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Uno sguardo alle prime scriptae salentine
di Giammarco Simone
Introduzione
Per introdurre il tema del presente articolo, vorrei partire dalla definizione di ‘linguaggio’ del vocabolario Treccani, secondo cui esso è “la capacità e la facoltà, peculiare degli esseri umani, di comunicare pensieri, esprimere sentimenti, e in genere di informare altri esseri sulla propria realtà interiore o sulla realtà esterna, per mezzo di un sistema di segni vocali o grafici”.
Tra i segni grafici utilizzati dall’essere umano, la scrittura alfabetica diventa espressione culturale di un popolo che utilizza un sistema di lettere per comporre, comunicare e conservare per iscritto pensieri, racconti, leggende, canzoni e poesie.
La scrittura diventa testimonianza linguistica di una civiltà ed è affascinante conoscerne e studiarne le origini, in quanto custodisce le chiavi di accesso per comprendere l’attuale panorama linguistico. Il fine di questo viaggio attraverso i secoli è quello di riscoprire alcuni testi antichi che hanno fatto la storia del salentino e che si conservano nelle prestigiose biblioteche d’Italia (Padova, Milano, Firenze, Perugia e Roma, per citarne alcune) ma anche in quelle inglesi, francesi e austriache. Ho deciso di attingere le notizie dalle ricerche fatte negli anni dagli studiosi interessati all’argomento e, consapevole della quantità degli studi effettuati e dei ritrovamenti, per motivi di spazio ne ripropongo solo alcuni sotto forma di breve raccolta.
edizione degli Epigrammi del 1490 custodita nell’Archivio del governo di Aragona, in Spagna (immagine tratta da http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Marcial._Epigrammata._1490.jpg?uselang=it)
Le prime scriptae salentine
Ancora prima dell’inizio del Medioevo, l’odierno Salento era abitato dapprima da tribù autoctone, come gli Iapigi, ed in seguito da popolazioni straniere provenienti dalla Grecia, ovvero i Messapi[1]. Posteriormente al dominio messapico, i Romani arrivarono da conquistatori nel I a.C. e vi rimasero fino alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476 d.C., anno convenzionale per l’inizio del Medioevo.
Dopo i Romani, la Terra d’Otranto fu desiderio di conquista da parte dell’Impero Romano d’Oriente, con i Bizantini che imposero la loro egemonia per molti secoli, soprattutto per l’importanza che ricopriva il Salento nelle rotte commerciali con l’Oriente. Di lì a poco, si susseguirono varie popolazioni e domini stranieri (Saraceni, Longobardi, Angioini, Aragonesi, Francesi) lasciando notevoli tracce del loro passaggio. In questo via vai di popoli, tradizioni, culture e lingue, il nostro idioma è andato formandosi assorbendo tratti e caratteristiche che nel corso dei secoli si sono modellate, fino a consolidarsi e a dar vita al salentino attuale.
Tuttavia, per conoscere le prime testimonianze scritte dobbiamo percorrere un viaggio a ritroso nei secoli quando ancora in Salento si parlava il volgare salentino, un parente non troppo lontano dell’attuale dialetto salentino, ma che con parole più tecniche si potrebbe definire un discendente strettissimo del latino volgare[2].
La documentazione dei testi in latino volgare è abbastanza esigua. Negli studi di storia della lingua italiana, l’esempio più conosciuto di testo dove compaiono forme in latino volgare è l’Appendix Probi (L’appendice di Probo) risalente al VI-V secolo a.C., contenente una lista di ben 227 parole scritte dal grammatico Probo, il quale riporta il corretto nome in latino classico affiancato dalla sua corrispettiva voce in volgare ritenuta ‘scorretta’. Una storia completamente diversa si ha per quanto riguarda le prime attestazioni in volgare italiano, con la maggior parte degli studiosi che concordano sul fatto che le sentenze giuridiche dei Placiti Campani, databili X secolo d.C., sono tra prime testimonianze sul territorio nazionale. Scritte in latino classico, contengono però stralci di italiano antico, in quanto le deposizioni dei testimoni (di madrelingua volgare) venivano riportate nella loro lingua parlata:
Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti.[3]
Sao cco kelle terre per kelle fini que tebe monstrai, Pergoaldi foro que ki contene et trenta anni le possette[4].
Kella terra per kelle fini que bobe mostrai Sancte Marie e et trenta anni la posset parte sancte Marie[5].
Sao cco kelle terre per kelle fini que tebe monstrai trenta anni le possette parte Sancte Marie[6].
Se già a partire dal X secolo d.C. nel territorio nazionale si attestano in testi scritti espressioni e vocaboli in volgare italiano, si può dire lo stesso per il volgare salentino? La risposta è sì, seppur meritevole di qualche precisazione.
In passato, l’elaborazione e la stesura di libri e testi era compito solo di alcune persone erudite (gli amanuensi) che grazie alle loro conoscenze grafiche e linguistiche potevano scrivere e persino tradurre testi antichi di altri idiomi e volgarizzarli nella nuova lingua. Dalle attestazioni in volgare italiano si evince che la grafia utilizzata dagli eruditi fu quella latina, mentre per quanto riguarda le parlate regionali e locali (nel nostro caso il volgare salentino) assistiamo ad una lunga tradizione di testi redatti in alfabeti diversi dal latino, e cioè in ebraico e greco. La spiegazione di tale comportamento è da ricondurre alla situazione socio-linguistica del nostro territorio in quei secoli. Come affermato da Maggiore (2015)[7]:
Il primo elemento di specificità è legato alla presenza, in un arco di tempo che supera i confini cronologici del Medio Evo, di scritture redatte in alfabeti diversi da quello latino, segnatamente i caratteri israelitici e greci. La presenza dei primi è legata alle vicende storiche della comunità ebraica salentina, mentre la ricchezza dei secondi chiama direttamente in causa la durevole vitalità dell’esperienza culturale italo-greca di Terra d’Otranto, che pervenne anche a esprimere personalità letterarie di primissimo piano come quella di Nettario di Casole, poeta bizantino vissuto a Otranto tra il XII e il XIII secolo.
Casole presos Otranto
La comunità ebraica si stabilì nel Salento già dai primissimi secoli successivi alla Diaspora Ebraica iniziata con la conquista dei Romani della Terra d’Israele intorno al VIII-VI secolo a.C. E’ proprio uno scritto in alfabeto ebraico, datato intorno al X secolo d.C., ad essere stato redatto in Terra d’Otranto. Si tratta di un importante trattato di farmacologia risalente al 965 d.C. scritto dall’astronomo, filosofo e medico ebreo (nato ad Oria nel 913 d.C.) Shabbetai Donnolo.
L’importanza di questo testo risiede nel fatto che, secondo Cuscito[8](2018), è “ritenuto il più antico testo farmacologico ebraico, se non il più antico testo medico scritto in questa lingua dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente”. Il Sèfer ha–yaqar (Libro prezioso), così si intitola l’opera, nonostante sia un testo innovatore nel panorama medico e scientifico di quell’epoca, dal punto di vista linguistico fornisce esempi di salentino, in quanto ricco di toponimi meridionali e termini botanici greci, latini e volgari che sono arrivati fino ai giorni nostri. Un esempio è il cocomero asinino (scritto QWQWMRYNA secondo la traslitterazione di Treves)[9], che ritroviamo a Lecce con il nome di cucummaru sputacchiaru o riestu[10].
Sempre in alfabeto ebraico e con rilevanza linguistica ancora più notevole sono le 154 glosse ritrovate all’interno di un antico codice ebraico, il Mišnah, datato 1072 e studiato attentamente da Cuomo[11](1977), dove compaiono parole salentine pervenuteci fino ad oggi: lentikla nigra, meluni rutundi, iskarole salβateke, kukuzza longa, sciroccu, kornula, làuru e voci verbali come pulìgane, sepàrane, assuptìgliane.
Con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476 d.C, e con l’arrivo dei Bizantini provenienti da Oriente, la tradizione scritta salentina si sviluppa anche in alfabeto greco. Infatti, si registra una attività greca molto forte tra il XIII e il XVI, che porta la lingua greca ad essere parlata e scritta nelle scuole e nelle case. Tale fu l’impatto greco-bizantino sul nostro territorio che ne conserviamo l’eredità linguistica (mi riferisco alla Grecia Salentina e al griko, un dialetto della lingua greca parlato nel Salento). Esempi in alfabeto greco sono due brevi liriche amorose databili tra un arco temporale che va dal 1200 al 1300. Di seguito, ripropongo la traslitterazione in grafia latina fatta da De Angelis[12](2010), a cui si deve anche l’importante studio linguistico che ne conferma la salentinità, nonostante a prima impressione il testo possa essere definito di tipo siciliano:
Amuri amuri
1. Αμουρι αμουρι δ’αμουρι λα μια [μ]ουρτί σε αλτρου ομου τε κουλ-
2. κόου λα ρουφιάνα κουτραρα β[4]σζαϊ λου βανου κόρε:-
3. πρέγαρὲ βόλλου λί μεϊ ουργανατούρι κούιστέ παρόλε δεϊσζα-
4. νου <μ>βεζαρε σζ’αννου<ν>ζου ε δαδρι όττα περ μιου αμόρε· ρουσζίερ
5. κου[35]β…
6. τα δέισζαλα καντάρε δε[ισ]ζα μανδάρε περ τόττα λα κου[ν]-
7. τράτα κούεϊστα βαλλάτὰ σζι ε φάττα νυβέλλα δα σζοι
8. σε αππέλλα νικολα δεττορε:-
9. λου δεττορε
1. amuri amuri d’amuri la mia murti se altru omu te
cul-
2. cóu la rufiana quatrara b[vacat] ci hai lu vanu còre
3. pregare vogliu li mei urganaturi quiste parole diggia-
4. nu mbezzàre c’annunciu e dadri otta per miu amore;
5. [†]
6. cierta (?) diggiala cantare diggia mandare per totta la cun-
7. trata quista ballata ci è fatta nuvella da ci
8. se appella Nicola Dettore
9. lu dettore
In questo breve componimento, l’autore, un tale Nicola Dettore dice che, nel caso in cui la sua amata (v.2 la rufiana quatrara) lo tradisca (v.1 se altru omu te culcòu), egli morirà a causa del mal d’amuri. Per questo, si augura che i cantori (v.3 urganaturi) possano imparare queste sue parole (vv.3-4 quiste parole diggia-nu <m>bezzàre c’annu<n>ciu ) e che si diffondano per tutta la contrada (v.6 diggiala cantare diggiala mandare totta la cuntrata), affermando che la ballata è una novella (v.7 quista ballata ci è fatta nuvella) scritta proprio da colui che si chiama Nicola Dettore (vv.8-9 se appella Nicole Dettore).
Bellu missere
01. ββέλλου μισσέρε ασσάι δουρμιστι
02. κουμμίκου νον γγαυδίστι ζζο
03. μι [ν]κρίσζι κα λ’αλβουρι αππα-
04. ρεισζε πάρτ<ε>τε αμουρι πρε[σ]του
05. α κουρτεσία ελλάλβουρι αππα-
06. ρεισζε ε κου�� νο [σ]τάρε οννει
07. ββρίγα ε δουλενζια τι κου<μ>β���νε
08. νον σίτι αμαντε δε δοννα ακουι-
09. σταρε νι ννα [δ]’αζζιρε ε νι δ’άβιρ[ε]
10. [δ]εποι κα νσζι βουλι[σ]τι α[δ]ουρμενταρε
11. σζε μι σζε[ρ]κάστι α μ[ε]ντ[ι]ρε π[ε]ρ
12. ομου σζι τενε ουνα ταλε σζο-
13. για σζε λλι αννογια.
01. bbellu missere assai durmisti
02. cummicu non gaudisti ciò
03. m’incrisci ca l’alburi appa-
04. risce partete amuri prestu
05. a curtesia e ll’alburi appa-
06. risce e qui no stare onni
07. bbriga e dulenzìa ti cunvene
08. non siti amante de donna acqui-
09. stare ni nn’a d’aggire e ni d’avire
10. depoi ca nci vulisti adurmentare
11. ce mi cercasti a mentire per
12. omu ci tene una tale gio-
13. ia ce gli annoia
Il testo è considerato da Distilo (2007)[13] appartenente al genere di canzone di malamata, ovvero quei componimenti nei quali le donne raccontavano la loro insoddisfazione coniugale. Nel testo, la donna dice al suo uomo (v.1 bellu missere) che a causa del suo troppo dormire (v.1 assai durmisti) non si dilettò con lei (v.2 cummicu no gaudisti). Per questo, la donna si dispiace che sia già giorno (v.4 m’ncrisci ca l’alburi apparisce) e lo esorta ad andarsene (vv.4-5 partete amuri prestu, a curtesia) e a non rimandare le fatiche e le preoccupazioni del nuovo giorno che gli spetta (vv.6-7 e qui no stare onni bbriga e dulenzia ti cunvene). Poi accusa l’uomo di non saperla conquistare, né di saper agire né tantomeno tenerla a sé (vv.8-9 non siti amante de donna acquistare, ni nn’a d’aggire e ni d’avire) visto che preferisce addormentarsi (v.10 depoi ca nci vulisti adurmentare). La donna chiude il suo componimento quasi con una domanda dal sapore amaro, in quanto non capisce il comportamento dell’uomo che preferisce addormentarsi invece di godere dei piaceri da lei offerti (vv-12-13 per omu ci tene una tale gioia ce gli annoia).
Un altro importante ritrovamento, sempre in alfabeto greco, ma questa volta di lunghezza più estesa e di carattere religioso, è la Predica salentina risalente alla seconda metà del 1300. Si tratta di un commento alla Divina Liturgia di S.Giovanni Crisostomo, il testo liturgico utilizzato in quel tempo dai Cristiani d’Oriente. Il testo fu studiato da Parlangeli (1958)[14], il quale lo trascrisse in alfabeto latino. Ne presento uno stralcio[15]:
“Veniti addunca cun pagura de ddeu e cun fide e cun pace a rrecìpere lu corpiu de ristu secundu ammonisce e séumanda a Santu bbasiliu e sse alcun omu non ave cun se quiste tre cause chi avimu ditte, zzoè pagura de Ddeu, fede e ppitate, non dive venire sé ancostare a rrecìpere quistu prezziosu corpu, ca dice Santu Paulu: quillu chi mangia e bbive lu corpu e sangue de Gesu Cristu indignamente, si llu mangia e bbive a ggiudizziu ed a ccondannazione soa. Venimi addunca cun pagura, fede e ppitate e ppuramente recipimu da li spirduali patri nostri lu dittu corpu e ssangue de lu nostru signore Ggesu Cristu, azzò séchi sse fazza e ssia a nostra salvazione spirduale….”
Da quanto visto finora, le prime scriptae medievali in lingua salentina furono redatte in alfabeti diversi da quello latino, ed infatti, secondo Bernardini (2010) “dalle fine del IX secolo fino alla fine del XVI secolo, troviamo 400 codici greci contro i 30 latini risalenti allo stesso periodo”[16]. Lo studio dei documenti in caratteri ebraici e greci costituisce una fonte importante per studiare l’oralità di quell’antico salentino, in quanto, come afferma Maggiore (2013) “offrono spesso testimonianze linguisticamente più aderenti alla realtà del parlato rispetto a quanto avviene normalmente nella scripta in caratteri latini, maggiormente soggetta a fenomeni di conguaglio dei tratti diatopicamente marcati”[17].
Tuttavia, dobbiamo sottolineare che anche l’alfabeto latino veniva utilizzato nella scrittura ma ciò in epoca più tardiva, ovvero a partire dal XV secolo, quando, secondo gli studiosi, il volgare salentino aumentò il suo status di lingua locale diventando una vera e propria koinè (κοινὴ διάλεκτος “lingua comune”), cioè una lingua a carattere regionale (da non confondersi con l’intera Puglia, ma solo riferito alla regione Salento) che riuniva i tratti tipici dialettali, quelli della lingua letteraria toscana ed altri comuni a tutto il Meridione. La lingua comune salentina nel suo nuovo status di lingua regionale si utilizzava non solo per redigere lettere mercantili e trattati notarili ma divenne lingua di corte ed impiegata in campo letterario nelle illustrissime corti di Maria D’Enghien a Lecce, di Giovanni Antonio del Balzo Orsini a Taranto e di Angilberto del Balzo Orsini a Nardò.
Esempi di koinè sono le cinque lettere commerciali, studiate da Stussi[18](1982), scritte tra il 1392 ed il XV secolo tra un mercante ebreo tale Sabatino Russo e suo socio d’affari il veneziano Biagio Dolfin, con il quale fondò una società per il commercio in Oriente. In una di queste lettere, Sabatino avverte il suo socio che una nave fu depredata dai pirati “intru lu portu de Nyrdò”. Tale evento, però, fu smentito da una sesta lettera scritta da un altro commerciante ebreo, tale Mosè de Meli, il quale informò Biagio Doffin di essere stato truffato da Sabatino che finse il furto per appropriarsi egli stesso del bottino:
Sery Byasi Dalfyn hio Mosè de Meli vi fazo assavery chy my sa mullto mali de la gabba che ve à ffatto Sabatyno judeo de Cobertyno chy sta mò in Leze de li besanti C”‘ de oro che pellao delu vostro et addusseli in Leze et guadannò dela ditta moneta vostra ducaty CL chy contao in vostra party de lu guadanno…
Nella corte di Lecce, il cappellano della contessa Maria D’Enghien, tale frate Nicolao de Aymo scrisse la grammatica latina Interrogatorium constructionum gramaticalium (1444) dove si avvalse proprio del volgare salentino come lingua di traduzione per fornire esempi delle regole grammaticali. Di quest’opera ci rimangono due manoscritti che son utili dal punto di vista linguistico, in quanto sono presenti parole tipicamente dialettali come suggerisce Maggiore (2015): nusterça (nusterza), groffolare (cruffulare), insetare (nsitare), scardare pissi (squamare pesci)
Nel Principato di Taranto di Giovanni Antonio del Balzo Orsini troviamo il Librecto de pestilencia (1448) scritto dal “cavaliero et medico” galatinese Nicolò di Ingegne, il quale conversa con altri due medici di corte, tali Aloysi Tafuro de Licio e Symone de Musinellis de Butonto, e con lo stesso Giovanni Antonio riguardo la peste e sui possibili rimedi e cure. Inoltre, nell’opera si menzionano alcuni nomi di vini, tra cui uno tipico tarantino, il Gaglioppo, come si legge in Maggiore[19] (2013): “ma più in lo tempo de la peste, sincome sonno malvasie, greco, guarnaze, [..] et da nuy tarentini ‘galioppo’ chyamato, lo quale in questa città più che in parte del mundo perfecto se fa”.
La corte di Angilberto del Balzo Orsini, conte di Ugento e duca di Nardò, annoverava nella sua una ricca libreria copie di libri in latino e volgarizzamenti delle opere di Dante, Petrarca e Boccaccio. Ad essa appartiene lo Scripto sopra Theseu re, un ricco commento al Teseida di Boccaccio redatto da un anonimo salentino, probabilmente nella seconda metà del Quattrocento nella scuola di Nardò, una scuola di amanuensi domenicani molto attiva in quel periodo.
Il commento al Teseida, oltre che fornire prove sulla circolazione delle opere toscane nel Salento, dimostra la varietà linguistica della koinè salentina che abbraccia sia i toscanismi letterari, sia i termini più vernacolari e i meridionalismi generalizzati, come riporta Maggiore (2015): amochare ‘coprire’, annicchare ‘nitrire’, ganghe ‘guance’, lucculare ‘urlare’, magiara ‘strega’, nachiro ‘nocchiero’, sghectata ‘spettinata’, rugiare ‘borbottare’, ursolo ‘piccolo recipiente per liquidi’.
Inoltre, appartenente alla libreria di Angilberto, il Libro de Sidrac che merita una considerazione speciale. Si tratta di un trattato filosofico in stile “domanda e risposta” tra il re Buctus e il filosofo Sidrac. Quest’opera, scritta originariamente in lingua francese d’oil tra il 1270 e il 1300, potrebbe essere considerata un best seller di quell’epoca, in quanto nei secoli successivi fu tradotta in ben sessanta versioni romanze tra cui anche in volgare salentino. Si tratta, indubbiamente, di un testo che ci fornisce esempi di koiné salentina, come nell’incipit del testo “Ore Sidrac incomenza a respondere a lo re Botus ad tucte le sue addimande, et a chascaduna responde di per sé. La prima ademanda si è si deu pòy essere veduto. Deu si è visibile et non visibile, cà illu vede tuctu et non pote essere veduto”[4r 32-35]. Secondo gli studi linguistici fatti da Sgrilli[20](1983), il Sidrac salentino fu scritto per mano di un autore brindisino, mentre quelli fatti in precedenza da Parlangeli (1958)[21] dicono che “il nostro testo sia scritto in un dialetto del tipo salentino settentrionale, quale, a un dipresso, doveva essere parlato nella zona di Nardò”.
