toglievo la risposta, perché Shakespeare è incontestabile come Dio, e non ti accorgevi però che a offuscarti era la mia atroce sferica serietà, compatta come la risultante di una traiettoria secondo le mie leggi, che producevo ogni volta in abbondanza senza mai deviare, fasciandoti i sensi per ottenebrarti di stupore.
Il sangue ti cola stella da qui, da questo piccolo foro nella tua testolina e riluce di fiamma come la materia che è dentro, la quintessenza impareggiabile, il sapore sulle mie mani è finalmente il sapore dei tuoi pensieri fuori da quella scatola  chiusa che non volevi  sventrare,  la tua inalienata proprietà  delle cui  violente note facevi impareggiabile dono volgendo altrove i tuoi pensieri, senza misericordia per me  che ti carezzavo - parlandoti con la pacatezza, come  leccio solitario dei miei orrori, stella, delle mie brame, tu la regina del mio reame proprio tu non hai coscienza della tua e mia dannazione. La mia dannazione. Dio la musica e i poeti, e l’amore. L’armonia nasce da cose prima discordi, l’acuto e il grave, poi rese concordi dall’arte della musica, Platone stella, e il  Simposio. Hai una laurea in filosofia ma dimentichi tutto, e poi ti stupisci della potenza della mia memoria. Io, solo io, volevo essere un poeta, un Dio, tu il mio rapsodo, e da  poeta parlavo per enigmi, posseduto dal dio che mi possiede, dio o demone ma della discordia, poeta sfatto e rovinoso, e allora tu la mia Sfinge rapsodica trovavi ovunque il recitato, e riconoscevi, acuta interprete nell’ascolto che ti faceva tremare, - giunco mosso dalla tempesta - lo stridore rorido dell’armonia e del ritmo del mio maniaco doppio vaticinare.
Ti chiedevo il tuo sangue e rispondevi con i tuoi baci.
La tua dannazione stellina, è tutta femminile - I tuoi errori avevano un valore, non logico lo ammetto, ma ti era possibile amare la vita per una tua sensazione traboccante di vitale illusione nella quale l’abbandono ti era necessario, dall’assenza ricevevi l’essenza, l’ondeggiante tua natura.
Scrissi un giorno - difetta d’anima-. Reagì come volevo che reagisse con rabbia palpabile, una rabbia spessa, in quel momento la scolpivo ne ero l’artefice con mani esperte. Le sue   labbra disegnavano un ricamo intorno ai dentini d’avorio e gli occhi le si abbellivano di un incosciente civetteria. Sapeva scendere dentro le sue estreme profonde ragioni  camminando come  strega nei boschi tra le immagini superbe delle sue intricate architetture interiori.
 Sono stato  me stesso,  volevo  lei proprio lei, intrisa come spugna delle sue risa impraticabili quanto le lacrime,  repentine, lacrime dolci-salate come foglie bagnate d’autunno e tiepide, del calore del sorriso non spento come limpida fonte, degli occhi che le si facevano deriva e illanguidivano senza approdo, non sapevo, era acqua lei stessa sempre in mare sempre con i seni abbronzati grandi nel corpo magro, e  le rimproveravo i sorrisi per gli altri e quei seni esibiti, ma ero debole come un prigioniero che attraversandola tratteneva il mondo, ispirando il suo profumo di mare di spuma.
 Lei si difendeva -«Alessandro dice che mi spegni la dote, ognuna ha una dote e io ho il sorriso -  sai lui mi descrive come una strana figura naif, e te invece mi dipingi nei tuoi scritti così come non sono, senza anima e solo civetta» - e io  allora ho dipinto il tuo sorriso, poi ho toccato con il medio il tuo dentino storto e ho risposto - Se ti fai un orgoglio del tuo dolore e perché ti esalta. Alla sofferenza chiedi di esaltarti.  Se fossi brutta la tua vita dimostrerebbe  qualcos’altro. Ricorda Nietzsche, la donna impara a odiare nella misura in cui disimpara ad affascinare. Frena la tua lingua, e fa’ che Alessandro non sia Cassio.
E’ freddo si annuncia l’inverno
Mi battono le tempie l’ora si fa piccola l’ora non passa, il tempo è come il filo di un Arianna  spezzato dalle mie mostruose mani che cingono di filo spinato. Il tempo mi avrebbe reso i segreti delle sue amorevoli afflizioni ma ho voluto  uccidere il suo e il mio tempo, e il filo si è avvolto di spine
 Le ho rivelato qualcosa, ma che avrà capito di me, nulla come volevo.
«Ma sei vile mi ha detto e l’amore è coraggio, e tu odi la mia povertà e la mia fatica - lei l’altra sarà sicuramente giovane e ricca ti offre di più lo so, un terreno coltivato d’oro- io ho da offrirti il letto e il mio corpo e questa casa divorata d’anticaglie e una conversazione che  langue perchè sgomento al suono delle tue parole »- era dura e petrosa ma fiammeggiante - io indifferente per accenderla sempre di più come scintilla di pietra sfregata a pietra -  ho risposto per non fermarla e lacerare le redini a cui si impigliavano le sue parole – sì ma farmi una puttana costerebbe e farmi te non costa - ho appoggiato il gomito allo stipite di legno dell’armadio in cucina mentre con gesti lenti misurati ma con una sorta di zoppicante andatura preparava qualcosa da offrirmi. So che avrebbe potuto rispondermi – sai chi ho lasciato per te, lì avevo la mia sicurezza e l’amore -ma il silenzio l’ha spezzata, l’avevo finita attraverso il silenzio ed era sempre più impaurita come a precipizio - continuavo io a vincerla con gusto sadico - perchè la volevo solo per me in quel momento solo con me attraverso le sue lacrime e l’anima esplosa -e la solitudine da darle la disperazione che toglie forza ai nervi e riduce all’afasia – alla perdita involontaria della risposta, perché non ne fosse mai fiera -volevo sentire da lei le mie stesse parole di carta che cadendo nel sogno d’assoluto faccio più mie della mia spaventosa ombra - solo smozzicate le volevo, sentirle dire  alla fine - perdonami - per la vittoria di una sorda gelosia, per il sacro sì dei singhiozzi inarrestabili. Non volevo sopportarla così con le sue maledette vendette e farne un rogo era inevitabile, perché é l’altra quella che sposo ha la giovinezza in corpo mentre lei ha trentratre anni compiuti, e lo spirito non è libero dopo ma prima
 Ha anche gli occhi molesti, hanno qualcosa ancora di vivido, c’è quella tenacia dello sguardo fisso sui miei occhi che me la faceva già allora odiare.
Vieni stellina ti prendo, hai il sangue nei capelli una striscia qui che ti bagna di rosso asprigno, oggi i tuoi capelli sono del colore dell’uva dolce amari e assassini, me lo ricordo sai il sapore dei tuoi capelli sul cuscino – hai lo strano fascino dell’anima nei capelli.
Ti prendo ma pesi  tieni le gambe giù a peso morto e le braccia penzoloni, le pantofole, ne hai persa una ti tolgo anche l’altra belli i tuoi piedini, ti potrei estrapolare l’anima attraverso i capelli e i piedini. Ora facciamo un bagno e ti spiego tutto come volevi così riuscirai a capire chi sono, ti logoravi stellina mia – e io te lo dicevo te lo ripetevo,  non puoi così, così non vivi, e tu rispondevi col sorriso, ora fai la smorfia di quando sei depressa, hai la depressione, e le ginocchia viola – perché hai le ginocchia viola?
Dio pesi ti metto nella vasca piano così, tira su la testa per dio che apro l’acqua, - ti ricordi o hai già dimenticato cosa dicevi dell’acqua te lo ripeto ora – Già torna a scuotermi eros dolceamara indomabile oscura belva, perché sempre ti facevi il bagno prima di fare l’amore, fare l’amore, ti volevi spoglia e pulita come il marmo per scioglierti dopo la  frescura.