Le attestazioni del salentino volgare non provengono solo da testi e manoscritti ma anche nelle epigrafi come quella nella Cattedrale di Nardò all’interno di un affresco risalente alla metà del XV secolo e raffigurante San Nicola, la Madonna col Bambino e Santa Maria Maddalena orante (nella navata sinistra). La riscoperta dell’attestazione è da attribuire al dott. Gaballo e al prof. Polito e recita:
O tu chi ligi, fa’ el partisani:
chi ley fey fare, Cola è ��l sua nome,
filliolu de Luisi de Pephani.
Secondo Castrignanò[22] (2016), la parafrasi reciterebbe: Oh tu che leggi, prendi la mia parte/ chi la fece fare [la pittura], Nicola è il suo nome/ figlio di Luigi di Epifanio. Se a prima impressione l’epigrafe sembrerebbe una captatio benevolentiae, in quanto l’autore chiede ai chiunque guardi il suo affresco di parlarne bene (fa’ el partisani) in realtà sembra rievocare il verso dantesco If IX 61-63: O voi ch’avete li ’ntelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto ’l velame de li versi strani.
Per concludere con uno sguardo sulla società medievale e sulle relazioni interpersonali tra i cittadini di quell’epoca, mi piacerebbe menzionare le deposizioni presenti ne Il registro dei reati e delle pene, una raccolta giudiziaria di 607 denunce appartenente al resoconto fiscale de la Corte del Capitanio di Nardò[23] (1491) e redatte da Giampaolo de Nestore di Nardò, nelle quali si apprezza la lingua dei protagonisti che si lasciano andare a forme ingiuriose e minacciose come:
Marco de Sidero, denunciato per Gabrielj Caballone, che li dixe: «Levatinte davanti et portame li forfichi, ca le mecto le mano alli capillj»
Charella Malicore, denunciata per Hieronimo serviente, che li dixe: «Si marituma era cqua, te haveria dato cinquanta bastonate»
Uxor Giorgii Taurini, denunciata per la molliere de Francesco de Cupertino perché li dixe: «puctana, frustata, tu teni cento innamorati»
Francesco de Follica, denunciato per Gabrieli de Montefusco, perché li dixe: «yo trovai le terre allo culo de mammata»
Conclusioni
Questo viaggio intrapreso lungo i più remoti secoli della storia ha portato alla luce alcune delle primissime forme di scrittura nella nostra lingua in epoca medioevale. Grazie agli studi di alcuni ricercatori in merito alla tradizione scritta salentina, in questo iter abbiamo messo in risalto non solo aspetti relazionati al lessico ma anche alle antiche vicende sociali e culturali che la nostra terra ha vissuto: mi riferisco alla forte presenza della comunità ebraica alla quale si deve una importantissima produzione sia in alfabeto ebraico ma anche in quelli greco e latino, all’evoluzione linguistica del volgare salentino che da lingua locale si trasformò in lingua comune grazie soprattutto alle figure dei primi mecenati in Terra d’Otranto che ne permisero la diffusione. In altre parole, un piccolo viaggio tra lingua, storia, cultura e società alla riscoperta del nostro passato.
[1] Per maggiori dettagli: https://www.fondazioneterradotranto.it/2021/02/11/messapia-era-davvero-una-terra-tra-due-mari/ e https://www.fondazioneterradotranto.it/2021/02/17/messapia-chi-conio-questo-termine-e-perche/
[2] Per le definizioni di latino volgare e latino classico, vedi “Vocalismo e consonantismo del dialetto salentino”, https://www.fondazioneterradotranto.it/2021/02/13/vocalismo-e-consonantismo-nel-dialetto-salentino/
[3] Trad. ita: “Io so che quelle terre, che qui si dice, le ha possedute trent’anni la parte di San Benedetto”.
[4] Trad. ita: “So che quelle terre secondo quei confini che ti mostrai furono di Pergoaldo come qui si dice e le ha possedute per trent’anni
[5] Trad. ita: “Quella terra secondo quei confini che vi mostrai, è di Santa Maria e l’ha posseduta trent’anni.
[6] Trad. ita: “So che quelle terre secondo quei confini qui descritti le ha possedute per trent’anni la parte di santa Maria.
[7] Maggiore, Marco (2015), Manoscritti medievali salentini, in L’Idomeneo, n.19, pp. 99-122.
[8] Cuscito, Giuseppe M (2018), Il Sefer ha-yaqar di Šabbeṯay Donnolo: traduzione italiana commentata. Sefer Yuḥasin ספר יוחסין | Review for the History of the Jews in South Italy<Br>Rivista Per La Storia Degli Ebrei Nell’Italia Meridionale, 2, 93-106. https://doi.org/10.6092/2281-6062/5568.
[9] In Maggiore (2015:102).
[10] Garrisi, Antonio (1990), Il dizionario leccese-italiano, Congedo Editore. Sotto la voce cucummaru sputacchiaru o riestu: pianta ruderale, strisciante, con steli e foglie scabri, i cui turgidi frutti peponidi maturi, se toccati, lanciano (sputano) il succo e i semi all’intorno.
[11] Cuomo, Luisa (1977), Antichissime glosse salentine nel codice ebraico di Parma, De Rossi, 138, in «Medioevo Romanzo», 4, pp. 185-271.
[12] De Angelis, Alessandro (2010), Due canti d’amore in grafia greca del Salento medievale e alcune glosse greco-romanze, in Cultura neolatina, Anno 70, Fasc 3-4, pp.371-413.
[13] Rocco Distilo, Parole al computer. Dal genere al motivo d’‘alba’ (per un’ignota ‘alba di malamata’), in Atti del V convegno internazionale e interdisciplinare su testo, metodo, elaborazione elettronica (Messina-Catania-Brolo, 16-18 novembre 2006), a cura di Antonio Cusato, Domenica Iaria e Rosa Maria Palermo, Messina, Lippolis, 2007, pp. 101-115.
[14] Oronzo, Parlangèli (1958), La «Predica salentina» in caratteri greci, in Lausberg-Weinrich, pp. 336-360 [ristampa in Parlangèli (1960), pp. 143-173].
[15] La traslitterazione è presa da: Greco, V.,C., “Rimario letterario” (e non solo) Leccese e… Salentino.
[16] Bernardini, Isabella (2010), Greek Language and Culture in South Apulia. Proposals for teaching Greek, in The teaching of modern Greek in Europe: current situation and new perspectives (p. 132), Editum, Universidad de Murcia.
Ho riportato una traduzione dell’originale: “From the end of the ninth century through to the end of the sixsteenth century we find 400 Greek codices, compared to 30 Latin ones for the same period.”
[17] Maggiore, Marco (2013), Evidenze del quarto genere grammaticale in Salento antico, in Medioevo letterario d’Italia, Fabrizio Serra Editore, Pisa-Roma .
[18]Stussi, Alfredo (1982), Antichi testi salentini in volgare, « Studi di filologia italiana », xxiii, 1965, pp. 191-224, ristampato in Id., Studi e documenti di storia della lingua e dei dialetti italiani, Bologna, il Mulino, 1982, pp. 155-181.
[19] Maggiore, Marco (2013), Italiano letterario e lessico meridionale nel Quattrocento, in Studi Linguistici Italiani, vol. XXXIX, Salerno Editrice, Roma.
[20] Sgrilli, Paola (a cura di), Il libro di Sidrac Salentino, Pisa (1983).
[21] Oronzo, Parlangèli (1958), Postille e giunte al Vocabolario dei dialetti salentini di G. Rohlfs, in RIL, XCII, pp. 737-798.
[22] Vito, L.,Castrignanò (2016), A proposito di un’epigrafe salentina in volgare (Nardò, entro il 1456), in Revue de Linguistique Romane, n°317-318, Vol.80, pp, 195-205, Strasbourg.
[23] Perrore, Beatrice (2018), Il discorso riportato ne La Corte del Capitanio di Nardò (1491): alcuni tratti sintattico-testuali, in Linguaggi settoriali e specialistici, Atti del XV Congresso SILFI Società Internazionale di Linguistica e Filologia Italiana, (Genova, 28-30 maggio 2018). Vedi anche: Holtus, Günter; Metzeltin, Michael; Schmitt, Christian, (a cura di), Die einzelnen romanischen Sprachen und Sprachgebiete vom Mittelalter bis zur Renaissance, De Gruyter, Berlino (1995).
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Il pasticciotto leccese. Ma quando è stato creato? E da chi?
IL PASTICCIOTTO LECCESE
Prezioso come un lingotto, sua maestà il Pasticciotto
di Raffaele Marullo*
Il pasticciotto è il simbolo per eccellenza – e non solo culinario – del territorio leccese. Ma quando è stato creato? E da chi?
La prima ricetta scritta di quello che possiamo definire l’antenato del pasticciotto è da attribuire a Bartolomeo Scappi nella sua Opera. L’arte et prudenza d’un maestro cuoco, testo del 1570. Il cuoco associa la crema, a suo dire di provenienza francese, a un involucro da lui definito «cassetta del pasticcio»: egli riprende questa espressione per suggerire una preparazione (sia dolce sia salata) all’interno di una forma che poteva essere di terracotta o di rame stagnato. Stando a questa attestazione, quindi, un “pasticciotto” non sarebbe altro che un vezzeggiativo della parola “pasticcio”. In ogni caso è da sottolineare che, essendo Scappi conosciuto come il «cuoco secreto di papa Pio V», le sue ricette si sono certamente mosse all’interno di ambienti ecclesiastici.
Da Scappi si arriva direttamente alla citazione più antica e precisa del termine “pasticciotto” che si trova in un inventario redatto alla morte del vescovo di Nardò, il monsignore Orazio Fortunato, nel 1707: qui si menzionano «barchiglie di rame da far pasticciotto numero otto». Ciò rafforza ulteriormente l’idea che sia il nome di questo prodotto sia la ricetta possano essere maturate in un ambiente ecclesiastico.
Ippolito Cavalcanti, nella sua Cucina teorico-pratica (1837), compilando la ricetta salata «Pasticcetti di pasta frolla», scrive: «[…] Potrai fare li tuoi pastiecetti, o tagliati col taglia pasta, o nelle formette, o nelle varchiglie…». Nello stesso volume, sono presenti anche ricette di dolci e torte farcite con crema pasticcera, che riconducono tutte all’idea del pasticciotto, da lui stesso peraltro menzionato nella «Pizza doce co la pasta nfrolla»: «[…] Co la stessa pasta, e co la stessa mbottunatura può fa pure li pasticciotti».
Tuttavia, consultando queste opere antiche possiamo riscontrare delle differenze rispetto alle ricette attuali soprattutto per quanto riguarda il lessico: molti di quei termini che per noi sono di uso comune in passato erano utilizzati in modo diverso.
Nella ricetta di Scappi, l’unico elemento che manca, per essere del tutto assimilabile a quella del pasticciotto, è la descrizione di un’eventuale copertura della «cassetta del pasticcio», una volta riempito, con l’impasto stesso, come invece farà Ippolito Cavalcanti nella ricetta «Pizza doce co la pasta nfrolla», che lui stesso associa al metodo per fare i pasticciotti, dicendo: «ncoppa nce miette l auta pettola de pasta e la farraje cocere». Per “pettola”, termine usato anche da Scappi, si intendeva una piccola porzione di pasta appiattita, un termine che è finito anch’esso per identificare un’altra ricetta tipica salentina, le pìttule.
Un’altra ipotesi riguardo la nascita di questo prodotto può essere legata alle varchiglie alla cosentina che, nel 1300 a Cosenza, venivano prodotte dalle monache Carmelitane scalze. Alcuni sostengono che questo nome derivi dallo spagnolo barquilla (“cestino”) o dal volgare varca (“barca”), ma gli Aragonesi, in realtà, arrivarono nella regione oltre un secolo più tardi. Le varchiglie erano composte da un involucro esterno costituito da una specie di pasta frolla e ripieno di pasta di mandorla cui si dava la forma di una barchetta; nel complesso sono considerate le antenate dei bocconotti meridionali e anche del nostro fruttone salentino. Il nome, la preparazione e la forma non possono che ricondurre al pasticciotto e proprio il termine “bocconotto” in dialetto salentino viene ancora inteso come variante del pasticciotto.
Oltre che con il generico bocconotto dell’Italia meridionale, il pasticciotto salentino, sia per il nome sia per la ricetta, ha un nesso con quello campano che oltre alla crema pasticcera prevede l’impiego dell’amarena come descritto nella ricetta delle «Bucchinotte d’amarene» di Cavalcanti. Non sappiamo se questo prodotto preesistesse rispetto a quello leccese o se, viceversa, sia stato importato dal Salento, come non sappiamo se il fruttone leccese, che abbiamo ipotizzato derivare dalla varchiglia calabrese, possa derivare anche dalle bucchinotte d’amarene napoletane, di cui esiste una variante più simile ad esso nella penisola sorrentina nella quale viene aggiunta nel ripieno anche la pasta di mandorla.
Quel che è certo è che in passato la consumazione di questi prodotti era limitata alle classi agiate come specifica Pellegrino Artusi nella sua opera La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891-1910). Tenendo conto degli influssi napoletani nella società leccese del tempo, i pasticciotti menzionati nell’inventario di Nardò forse potevano già contenere l’amarena.
Rispondere esaurientemente alle domande iniziali non è quindi possibile e tutto sommato non è neppure auspicabile perché, come spesso accade, è la trasmissione dei saperi, la registrazione, gli intrecci e le contaminazioni che hanno dato vita a quelle tradizioni poi considerate “locali”, a volte anche in maniera campanilistica, e che invece sono già figlie di tanti luoghi e tante storie.
Raffaele Marullo, di Nardò, è diplomato presso la Scuola Internazionale di Cucina Italiana, Corso Superiore di Pasticceria, di Colorno (Parma), fondata da Gualtiero Marchesi
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Vocalismo e consonantismo nel dialetto salentino
di Gianmarco Simone
Il dialetto salentino conosciuto e parlato al giorno d’oggi ha avuto un secolare processo di nascita e di affermazione durante il quale ha assorbito nella sua struttura linguistica i tratti tipici delle parlate e delle lingue delle diverse popolazioni che hanno abitato ed occupato la penisola salentina. Da madrelingua salentino, alcune delle domande che mi sono sempre posto erano pure curiosità: da dove nasce la mia lingua? Perché la pronuncia leccese non è uguale a quella brindisina o gallipolina? Quali sono i tratti tipici del dialetto salentino e come si sono originati? A queste domande cercheremo di dare una risposta lungo l’arco di questo articolo e per farlo bisogna iniziare a guardare un po’ indietro nel tempo.
Un dato certo è che il dialetto salentino deriva dal latino volgare, ovvero quella variante latina parlata dalla gente (vulgus) che si contrapponeva al latino classico utilizzato dai grandi oratori e poeti nella sua forma puramente scritta. Per intenderci, il latino classico era la lingua dei dotti utilizzata per la scrittura a cui si affiancavano le numerose lingue volgari del vastissimo Impero Romano utilizzate soprattutto dalla plebe per lo più analfabeta per parlare.
Il processo di romanizzazione e latinizzazione[1] della penisola salentina inizia nel 90 a.C, anno della Guerra Sociale tra i Messapi[2] e Taranto che ne sancì la loro sconfitta e la conquista del Salento da parte dei Romani. Come per qualsiasi altra lingua volgare, anche nel Salento il processo di latinizzazione dovette far fronte a forti resistenze dal punto di vista fonetico e fonologico dovute alle influenze dalle parlate pre-esistenti, quali quelle dei Messapi di base greca, e quelle che invece si erano già diffuse prima dell’arrivo dei Romani, ovvero le parlate osche[3]. La latinizzazione durò molti secoli ma è partire dalla caduta dell’Impero Romano nel 476 d.C che il sistema fonetico-fonologico del dialetto salentino comincia a mutare e ad assumere le caratteristiche che lo compongono. Infatti, dapprima con i Bizantini e successivamente con i Normanni, il sistema vocalico della penisola salentina subisce un imbarbarimento dovuto alle innovazioni linguistiche portate dalle genti provenienti dalle terre straniere.
Vocalismo tonico
Le innovazioni a cui faccio riferimento prendono il nome di “metafonia” e “dittongazione”. La prima è un fenomeno linguistico che modifica il suono di una parola per l’influenza della vocale postonica su quella tonica, invece la dittongazione è un fenomeno simile alla metafonia ma che si manifesta attraverso i dittonghi ié,ué, in base alla vocale postonica. In seguito vedremo gli esempi. Pertanto, questi due fenomeni linguistici che subentrarono in un’epoca post-romana sono, per così dire, i responsabili della tripartizione del sistema vocalico tonico del dialetto salentino come noi oggi lo conosciamo. Ci siamo mai chiesti perché si pronuncino sia oce che uce (it. voce) sia nuéu che nou (it. nuovo), sia ucca che occa (it. bocca)? La risposta risiede proprio nel mutamento metafonetico e nel fenomeno della dittongazione.
A questo punto, vediamo la suddivisione del sistema vocalico tonico del dialetto salentino nelle sue varianti linguistiche (Mancarella,1974: 10)[4]:
Sistema napoletano: zona del Salento settentrionale
Ī > i ; Ĭ,Ē > e,i ; Ĕ > e,ié ; Ā,Ă > a ; Ŏ > o,ué ; Ō,Ŭ > o,u ; Ū > u
Cerchiamo di rispondere a delle domande che inevitabilmente possono sorgere. Partendo dalla denominazione, perché si definisce sistema napoletano quando, effettivamente, stiamo parlando del dialetto salentino? Il nome si deve al fatto che questo sistema vocalico si ritrova anche nel napoletano. In generale, quando si studiano i fenomeni linguistici di una lingua o un dialetto, un alleato molto utile per capire alcuni fenomeni è proprio la storia. Infatti, anche Napoli, come tutto il Meridione, è stato dominato per molti secoli sia dai Bizantini sia dai Normanni, i quali si imposero nei territori e inevitabilmente diffusero le loro parlate lasciando tracce nella tradizione linguistica. Continuiamo. Quali sono i limiti geografici del salentino settentrionale? Su questo punto potremmo dire che i territori dove si utilizza questo sistema sono: i territori del brindisino, Oria e Nardò. Dove troviamo nello schema i fenomeni linguistici? La metafonia si ha in Ĭ,Ē > e,i[5] ed in Ō,Ŭ > o,u[6] mentre la dittongazione condizionata si ha in Ĕ > e,ié[7] ed in Ŏ > o,ué[8]. Vediamo alcuni esempi: HĪLU > filu, PĬLUS > pilu, PĬRA > pera, TĒLA > tela, SĒRA > sera, STĒLLA > stedda, PĔDEM > pete, MĔRUM > miéru, APIS > apu, RŎTA > rota, FŎCUS > fuécu, CŎRIUS > cuéru, NŎVUS > nuéu, BŎNUS > buénu, CŌDA > cota, VŌCEM > oce, SŌL > sole, SŌLUS > sulu, BŬCCA > occa, VŬLPE > orpe, CRŪDUM > crutu.
Sistema di compromesso: zona del Salento centrale
Ī,Ĭ,Ē > i ; Ĕ > e,ié ; Ā,Ă > a ; Ŏ > o,ué ; Ō,Ŭ,Ū > u
Anche qui cerchiamo di dare delle risposte. Innanzitutto, questo sistema viene definito di “compromesso” in quanto trovandosi nel mezzo tra quello settentrionale e quello meridionale prende tratti vocalici sia da uno sia dall’altro sistema. Il sistema vocalico centrale si può incontrare nel leccese e a differenza di quello settentrionale non presenta casi di metafonia, bensì casi di dittongazione condizionata in Ĕ[9] ed in Ŏ[10]. Alcuni esempi sono: HĪLUM > filu, PĬLUS > pilu, PĬRA > pira, TĒLA > tila, SĒRA > sira, STĒLLA > stidda, PĔDEM > pete, MĔRUM > miéru, APIS > ape, RŎTA > rota, FŎCUS > fuécu, CŎRIUS > cuéru, NŎVUS > nuéu, BŎNUS > buénu, CŌDA > cuta, VŌCEM > uce, SŌL > sule, SŌLUS > sulu, BŬCCA > ucca, VŬLPE > urpe, CRŪDUM > crutu.