Saffo, la tua poetessa, perché l’amore ti incanta e poche righe dicevi sono tutto, anche all’altro lo dicevi ma se ti azzardi a ripeterlo sai cosa faccio con le mie mani - come quando ti sei alzata di scatto dal letto, come potevi tesoro discutere la mia preparazione lo sai che sono un Teologo e un poeta e tu ti sei messa a citare Jazz e a criticare la mia preparazione classica e hai anche aggiunto che le mie due lauree hanno il difetto di essere due, teologia non ti garba stella e ti sei messa a citare l’Anticristo e qualcosa sulla nuova scepsi gnoseologica e ti ho dovuto dimostrare stella che offendere la mia mente è la peggior bestemmia che potesse uscire dalla tua dolcissima lingua e allora ti ho preso e ti ho fatto sentire le mie mani forti, sai come sanno legiferare – si ma  perdio la testa tienila dritta però, sennò mi dai sui nervi, non ti mostri attenta, sembri una clessidra svuotata, l’orologio molle - La testa ti va da una parte e dall’altra - e poi ricordi stella - ti ho spiegato che dovevo farlo perché stavi uscendo dal cerchio  - che cerchio? – hai chiesto spegnendo le lacrime  in un arresto stupito- e ti ho fatto capire quanto entrano nei tuoi incubi i tuoi dissapori.
  Aspettavi a casa nascosta agli occhi indiscreti dell’altra. Mi ingegnavo a fatica per convincerti della necessità di aspettare, si tratta di lavoro, riguarda anche te, il nostro futuro insieme.
Perché sai non sapevo cosa avesse realmente da offrirmi, ora ho un posto  accanto a lei e la stima del mondo  nel quale scusami non puoi entrare - ma ti ho spiegato mille volte di lasciarmi fare, sì d’accordo, ti ho inventato solo qualche piccola bugia, spostamenti di letto o di luoghi o di persone, ma quanta della mia anima è entrata in te stella? E questo non ti basta?.lo dici sempre prima di fare il bagno e sguazzarti con i chili di schiuma perché profumarti ti piace, ne abbiamo una collezione qui di profumi, tutti tuoi, e costosi – lo dici sempre l’acqua mi va alla testa  e penso buoni pensieri asciugarmi e fare l’amore con te. Cos’altro volevi?
Ma ti voglio intonare l’Inno a Cristo- le mie parole ti incantano lo so- «sei un Dio con una vita che mi divora» – l’hai detto ricordi ? - e ora ascolta è per te è un omaggio al saccheggio che hai fatto dei  miei doni - le parole che ho avuto per te – ma per gettarmi fango addosso dopo e dirmi – è saccheggio di libri – sciocca aneddotica – tu volevi altro non solo me, me e denaro e  per ognuna le parole sono le stesse le ho ingoiate io le ingoiano loro - –  io ti rispondo con l’alchimia dell’anima, L’inno a Cristo - sì ma  è troppo fredda l’acqua, si sta freddando vero? -   Allora ascolta sono parole d’amore per te « in qualunque logoro vascello io mi imbarchi quel vascello sarà l’emblema della tua arca, qualunque mare m’inghiotta quel flutto sarà per me emblema del tuo sangue» non sai neanche di chi è  stellina vero? E’  Donne sciocca, ti ho detto che sai solo bestemmiare di fronte ai potenti. Se ti parlo di delitto neanche tieni su la testa per la paura, e diventi sempre più viola - ti ho spesso parlato del tuo tremore di ragazza ma ora esageri, con me è come se ti si fosse aperto il più perfetto degli orizzonti, ma non parli sei muta come un pesce e fredda come ghiaccio - il delitto, il più perfetto dei delitti è quello di Edipo, te l’ho già detto e spiegato– perché stupirsi dei delitti ho aggiunto, ma la tua mente fanciulla si ribellava - Edipo è il detective di se stesso cerca l’assassino e trova se stesso, enigma ancor più perfetto  dei delitti-gialli della camera chiusa - Ti spiegavo l’arte del delitto stellina e mi hai risposto che forse è l’intrepretazione migliore se si cerca dentro di sé si trova l’assassino. Ma poi che hai aggiunto irridente e cruciale-«il film ricorda la vittima e il suo carnefice, O il carnefice e la sua vittima, non ricordo il regista, ma la vittima si fa carnefice e il carnefice vittima girandosi in tondo in una ricerca senza fine– alludevi a noi lo so, la nostra speculare idiota identità. Io e te e una camera chiusa.
Chi di noi la Sfinge?
 Ho dato a te senza parole le parole giuste per esserci, e esserci con me, ma senza la rabbia che ti sarebbe esplosa - hai utilizzato la mia casa la mia famiglia la mia tavola il mio letto perché i tuoi luridi soldi ti servono, e l’albergo costa - certo ti ho risposto l’albergo costa ma ricorda che è solo denaro ti ho giocato per denaro e allora non dovevi pretendere altre risposte, ti ho risposto con la poesia di nuovo, «anche se dovessi amare ottenere e contare fino alla vecchiaia non scoprirei quell’arcano mistero» è tutta impostura e ho aggiunto lo sai l’alchimia d’amore e dell’anima è tua solo tua, che ti importa in fondo del denaro, sei te lo riconosco selvaggia e romantica, sali muta le tue tempeste e ti nutri di splendore femminile quando odi in me il lato più potente, sì sono un teologo - ma non comprendi non hai compreso quanto poco questo conti, quanto mi diminuisca di fronte a te  piccola divinità silvestre a cui consacro le parole dei poeti, le parole della musica,   e hai imparato tante di quelle cose da me che le tue condanne mi fanno ridere e basta.
 E tu mi insulti e ti insulti con il volgare denaro, lascia a me l’ipocrisia e la volgarità, il denaro è volgare è la mia  infamia -« ti manca la vergogna rispondi- e della tua infamia fai la chiave di un regno ammantandoti di mistero perché non passi di bocca in bocca  e le donne ti credano come ti ho creduto io».
Ecco lì piangevi piangevi ed era dolce il canto della donna e le tue labbra vogliose di un ultimo bacio – e io l’ho negato -  perché sai quanto poco alla fine mi volevi, e te lo ripeto sei femminile quando involontariamente chiedi l’abbandono e ti annebbi per manovrare, per non lasciare ma essere lasciata. Ma allora eri ubriaca di me, perché la rabbia ti ubriacava e la tua mente creativa si rifiutava alla non-esistenza della quintessenza di cui vuoi esser fatta, l’amore.
Hai l’odore penetrante del tempo che finisce eri intatta e ora sembri sbucciata, e la notte si fa fonda  quasi inavvertita. Il pentimento migliora i tuoi occhi sono stelle smerigliate, quasi sgretolati sminuzzati da filigrana ocra. Il tuo difetto è sempre stato questo sfinimento che ti leggo addosso, di divorarti in profondità, come al suono di infinite coagulate note di musica  che precipita per ingrassare l’attesa. Ma ti indurisci comunque diventi aspra tagliente e dura come legna, comprimi le risposte e poi ti laceri e t’accingi a vendicarti col colore del viola che ti cinge. Ma il tuo spirito è chiaro raccolto nelle nervature violette - ti fanno somigliare a quelle immagini della paura che penetra nel sangue e riduce l’urlo in pietra. Ti stupisci della mia memoria, memoria di libri e la tua lingua era tagliente perché era solo tua senza libri a farti da concetto. Lirica comunque lo ammetto, era un artiglio di rapace articolata nella mancanza di ricercatezza eppure naturalmente civetta. Che ne dici della mia di lingua adesso adesso è solo mia e ci sono rime baciate, te ne sei accorta? Quest’acqua è sempre più asprigna sembra il sugo della vita, è quintessenziale, non c’è niente da fare. È la congiunzione poniamo dell’anima tua che si svuota e si riposa e dell’umida tua natura che migra in una bianca vasca di marmo  dipinto mettiamo di rossastro, vermiglio scarlatto, il colore  delle vesti delle Regine.
Permetti alle parole del divino poeta-filosofo-veggente di cantare per te, e fa’ stella che la sua anima trapassi nella mia mentre per te canto una morale di stelle:
Predestinata ad orbite stellari,
del buio o stella che ti importa?