Sistema siciliano: zona del Salento meridionale
Ī,Ĭ,Ē > i ; Ĕ > e ; Ā,Ă > a ; Ŏ > o ; Ō,Ŭ,Ū > u
La zona del salentino meridionale comprende tutti i territori all’interno della linea immaginaria che va da Gallipoli-Maglie-Otranto fino al capo di Santa Maria di Leuca. Questo sistema si definisce di tipo “siciliano” per la sua vicinanza al dialetto siciliano, anch’esso costituito da 5 vocali e privo di fenomeni linguistici. Inoltre, prima di procedere con l’esemplificazione, è bene sapere che tale sistema è fonte di grande interesse da parte degli studiosi, i quali ritengono che proprio la presenza del sistema penta vocalico nelle zone del estremo Salento, nel centro Calabria e in alcune zone della Sicilia, possa essere la prova di un’antica unità linguistica del Meridione. A tal proposito, Parlangeli afferma che “il dialetto salentino continua una fase arcaica di una comune unità linguistica meridionale in quanto si è sviluppato in una regione d’antica romanizzazione” (Mancarella, 1974: 70). Il sistema di tipo arcaico, così come definito, deriverebbe da una koiné dialettale[11] originatasi dall’antica lingua osca che era ben diffusa in tutto il centro-meridione prima dell’arrivo dei Romani. Il fatto stesso che la zona del Salento meridionale abbia conservato questo sistema confermerebbe l’idea che le innovazioni linguistiche portate dai Bizantini e dai Normanni si infiltrarono gradualmente dal nord fino alla zona centrale del Salento, lasciando così il Meridione isolato da tali cambiamenti (Mancarella, 1998: 280-281).Vediamo alcuni esempi: HĪLUM > filu, PĬLUS > pilu, PĬRA > pira, TĒLA > tila, SĒRA > sira, STĒLLA > stidda, PĔDEM > pete, MĔRUM > meru, APIS > ape, RŎTA > rota, FŎCUS > focu, NŎVUS > nou, BŎNUS > bonu, CŌDA > cuta, VŌCEM > uce, SŌL > sule, SŌLUS > sulu, BŬCCA > ucca, VŬLPE > urpe, CRŪDUM > crutu.
Vocalismo atono
Un altro aspetto dell’analisi sul vocalismo salentino verte su quello atono. Per vocalismo atono si intende il comportamento delle vocali atone (quelle su cui non ricade l’accento) sia in posizione iniziale, intertonica e finale. Per capirci meglio, ci siamo mai chiesti perché nel brindisino si dica lu pani, invece nel leccese lu pane?. Ecco, quindi, che per comprenderne la differenza dobbiamo analizzare il vocalismo atono. Vediamo di seguito i diversi sistemi:
Zona del Salento settentrionale
Ī,Ĭ,Ē,Ĕ > i ; Ā,Ă > a ; Ŏ,Ō,Ŭ,Ū > u
Dallo schema possiamo vedere come tutte le vocali atone latine in Ī,Ĭ,Ē,Ĕ danno come risultato i. Ad esempio: FORĪS > fori, PĀNIS > pani, SEMPĔR > sempri, FACĔRE > FARĔ > fari, MĂRĔ > mari, VĪCĪNUM > vicinu, FĔNESTRA > finešša , NĔPŌTIS > nipute.
Zona del Salento centrale
Ī,Ĭ,Ē,Ĕ > e ; Ā,Ă > a ; Ŏ,Ō,Ŭ,Ū > u
Per quanto riguarda il vocalismo atono del salentino centrale possiamo notare la differenza con quello settentrionale nel comportamento di Ī,Ĭ,Ē,Ĕ. Infatti, le vocali latine danno sempre e. Ad esempio: FORĪS > fore, PĀNIS > pane, SEMPĔR > sempre, FARĔ > fare, MĂRĔ > mare, VĪCĪNUM > bbešinu, FĔNESTRA > fenešša, NĔPŌTIS > nepute.
Zona del Salento meridionale
Ī,Ĭ,Ē,Ĕ > i,e ; Ā,Ă > a ; Ŏ,Ō,Ŭ,Ū > u
Generalmente nel sistema vocalico atono del salentino meridionale le vocali latine Ī,Ĭ,Ē,Ĕ possono dare sia i sia e. Tuttavia, un tratto abbastanza diffuso in questa zona è quello di pronunciare le stesse vocali in a. Per esempio: PĔNSABAM > pansava, FĔNESTRA > fanešša, NĔPŌTIS > napute.
Consonantismo
L’ultimo aspetto fonetico-fonologico del dialetto salentino riguarda le consonanti e la loro pronuncia. Anche in questo caso, siamo di fronte ad un panorama abbastanza variegato e pieno di casi particolare. Tuttavia, seguendo lo studio condotto da D’Elia ne Ricerche sui dialetti salentini (1957) in Mancarella (1974: 109-118), è possibile avere una panoramica dei diversi fenomeni consonantici che occorrono nelle diverse zone del Salento:
Occlusiva velare sorda –C- ([k]): si mantiene nel Salento meridionale e settentrionale (ĂPŎTHĒCA > putèca), mentre scompare in quello centrale (putèa).
Occlusiva velare sonora – G- ([g]): si pronuncia k se seguita da a,u nel salentino meridionale e centrale (GUSTŬS > kustu, GALLŬM > kaḍḍu), mentre in quello settentrionale se in posizione iniziale e seguita da a si converte in i (GALLŬM > iaddu), se invece è seguita da o,u cade (it. GUARDO > wardu).
Occlusiva dentale sonora –D- ([d̪]): in posizione intervocalica si pronuncia come sorda [t] (PĔDEM > pete).
Gruppo –LL: si pronuncia come cacuminale ḍḍ ([ɖ]) in tutto il salentino centrale e meridionale, ad eccezione di quello settentrionale dove il suono è una dentale dd (CĂBALLUS > cavaḍḍu / cavaddu). Tuttavia, troviamo casi particolari di pronuncia cacumiale nel neretino.
Gruppo –TR: il suono è cacuminale [ṭṛ] nel salentino centrale e meridionale, mentre nel salentino settentrionale è una dentale [tr] (PĔTRA > peṭṛa/petra).
Gruppo –STR: nel salentino centrale e meridionale è molto frequente la palatalizzazione in šš ([ʃ:]) mentre nel salentino settentrionale questo fenomeno è abbastanza irregolare (NOSTRUM > noššu/nuéstru).
Gruppo –ND- y –MB: si tratta di due gruppi ai quali l’assimilazione è alquanto irregolare. In alcuni casi si mantengono (QUANDŌ > kuandu, PLUMBUM > kiumbu), in altri si assimilano entrambi (QUANDŌ > kuannu , PLUMBUM > kiummu).
Gruppo: BR: generalmente si mantiene però in alcuni casi si pronuncia vr o r (BRACHIUM > bracciu/ vrazzu/razzu).
Gruppo CR: generalmente si mantiene però, soprattutto nel salentino centrale e meridionale, è possibile che la occlusiva [k] cada (CRASSUS > crassu/rrassu).
Gruppo GR: si mantiene nel salentino meridionale e settentrionale, mentre dà solo r nel salentino centrale (GRĀNUM > granu/rranu).
Gruppo ALC: nel salentino settentrionale dà –aṷč– mentre in quello centrale e meridionale troviamo diverse soluzioni come –ṷče– ğğe – š – ṷğğe�� (CALCEM > kaṷče, kağğe, kaše, kaṷğğe).
Gruppo NG + E,I: può sia rimanere sonoro sia prendere il suono [č] (MANDŪCĀRE > it. mangiare > mančiare).
Conclusioni
Dall’analisi condotta è stato possibile rispondere ai quesiti posti all’inizio dell’articolo e in particolar modo si sono potuti osservare i tratti tipici del dialetto salentino in tutte le sue varianti. E’ stato possibile avere un quadro generale di come il nostro modo di parlare si diversifichi in base alla zona geografica in cui ci troviamo e capire che il perché di tali differenze è da ricercarsi molti secoli addietro. Inoltre, vorrei esortare i lettori a non prendere quest’analisi come un qualcosa di totalmente fisso ed invariabile. Per intenderci, gli schemi rappresentano i tratti generali dei tre sistemi nelle rispettive zone linguistiche ma ciò non esclude il fatto che si possono incontrare dei casi in cui i tratti di una zona linguistica si ritrovino anche in quella limitrofa. Inoltre, quando si trattano temi riguardanti i dialetti italiani, bisogna sempre tenere in considerazione la componente della lingua italiana che ha una fortissima influenza sui parlanti, soprattutto tra i più giovani, e ciò ha provocato un ulteriore, permettetemi il termine, imbarbarimento del vernacolo, modificandone così non solo i tratti fonetico-fonologici ma anche quelli lessicali. In definitiva, gli esempi presentati sono utili per spiegare i fenomeni generali di ciascuna delle zone linguistiche osservate e servono ad affermare che il dialetto salentino è figlio del latino volgare.
Bibliografia
Mancarella, G.B.,(1974), Note di storia lingüística salentina, Lecce, Edizioni Milella.
Mancarella, G.B., (1998), Salento. Monografia regionale della Carta dei dialetti Italiani, Lecce, Edizioni del Grifo.
[1] Per romanizzazione si intende il processo mediante il quale i Romani, una volta conquistato un determinato territorio, importavano la loro cultura e religione diffondendole in maniera non coatta. In un certo senso era un orchestrato ricatto psicologico in quanto non si forzava la popolazione vinta ad aderire alla cultura romana però solo chi decideva romanizzarsi poteva godere dei benefici sociali, mentre chi si rifiutava rimaneva ai margini della società. Per latinizzazione, invece, ci si riferisce prettamente al processo linguistico di diffusione della lingua latina per scopi puramente ufficiali, cioè come mezzo per poter controllare dal punto di vista politico e militare le innumerevoli provincie.
[2] Gli antichi abitanti del sud della Iapigia, insieme ai Peucezi al centro e i Dauni al nord.
[3] La lingua osca era una lingua italica diffusa nel centro-meridione prima ancora del latino.
[4] G.B. Mancarella ,(1974), Note di storia lingüística salentina, Lecce, Edizioni Milella
[5] Danno e quando la vocale postonica è A-E-O, mentre danno i quando è I-U.
[6] Danno o quando la vocale postonica è A-E-O, mentre danno u quando è I-U.
[7] Danno e quando la vocale postonica è A-E-O, mentre dittongano in ié quando è I-U
[8] Danno o quando la vocale postonica è A-E-O, mentre dittongano in ué quando è I-U.
[9] Danno e quando la vocale postonica è A-E-O, mentre dittongano in ié quando è I-U
[10]Danno o quando la vocale postonica è A-E-O, mentre dittongano in ué quando è I-U
[11]Dal greco κοινὴ διάλεκτος “lingua comune”.
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Il presente del verbo 'essere'
di Giammarco Simone
Analogamente a quanto fatto con il verbo ‘avere’, adesso l’attenzione si sposta sul verbo ‘essere’. Anche qui, la diversità linguistica del dialetto salentino è oggetto di analisi, in quanto esistono varie forme verbali dipendenti dalla zona geografica di riferimento. Per questo studio, ricorre la Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti (1966) del linguista G. Rolhfs. Sulla base delle sue considerazioni, propongo di seguito un elenco delle persone del presente indicativo del verbo essere e la relativa spiegazione:
1°pers. sing: suntu/sontu/sù/sò: la forma verbale è un caso di confusione. Mi spiego: se dovessimo dire che suntu/sontu derivano dalla 1° pers. sing. del verbo latino esse, che ha dato nel latino volgare *essere, dovremmo pronunciare sugnu, come nel siciliano, in quanto essa proviene sì dalla 1°pers.sing. latina che era sum. Tuttavia, la forma verbale del nostro dialetto non si origina da sum, bensì da sunt, cioè la 3° pers. plur. del verbo latino. Per questa ragione, come vedremo in seguito, la 1°pers. sing. e la 3°pers.plur. coincidono (jo suntu/sontu; iddhri suntu/sontu). Per quanto riguarda l’utilizzo delle varie forme, si può dire che suntu, con la sua corrispettiva forma abbreviata sù, si usa in tutto il Salento, fatta eccezione dei paesi limitrofi a Nardò e nel brindisino dove si utilizza la forma sontu e quella abbreviata sò che si ritrova anche in tutte le parlate del Meridione.
2°pers.sing: sinti/si: in linea generale, la forma dialettale deriva dal latino es, che probabilmente ha dato *sees nel latino volgare. Tuttavia, nel Salento si può anche osservare la forma sinti, la quale è il risultato di un adattamento su sontu. Anche per la 2° pers. sing. l’uso di si è piuttosto generalizzato, in quanto è una forma ricorrente in tutti i dialetti meridionali. La forma riadattata sinti sembra essere più rara, anche se nel neretino e nei territori di Galatone ed Aradeo è attestata (cce si scemu!/ cce sinti scemu!).
3°pers.sing: è/ete: la forma più attestata è senza dubbio è, anche per l’analogia con la lingua italiana. Tuttavia, la forma ete presuppone un piccolo chiarimento. Questa forma deriverebbe dall’antico italiano edè formatosi dal latino quid est > ched’è. Rolhfs (1966) ce ne parla in riferimento ai dialetti settentrionali toscani, ad alcuni marchigiani e al romanesco, dove la 3° pers. sing. è proprio edè. Nel dialetto salentino, si sarebbe poi avuto un suono dentale in t al posto di d ed un arretramento dell’accento, da cui la forma ète. In ogni modo, si tratta di una forma anch’essa abbastanza generalizzata in tutto il Salento.
1°pers.plur: simu: non esistono altre forme per esprimere la 1° pers. plur. Interessante, però, è sapere che la sua origine si deve al *simus volgare, proveniente a sua volta dal sumus
2° pers. plur: siti: anche per questa persona esiste una sola forma. Per quanto riguarda la sua possibile origine, si potrebbe pensare ad un antico latino volgare in *setis che sostituì la forma classica estis.
3° pers. plur: suntu/sontu/sù/so: come anticipato precedentemente, la 1° pers. sing. e la 3° pers. plur. sono uguali, così come le zone dove vengono utilizzate.
All’interno del discorso sul verbo essere, c’è da palare di un fatto curioso: l’utilizzo alla 3°pers.sing. della forma bbè/bbete. In questo caso, siamo davanti ad un fenomeno fonologico[1] che prevede l’aggiunta di un elemento non etimologico, in questo caso la consonante b, per armonizzare il suono e renderlo più facile da pronunciare. Questo raddoppiamento è presente, come vedremo anche in futuri interventi, nell’imperfetto (bbera) e nel congiuntivo (bbessa).
Una personale osservazione del nostro modo di parlare mi porta a dire che l’uso di bbè/bbete è più frequente con la negazione nu (nu bbè/bbete filu ca no mi piace; nu bbè/bbete calanteria quista; nu bbè/bbete iddhru lu problema) e quando il verbo essere è preceduto da una parola terminante in e/u o dalla congiunzione e (ce bbè beddhru; nu bbè degnu cu bbessa fijusa; ca d’energia pulita nci nnè tanta e bbè tutta utilizzabile). La zone in cui si registra l’uso di bb è quella del Salento centrale, con Lecce e i paesi limitrofi al nord.
Ben diversa, invece, è la situazione in altre parti del Salento come Nardò, Copertino Aradeo, Galatone, Galatina, Gallipoli, Scorrano, Spongano, ecc. In queste zone si tende a pronunciare gg/ggh/ddh. Ad esempio: cce ggè? /cce gghiè? /cci ddhrè? /cce ggè successu? /cce gghiè successu? /cci ddhrè successu?
Se per la consonante b gli studi permettono una facile interpretazione puramente fonologica, lo stesso non si può dire sull’origine di gg/ggh/ddhr. Gli studi fatti da Rolhfs (1966) sono certamente fondamentali per poter capire come si siano svolti i fatti o quanto meno per poter formulare delle ipotesi. Infatti, egli osserva il ghe presente nei dialetti settentrionali della Liguria, Lombardia, Emilia e Veneto. In questi vernacoli, l’avverbio di tempo e di luogo ghe, originatosi dall’hic latino, accompagna il verbo ‘avere’ e sostituisce gli avverbi ci/vi della lingua italiana. Nonostante ciò, Rolhfs attesta anche la sua presenza in compagnia del verbo ‘essere’, con il significato equivalente all’italiano c’è . A tal proposito, riporto una frase scritta nel 1592, dell’allora sindaco di Lecce d’origine veneziana, Pietro Mocinego, il quale parlando di Lecce affermava: “Non ghe se al mondo cità più bea”[2], dove ghe >ci e se > è.
Dunque, mi verrebbe da formulare due ipotesi: che sia un lascito dei dialetti settentrionali nel Meridione o, piuttosto, si tratta di un fenomeno linguistico evolutosi in parallelo sia nei vernacoli settentrionali sia in quelli meridionali.
In riferimento alla prima ipotesi, direi che, dal punto di vista storico, precisamente intorno al 1482, la penisola salentina fu territorio di conquista da parte della Repubblica Veneziana e che, negli anni successivi, proprio per la sua importanza strategica nel Mar Adriatico e Mediterraneo si produssero numerose guerre di predominio territoriale contro i francesi che di tanto in tanto occupavano le terre italiane. In questo caso, come già espresso nel mio primo intervento sul “Vocalismo e consonantismo del dialetto salentino”, la storia è una utile alleata per poter rispondere a quelle che sono le domande e i dubbi di tipo linguistico, in quanto la formazione del lessico e le modificazioni delle parlate di un territorio possono avere come causa scatenante proprio il passato storico e le eventuali dominazioni susseguitesi nel corso dei secoli, in quanto portatrici di innovazioni e lasciti linguistici. Tuttavia, l’ipotesi storica credo che qui sia un po’ forzosa, soprattutto perché non ho prove certe di una possibile eredità linguistica diretta dei dialetti settentrionali sul salentino.
Per quanto riguarda, invece, la seconda ipotesi, la teoria di un’evoluzione in parallelo nei due vernacoli appare alquanto più probabile soprattutto se pensiamo che le forme gg/ggh/ddh sono presenti nel dialetto salentino sia alla 3° pers. sing. dell’indicativo ma anche nell’imperfetto (ggera/ gghiera/ddhera) e nel congiuntivo (ddheggia/ eggia ecc.). Secondo una ricostruzione, tali forme potrebbero provenire da hic + est latino, da cui si è avuta un’evoluzione fonetica e grafica che ha portato l’avverbio hic a trasformarsi in ghe, a perdere la sua funzione grammaticale di avverbio e unirsi al verbo essere[3]. Ciò si vede in cce gghè beddhru, dove ghe ha perso la sua funzione avverbiale. L’unico esempio dove l’avverbio si è mantenuto è nella domanda cce gghè? dove ghe ha significato di “adesso, in questo momento”, proprio come in italiano che c’è?
Anche per questa forma come già detto per quelle del leccese, da una mia osservazione posso affermare che il loro uso è più frequente con la negazione no e quando il verbo essere è preceduto da una parola che termina in e/u o congiunzione e.
Per concludere, abbiamo visto come anche il verbo ‘essere’ possiede alcune caratteristiche meritevoli di approfondimenti. Personalmente, ritengo molto importante soffermarsi a pensare sul perché e sul come della nostra lingua, in quanto essa è capace di raccontare storia, fenomeni, cause e ragioni che difficilmente riusciremmo a sapere se non ci fermassimo ad osservare.
Note
[1]Pròtesi o pròstesi.
[2] Rucco N., Greco C. “Uci salentine”, Galatina, 1992.
[3] Bertocci, D., Damonte, F. “Distribuzione e morfologia dei congiuntivi in alcune varietà salentine”, 2007.