Per questo tempo volgiti beata!
La tua miseria ti sia estranea e lungi!
Del mondo più lontano è il tuo chiarore:
per te sarà peccato la pietà!
Hai soltanto una legge: sii pura.
  E adesso stellina ti rileggo la poesia che mi scrivesti e senti ora la differenza - sei disordinata come sempre e scrivi su fogliacci sparsi sempre da riordinare -allora ora riascoltati:
Cuore ed esistenza s’accordano forse nei libri
Nella vita
Raramente quasi mai
Col cuore impastiamo il saporito pasto
Che esalta noi e chi il nostro cuore con forza
Stringe
In ogni recesso, in ogni anfratto in tutta la nuda nostra carne nuda
Adorna di preziosi
Il cuore palpita il disaccordo
Bottino di tante liriche liti
Ma cuore ed esistenza non è
Né fulmine né tuono
Né bagliore d’infinito
Né cifra d’assoluto
Perso e sfatto l’assoluto
Terra desolata
Neanche catastrofe se non nelle lacrime spese e spente, per la
Gloria di noi martiri, così è detto, logorati dalla potenza
e dall’attesa
La tua astuzia è la sofferenza
Ti vince e ti inghiottisce
Per un piano calcolato
Di un inventario profetico-poetico da porgere per il migliore dei
Banchetti
Che si fa ti fa masticare digerire
Il candido letto nuziale
Per le tue voglie penetranti
Scrutare da dentro con bisturi e sguardo attento
Le fanciulle promesse e i loro sogni
E resecare capillare materia
Delle spose che sognano il celeste regno dello sposo
Angelico-famelico
L’universale spettacolo nuziale, annuncio di una falsa profezia
O forse la tua promessa fanciulla
Il tuo promesso abbandono
E’ condanna?
E a cosa abbandoni
Odi l’ipocrisia?
O il tradimento ti logora e non ti nutre se non di
Quotidiano squallore
O il banchetto si rinnova altrove
O il tuo esserci e non esserci del tutto è un dileggio per
Le teste tagliate del desiderio negato
O l’abbandono ti stuzzica voglie profetiche
Giochi satanico-vampiresci
Troppe domande?
La risposta è mia
E ne sono gelosa
Quando osservavo le tue ossessive sacrali limpide abluzioni
La tua educazione maniaca di fronte al marmo bianchissimo
Di un disadorno lavandino
E il volto fissato nello specchio di fronte, tolta ogni
Espressione
Terrore di essere altro e sempre  e ancora altro
E altrove senza misericordia
(o terrore di essere da me finalmente intravisto di rimando?)
 e di te non dimenticavi
né della mia carme esaurita
e quando osservavo lo stupore con cui tormentato
da un’indissolubile immagine, immancabilmente avevi occhi per
il tuo volto stupito
scoperto scoperchiato, teschio membrana e occhi
e anima?
L’anima ti inquietava?
La tua s’intende
E dimenticavi con orrore e angoscia di chiedermi chi sei
Chi sono era l’urgenza che ti condannava a non
Immaginare
L’incancellabile domanda di fronte allo specchio delle tue
Brame
Allora ritornavi fanciullo
Carne d’avorio
La mano passava umiliata tra i capelli diradati
Ora è tua la vittoria diceva la tua umiliazione
E con timore e tremore
Ti infilavi tra le lenzuola
Ragazzo dall’umile origine
E finalmente il miracolo s’avvera
Il ragazzo teme l’esclusione, ha paura perde la sua futile
Potenza (quella dell’intelletto) e implora il sorriso e la ricompensa
«Sono un Dio?»
E quando mi sibilava dentro
acuto il dolore
Risvegliavi i sensi ottenebrati da troppo
 crudo torpore
Dal concreto trivialmente piombato
esserci ed esserci
Inchiodata
E alle richieste non formulate
 come angelo rispondevi
Per togliere poi
E perdonare dopo e togliere di nuovo
E offuscare il mio principio razionale
Il fuoco della brace spegneva l’inutile malocchio
E la pace era risveglio e l’accrescimento tempesta
.
Disprezzavi
Un temporale nei miei occhi, il gesto
 educato delle mie
Mani, il lucore del mio sorriso
Aperto smorzato rifiutato e spento e
 poi di nuovo
a chiedere elemosina
Riacceso
Eri logorato forse dalle brame
 ardenti dell’orgoglio
sei?
Su cui riposavi come giovane
Strappato alla gloria
scavato dal mondo
E al mondo gettavi fango per fango
ricevere dicevi
Io
 resa fango per essere meglio gettata
Fino al giorno del giudizio
Quando la tromba del tuo muto sigillo
Voce di lacrime ormai spente
Suonerà chiara e assordante
sparo in una notte tiepida
Oscura
E l’artificio del divino artefice in scena
Vorrà il volere non del Dio ma
Del destino o del cuore o del senso
e dei sensi o
Dell’esistenza nostra o della ragione
Ma l’unica Dea benigna è Follia
Unico perdono per i tuoi nostri
Uno mille banchetti
A lei la mia fede
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poetyca · 4 years
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salentipico-blog · 7 years
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Sabato 1 luglio (dalle 9.30 alle 23) nelle sale del Castello Carlo V di Lecce aprirà al pubblico la mostra Mario Schifano e la Pop Art in Italia.
Promosso da Theutra e Oasimed, in collaborazione con Galleria Accademia di Torino, con il patrocinio del Comune di Lecce e il sostegno di Axa Cultura, il progetto espositivo (che proseguirà sino al 22 ottobre) – a cura di Luca Barsi e Lorenzo Madaro – è dedicato a quattro maestri di primo piano della storia dell’arte italiana e internazionale del secondo Novecento: Mario Schifano, Franco Angeli, Tano Festa e Giosetta Fioroni. Il gruppo, denominato poi Scuola di Piazza del Popolo, è riuscito a far transitare nel mondo dell’arte motivi e oggetti provenienti dall’immaginario comune, dalla storia dell’arte e della vita, fornendo un contributo fondamentale all’arte contemporanea.
Un dipinto dell’artista Tano Festa, datato 1969 e composto da sei riquadri, è intitolato “Per il clima felice degli anni Sessanta”. All’interno campeggiano i nomi di sei artisti: Francesco Lo Savio, Piero Manzoni, Franco Angeli, Mario Schifano, Enrico Castellani e quello dello stesso Festa. È il 1969 ma c’è già nostalgia di un decennio mitico che per l’arte italiana – tra Roma e Milano – ha rappresentato un punto di riferimento, anche nel clima culturale internazionale, anche grazie ad artisti stranieri che all’epoca frequentavano molto l’Italia.
Dalle esperienze astratte e informali degli anni precedenti, si transita verso ricerche sfaccettate e complesse che riflettono, in contemporanea rispetto alle esperienze americane, sui concetti di riferimento della Pop Art: il mito, la società di massa, i paradigmi e i segnali della città metropolitana e il dialogo fecondo tra generi artistici e linguaggi. Naturalmente non si tratta di una rielaborazione passiva del grande movimento americano, che tra l’altro era sbarcato alla Biennale di Venezia nel 1964 provocando un certo scalpore. Al contrario, i protagonisti di questa rivoluzione artistica, tutta italiana e con tangenze internazionali, riflettono su temi e immaginari legati alla loro cultura visiva di riferimento.
Al centro di tutto c’è Roma, città densa di stratificazioni, di prospettive sul presente e il futuro, vero e proprio laboratorio aperto di fermenti, anche grazie a gallerie come La Tartaruga e critici come Alberto Boatto, Palma Bucarelli e Maurizio Calvesi. È qui che si svolge l’esistenza – e la fervida esperienza artistica – dei quattro protagonisti della mostra.
La sezione principale ripercorre la straordinaria epopea di Mario Schifano (Homs, Libia 1934 – Roma, 1998).