Per il verbo avere nel dialetto salentino vedi qui:
Dialetto salentino. Il presente del verbo “avere” – Fondazione Terra D’Otranto
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Dialetto salentino. Il presente del verbo "avere"
di Giammarco Simone
Il dialetto salentino ammette una diversità linguistica molto interessante da studiare e da conoscere, la quale si riflette non solo sulle parole e il loro significato ma anche su alcuni aspetti linguistici meno presi in considerazione ma sui quali è utile spenderci alcune riflessioni. Stiamo parlando delle forme verbali. In questo breve intervento, nato dalla curiosità di una parlante salentino, si presenteranno, a mo’ di linea guida, quelle che sono le varie forme del presente indicativo del verbo ‘avere’ nelle diverse zone geografiche del Salento. Fondamentale per orientarsi all’interno del complesso panorama linguistico è il libro Grammatica Storica della lingua italiana e dei suoi dialetti (1969) di Gerhard Rolhfs, importantissimo linguista e filologo tedesco a cui si devono la maggior parte degli studi sui dialetti italiani. Detto ciò, iniziamo col vedere quali sono le forme verbali del presente indicativo del verbo ‘avere’:
1°pers. sing: àggiu (it. io ho): questa forma proviene dal latino volgare *ajo che a sua volta ha generato la forma aggio presente nella lingua italiana utilizzata da Dante e Petrarca.
2° pers. sing: ài/à (it. tu hai): sembra derivare dalla forma del latino volgare *as, proveniente a sua volta dal latino HABES. Generalmente, si tende ad utilizzare la forma ridotta à, anche se si possono trovare casi con la forma ài in tutto il Salento, soprattutto nel leccese e nel gallipolino (es. m’ài dittu; m’à dittu).
3°pers. sing: à /àe / àve (it. egli/ella ha): la forma à sarebbe l’abbreviazione della forma volgare *at, proveniente da HABET latino. Inoltre, sia àe che àve sono forme piene derivante da HABET e sono presenti anche nella lingua utilizzata da Dante, Petrarca e Tasso. La forma à è quella più utilizzata, ciò dovuto, forse, alla somiglianza con forma italiana ha (es. cè à ffattu Giovanni?). Tuttavia, nel leccese e nei paesi come Leverano, Copertino, Galatone e Galatina si utilizza anche la forma àe (es. no àe dittu Giovanni ca…). Da non confondere però l’uso di bè (es. nu bè dittu Giovanni ca…). In questo caso, la forma bè è del verbo ‘essere’ che molto spesso nei dialetti, soprattutto quando si usa in funzione di ausiliare, si confonde con il verbo ‘avere’. Per quanto riguarda il gallipolino, ma in generale in tutto il Salento meridionale, si tende ad utilizzare la forma àve (es. cè ave fattu Giovanni?; no ave dittu Giovanni ca…).
1°pers. plur: aìmu/ìmu/àmu (it. noi abbiamo): la forma aìmu proviene dal latino HABEMUS. E’ una forma che generalmente si tende ad ascoltare nel Salento centrale e meridionale assieme alla sua forma ridotta àmu (es. cè aìmu ffattu o cè àmu ffattu?). Per quanto riguarda la forma ìmu è più diffusa nel neretino (es. cè ìmu ffattu?).
2°pers. plur: aìti/ìti/àti (it. voi avete): la forma aìti proviene dal latino HABETIS è presente in alcune parlate del brindisino e convive con la equivalente forma ridotta àti nel leccese (es. cè aìti fattu?; cè àti fattu?). Tuttavia, la forma ìti sembra essere più ricorrente nel neretino e nel Salento merdionale (es. cè ìti fattu?).
3°pers plurale: ànu/àne/ònu (it. essi/esse hanno): le forme provengono da un’antica base volgare *avunt > *aunt. Anche qui, ànu si presta ad un più diffuso uso nel leccese, (es. ànu dittu), la forma àne è tipica del Salento meridionale (es. àne dittu), mentre la forma ònu è diffusa in quel di Nardò (es. ònu dittu).
Avendo fornito una panoramica delle diverse forme del verbo ‘avere’, risalta all’occhio che la sua funzione è principalmente quella di ausiliare utilizzato per la formazione del passato prossimo (es it. ho fatto > aggiu fattu). Infatti, per esprimere il significato di ‘possesso’ in tutte le sue sfumature, il dialetto salentino non usa il verbo ‘avere’ bensì si tende ad utilizzare il verbo ‘tenere’ (es. ho un’automobile > tegnu na mmachina; ho la febbre > tegnu la free).
Inoltre, è interessante sapere che il passato prossimo non è un tempo verbale tipico del dialetto salentino, in quanto esso si compone solo del presente, dell’imperfetto e del passato remoto seppur con alcune forme molto remote di congiuntivo. La presenza del passato prossimo, quindi, si deve all’influenza della lingua italiana sul dialetto.
Infine, un’altra curiosità riguardante il verbo ‘avere’ sono le forme “ndàggiu – ndài/ndà – ndà/ndàe/ndàve – ndaìmu/ndàmu/ndìmu – ndàiti/ndìti/ndàti – ndònu/ndànu”, con la relativa mutazione del nesso consonantico nd in nn in alcune parti del Salento che dà nnàggiu – nnài/nnà – nnà/nnàe/nnàve – nnàimu/nnàmu/nnìmu – nnàiti/nnìti/nnàti – nnònu/nnànu. Queste forme si compongono dall’avverbio di luogo e di tempo con funzione anche di pronome ndi, proveniente dal latino INDE che a sua volta ha dato ne in italiano, e dal verbo ‘avere’. Come anche sottolinea Rolhfs (1969), il ne si è diffuso in tutta la penisola italiana, perciò per l’influenza dell’italiano sulle parlate regionali, popolari e sui dialetti, si tende a dire ‘no ndàggiu free; ndài cirase?’ che sarebbe l’equivalente in italiano di ‘non ne ho febbre; hai ciliegie?. In questo caso, è importante sottolineare che il verbo ‘avere’, oltre ad accettare il nesso ne, abbia acquistato anche il significato italiano di ‘possedere’.
Conclusioni
Questo piccolo approfondimento consente di inquadrare e capire quali sono le diverse sfumature delle forme verbali del presente dell’indicativo del verbo ‘avere’ nei territori salentini. Inoltre, tali riflessioni linguistiche sono utili per dare spiegazioni alle molteplici domande e dubbi riguardanti le origini del nostro modo di parlare (come ad esempio le forme ndàggiu, ndài, ecc…) permettendo così di analizzare anche gli aspetti più piccoli del dialetto salentino.
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Salentini o Sallentini?
di ArmandoPolito
Credo che, se questa domanda fosse posta a chi è mio conterraneo o a chi non lo è, quasi tutti risponderebbero: – Salentini, no? -. E io ribatterei: – Perché?-. La risposta, questa volta, sarebbe forse più scontata della prima: – Perché è da Salento e non da Sallento -.
Eppure, se cercate nell’Enciclopedia Treccani on line (http://www.treccani.it/enciclopedia/sallentini/) non troverete la voce Salentini, ma digitando Sallentini apparirà la schermata che riproduco.
Perché questa secondarietà di Salentini rispetto a Sallentini, tanto da renderne impossibile il reperimento diretto? E perché, se anziché nell’enciclopedia cerco nel vocabolario, sempre on line (http://www.treccani.it/vocabolario/salentino/) non trovo nulla per sallentino e invece compare quanto segue per salentino?
La spiegazione dell’apparente contraddizione sta anzitutto nella natura prevalentemente scientifica di un’enciclopedia rispetto ad un comune vocabolario e nello specifico tutto è dichiarato nell’antica che accompagna la definizione di Sallentini.
La sfortuna sembra accanirsi contro di noi perché, contrariamente al solito (potete provare con altri nomi propri), l’enciclopedia non mi propone alcun etimo, mentre il vocabolario mi dà il Salentinus, anche, se più correttamente, sarebbe dovuto essere Salentinu(m), che essendo un etnico, cioè un nome di popolo (comunque un aggettivo derivante da un nome proprio), suppone la derivazione da un toponimo, nel nostro caso Salentum.
Trasferendo il processo alla voce dell’enciclopedia, ci saremmo aspettato di leggere: da Sallentum o Salentum. Dico subito che né Sallentum né Salentum è attestato da qualche fonte1, mentre l’etnico Sallentini o Salentini lo è ampiamente, ma nel modo che segue (riporto gli autori in ordine cronologico e nella tradizione manoscritta più accreditata):
SALLENTINI
Polibio (II a. C.), Storie (in greco), frammento citato da Plinio (vedi più avanti) in Naturalis Historia, III, 5, 75.
Il Sallentinos che vi compare, però, non è detto che corrisponda ad un originale greco Σαλλεντίνους (leggi Sallentìnus) e non Σαλεντίνους (leggi Salentìnus), tanto più che nella Naturalis Historia Plinio usa costantemente la forma con doppia l.
Varrone (I a. C.), De re rustica, I, 24, 1 e II, 3, 10
Virgilio (I a. C.), Eneide, III, 400
Sallustio (I a. C.), Storie (per tradizione indiretta: citato da Servio (IV-V d. C.)nel suo commento al passo dell’Eneide di Virgilio prima citato)
Ovidio (I a. C.-I d. C.), Metamorfosi, XV, 51
Livio (I a. C.-I d. C.), Ab urbe condita, IX, 42, 4; X, 2, 1; XXIII, 48, 3; XXIV, 20, 16; XXV, 1, 1; XXVII, 15,4; XXVII, 22, 2; XXVII, 36, 13; XXVII, 40, 10
Mela (I), Chorographia, II, 59; II, 68
Plinio (I), Naturalis historia, II, 107, 240; III, 5, 38; III, 11, 9; III, 11, 104; III, 11, 105; III, 23, 145; XV, 4, 20
Silio Italico (I), Punica, VIII, 573
Frontino (I-II), Stratagemata, II, 3, 21
Floro (II), Epitome delle Storie di Tito Livio, I, 15
Festo (II), De verborum significatu, frammenti alle pp. 196 e 441 dell’edizione Lindsay
Solino (III), Memorabilia, 2, 10
Eutropio (IV), Breviarium ab Urbe condita, II, 17
Macrobio (IV-V ), Saturnalia, III, 20, 6
Servio ((IV-V ), Commento all’Eneide di Virgilio, III, 121); Commento alle Georgiche di Virgilio, IV, 119
Marziano Capella, De nuptiis Philologiae et Mercurii, VI, 639
Giulio Capitolino (V?), Vita di Marco Aurelio Antonino il Filosofo (in Historia Augusta, 1, 8)
Scholia Bernensia in Vergilii Georgica (VII-IX), III, 1
Stefano Bizantino (V-VI), Ethnica (in greco), alla voce Σαλλεντία (leggi Sallentìa)
SALENTINI
Varrone (I a. C.), frammento delle Antiquitates rerum humanarum citato dallo Pseudo Probo (probabilmente V d. c.), nel suo commento alle Bucoliche (VI, 31) di Virgilio, ma il Salentini che vi compare contrasta con il Sallentini usato, come abbiamo visto, da Catone nel De re rustica e non appare, dunque, come voce originale attendibile.
Dionigi di Alicarnasso, ( I a. C.), Antichità romane (in greco), I, 51, 3
Verrio Flacco (I a. C.-I d. C.), citato da Festo (II) nel De verborum significatu
Strabone (I a. C.-I d. C.), Geographica (in greco), VI, 3, 1; VI, 3, 5
Tolomeo (II), Geografia (in greco), III, 11 ; III, 67
Tabula Peutingeriana (la redazione originale risale al IV secolo), VI 5- VII 2)
Jordanes (VI), De summa temporum vel origine actibusque gentis Romanorum, 161
Guidone (XII), Geographica , 28 (citando Virgilio, Eneide, III, 400) e 67
Quanto finora riportato mostra la prevalenza della forma con una sola l negli autori greci, di quella con due nei latini e nella statistica globale. Per quanto riguarda la cronologia il primato spetta ai greci con Polibio, pur con tutti i limiti della tradizione indiretta di cui s’è detto. Se escludiamo Polibio, il conto, dal punto di vista cronologico, è pari, essendo dello stesso periodo Dionigi di Alicarnasso da una parte e Varrone, Virgilio e Sallustio dall’altra.
Conclusioni: Salentini e Sallentini appaiono entrambe forme corrette e in ambito scientifico l’uso dell’una o dell’altra potrebbe essere ispirato, più che dalla maggiore simpatia riservata alla cultura greca o a quella latina, dalle risultanze statistiche che fanno prevalere Sallentini su Salentini. Per questo motivo, se la voce dev’essere scomodata, mettiamo, per dare un nome latino ad una collana di pubblicazioni, potrebbe porsi, per esempio, il dilemma: la chiamiamo Sallentina fragmenta o Salentina fragmenta? Non sarei intellettualmente onesto se continuassi a spacciare tale dilemma come esempio e non come esperienza vissuta, nel senso che avevo optato per la seconda soluzione, quando non un illustre sconosciuto, ma Marcello Gaballo mi ha orientato verso la prima, obbligandomi, senza volerlo, a scrivere questo post (se nel leggerlo la noia è progressivamente montata, sapete con chi dovete prendervela …).
Tutt’altra piega ha preso, com’è noto, la voce nell’uso comune, in cui domina incontrastato Salentini, non certo, credo, per suggestione della forma greca ma per scempiamento di –ll– interpretato, forse, come una volgare geminazione, fenomeno che contraddistingue molti dialetti meridionali, in primis il salentino; e non mi riferisco solo al raddoppiamento della consonante iniziale: bbinìre (venire), bbitìre (vedere), etc. etc.
Così Sallentini, la forma filologicamente e storicamente (se riferita al mondo romano) più corretta, divenne un ricordo sempre più sbiadito, essa che aveva avuto un uso costante costante nelle pubblicazioni a stampa dalla sua invenzione fino al secolo XIX; di seguito due esempi: il frontespizio del manoscritto autografo dell’Atlante Sallentino di Giuseppe Pacelli (1803) custodito nella Biblioteca Marco Gatti di Manduria (MS. Rr/5) e quello di una pubblicazione del 1833.
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1 È creazione del tutto moderna, anzi contemporanea, il Sallentum nel quale ci si può imbattere: dal titolo di un libro o di una rivista,
alla proposta di uno stemma territoriale o a quello di un club,
e, per citare prodotti più volatili, il Salentum di una serie di deodoranti per l’ambiente e di un profumo per l’uomo dinamico e carismatico,
nonché, e poteva mancare?, il Salenzio di cui ho avuto già occasione di occuparmi in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/16/tuttal-piu-me-lo-bevo-ma-non-me-la-bevo/.
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Francesco Porrata Spinola di Galatone e l'eruzione del Vesuvio del 1631
di Armando Polito
Il Vesuvio prima e dopo l’eruzione del 16 dicembre 1631 in due incisioni del francese Nicolas Perrey tratte da Gianbernardino Giuliani, Trattato del Monte Vesuvio e de’ suoi incendi, Longo, Napoli, 1632 (https://doi.org/10.3931/e-rara-10365)
Non sono pochi i salentini che nel corso dei secoli si sono occupati in prosa o in versi di ciò che nell’immaginario collettivo dell’intero pianeta è il simbolo di Napoli, dopo la pizza e il mandolino1. Nella sterminata schiera, poi, dei testi scientifici un posto preponderante è senz’altro occupato da quelli che si occuparono della catastrofica eruzione del 1631. Tra essi è da annoverare quello il cui frontespizio presento di seguito.
A parte la rarità2, il volume già nel titolo, conformemente all’uso del’epoca chilometrico, presenta qualcosa di insolito e, dunque, originale, cioè il pronostico di effetti maggiori, basato su concomitanze astrologiche riassunte nella figura di p. 20.
Non sono un medico o un filosofo o un astrologo (tanto meno eccellentissimo): forse so, più probabilmente presumo di sapere qualcosa di letteratura propriamente detta e ancora meno di filologia, e per questo lascio a lettori più qualificati di me il giudizio sul valore scientifico di tutto il Discorso, che ognuno potrà agevolmente leggere dal link prima segnalato per le tavole.
Mi limiterò, perciò, a prendere in considerazione e ad approfondire solo alcuni dettagli. Comincio dall’autore dicendo che le notizie sono estremamente scarne e non sapremmo nemmeno che era di Galatone senza il Galateo del provvidenziale e pretenzioso (per via dei titoli, ma allora non c’era la specializzazione spinta di oggi, cosa che, d’altra parte, aveva pure i suoi aspetti positivi …) frontespizio. debbo precisare, però, che la famiglia Porraca Spinola è di chiarissima origine genovese e che essa vantava anche uno zecchiere (Agostino). Di seguito una moneta del 1563 con la sua sigla (AS) nel verso.
Dal frontespizio apprendiamo pure che l’opera è dedicata è al nobile fiorentino Vincenzo Sirigatti, il cui stemma appare bene in vista, mentre dalla dedica interna che, stranamente breve, occupa solo le prime due pagine, apprendiamo che Vincenzo era dotato di rare e gentili maniere, ammirate e amate da tutti non solo in questa Provincia, dove al presente si ritrova, ma molto più di lungi e poco dopo l’autore dichiara di aver composto il Discorso in volgar lingua contro ‘l mio Genio, come V. S. e molti sanno , acciò in questa pubblica occasione ogn’uno publicamente goda l’utile, e ‘l diletto insieme. Insomma il nostro aveva intenzione di scriverlo in latino, poi prevalse l’intento divulgativo (di mercato, diremmo oggi, se non fosse che testi simili restavano pur sempre di nicchia). E quanto ad esibizione di titoli sbattuti nel frontespizio a concorrenza non sarebbe stata certamente da meno. Basta considerare il frontespizio che segue, tratto da https://doi.org/10.3931/e-rara-23442.
Nel titolo, qui ancor più chilometrico, spicca il greco ῥιγοπύρετον che per il suo significato (febbre con brividi) conferisce una connotazione quasi umana al vulcano in eruzione e poi l’autore (Vincenzo Alsario della Croce) dopo essersi dichiarato di Genova, sventola la sua brava caterva di titoli: Professore di medicina pratica all’Università della Sapienza, già camerlengo segreto di Gregorio XV, ora camerlengo onorifico del papa Urbano VIII. Ma torniamo al volume del salentino.
Alla dedica seguono, secondo una prassi consolidata in pubblicazioni del genere, quattro componimenti elogiativi (tre sonetti ed un epigramma in distici elegiaci) che riproduco e, laddove è necessario, commento.
Il primo sonetto, dedicato Al Signor Vincenzo Sirigatti, è di Francesco San Pietro di Negroa.
Tu che del nobil Arno i tersi Argenti
rendi adorni di Glorie, e di splendoei,
tu che virtù difendi da furori
di nemica Fortuna, e d’empie genti,
tu col tuo chiaro nome, ch’eran spenti
questi d’Astrologia raccolti fiori
per dotta man sacrati hor à tuoi honori
solo ravvivi con affetti ardenti
così ben pare sculto in lettere d’oro
perche il Vesuvio hà svelto arsi macigni
et omicide vampe à i vicin Campi;
e quando fia, che Marte non più avvampi
e la Pace trionfi del suo Alloro,
e gli altri influssi à noi rotin benigni.
_________
a Da identificare forse con Lagonegro, in Basilicata.
Gli altri due, dedicati all’autore, sono di Pietro Angelo De Magistris Galateob Academico Ociosoc detto il Tranquillo.
Sparse armato il Vessuvio à danni nostri
con Tremoti d’orror fiamme voraci,
ceneri spaventose, onde fugaci,
theatro infausto di Prodigi, e mostri.
E ‘l Tuon, che diè da suoi Tartarei Chiostri
rimbomba hor ne’ tuoi scritti aurei, e veraci,
e i baleni veggiam viè più vivaci
co’ lampi, e rai de’ tuoi purgati inchiostri.
Ammira il Mondo le raggioni, e l’arte
de la tua dotta Penna, e ‘l tuo lavoro
de gli Astri le Virtù pinge in gran parte.
Prendan dal tuo bel dir l’alme ristoro,
e contempli ogni cor nelle tue carte
la Cenere hor cangiata in pioggia d’Oro.
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b Di Galatone.
c L’Accademia degli Oziosi era stata fondata a Napoli nel 1611.
T’impennò l’ali à la Celeste Metaa
girando ogn’hor con regolati errorib,
e dando all’almac tua lampi, e splendori
ogni Stella, ogni Segno, ogni Pianeta.
E già con dir facondo, e mente quieta
de le Ceneri sparse, e de gli ardori
sveli il ver, cause adduci, incendi i corid
con tua Virtù qual degna aurea Cometa.
Da foco di Vessuvio è il mondo offeso
quasi infermo di febre, e in sì ria sorte
in fumo si dissolve il mortal peso;
deh fà (volgendo al Ciel tue luci accorte
di quelle fiamme sempiterne acceso)
pronostichi di Vita, e non di Morte.