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Mario Schifano
Mario Schifano
Mario Schifano
Tano Festa
Dopo un periodo di azzeramento di radice concettuale, attraverso i monocromi (1960-1961), l’artista ricostruisce la sua narrazione insieme poetica e intellettuale guardando alla natura e quindi al paesaggio. In mostra due paesaggi anemici che evidenziano la smaterializzazione del colore, che diviene liquido, pur mantenendo la sua identità e la sua energica forza espressiva. In coincidenza con una mostra retrospettiva di Giacomo Balla (nel 1963), Schifano avvia una rivisitazione del Futurismo, il movimento italiano fondato nel 1909 grazie alle intuizioni di Filippo Tommaso Marinetti, Umberto Boccioni e dello stesso Balla, sostenendo idee rivoluzionarie dedicate alla velocità, al mito del progresso e alla commistione di linguaggi artistici, dalla poesia alla scultura, dal teatro alla cucina, al cinema.
Al maestro italiano Schifano dedica un ciclo di opere, tra cui uno dei dipinti esposti in mostra; mentre al celebre ciclo Futurismo rivisitato a colori è dedicata una delle tele proposte nelle sale del Castello Carlo V. La celebre foto che ritrae il gruppo futurista è proposta come un’icona intramontabile di cultura e storia, ritoccata attraverso colori vivaci e segni veloci, pienamente in linea con una cultura visiva Pop. La televisione diventa per Schifano un primario punto di riferimento visivo, lo schermo tv diviene quindi un paesaggio da esplorare e fotografare per concepire tele che ritraggono brandelli di realtà filtrata dal tubo catodico (in mostra una tela degli anni Settanta che ben evidenzia questa declinazione di senso). Si prosegue poi con le opere degli anni Ottanta, in cui il colore assume una dimensione fondamentale, preannunciando gli sviluppi dell’arte italiana e internazionale, all’insegna di una riscoperta della dimensione eroica del quadro e di un ritorno alla pittura figurativa dopo anni di arte concettuale ed esperienze di azzeramento del linguaggio pittorico.
I dollari americani, l’obelisco di piazza del Popolo e le svastiche sono al centro dell’immaginario di Franco Angeli (Roma, 1935-1988), che come un archeologo capta e riconosce l’importanza delle tracce del passato per sintetizzarle visivamente e riproporle nelle sue tele. In mostra una selezione di opere, alcune di grandi dimensioni, realizzate negli anni Sessanta, decennio fondamentale della sua parabola artistica. Alla dimensione pittorica rimarrà sempre fedele Tano Festa (1938-1988), eleggendo anch’egli a simbolo alcune declinazioni della storia e della storia dell’arte e dell’architettura. In mostra, tra altre, anche una celebre Persiana, in cui l’artista recupera l’elemento oggettuale e reale per fonderlo con la sua grammatica pittorica.
La Scuola di Piazza del Popolo non era però composta esclusivamente da artisti uomini, tra l’altro celebri non solo per la loro genialità ma anche per la vita densa di incontri, esperienze estreme, droghe e amori turbolenti. Tra loro c’era una figura femminile insieme eterea e forte, come le sue opere: Giosetta Fioroni (nata a Roma, dove vive e lavora, nel 1932). In mostra opere molto rare degli anni Sessanta, in cui volti argentati delle sue figure femminili si costruiscono grazie a una sovrapposizione sentimentale di velature e segni leggeri, che oramai appartengono di diritto alla storia dell’arte contemporanea.
La mostra Mario Schifano e la Pop Art in Italia al Castello Carlo V proporrà, inoltre, un ricco calendario di attività collaterali, tra talk, proiezioni e attività didattiche e divulgative, ancora in via di definizione​.
  Dal 1 luglio al ​22 ottobre Castello Carlo V – Lecce luglio e agosto dalle 9 alle 23 (sab/dom e festivi dalle 9.30 alle 23) settembre e ottobre dalle 9 alle 21 (sab/dom e festivi dalle 9.30 alle 21) Ingresso 10 euro intero – 7 euro ridotto Info e prenotazioni 0832246517
Al Castello Carlo V di Lecce la mostra Mario Schifano e la Pop Art in Italia
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