_______
a Consentì alla tua scienza astrolofica di innalzarsi
b In senso etimologico: movimenti.
c animo
d susciti discussioni
L’epigramma, indirizzato a Vincenzo Sirigatti, è di anonimo, ma, dietro la dicitura cuiusdam perfamiliaris (di uno molto amico) non mi è difficile supporre che si nasconda l’autore dell’opera, in un’ulteriore dichiarazione di modestia …
Magnus Alexander sic Mundo sculptus ab uno
Lisippo, atque uno pictus Apelle, datur,
praeclarum, SIRIGATTE, tuum sic Spinola nomen
ingenio clarus (perlege) non maculat.
Traduzione: Così si tramandaa che Alessandro Magno fu scolpito dal solo Lisippob e dipinto dal solo Apellec, così, o Sirigatti, Spinola illustre per talento (finisci di leggere) non macchia il tuo nome illustrissimo.
_________
a Plinio, Naturalis historia, VII, 38: Idem hic imperator edixit ne quis ipsum alius quam Apelles pingeret, quam Pyrgoteles scalperet, quam Lysippus ex aere duceret (Quest’imperatore medesimo stabilì che nessun altro potesse raffigurarlo con la pittura se non Apelle, con la scultura in marmo se non Pirgotele, con quella in bronzo se non Lisippo).
b Scultore greco del IV secolo a. C.
c Pittore greco del IV secolo a. C.
Vi lascio immaginare quanto desidererei conoscere il pensiero del dedicatario, sempre che l’opera sia stata da lui letta …
E, in chiusura, non posso non ricordare il contributo etimologico che sul nome del vulcano il nostro offre a p. 4: Mons Vaesevus da Vae, cioè guai, e Saevus, cioè crudele, perché guai a chi lì fabrica, ò coltiva, o confida habitare, veggendosi poi esso o suoi discendenti all’improviso perder così la robba, e la vita. Essa ricalca nella prima parte quella del contemporaneo Camillo Tutini3, che, riprendendo una tradizione popolare, sosteneva che Vesuvio è da Vae suis (Guai ai suoi!) partendo dalla considerazione che la sua attività distruttiva storicamente aveva preceduto o seguito disgrazie per la popolazione. Confesso che nella miriade di proposte etimologiche avanzate e citate in molti lavori questa del salentino la leggo per la prima volta, anche se mi pare anch’essa una paretimologia. Un tocco di originalità, che pur con riserva sto campanilisticamente sottolineando (forse per farmi perdonare qualche spunto ironico al quale nemmeno qui ho saputo rinunciare) o semplicemente una mia lacuna di letture su questo argomento e non solo?
__________
1 Vedi, per esempio, https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/11/07/salento-vesuvio-poesia-pellegrino-scardino-san-cesario-lecce/
https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/11/03/nardo-vesuvio-anno-piu-anno-meno/
https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/01/12/leruzione-del-vesuvio-del-1631-nella-poesia-di-un-salentino-e-di-un-napoletano-con-una-sorpresa-finale/
https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/01/12/gli-arcadi-di-terra-dotranto-gregorio-messere-di-torre-s-susanna-20-20/
https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/01/26/marco-antonio-delli-falconi-di-nardo-tiene-a-battesimo-il-monte-nuovo/
Ad integrazione della produzione in versi in riferimento all’eruzione del 1631 di cui al terzo link appena segnalato a breve in un altro lavoro saranno aggiunti altri contributi di letterati salentini.
2 L’OPAC ne registra solo 4 esemplari.
#Armando Polito#Francesco Porrata Spinola#Vesuvio#Vincenzo Alsario della Croce#Vincenzo Sirigatti#Libri Di Puglia#Spigolature Salentine
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Gli Arcadi di Terra d'Otranto: Gregorio Messere di Torre S. Susanna (20/20)*
di Armando Polito
* Questo post corregge ed integra quanto apparso in http://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/23/gli-emblemata-di-gregorio-messere-1636-1708-di-torre-s-susanna-13/
http://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/25/gli-emblemata-di-gregorio-messere-1636-708-di-torre-s-susanna-23/
http://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/26/gli-emblemata-di-gregorio-messere-1636-1708-di-torre-s-susanna-33/
La prima biografia del nostro (1636-1708), originario di Torre S. Susanna1, è la Vita di Gregorio Messere Salentino detto Argeo Caraconasio scritta dal D. Gaetano Lombardo Napolitano detto Emio Caraconasio, in Le vite degli Arcadi illustri scritte da diversi autori, v. II, De Rossi, Roma, 1710, pp. 47-59, col testo preceduto dal ritratto che riproduco di seguito. Va rilevato, anzitutto, che al Caraconasio del titolo, replicato a p. 58 dove sono riportate due dichiarazioni di voto favorevole alla pubblicazione della biografia, a firma la prima di Milesio Meneladio (nome pastorale di Giusto Fontanini di Cividale del Friuli e di Faunio Stomiate (nome pastorale di Biagio Garofalo di Napoli), la seconda di Arato Alalcomenio (nome pastorale di Domenico De Angelis di Lecce), si oppongono il Choraconasio della didascalia del ritratto e il Coraconasio presente in una delle pagine iniziali, non numerate, dell’indice.
C(OETUS) U(NIVERSI) C(ONSULTO)
ARGEO CHORAGONASIO PASTORI ARCADI
D(E)F(UNCTO) PHILOLOGO EMIUS CHORAGONASIUS
PASTOR ARCAS PRAECEPTORI ET
DECESSORI B(ENE) M(ERITO) P(OSUIT)
OLYMPIAD(E) DCXXI AN(NO) III AB A(RCADIA) I(NSTAURATA)
OLYMPIAD(E) V AN(NO) II
(Per decisione dell’intera assemblea/ad Argeo Coragonasio pastore arcade filologo defunto Emio Coragonasio, pastore arcade, al maestro e predecessore benemerito pose. Olimpiade 621a del terzo anno dall’istituzione dell’Arcadia/Olimpiade quinta anno secondo2)
Ai due angoli inferiori il nome degli autori: P(etrus) L(eo) Ghezzius del(ineavit)=Pietro Leone Ghezzi disegnò e D(ominicus) Franceschini sculpsit=Domenico Franceschini incise. Il Franceschini, tra i più famosi incisori Romani del XVIII secolo, fu autore, fra gli altri, del frontespizio di Collectanea antiquitatum Romanarum quas centum tabulis aeneis incisas et a Rodulphino VenutiAcademico Etrusco Cortonensi notis illustratas exhibet Antonius Borioni, Bernabo, Roma, 1736. La sua arte immortalò anche in una incisione donata a Vincenzo Giustiani l’uccisione di un capodoglio avvenuta nei pressi del porto di Pesaro il 18 aprile 1713, secondo la notizia che si legge in una lettera indirizzata da Vito Procaccini Ricci a Ottaviano Targioni Tozzetti e pubblicata in Giornale di fisica, Chimica, Storia naturale, Medicina ed arti, decade II tomo VIII, Fusi, Pavia, 1825, p. 46. Pier Leone Ghezzi è famoso per gli affreschi di Villa Falconieri a Frascati e per le caricature. Le sue opere raggiunsero quotazioni elevate mentr’era ancora in vita. Non era digiuno di poesia se nel 1702 sul retro del suo primo autoritratto (1702) vergò questi versi: Pier Leone son io/di casa Ghezzi che dì 28 giugno/quando al mille e seicento/anni settanta quattro ancor/s’aggiunse io nacqui e si congiunse/a questi l’età mia di vent’ott’anni/ch’ora nel mille settecentoedue/mi mostra il tempo, e le misure sue./Or mentre questo fugge e mai s’arresta/io mi rido di lui e mi riscatto/col dar perpetua vita al mio ritratto.
In Vittorio Giovardi3, Notizia del nuovo teatro degli Arcadi aperto in Roma l’anno MDCCXXVI, Antonio De Rossi, Roma, 1727, p. 21-22: Voltando la fronte verso il Portone si comincia a godere della veduta di Roma, e insensibilmente salendovi si rimirano a destra, e a sinistra ripartiti in quattro quadrati i folti Lauri, che dividendosi, formano di quà4 , e di là due brevi, ma spaziosi viali, al fine dei quali con vaga, e propria simmetria vengono collocate le Lapidi di Memoria de’ nostri defunti Pastori, che in numero fin’ora di quarantadue sono state dalla nostra Adunanza inalzate, e sono le seguenti …
Questa trascrizione appare decisamente sciatta, tanto più che si presume frutto di un esame autoptico. Sorprende non tanto CHORAGONASIO/CHORAGONASIUS quanto PHILOGO, errore di cui ci si dovette accorgere troppo tardi, visto che si rimediò dopo qualche decennio, essendo custode dell’accademia Michele Giuseppe Morei, in Memorie istoriche dell’adunanza degli Arcadi, De Rossi, Roma, 1761, p. 133, dove, però, permangono CHORAGONASIO/CHORAGONASIUS.
Apprendiamo, così, che il dedicatore della tavola fu Emio Coragonasio, nome pastorale di Gaetano Lombardo di Napoli, cioè l’autore di questa prima biografia, che nella seconda parte del nome pastorale assunse quella del suo maestro, il che appare confermato dal fatto che in L’Arcadia del can. Gio. Mario Crescimbeni, Antonio De’ Rossi, Roma, 1708, p. 116 compare solo la prima parte (Emio)5. Chi pensa che su Coragonasio il discrso finisce qui, si sbaglia di grosso.
In Domenico De Angelis, Le vite de’ letterati salentini, s. n., Firenze, 1710, v. I, a p. 167 leggo: nostro saggio, e dotto Emio Caraconasio.
In Acta Eruditorum anno MDCCXIII, Muller, Lipsia, 1713, a p. 502 si legge Argeus Carconasius.
In Dell”istoria della volgar poesia scritta da Giovan Mario Crescimbeni, Basegio, Venezia, 1730, v. V, a p. 316 si legge Argeo Caraconasio e a p. 365 Argeo Coraconasio.
In Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, a cura di Domenico Martuscelli, Gervasi, Napoli, 1817, s. p., in cui è inserita la seconda biografia di cui ci occuperemo fra poco, si legge: Argeo Caraconessio e il bello è che dopo qualche parola si fa riferimento preciso (con citazione della p. 47) alla prima biografia con cui ho iniziato.
E poteva mancare, a questo punto, l’Argeo Caroconasio che si legge in Versi d’occasione e scritti di scuola/ Giambattista Vico ; con appendice e bibliografia generale delle opere a cura di Fausto Nicolini, Laterza, Bari, 1941, p. 42?.
In conclusione: mi pare che la forma corretta tra tante, esclusa l’ultima, pressoché contemporanee, debba individuarsi in Coragonasio, non solo per il carattere “ufficiale” del ritratto ma anche perché esso fu il secondo nome pastorale (il primo è Astildo), oltre che, come s’è detto, del Lombardo, anche di Giovanni Battista Lanfranchi Lanfreducci di Pisa.
Definito questo dettaglio (ma le altre varianti sono solo per il momento accantonate) , prima di accennare alla seconda biografia, cercherò di dare ragione del nome pastorale nelle sue due componenti.
Argeo è piuttosto ambiguo (e tale ambiguità, forse, anche in questo caso fu assunta ad arte) perché può derivare direttamente dal latino Argeus=argivo (Argo era considerata dai Greci come la loro città più antica), ma Argo era anche il nome del mostro della mitologia greca, fornito di molti occhi (e in senso figurato può valere come persona alla quale nulla sfugge). Come non pensare, però, pure al greco ἀργός (leggi argòs), che significa splendente, luminoso e al suo omofono che significa pigro? Tutto ciò, secondo me, è perfettamente in linea col Gregorio ironico ed autoironico tramandatoci dalle biografie, col suo spirito direi socratico, consapevole dei suoi mezzi ma anche dei loro limiti. E questo, sempre secondo me, spiega abbondantemente il fatto che di lui non ci sia rimasta nessuna opera autonoma, ma solo componimenti in versi, inseriti, come vedremo, in raccolte curate da altri6.
Coragonasio (parto dalla variante che ho appena ritenuto la più attendibile) appare come forma aggettivale di Coragonaso. La seconda parte dei nomi pastorali spesso è legata ad un toponimo (detto campagna, quasi ideale ambiente personale del socio che, com’è noto, era chiamato pastore), ma poteva pure evocare un personaggio del mito o contenere altri riferimenti più o meno criptici. Coragonasio (parto dalla variante che ho appena ritenuto la più attendibile) appare come forma aggettivale di Coragonaso. La seconda parte dei nomi pastorali spesso è legata ad un toponimo (detto campagna, quasi ideale ambiente personale del socio che, com’è noto, era chiamato pastore), ma poteva pure evocare un personaggio del mito o contenere altri riferimenti più o meno criptici. Escluso il toponimo7, si può supporre che sia un nome composto (poteva esserlo pure l’eventuale toponimo); e qui il ventaglio delle voci, tenendo conto pure delle varianti, che potrebbero entrare in campo, è abbastanza ampio: χώρος (leggi choros) o χώρα (leggi chora)=terra+ἀγών (leggi agòn)=lotta+ ἄζω (leggi azo)=rispettare; χορός (leggi choròs=coro)+le due altre componenti indicate per l’opzione precedente; per coraconasio: χώρος/χώρα+ἀκοναῖος (leggi aconàios)=pietroso oppure χορός+ἀκονάω (leggi aconao)=eccitare oppure κόραξ (leggi corax)=corvo+νήσιον (leggi nèsion)=isoletta; per Caraconasio il primo componente potrebbe essere κάρα (leggi cara)=testa. Lascio alla fantasia del lettore la possibile giustificazione semantica di ogni combinazione, convinto del fatto che solo l’interessato, qualora se ne fosse dato cura, avrebbe potuto lasciare un lumicino acceso a diradare, almeno in parte, le tenebre.
Di Andrea Mazzarella da Cerreto, invece, è la seconda biografia inserita nel tomo IV di Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, op. cit., preceduta dal ritratto, un’incisione, cosa ricorrente in questa raccolta, della scuola di Raffaello Morghen (1758-1833). Il nome pastorale che qui si legge è, come s’è detto, Argeo Caraconessio, per il quale, come se non bastasse quanto al riguardo s’è detto, potrebbe essere messo in campo come componente finale Νέσσος (leggi Nessos)=Nesso, il mitico centauro ucciso da Ercole.
S’è detto che del Messere non c’è neppure una pubblicazione esclusiva. Nella compilazione di quella che vuole essere ambiziosamente la documentazione testuale (per così dire dal vivo, con immagini in dettaglio tratte daile pubblicazioni originali) di tutta la produzione del nostro con l’aggiunta di qualche mia nota di commento, non trascurerò quanto da lui scritto prima del 1690 (data di fondazione dell’Arcadia), anche se la suddivisione adottata è, dal punto di vista artistico, piuttosto fittizia.
PRIMA DEL 1690
Sono tutti componimenti encomiastici, in distici elegiaci, di un’opera altrui, inseriti in questa, insieme con quelli di altri letterati, nelle pagine iniziali per lo più non numerate.
In Notizie di nobiltà. Lettere di Giuseppe Campanile8 Accademico Umorista et Ozioso indirizzate all’Illustrissimo et Eccellentissimo D. Bartolomeo di Capova Principe della Riccia, e Gran Conte di Altavilla etc., Luc’Antonio di Fusco, Napoli, 1672, s. p.:
(Del signor Gregorio Messere. Afflitto gemerà a causa delle lacrime di Partenope spuntate poiché la terra ha sepolto illustrissimi cavalieri. Frattanto passa a volo la fama e si sfiora le ali. Una piuma e solo una cade sul lido campano. Campanile è lì: prende la piuma caduta dal cielo, la prende e comincia a celebrare le gesta per gli uomini estinti. Lui comincia, gli eroi, abbandonate le tombe, cominciano a risorgere e ad essere elevati alle stelle mentre la morte manifesta il suo malcontento. Dico evviva Giuseppe! Ora lo grida l’illustre sirena; mentre tu fai tali doni, dico evviva. Evviva, ma vivrai in eterno: i tuoi scritti degni del cielo già ti hanno fatto meritare eterna vita)
In Giovanni Giacomo Lavagna, Poesie, Conzatri, Venezia, 1675, parte I, p. 245:
(Quale musa t’insegnò la poesia, quale sirena la musica? Quale fiume ti offrì un’acqua tanto dolce? Tu agiti il plettro: l’onda della Sebetidea immobile tace; pizzichi le corde: muovi le pietre e i cuori crudelib. O Lavagna, o sarai, lo dirò io, un poeta ismarioc o la lira ismaria a te è stata mandata dal cielo)
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a Patronimico, epiteto attribuito alla figlia del fiume Sebeto inteso come divinità.
b Così, secondo il mito, faceva Orfeo con la sua lira.
c Dell’Ismaro, monte della Tracia, dove, secondo le fonti più antiche, a Lebetra, era nato Orfeo.
In Tomaso di S. Agostino, Strada franca al cielo per il peccatore, Mollo, Napoli, 1677, s. p.:
(Se, dice il Poeta a, è facile la discesa dell’Averno ma tendere in alto questo è il compito, questa la fatica, con questo libro pra è facile la scalata dell’Olimpo né è una fatica andare verso il cielo)
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a Virgilio, Eneide, VI, 126-129: … facilis descensus Averno:/noctes atque dies patet atri ianua Ditis;/sed revocare gradum superasque evadere ad auras,/hoc opus, hic labor est. Da notare che Averni è la lezione di alcuni manoscritti abbandonata per Averno dagli editori moderni.
In Stefano Tropeano Sessa, Il palagio della sapienza fondato sù le sette colonne dell’arti liberali, Porsile, Napoli, 1680, s. p.:
(Per il nobile furto stellare di Stefano Tropeano Sessaa. Ora è tempo di sollevare audaci sguardi al cielo, ora di apprendere i vari moti degli astri. Il Toro percorre l’ultima orbita mentre le stelle brillano e il Capricorno è sommerso dalle acqueoccidentali. Arturo, Cefeo, Procione, Delfino, Orione, Auriga e Perseo, Pegaso, Andromeda e l’erculeo Leone ammirano il furto di suo nipote, furto degno della fatica di Prometeob. Piccolo uccello illustre nei segni di Archimede per il quale volle la sfera, mentre il cielo stupiva. Qui si affretti chi vuole essere un grande indovino: con questo libro da scorrere potrà conoscere cose acute)
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a Nel frontespizio del volume correttamente si dichiara che essa è una traduzione da Latino nell’Idioma Italiano dall’Opere manoscritte (sull’astrologia) del Dottissimo Sig. D. Fabrizio Sessa suo Zio, e maestro.
b Rubò il fuoco agli dei per donarlo rlo agli uomini. Zeus lo punì incatenandolo ad una rupe ai confini del mondo dove un’aquila gli rodeva di giorno il fegato ricresciuto durante la notte e poi facendolo sprofondare nel Tartaro, al centro della Terra. È uno dei simboli della lotta del progresso e della libertà contro il potere.
In Giovanni Canale, Amatunta, dedicata all’Illustrissimo Signore Antonio Magliabechi eruditissimo Bibliotecario del Serenissimo Cosimo Terzo Gran Duca di Toscana, Conzatti, Venezia, 1681, s. p.:
(Epigramma del tarantinoa Gregorio Messere. Come Arione canta tra i veloci delfini, come il Cigno canta presso le rive dell’Eridanob, così la zampogna del defunto Sinceroc cantò presso le onde, così prossima a Sincero canta la tua musa)
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a Segue l’opinione, errata, di Carlo Susanna, per cui vedi nota 1.
b Nome mitico e poetico del Po.
c È il nome del pastore personaggio principale dell’Arcadia di Iacopo Sannazzaro (1457-1530), dietro il quale si nasconde lo stesso autore, il cui nome umanistico era Actius Sincerus.
DOPO IL 1690
In Componimenti recitati nell’Accademia a’ dì 4 di Novembre ragunata nel Real Palagio in Napoli per la ricuperata salute di Carlo II, Parrino. Napoli, 1697, pp. 170-172.
(Mio re austriacoa insigne per devozione e valore militare, grazie al quale solo protettore la luna barbarab cadrà, giace con una gran debolezza negli anni giovanili. Onnipotente, avendo pietà, portagli aiuto! Ti muova il gemito del Libano, la flebile onda del Giordano, i pii voti di Sionc . Viva, e mi liberi dalle catene, cinte le tempie delle palme idumeed, importante si diriga alle stelle. Aveva detto Gerusalemme in lacrime. Tuona l’alto Olimpo, la malattia è scomparsa, viene l’amica salute)
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a Carlo II d’Asburgo (1661-1700) re di Spagna, dei territori spagnoli d’oltremare, nonché re di Napoli col nome di Carlo V. Fu di salute cagionevolissima.
b La mezzaluna, simbolo della potenza turca.
c Sineddoche per Gerusalemme, che è costruita sul monte Sion.
d Idumea era il nome di una contrada della Palestina.
(Smetti, o Vesuvio, di scuotere gli astri col terrificante gemitoa; placide acque del Sebeto, non addoloratevi; tu, Mergellina, dirigi sul monte le allegre danze: tu Antinianab, cingi le chiome di nitide rose! Toccate, o Sirene, toccate le corde dal dolce suono; o Amadriadic, giocate, o Nereidid, applaudite! O muse, aprite il Parnasoc e muovete i canti! O secolo felice! O giorno benigno! Vive la nostra salvezza,vive l’unica speranza del mondo: Carlo, gloria degli Austriaci, sta bene)
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a L’anno 1697 registrò un’intensa attività eruttiva del vulcano.
b Nome di una ninfa che Giovanni Pontano (1429-1503) s’inventò come trasfigurazione di Antignano, località sulla collina del Vomero, dove c’era la sua villa, in Ad Bacchum consecratio, quinto carme del secondo libro del De amore coniugali.
c Un particolare tipo di Driadi , cioè di Ninfe boscherecce, la cui vita dipendeva da quella delle querce. La voce è dal greco ἁμαδρυάδες (leggi Amadriuàdes), composto da ἄμα (leggi ama)=insieme+δρῦς (leggi driùs)=quercia.
d Ninfe acquatiche, figlie di Nereo.
e Monte della Grecia. Nell’antichità sacro ad Apollo e a Dioniso e considerato sede delle Muse,divenne simbolo della poesia.
(Tespiadia Muse, figlie di Giove, date inizio al canto, battete il barbitob o la lira. Sul Pindo eseguite danze coi morbidi piedi. Si gioisca delle argentee acque di Castaliad. L’austriaco Carlo, che lo splendente Apollo ha amato, Carlo, luce dell’Oriente e dell’Occidente, si è liberato della mancanza di forze, sta bene. O giorno armonioso, o età felice, o beata notizia!)
a Perché onorate a Tespie, città della Beozia.
b Specie di lira.
c Monte della Grecia sacro ad Apollo ed alle Muse.
d Mitica fanciulla di Delfi che per sfuggire ad Apollo si suicidò gettandosi in una sorgente presso il santuario di Delfi, che da lei ebbe nome. Coloro che si recavano a consultare l’oracolo dovevano compiervi un bagno di purificazione. Dai poeti romani le fu attribuita la virtù d’ispirare la poesia.
Lo stesso destino, quello di non comparire in una pubblicazione destinata solo a loro, toccò agli Emblemata, che risultano inseriti in Pompe funerali celebrate in Napoli per l’eccellentissima signora D. Caterina d’Aragona e Sandovale, duchessa di Segorbia, Cardona etc., con l’aggiunta di altri componimenti sul medesimo soggetto, Roselli, Napoli, 1697, pp. 57-68. Lo stesso volume, sul quale ritornerò più avanti, ospita pure alle pp. 185-189 altri componimenti del nostro, cinque in latino e due in greco. Il numero complessivo di pagine del volume ospitanti il Messere (17 su un totale di 165) è prova evidente del credito di cui egli godeva e in particolare l’estensione degli Emblemata (12 pagine) non avrebbe certo fatto gridare allo scandalo se l’autore li avesse pubblicati come un opuscoletto, tanto più che essi appartenevano ad un genere letterario che vantava nobili natali9. A tal proposito vale la pena approfondire. Emblèmata è voce latina trascrizione dal greco ἐμβλήματα (leggi emblèmata) plurale di ἔμβλημα (leggi èmblema). All’ἔμβλημα greco corrisponde in latino emblèma, da cui la voce italiana usata nel senso generico di simbolo. In greco la parola [derivata dal verbo ἐμβάλλω (leggi emballo)composto da ἐν (leggi en)=dentro e da βάλλω (leggi ballo)=gettare] indicava qualsiasi cosa inserita, come, fra l’altro le tessere del mosaico; tale significato passò in latino, dove emblema veniva chiamato l’intero mosaico. Ed è proprio partendo dall’idea delle tessere musive che è nato il significato generico moderno di simbolo[non a caso dal latino symbolu(m), trascrizione del greco σύμβολον (leggi siùmbolon), composto da σύν (leggi siùn)=insieme e dal già visto βάλλω . Ciò avvenne nel XVI secolo con l’avvento di un vero e proprio genere letterario che ha il suo antesignano in Andrea Alciato (1492-1550) e nei suoi Emblematum libellus10, raccolta di rappresentazioni simboliche accompagnate talora da un titolo e sempre da una didascalia per lo più in versi, il tutto in funzione moraleggiante.
Passeremo ora in rassegna i veri e propri emblemi contenuti nelle pp. 57-68, successivamente quelli delle pp. 185-189, che per comodità definirò spuri in quanto mancanti, a differenza degli altri, dell’immagine.
Ricapitolando: in base a quanto si legge nel frontespizio le Pompe in morte di Caterina sono dedicate a suo figlio Luigi della Cerda, discendente di Ludovico. I meriti di quest’ultimo sono indicati nella seconda dedica ed occupano la prima pagina della stessa e la parte iniziale della seconda. Luigi ricompare ancora in DI TANTO PRINCIPE, ma è evidente come la composizione tipografica faccia risaltare, con gradazioni diverse, il nome della defunta [DI D(ONNA) CATERINA D’ARAGONA] con quello che sembra essere il suo merito principale (DEGNISSIMA MADRE) e quello di Napoli (PARTENOPE) che le tributa l’omaggio.
Passo ora agli emblemata spuri delle pp. 185-189.
Tre suoi componimenti, sempre in distici elegiaci (il primo in latino, gli altri in greco), sono in Componimenti in lode del giorno natalizio di Filippo V, Re di Spagna, di Napoli, etc. recitati a dì XIX di Decembre l’anno MDCCIV nell’Accademia per la Celebrazione di esso Giorno nel Real Palagio tenuta dall’illustriss. ed eccellentiss. Signor S. Giovanni Emanuele Pacecco Duca di Ascalona, Vicerè, e Capitan Generale del Regno di Napoli, Niccolò Bolifoni, Napoli, 1705, pp. 259-261:
(Quando l’alma genitrice partorì dall’augusto grembo FILIPPO DI BORBONE a, le fatidiche Parche tessendo gli aurei filib dissero: – Nasci, nasci, grande fanciullo. Ti attendono come re i duplici confini del mondo, quelli dell’Europa da soli non sufficienti al tuo impero)
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a Filippo V. figlio di Luigi, il gran Delfino, e di Anna Maria di Baviera, nonché nipote di Luigi XIV, era nato nel 1683 e diventerà re di Spagna nel 1700. Qui si direbbe che il Messere riveli doti profetiche, se non fosse più che normale per un rampollo di discendenza reale l’augurio che il salentino gli esprime nei due versi finali.
b Nella mitologia greca le tre Parche (Cloto, Lachesi ed Atropo) rispettivamente tessevano, misuravano e tagliavano il filo simboleggiante la vita di ogni uomo. Si fosse trattato di un poveraccio, il filo sarebbe stato di materiale infradiciato; trattandosi di un futuro re, poteva non essere d’oro?
(Filippo, re potente e buono delle regioni occidentali, amato allo stesso modo dagli dei e dagli uomini, oggi è nato presso le dolci sponde del Rodano. Correte, Muse dell’Olimpo, incoronate i capelli di fiori primaverili, battete le corde dal bel suono, ascoltate anche le notizie della nascita del Borbone, ascoltate! Egli certamente con molte vittorie, con molti trionfi farà giungere di nuovo l’età dell’oro sulla terra)
(Per la nascita dello stesso monarca. Quando il sole è nel segno del toro nella stagione primaverile spunta la rosa, ma dura poco. Il fiore borbonico nato nel bel mezzo dell’inverno è sempre rigoglioso di foglie di oro)
Un distico elegiaco funge da didascalia al ritratto di Antonio Sanfelice senior (1515-1570) frate minorita autore di Campania uscito per i tipi di Cancer a Napoli nel 1562. Il ritratto è a corredo dell’edizione curata da Antonio Sanfelice iunior (vescovo di Nardò dal 1707 al 1736) uscita per i tipi di Giovanni Francesco Pani a Napoli nel 1726 e dedicata dal fratello di Antonio, architetto, a Benedetto XIII. In basso a destra si legge And(reas) Maillar sc(u)lp(sit)=Andrea Maillar incise. Il Maillar, nato a Napoli verso il 1690, incise soggetti storici alla maniera di Solimena e , fra gli altri ritratti, anche quelli dei membri della famiglia Carafa. Il concittadino architetto Giovanni De Cupertinis m’informa che il disegno del ritratto del frate fu eseguito dall’architetto Ferdinando Sanfelice, che per l’occasione realizzò un bozzetto a penna, acquerello e sanguigna, attualmente conservato presso il Gabinetto dei Disegni del Museo di Capodimonte di Napoli.
O utinam posset pingi, ut mortalis imago,/sic genus et Pietas, CUIUS ET INGENIUM./d. Gregorius Messerius.
Volesse il cielo che si potesse dipingere come l’immagine mortale così la nobiltà e la devozione e la sua indole.
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1 Carlo Susanna erroneamente lo crede tarantino in Vita di Carlo Buragna inserita in Poesie del Signor D. Carlo Buragna, Castaldo, Napoli, 1683, s. p. e pure, probabilmente da lui attingendo, Giangiuseppe Origlia Paolino in Istoria dello studio di Napoli, Giovanni Di Simone, Napoli, 1754, v. II, p. 102.
2 Antonio Caraccio, l’arcade di Nardò, op. cit., p. 58 n. 27
3 Di Veroli; il suo nome pastorale era Zetindo Elaita. Nell’opera descrive il Bosco Parrasio, la villa fatta costruire dall’accademia, grazie alla munificenza di Giovanni V di Portogallo. Fu la sua prima sede stabile, inaugurata il 9 settembre 1726. Dal volume la tavola che segue: disegno di Antonio Canevero, incisione di Vincenzo Franceschini (Roma 1680-Firenze 1740; quest’ultimo, della stessa famiglia di Domenico autore del ritratto inserito nel volume del 1710, risulta vincitore del primo premio della terza classe della pittura nel 1711 (Le belle arti pittura, scultura, e architettura, compimento, e perfezione delle bellezze dell’universo mostrate nel Campidoglio dall’Accademia del disegno il dì 24 settembre 1711, essendo Principe della medesima il Sig. Cavalier Carlo Marattti e Viceprincipe il Signor Cavalier Carlo Francesco Person. Relazione di Giuseppe Ghezzi pittore, e segretario accademico e fra gl’Arcadi Afideno Badio dedicata dagl’Accademici alla Santità di N. S. Clemente XI Pont. Ott. Mass., Zenobi, Roma, 1711, s. p.
4 Forma in uso fino agli inizi del XX secolo.
5 Così anche in Vincenzo Lancetti, Pseudonimia ovvero tavole alfabetiche de’ nomi finti o supposti degli scrittori con la contrapposizione de’ veri, Luigi Di Giacomo Pirola, Milano, 1836.
6 In prosa ci restano tre lezioni tramandateci da un manoscritto settecentesco in due volumi (mss. 9221 e 9222), custodito presso la Biblioteca Nazionale di Spagna, intitolato Raccolta di varie lezioni accademiche sopra diverse materie, recítate nell’Accademia dell’Eccmo. Signore Duca di Medina Celi & c., Vicere et Capitan Generale 6 C. nel Regno di Napoli. Nel primo volume: Dell’Imperador Nerva Cocceio (carte 168r-174v) e Della vita di Trajano Imperadore (carte 175r-199v); nel secondo: Della poesía (carte 195r-203v). La raccolta è stata pubblicata a cura di Michele Rak per dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici a Napoli dal 2000 al 2005.Nel manoscritto si leggono pure lezioni di altri arcadi: Giuseppe Valletta (nome pastorale Bibliofilo Atteo) Sopra la vita dell’Imperadore Galba Ragionamento 1° cc. 36r-48v, Ragionamento 2° carte 49r-59v, Ragionamento 3° carte 60r-69v, Della vita dell’Imperadore Pertinace lezione unica cc. 355r-363v, Della vita di Massimino Imperadore carte 364-374, Della vita di Gordiano Imperadore carte 375r-384v, Della vita di Aurelio Alessandro Severo Imperador di Roma carte 385-393; Niccolò Crescenzi (nome pastorale Liburno Sopra la vita di M. Aurelio filosofo Lezione 1a carte 255r-262v, lezione 3a carte 263r-271v, lezione 4a carte 272r-282v, Della vita dell’Imperador Lucio Antonino Commodo (carte 283r-312v, Considerazioni su l’lmperio di M. Didio Severo Giuliano Imperador di Roma carte 313r-323v), Della vita di Settimio Severo Imperador Romano carte 324r-335r, Della vita di Aurelio Antonino Bassiano detto Caracalla (carte 336r-342v), Considerazione sopra la vita e l’Imperio di Opilio Macrino carte 343r-354v; Filippo Anastasio (nome pastorale Anastrio Liceatico) Intorno all’arte nautica carte 183r-194v; Giuseppe Antonio Cavalieri (nome pastorale Floridano Ateneio) Delle Sibille carte 216r-228v; Giuseppe Lucina (nome pastorale Filomolfo Corebio) Dell’agghiacciamento e della cagione di quello carte 236r-245v.
Le lezioni sulla poesia sono conservate pure in un manoscritto (ms. XII G. 58)custodito presso la Biblioteca Nazionale di Napoli.
7 Vorrei tanto chiedere all’autore della scheda in wikipedia
(https://it.wikipedia.org/wiki/Gregorio_Messere), dove si legge Coraconasio, “dalle campagne dell’isola Coraconaso”, visto pure il virgolettato, da dove ha tratto il nome di questa fantomatica isola. La disgrazia è che in rete l’invenzione in rete è destinata a diventare infezione molto più rapidamente di quanto succede con la carta stampata.
8 Pubblicò anche:
Parte prima delle poesie, Cavallo, Napoli, 1648.
Prose varie, divise in Funzioni Accademiche, mandate al Sig. D. Francesco Carafa Principe di Belvedere, in ettere Capricciose al Sig. Principe di Sant’Agata D. Pietro Farao, in Dialoghi morali a’ Sign. D. Pietro, e D. Lorenzo Casaburo, suoi Amici, Luc’Antonio di Fusco, Napoli, 1666.
9 Tanto più che, a quanto ne so, fu l’unico salentino ad applicare originalmente questo genere alla commemorazione funebre, quasi una versione dotta dei “ricordi” in uso ancora oggi spesso con l’immagine del defunto (in passato un’altra con il tema cristiano della morte e della resurrezione) e una frase più o meno importante, per lo più una citazione di carattere sacro, raramente poche semplici parole. Da aggiungere anche all’originalità l’abilità nel trattare ripetutamente in modo non banale lo stesso tema. Al solito, dominante sottofilone filosofico-letterario, invece, è da ascrivere l’unico emblema di un altro salentino, il neretino Alberico Longo, inserito nell’opera di Achille Bocchi (alle pp. CCCXL-CCCXLI) registrata nella nota successiva a questa.
(FILOLOGIA SIMBOLICA. Dì che bisogna avere
grande indulgenza per le fatichea)
10 Wechel, Parigi, 1534. Solo nel corso del XVI secolo l’opera contò altre 8 edizioni. Ne seguirono 6 nel secolo successivo, in cui ne uscì pure una (la prima e l’ultima che conosco) con la traduzione in italiano di Giacomo Pighetti (tozzi, Padova, 1626). Dopo l’Alciato, solo per citare i nomi più importanti:
Achille Bocchi, Symbolicarum quaestionum libri quinque, Società tipografica Bolognese, Bologna, 1574
Cesare Ripa, Iconologia overo descrittione dell’immagini universali cavate dall’antichità et da altri luoghi, Eredi di Giovanni Gigliotti, Roma, 1593 (altre 8 edizioni nel secolo XVII)
Jean Jacques Boissard, Emblematum liber, Theodor de Bry, Francoforte sul Meno, 1593
Giorgio Camerario, Emblemata amatoria, Tipografia Sarcinea, Venezia, 1627
Non tardarono a mancare, data l’ampiezza di scelta del materiale pubblicato e del successo editoriale del genere, i compilatori fin dal secolo XVII; basti citare Filippo Piconelli, Mondo simbolico, Pezzana, Venezia, 1678 (650 pagine escludendo i corposissimi indici).
(FINE)
Per la prima parte (premessa): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/
Per la seconda parte (Francesco Maria dell’Antoglietta di Taranto):
https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/15/gli-arcadi-di-terra-dotranto-2-x-francesco-maria-dellantoglietta-di-taranto/
Per la terza parte (Tommaso Niccolò d’Aquino di Taranto):
https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/23/gli-arcadi-di-terra-dotranto-3-x-tommaso-niccolo-daquino-di-taranto-1665-1721/
Per la quarta parte (Gaetano Romano Maffei di Grottaglie):
https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/31/gli-arcadi-di-terra-dotranto-4-x-gaetano-romano-maffei-di-grottaglie/
Per la quinta parte (Tommaso Maria Ferrari (1647-1716) di Casalnuovo): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/08/16/gli-arcadi-di-terra-dotranto-5-x-tommaso-maria-ferrari-1647-1716-di-casalnuovo/
Per la sesta parte (Oronzo Guglielmo Arnò di Manduria, Giovanni Battista Gagliardo, Antonio Galeota e Francesco Carducci di Taranto):
https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/08/26/gli-arcadi-di-terra-dotranto-6-x-oronzo-guglielmo-arno-di-manduria-giovanni-battista-gagliardo-antonio-galeota-e-francesco-carducci-di-taranto/
Per la settima parte (Antonio Caraccio di Nardò):
https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/17/gli-arcadi-di-terra-dotranto-7-x-antonio-caraccio-di-nardo/
Per l’ottava parte (Donato Capece Zurlo di Copertino): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/21/gli-arcadi-di-terra-dotranto-8-x-donato-maria-capece-zurlo-di-copertino/
Per la nona parte (Giulio Mattei di Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/28/gli-arcadi-di-terra-dotranto-9-x-giulio-mattei-di-lecce/
Per la decima parte (Tommaso Perrone di Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/03/gli-arcadi-di-terra-dotranto-10-x-tommaso-perrone-di-lecce/
Per l’undicesima parte (Ignazio Viva di Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/11/gli-arcadi-di-terra-dotranto-ignazio-viva-di-lecce-11-x/
Per la dodicesima parte (Giovanni Battista Carro di Lecce):
https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/18/gli-arcadi-di-terra-dotranto-12-x-giovanni-battista-carro-di-lecce/
Per la tredicesima parte (Domenico de Angelis di Lecce):
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Per la quattordicesima parte (Giorgio e Giacomo Baglivi di Lecce):
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Per la quindicesima parte (Andrea Peschiulli di Corigliano d’Otranto): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/31/gli-arcadi-di-terra-dotranto-15-x-andrea-peschiulli-di-corigliano-dotranto/
Per la sedicesima parte (Domenico Antonio Battisti di Scorrano): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/05/gli-arcadi-di-terra-dotranto-16-x-domenico-antonio-battisti-di-scorrano/
Per la diciassettesima parte (Filippo De Angelis di Lecce):
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Per la diciottesima parte (Mauro Manieri di Lecce) https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/12/02/gli-arcadi-di-terra-dotranto-18-x-mauro-manieri-di-lecce/
Per la diciannovesima parte (Felice Zecca di Lecce, Tommaso possente di Trepuzzi, Riccardo Mattei e NiccolòArnone di Alessano):
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Testimonianze culturali della presenza ebraica in terra d’Otranto tra IX e XVI secolo
di Cristina Manzo
Si trovano nel codice ebraico di Parma le più antiche tracce della lingua salentina a noi conosciute. Risalgono al 1072 e qui di seguito ecco alcuni dettagli di quel manoscritto, che è fra i più importanti e anche meno conosciuti della storia (in parte dimenticata) del nostro bel Salento.
Il salentino usato in queste glosse fa riferimento alle consuetudini agricole, ed è scritto in un misto fra latino e volgare, con parecchi messapicismi rilevabili dai nomi di alcune piante come ad esempio nelle citazioni : “lenticla nigra, cucuzza rutunda, cucuzza longa … tricurgu, scirococcu”.
Altre glosse specificano le diverse operazioni che si possono fare nella coltivazione (pulìgane: “tagliano le sporgenze dell’albero”; sepàrane: “staccano le foglie secche”; assuptìgliane: “coprono di terra fine le radici che si sono scoperte”)1
Fig.1,Il manoscritto contiene 154 glosse dell’XI secolo scritte con caratteri ebraici, proviene dall’accademia talmudica di Otranto ed è databile intorno al 1072. Probabilmente è il più antico manoscritto completo esistente della Mishnà, talora indicato come manoscritto di Parma A” di quest’opera. Copiato con caratteristiche ortografiche palestinesi in Otranto nel 1072/1073, in scrittura quadrata italiana, con glosse salentine di mano dello scriba principale. Appartenne a Mosheh ben Benjamin Finzi, ed era rilegato insieme al manoscritto Vaticano ebraico 31 contenente il Sifra [2] .
Sembra molto probabile che gli ebrei cominciassero a prendere stabile dimora nell’Italia meridionale quasi nello stesso tempo che a Roma. Per recarsi dall’oriente a questa città dovevano generalmente sbarcare a Brindisi o a Pozzuoli e per la via Appia attraversare l’antica Calabria, cioè Terra d’Otranto, e poi la Puglia, il Sannio e la Campania. Se liberi cittadini e dediti al commercio, potevano, almeno alcuni, restare o tornar subito in altre regioni, allettati dalla fertilità del suolo e dalla floridezza delle città marittime; se prigionieri di guerra e schiavi, potevano invece, anche in parte, esservi mandati a coltivare i latifondi posseduti dai romani.
Come è risaputo nel 70 dopo Cristo, avendo Tito distrutto Gerusalemme, moltissimi palestinesi furono venduti come schiavi sui mercati d’oriente e d’occidente, e di essi una parte venne trasferita in Italia. Infatti Josiffon, o lo pseudo Giuseppe, nel decimo secolo, afferma che Tito ordinò a circa cinquemila prigionieri di guerra di stabilirsi a Taranto, in Otranto e altrove; e il cronista Achimaaz, del secolo undecimo, vede in tali prigionieri palestiniani l’origine della comunità giudaica di Oria, sua patria.
“Nelle varie città di Puglia e di Calabria adunque, gli ebrei costituivano «plurimos ordines», erano quindi numerosi3. Secondo Achimaaz, Oria avrebbe accolto i primi ebrei dopo la distruzione di Gerusalemme e sarebbe stata la culla de’ suoi antenati.
Primo tra questi Amitthai rabbino, poeta e teologo. Inoltre, nell’assedio posto a Oria da’musulmani nel 925, come già a Napoli contro Bellisario, i più strenui difensori della città furono gli ebrei ed essi più che altri subirono gli effetti della sconfitta, fatti schiavi, dispersi, Donolo un fanciullo di dodici anni allora, fu con molti altri condotto schiavo a Taranto o ad Otranto.
Donolo, tuttavia divenne medico illustre e scrisse numerose opere di astrologia e astronomia e fu il primo che nel mondo giuridico trattò di materie scientifiche nell’antica lingua nazionale. Le due città, in una delle quali egli sarebbe stato condotto schiavo da Oria e poscia restituito alla libertà, furono già additate entrambe come asili primitivi di gerosolimitani prigionieri, Taranto riapparirà stanza di ebrei nella prima metà del secolo XI. Meglio ancora, Otranto è accoppiata a Bari, e l’una e l’altra elevate ad una grande importanza da un proverbio che un celebre rabbino francese del XII secolo citava già come sentenza antica. Il proverbio diceva: «Da Bari esce la legge, e la parola di Dio da Otranto»4 .
Tra gli episodi che si conoscono, spiccano per importanza sempre quelli che evidenziano i contatti e le interrelazioni culturali tra Terra d’Otranto e Costantinopoli, o Terra d’Israele e Africa settentrionale. Sembra evidente che in tali contesti i protagonisti delle vicende si trovino perfettamente a loro agio sia che si tratti di emiri islamici che di imperatori greci, sottintendendo quindi che appartenga loro quella naturalezza e quell’attitudine proprie della conoscenza delle molte lingue diverse utili, nella comunicazione scritta e orale. Inoltre, “Shabbetày Donnolo, nell’introduzione al suo Sèfer hakmonì ( cioè il Libro del sapiente, di colui che sa, conosce), afferma di aver tratto ispirazione da opere composte in greco e in arabo5 (degno di nota il fatto che mentre nella prima fonte il Donolo è riportato con una sola n, nella seconda fonte ne ha due, Donnolo).
Questi due centri erano dunque i due focolai della civiltà giudaica. Innegabilmente in Puglia, gli ebrei si estesero di molto durante il periodo normanno-svevo. A Lecce si stabilirono presso la chiesa di S. Irene, ed a Brindisi e a Oria continuarono a spiegare la loro nota attività. Maggiore prosperità godettero a Taranto.
A Bari, poi, data la loro notevole importanza, il duca Roberto ne incluse i redditi nella dote di sua moglie Sigelgaita che, alla morte del duca, li sottopose alla giurisdizione dell’arcivescovo, che fu il secondo, quindi, alla morte di lei, ad ottenere la giudeca, (per la salvezza della sua anima). L’esempio di Bari, avrebbe fatto scuola, e in Puglia vennero poscia, nel 1093, il vescovo di Melfi e l’arcivescovo di Otranto e più tardi quelli di Ascoli e di Trani. A Melfi gli ebrei accorsero numerosi dacché la città fu scelta come capitale della contea di Puglia. Nel 1165 erano 200 e nel medesimo anno ad Otranto 500. Ad Ascoli, cominciarono sotto Guglielmo II a pagare al vescovo i contributi detti plateatici derivanti dalle merci che essi e quanti altri correligionari recavansi dai dintorni vendevano in paese ed a Candela6.
Quindi, tra i più antichi insediamenti della diaspora europea occidentale, le comunità ebraiche sono attestate in Terra d’Otranto fin dall’epoca imperiale romana. La presenza di nuclei ebraici nella Puglia meridionale è in larga parte da associare all’importanza del porto di Brindisi per le comunicazioni con il Mediterraneo orientale. In età medievale il rilievo dei porti pugliesi per il transito di merci e viaggiatori verso la penisola balcanica e l’Oriente (in particolare all’epoca delle Crociate) fu parimenti responsabile della fioritura di numerosi centri di cultura ebraica nella regione adriatica.[…]
Si dovrà ricordare che Terra d’Otranto e Calabria rimasero più a lungo di altre regioni del Meridione d’Italia peninsulare nella sfera diretta d’influenza politica dell’impero Romano d’Oriente e che comunità ellenofone sono rimaste vitali fino ai nostri giorni nel Salento. Le dispute medievali tra cristiani ortodossi ed ebrei nell’area potrebbero essersi svolte appunto in tale lingua. È significativo, tuttavia, che nel dibattito polemico (1220) tra gli ebrei di Otranto e l’abate di Casole, Nicola-Nettario, quest’ultimo sottolinei che i suoi oppositori solevano parlare tra loro in ebraico, indicazione rilevante della persistenza della lingua santa nella comunicazione quotidiana e non solo in quella dotta o nella sfera liturgica.
Certamente l’attività di preghiera e di studio dei testi tradizionali nelle importanti scuole ebraiche locali si svolse sempre in ebraico, come dimostra il numero relativamente ampio di manoscritti, principalmente di carattere scientifico, copiati per uso didattico in Salento. […]
Le più antiche iscrizioni tombali rinvenute nel Salento, così come in altre aree della Puglia e della Basilicata, mostrano la costanza dell’uso affiancato del greco e dell’ebraico. Anche se la lingua ellenica fu impiegata sempre più raramente nell’epigrafia a partire dal VII secolo (in un primo momento a vantaggio del latino) tale fenomeno dovrà spiegarsi più come esito della tendenza degli ebrei europei a sottolineare la loro identità mediante il ricorso esclusivo alla lingua della Scrittura, piuttosto che alla perdita di consuetudine con l’idioma ufficiale dell’impero bizantino, utilizzato nei primi secoli dell’era volgare anche all’interno del rito giudaico7.
Gli ebrei che si insediarono in Puglia si trovarono ad intrattenere fiorenti commerci con gli altri ebrei che si erano stabilizzati nelle terre confinanti con la penisola italica, in base alla loro provenienza, all’interno della diaspora. Questo scambio di affari portò certamente un grande arricchimento culturale e linguistico, oltre a produrre una vicendevole testimonianza del loro passaggio e della loro vita in questi centri. Così a Costantinopoli, in Grecia o nei paesi Balcani o in luoghi dell’Africa settentrionale, sono conservati documenti che testimoniano la loro permanenza nel Salento, quanto nel Salento vi sono documenti che attestano l’inverso. Ed è grazie a questo ricco archivio, derivato dai contatti di scambio, che tutto il meridione può attingere a preziose fonti storiche che ne ricostruiscono le tappe, anche se, permangono enormi lacune in proposito.
A causa di questo scambio di commerci tutti gli ebrei erano costretti a conoscere più lingue, per potersi capire reciprocamente e per la partecipazione alle funzioni religiose, quindi nell’epoca più antica del loro insediamento in Terra d’Otranto è stato indispensabile per essi conoscere oltre al latino, il greco, l’ebraico e l’aramaico.
Nel I sec. e. v. durante l’impero di Augusto e Tiberio, la presenza di nuclei ebraici in Italia meridionale testimonia i rapporti tra Roma e terra d’Israele. La distruzione del Secondo Tempio di Gerusalemme, con la conseguente deportazione di famiglie illustri della capitale della Giudea, fece sì che nuovi gruppi giudaici, costretti a trasferirsi nella nostra penisola, venissero ad insediarsi nei centri portuali adriatici. Da questa migrazione, successiva alla deportazione voluta da Tito, gli ebrei salentini trassero motivo di vanto: essere ebreo pugliese significava discendere dall’aristocrazia sacerdotale di Gerusalemme.
La notizia dell’esistenza di un centro culturale ebraico nell’Italia del sud era a tal punto diffusa già nel Medioevo che a suo riguardo fu pronunciata quella celebre affermazione, di cui abbiamo già fatto menzione, riportata da Rabbenu Tam: «perché da Bari uscirà la Torà e la parola del Signore da Otranto».
Gran parte delle informazioni che permettono di ricostruire la tradizione liturgica dell’ebraismo salentino ci deriva dalla produzione innografica contenuta nel mahazor di Corfù.
Il minhag (rito) di Corfù si fonda sull’unione di varie componenti liturgico-letterarie che si vennero sovrapponendo nel corso dei secoli a mano a mano che ebrei di varie provenienze si stabilirono sull’isola jonica.
É da tempo nota l’affinità tra produzione innografica pugliese e corfiota, che in genere si ritiene spiegabile tenendo conto della diaspora sull’isola di profughi provenienti dall’Italia meridionale dopo i provvedimenti di espulsione del XVI secolo. Si deve ricordare, tuttavia, che i rapporti tra Corfù e il Salento sono documentabili già dalla fine del XIV e per tutto il XV secolo8.
Per avere un’idea dei canti degli ebrei di Corfù è necessario ricordare per sommi capi la storia dei vari gruppi ebraici che si sono insediati nell’isola nel corso dei secoli. Il gruppo ebraico più antico è quello dei cosiddetti ebrei Romanioti che non sono né aschenaziti né sefarditi e che si stanziarono in Grecia e nelle isole greche, Corfù compresa, più di 2000 anni or sono.
Gli ebrei sefarditi giunsero a Corfù dalla Puglia dopo il 1510, tollerati ancora per qualche anno in Italia dopo l’espulsione dalla Spagna: di livello sociale più alto, formarono una Comunità separata dai Romanioti. Questi ultimi non parlavano il ladino ma un dialetto greco; anche se godevano di particolari privilegi sino al 1660 e la loro comunità era più antica, furono di fatto quasi totalmente inglobati dagli ebrei. Come conseguenza anche il minhag sefardita si affermò rispetto al minhag bizantino più antico della comunità Romaniota. Gli immigrati sefarditi parlavano un dialetto misto di ladino, ebraico e pugliese e, dopo la conquista dell’isola da parte di Venezia nel 1386, anche di veneziano. Gli ebrei di Corfù hanno conosciuto sino a tempi molto recenti continue persecuzioni, discriminazioni e pericoli di ogni sorta. I loro canti si possono ancora ascoltare dal vivo nelle pochissime testimonianze pervenuteci e rivelano la storia travagliata di questa comunità ebraica sopravvissuta sino alle persecuzioni naziste e annientata come la maggior parte delle comunità della Grecia.
Questi canti, nella registrazione di uno degli ultimi ebrei di Corfù, hanno un carattere nettamente sefardita e dimostrano come l’elemento italiano di origine sefardita sia stato predominante a Corfù nei canti e negli usi linguistici corfioti, sopravvissuti oltre che a Corfù, anche a Tel Aviv (nell’unica sinagoga dove ancora è in uso il minhag di Corfù) e in parte a Trieste. Dove vivono ancora gli esuli da Corfù, si possono ritrovare gli echi di tutta la storia degli ebrei di quest’isola9.
La comunità ebraica di Lecce, la cui esistenza è attestata già nell’XI secolo, raggiunse la sua massima fioritura nel Quattrocento. Nonostante la distruzione del quartiere ebraico nel 1463, anno in cui gli ebrei, sottoposti alla pressione ecclesiastica, furono costretti alla fuga, la comunità fu ricostruita pochi anni dopo. Gli ebrei furono nuovamente espulsi a seguito dell’occupazione francese del Regno di Napoli nel 1495. Due anni dopo, la sinagoga di Lecce fu trasformata in chiesa e in ospedale.
Il decreto di espulsione degli ebrei del Regno di Napoli promulgato nel 1510 colpì ovviamente anche gli ebrei leccesi. Nel 1520 uno sparuto gruppo di ebrei si reinsediò nella città rimanendovi fino al 1541, anno dell’espulsione definitiva di tutti gli ebrei dall’Italia meridionale.
Informazioni sulla vita culturale della comunità di Lecce e di altri centri salentini nel corso del XV secolo ci vengono trasmesse dai vari manoscritti ebraici copiati alla fine del medioevo nella città e nei dintorni. Dai pochi dati dei manoscritti è difficile giungere a descrizioni esaustive della vita nell’ambiente ebraico salentino. Ad ogni modo i codici che analizzeremo in questo contributo testimoniano il precipuo interesse degli ebrei locali per la medicina, le scienze e la filosofia.
Si conoscono dieci copisti ebrei attivi a Lecce e nell’area salentina in un periodo che si estende per poco più di un secolo (1384-1494):
1) –‘Eliyyahu ben Dawid nezer Zahav ‘ibn Šoham, di origine bizantina. Di lui si conservano quattro manoscritti copiati negli anni1384-1425: il più antico, copiato a Valona, contiene una miscellanea di opere aggadiche, halachike, omiletiche e cabbalistiche, poi copiò per suo figlio le omelie di Yehošua ‘ibn Šu ‘aib, poi Il Trattato Zikron tov (buona memoria) commento letterale midrašico e cabbalistico al Pentateuco di Natan ben Šemu ‘el ha Rofe e Il Sefer ha-zikronot (libro dei ricordi), commento al Pentateuco di Avraham ibn Ezra.
2) – Dawid ben‘Eliyyahu nezer Zahav‘ibn Mu’allam, figlio del precedente, abitò a Lecce, dove ebbe un incarico significativo nella comunità e in altre città del Salento. Si conservano due manoscritti da lui copiati. Il più antico è una miscellanea medica (copiato a Specchia, nel basso Salento) e il secondo è una raccolta di scritti astronomici.
3) – Crescas Qalonymos di origine iberica, copiò a Lecce per il padre Crescas Me’ir Qalonymos (fine 1437) due opere di ‘Avraham bar Hiyya: I fondamenti della conoscenza e la torre della fede (trattato di filosofia) e Misura lineare e geometria (un’opera di matematica).
4) – Ya’aqov ben ‘Avraham ha-Kohen, copista di origine iberica. Di lui restano due manoscritti copiati a Lecce. Il primo è un’opera astrologica, il secondo comprende due opere mediche: il Canone di Avicenna (primo libro) e i capitoli di medicina di Guglielmo di Saliceto.
5) – Menahem ‘Amon ben Yishaq, copista di origine bizantina. Nel [5]201(1441)copiò a Lecce il secondo libro del Canone di Avicenna, nella versione ebraica di Yosef ben Yehošua’ha-Lorqi.
6) – Yešu’à ben Dawid ha-Kohen, copista di origine iberica. Ci restano undici manoscritti da lui copiati a Lecce e in altre località pugliesi, tra il 1452 e il 1478. Due di questi trascritti a Nardò (Libro dei capitoli di Ippocrate = aforismi, con il commento di Galeno, e due opere di medicina composte da Bernardo di Gordon) e poi completati a Gallipoli, e uno a Taranto (l’Antidotario), opera di medicina.
7) – Šelomo ben Nahman, copista di origine bizantina, copiò a lecce un libro di preghiera, un Siddur.
8) – Yiṣḥac ben Ša’ul, copista di origine iberica, copiò il Libro dei fondamenti di Euclide.
9) – Yiṣḥac ben Natan Kohen, copiò a Taranto tre miscellanee cabalistiche, “Completato qui, nella città di Taranto del regno di Napoli, martedì 3 Kislew dell’anno “voto” [(5)254], nel secondo anno dell’esilio dalla Spagna”.
10) – Un medico anonimo di origine iberica, copiò a Massafra per uso personale Il commento ai salmi di Dawid Qimḥi10.
Degli ebrei più illustri dell’Italia Meridionale è generalmente noto agli studiosi un Abraham, figlio del rabbino Meir o Mayr de Balmes, nato a Lecce, medico valente, filosofo, traduttore, grammatico, e professore nell’università di Padova. Egli contribuì a diffondere tra gli umanisti le dottrine filosofiche arabe, specialmente mediante pregevoli traduzioni dall’arabo in latino di numerose opere di Averroe. Come grammatico poi, dette nuovo e più razionale indirizzo allo studio della lingua ebraica, trattando per primo, tra i suoi connazionali separatamente e in modo speciale della sintassi. Abramo de Balmes, non solo era medico perché chiamato “Magister”, come tutti gli altri medici, ma era anche medico illustre e benemerito, perché godeva dei “privilegi” i quali, combattuti dall’università di Lecce gli furono, dal sovrano, riconfermati. E, si noti bene che, dicendosi essere stati questi privilegi concessi dai predecessori di Alfonso II e confermati da Ferdinando I, si deve risalire, per la data della loro prima concessione agli ultimi Angioini e ad Alfonso d’Aragona. Sicché il Balmes fioriva indiscutibilmente verso la fine della prima metà del secolo XV (il 12 novembre 1472, veniva nominato a vita e con l’annua provvigione di 300 ducati, medico della famiglia reale), estendendo i suoi privilegi anche ai sui successori11. A Lecce, vi è una via a lui dedicata, “Via Abramo Balmes”.
All’interno del Cimitero Monumentale di Lecce, voluta da Tancredi d’Altavilla, conte di Lecce e ultimo re dei Normanni, proprio come ricorda l’epigrafe posizionata sopra il portale è situata, anche, la bellissima chiesa di origine medievale dei santi Niccolò e Cataldo. L’iscrizione ricorda che la chiesa fu edificata in onore del santo patrono della città per sciogliere un voto che era stato garantito in seguito ad uno scampato naufragio nei pressi di Otranto. Si tratta di un magnifico edificio in stile romanico che venne completato nel 1180 e, in seguito, donato ai Benedettini.
All’interno della chiesa dei Santi Nicolò e Cataldo tra le varie manifatture vi sono le cinquecentesche opere di Gabriele Riccardi, come due acquasantiere figurate, incastonate nelle prime due colonne della navata centrale, e la superba statua di San Nicola, alta poco meno di due metri. Come è accaduto ad altri monumenti importanti di Lecce, anche questo gioiello di chiesa ha subito, attraverso il tempo e la storia, innumerevoli interventi e modifiche. Resta, comunque, molto chiaro l’impianto medievale, se pur contaminato dall’arte normanna e da quella araba. Dalla facciata salta all’occhio la severità dell’impronta romanico-pugliese mista alla stravaganza del barocco. Alla fine del XII secolo risale la costruzione dell’annesso convento, edificato sempre per volere di Tancredi. Nel centro del primo chiostro realizzato nel 1559, si erge un pozzo rinascimentale coperto da un’elegante edicola con colonne tortili, mentre il secondo chiostro venne aggiunto nel 1634. Questa statua maestosa del Santo Nicola, alta circa due metri, realizzata dal Riccardi e raccontata nella “Lecce Sacra” (1634) da Giulio Cesare Infantini, è una fonte preziosa oltre che per capire quale fosse lo stato dell’arte sacra sino al periodo della sua pubblicazione, anche per quanto riguarda la cultura iconografica salentina medievale.
La statua del santo ha di insolito, tra i ricchi e fastosi paramenti vescovili, un’effigie, un’occorrenza mutuata dall’ebraico “Adonay”, uno dei nomi di Dio, in genere usato per sostituire l’ineffabile tetragramma. L’ebraismo ci insegna che il nome di Dio, pur esistendo in forma scritta, è troppo sacro per essere pronunciato. A esso ci si riferisce, solo se necessario, attraverso l’appellativo “Adonay” (propriamente, “Nostro Signore”). Tale divieto non era imposto, però, al Sommo Sacerdote. Potrebbe essere, quindi, che il venerabile Santo da Mira, vi fosse per carica e titolo, iconograficamente associato? L’altra cosa che appare molto strana, in questa iconografia, è che la scritta ebraica “Adonay”, sulla statua del santo da Mira sia, tuttavia, impressa in caratteri quadrati e latineggianti. Un vero mistero, non collegabile ad altri casi simili conosciuti, non sufficiente da catalogarlo come fonte preesistente.
Fig. 2, Gabriele Riccardi, San Nicola, dopo il 1531 e prima del 1552, pietra leccese policromata e dorata, lecce, chiesa dei santi Niccolò e Cataldo
Fig. 3, Gabriele Riccardi, particolari iconografici della statua di san Nicola in lingua ebraica latinizzata
Inoltre va ricordato che fu proprio il Riccardi ad essere incaricato della riqualificazione urbana di un’area di Lecce ben precisa, cioè quella del ghetto ebraico, che fu cancellato fisicamente intorno al IV decennio del XVI secolo per far posto all’esteso complesso di chiesa e monastero per l’ordine dei Celestini del quale, proprio la Basilica di santa Croce si deve a un suo progetto. Solo la toponomastica attuale serba memoria dello status quo urbanistico precedente agli interventi cinquecenteschi [12]. Fino alla fine del Medioevo Lecce e molti altri paesi del Salento avevano la propria sinagoga, mentre ora la più vicina rimasta in piedi è quella di Trani, la Sinagoga “Scola Nova” edificata nel XIII secolo, trasformata in chiesa nel XVI, con l’espulsione degli ebrei locali e, tornata al suo uso originario, solo dal 2005.
La comunità ebraica era molto fiorente nel Salento, infatti sono molti i paesi di terra d’Otranto che possono annoverare nella loro storia una “Giudecca”: Soleto, Ortelle, Oria, Martina Franca, Otranto, Galatina, Nardò, Ugento, Gallipoli, Alessano e Tricase.
Quando con l’imperatore Carlo VIII ricominciò il doloroso periodo delle persecuzioni contro gli ebrei, questa comunità scomparve definitivamente dal Salento. A Lecce la Giudecca, che occupava tutta la zona del centro storico dove vi è ora Palazzo dei Celestini, la Basilica di Santa Croce, Palazzo Personè, Palazzo Adorno, ed altri ancora, venne presa di mira a cominciare dal 1463. Anche a Nardò, nella prima metà del secolo XIV aveva preso piede un gruppo di proseliti della fede ebraica che, era per altro, ben favorito dall’abate benedettino di S. Maria, Guglielmo, contro il parere comune contrastante, tanto che questo suo comportamento fu annotato in un corposo elenco di crimini che gli vennero attribuiti, e che fu poi posto all’attenzione di papa Urbano III, nel 1367, dal clero locale. A quell’epoca e sino al 1485 erano una cinquantina le famiglie ebraiche presenti nella comunità, come si evince dall’elenco dei diritti della chiesa di Nardò compilato in quell’anno. Gli ebrei annotati nell’elenco erano obbligati al pagamento dello “Jus Affidae” alla chiesa, e a molti di loro, la stessa, aveva concesso il beneficio della locazione, sia di abitazioni che di botteghe, per svolgervi i propri mestieri. Essi svolgevano diverse attività, ma prevalevano quelle della concia delle pelli per cui si guadagnavano spesso delle multe a causa dello svuotamento di acque putride, prodotte da questo lavoro, sulle pubbliche vie.
“In Nardò (notisi per quanto dirò) fu prescritto che le 50 case delli giudei contribuiscano come l’altri cetadini (Arch. Prov. di Lecce, Università di Nardò, 1469 e Diplomi del 1465 nell’Arch. Vescovile). In Ostuni nel 1495 (Libro Rosso Ostuni) si trattò di Christiani novelli, cioè ebrei convertiti, e di marrani cioè ebrei convertiti per paura e in apparenza. In Lecce avevano comunità indipendente e finanche la Sinagoga e il cimiter e foro sempre incorporati et uniti cum la dieta Università, contribuendo in omne peso et pagamento, et cussì gaudendo omne previlegio et immunità quali gaudevano li altri cetadini (Libro Rosso di Lecce, anno 1467)”13.
Comportamenti trasgressivi verso le regole della città o nell’ambito del privato erano molto frequenti sia tra gli ebrei stessi che nei confronti dei cristiani, come si evince dalle note nel Registro delle multe inflitte dal capitano nell’anno dell’VIII a indizione (settembre 1489-1490). Molti giudei vi compaiono sia come parte lesa che come accusati, per litigi, ingiurie, minacce, violazioni di bandi, giochi proibiti (carte, dadi). Gli attriti con le autorità locali per motivi fiscali continuarono nel 1494, e questo certamente accrebbe l’animosità contro gli ebrei, che si espresse con violenza l’anno dopo, quando Carlo VIII di Francia invase il Regno.
Gli ebrei, depredati dei beni e costretti a rinunciare ai propri crediti, trovarono scampo nella vicina Gallipoli, le cui autorità ottennero il 7 dicembre 1501 da Consalvo de Cordova, Gran Capitano dell’esercito spagnolo, che potessero recuperare i beni mobili e stabili di cui erano stati privati. Gli ebrei tornarono a Nardò agli inizi del vice regno nel 1503, per poi esulare nuovamente con l’Editto di espulsione emanato da Ferdinando il cattolico nel 1510. Ma in quegli anni, proprio nella comunità neretina, “Una testimonianza dell’apertura all’ebraismo dell’umanità si può desumere da una lettera del 1511 scritta da Antonio De Ferraris Galateo, intitolata “De Neophitys”, in cui l’autore difende la scelta del figlio del duca di Nardò N. Bellisario D’Acquaviva di sposare un’ebrea convertita. Vista l’epoca, l’ingresso di una discendente di giudei in un casato tanto illustre non poteva che suscitare stupori e maldicenze, ma egli, nella missiva esaltò la nobiltà dei giudei e della loro fede”14
Isabella la Cattolica divenuta moglie di Ferdinando II d’Aragona sull’onda della reconquista convinse il marito a espellere gli ebrei. L’espulsione dai regni spagnoli fu, così, decretata nel 1492 con il “decreto di Alhambra”. Unica via d’uscita era la conversione al cattolicesimo. Solo in Sicilia si contavano oltre 90 giudecche con circa 37 mila ebrei, di cui a Palermo e a Siracusa comunità di circa 5 mila ciascuna. Il re Ferdinando, divenuto anche re di Napoli nel 1504, il 23 novembre 1510 emise un ulteriore atto di espulsione degli ebrei da tutta l’Italia Meridionale, però evitabile con il pagamento di 300 ducati. Solo nel 1542 il viceré Pedro di Toledo emise il definitivo decreto di espulsione per gli ebrei dal regno di Napoli.
Le ultime comunità che già dalla grande diaspora del II secolo si erano insediate fra Brindisi e Roma sparirono dalle realtà urbane in cui avevano trovato accoglienza. Fu papa Paolo IV con la bolla “Cum nimis absurdum” del 1555 che forzò gli ebrei a vivere in un’area specifica, prevedendo una serie di restrizioni particolari, il ghetto, e papa Pio V raccomandò che tutti gli stati confinanti istituissero dei ghetti, che sarebbero poi stati in vigore per secoli15.
Così, tornando alla giudecca di Lecce, nel 1495, si arrivò a dare alle fiamme persino la sinagoga e da quel momento tutti gli ebrei privati dei privilegi e spogliati da ogni bene posseduto furono cacciati definitivamente. La Sinagoga si trovava proprio davanti alla chiesa di Santa Croce, accanto a quello che ora è il più bel sito barocco leccese. Nel punto della città in cui oggi pulsa il cuore nevralgico della sua movida, un tempo si ergeva il quartiere ebraico.
All’interno di Palazzo Adorno che, di recente, per volontà dell’assessore Andrea Guido, è stato aperto al pubblico per delle visite guidate, c’è una cosa molto singolare che testimonia il passato: davanti all’architrave che porta, nei sotterranei, verso quello che era lo scarico fognante della casa, se ci si curva e si osservano le chianche di pietra dal basso, si nota una iscrizione ebraica: “Questa non è altro che la casa di Dio”(Genesi, 28, 11-22), che probabilmente avrebbe dovuto continuare con la dicitura “e questa è la porta del cielo!”, la pietra dove è incisa la scritta è un unico blocco che, sembrerebbe lecito presumere provenga dalla sinagoga distrutta, quindi materiale di risulta riutilizzato durante il restauro del palazzo.
A proposito di questa ricollocazione dal “varco di entrata in un luogo sacro” al “varco di entrata, del sotterraneo, che portava alla zona fognante del palazzo”, c’è chi ipotizza che, in quel tempo ciò avvenne non per caso ma, per l’appunto, in segno di disprezzo verso coloro che avevano posseduto quel luogo, prima di essere scacciati dalla città. Ricordiamo che Palazzo Adorno fu, ancora una volta, un’altra delle costruzioni che vennero avviate, intorno al 1568, su disegno dell’architetto Gabriele Riccardi, che era stato incaricato di ricostruire sulla giudecca; la magnificente dimora divenne proprietà della nobile famiglia napoletana dei Loffredo, imparentati con i De Capua, prima di passare di proprietà al genovese Gabriele Adorno, un generale della marina imperiale di Carlo V, residente a Lecce.
Nei sotterranei, all’epoca della giudecca, pare che vi fosse il cimitero ebraico, nonché delle vasche di abluzione, per le funzioni ebraiche che si contemplavano nella bibbia ebraica e che sono elaborate nella Mishnah e nel Talmud. In questi sotterranei infatti, scorre la purissima acqua del fiume Idume, al primo livello della sua falda acquifera, che sicuramente rappresentava la loro cisterna. Il fiume attraversa tutta la città e sfocia nel bacino di Torre Chianca.
Fig. 4-Via della Sinagoga, Lecce.
Fig. 5-Via della Sinagoga, Lecce.
Fig. 6, scorcio del sotterraneo di palazzo Adorno
Fig. 7, scorcio del sotterraneo di palazzo Adorno
Fig.8, Pietra posta all’ingresso della zona fognante con la scritta ebraica
Fig.9-Il fiume Idume nel sotterraneo del palazzo
Fig.10- Lecce, Via Abramo Balnes
NOTE 1 cfr: Luisa Ferretti Cuomo, Sintagmi e frasi ibride volgare-ebraico nelle glosse alachiche dei secoli XI-XII, pp. 321-334 in Lingua, Cultura E Intercultura: l’italiano e le altre lingue; atti del VIII convegno SILFI, Società internazionale di linguistica e filologia italiana (Copenaghen, 22-26 giugno 2004), a cura di Iørn Korzen, Samfundslitteratur, Copenaghen: 2005. 2 cfr: L. F. Cuomo, Antichissime glosse salentine nel codice ebraico di Parma, De Rossi 138, «Medioevo Romanzo» IV (1977), pp. 185-271, Gaetano Macchiaroli, Napoli,1977. http://belsalento.altervista.org/a-parma-il-piu-antico-manoscritto-della-lingua-salentina-del-1072-con-caratteri-ebraici/?upm_export=print
3 P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, a cura di S. BERTELLI, 1,2, cap.2. «era al Puglia e la Calabria nei tempi di Onorio molto infestata dai giudei i quali, licenziosamente vivendo, di non poca confusione eran cagione». Stamperia Giovanni Gravier, Napoli, 1770.
4 G. I. Ascoli, Iscrizioni inedite o mal note greche, latine, ebraiche di anctichi sepolcri giudaici del Napoletano, Erm. Loescher, 1880.
5 Shabbatai Donnolo, Sefer Hakhmoni a cura di Piergabriele Mancuso, Giuntina, Firenze, 2009.
6 N. Ferorelli, Gli ebrei nell’Italia Meridionale dall’età romana al secolo XVIII, Edit. Il Vessillo Israelitico, Torino, 1915.
7 F. Lelli, (a cura di) Gli ebrei del Salento, secoli IX-XVI, p.12, Congedo Editore, Galatina, 2013 . 8 http://siba-ese.unisalento.it/index.php/idomeneo/article/viewFile/15290/13286
9https://www.fondazionelevi.it/wpcontent/uploads/2016/08/RRR.sinagoghe.Abstract.Fubini.pdf.
10 F. Lelli, (a cura di) Gli ebrei del Salento, secoli IX-XVI, pp.256-265, Congedo Editore, Galatina, 2013. 11 N. Ferorelli, Abramo De Balmes ebreo di Lecce e i suoi parenti, estratto dall’archivio storico per le prov. nap. Anno XXXI, fasc. IV, Stab. Tip. Luigi Pierro e Figlio, Napoli, 1906. 12 F. Lelli, (a cura di) pp.355-362, 2013 13 E. Vernole, Gli ebrei nel Salento, in Rinascenza Salentina n. s. 1, pp. 17-24. (1933). 14 https://www7.tau.ac.il/omeka/italjuda/items/show/420 15 https://it.wikipedia.org/wiki/Giudecca_(quartiere_ebraico)
#codice ebraico di Parma#Cristina Manzo#ebrei in Puglia#Mayr de Balmes#Pagine della nostra Storia#Spigolature Salentine
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Dialetti salentini: pèsule
di Armando Polito
Pèsule è la variante di Nardò e tutto ciò che dirò vale anche per quella di Lecce (pìsuli) e di Scorrano (pìsule).
Pèsule nell’uso ricorre raddoppiata nella locuzione pèsule pèsule in frasi del tipo pigghiamu stu saccu pèsule pèsule (prendiamo questo sacco sollevandolo di peso). Nonostante l’azione comporti l’uso della forza, la locuzione contiene quasi ula raccomandazione di farlo con circospezione, direi con delicatezza che non esclude la rapidità d’esecuzione, impressione intensificata dalla parola sdrucciola. Si tratta, come vedremo, di un aggettivo con funzione avverbiale, com’è successo all’italiano piano, soprattutto nella locuzione piano piano. La voce nel Rholfs1 è presente nel lemma pìsuli:
Apparentemente non c’è proposta etimologica, ma, tenendo conto del fatto che ciò avviene abitualmente quando uno dei sinonimi usato nella definizione è il perfetto corrispondente italiano, va considerato il pèsolo più volte ricorrente, anche se non collocato in prima posizione, come, invece, mi sarei aspettato. Pèsolo è voce ormai obsoleta dal latino pènsile(m), su cui a breve tornerò.
Nel Garrisi2:
Non ho mai incontrato in nessuno dei dizionari consultati nella mia vita il ricorso massiccio al fenomeno dell’incrocio come avviene in questo del Garrisi, in cui, fra l’altro non trovano ospitalità il punto interrogativo, né l’asterisco (segno distintivo delle voci ricostruite), né gli avverbi forse o probabilmente, né, per i verbi, il modo condizionale.
Rilevo anzitutto che pisum in latino significa pisello ed è la trascrizione del greco πἱσον (leggi pison) con lo stesso significato. Lascio al lettore giudicare quale rapporto potrebbe esserci tra il pisello e pìsuli. Nelle intenzioni del Garrisi, però, pisum dovrebbe essere voce latina volgare invece del classico pensum; perciò un bell’asterisco avrebbe dovuto precedere sia pisum che il suo diminutivo pisulum.
Si salva, invece, la voce latina pensilis=pensile, pendente, sospeso (deverbale da pèndere3=pesare), dal cui accusativo pensile(m) deriva il nostro pèsule; la perdita di n è dovuta ad incrocio, questa volta sì, con l’italiano peso (che è da pensum, a sua volta da pèndere3).
Nel Presicce4:
Il pisu proposto dal Presicce (come l’italiano peso dal già ricordato pensum anch’esso deverbale dal citato pèndère) suppone, come già nel Garrisi, un diminutivo *pìsulu(m)=piccolo peso, che non appare congruente dal punto di vista semantico e nemmeno fonetico, perché ci saremmo aspettato pìsulu (come l’italiano pèsolo) e non pìsule, la cui terminazione, invece, è perfettamente giustificata da pènsile(m).
Spero di essere riuscito a rappresentare efficacemente quanto fin qui detto nel diagramma che segue.
________
1 Gerard Rholfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, Galatina, 1976.
2 AntonioGarrisi, Dizionario leccese-italiano, Capone, Cavallino, 1990.
3 Pèndere (terza coniugazione) ha il suo gemello, difettivo di alcune forme e che segue la seconda coniugazione, in pendère=pendere.
4 Giuseppe Presicce, Il dialetto salentino come si parla a Scorrano (http://www.dialettosalentino.it/a_1.html)
5 Nei mulini, per lo scorrimento dell’acqua. In dialetto neretino il dislivello è detto, con vocabolo derivante sempre dalla radice di pèndere/pendère, pindìnu.
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Canisciare e cagnisciare, ovvero quando basta una g a fare la differenza
di Armando Polito
Chi non conosce il gioco enigmistico della zeppa? Grazie a lei, per esempio, è facile passare dall’astronomia alla gastronomia, dal canone al cannone, da amando ad Armando, da matto a Matteo. La superfetazione di regola è caratterizzata da assenza di rapporti etimologici o semantici tra la parola di partenza e, dopo la sua cura ingrassante, quella di arrivo. Dico di regola, ma non mancano le eccezioni, sia pure solo di rilievo semantico, e lascio al lettore decidere qual è quella più inquietante tra gli ultimi due degli esempi addotti …
Le due parole del dialetto salentino che campeggiano nel titolo non si sottraggono alla regola e ci accingiamo a scoprire perché.
Canisciare
I moderni ferri da stiro, con i i loro avveniristici (quando funzionano e se non esplodono …) sistemi di controllo della temperatura e del suo adeguamento al colore e al tipo di tessuto da stirare, hanno azzerato quel rischio di ingiallimento (nei casi migliori …) della stoffa (soprattutto quella bianca) chec era sempre in agguato quando il ferro da stiro era un pesante contenitore in ghisa dalla forma di una barca a fondo piatto. in cui i pezzi di carbone incandescente avevano la funzione di riscaldarne la base.; sicché allora anche l’olfatto aveva la sua primaria importanza nella stiratura, anche se quando si avvertiva una vaga puzza di bruciato il macello per lo più era già avvenuto …
Faccio notare la maggiore economia della voce dialettale nell’esprimere un concetto che in italiano richiederebbe la circollocuzione lasciare ingiallire il tessuto per distrazione o imperizia a causa del calore eccessivo. Purtroppo lo stesso concetto non è riuscito a trasferire dalla lingua ai fatti il protagonista della vignetta.
* Ti sta costando cara la cura del ferro che il medico ti ha prescritto in combutta con tua moglie …
Nè varrà a rivalutarlo l’etimologia che ora vi propone …
Per il Rohlfs canisciare è “da un latino volgare *canidiare, dal greco καπνίζω=faccio fumo”. La proposta, peraltro formulata in modo non dubitativo, mi pare poco convincente sul piano fonetico perché non è chiaro come dal primo segmento di καπνίζω (leggi capnizo), cioé καπνί- (leggi capni-) si sia arrivati a cani– di *canidiare; mi sarei aspettato, per assimilazione (e non per strana sincope) canni-. Nulla da eccepire, invece, sul secondo componente, cioé –izo (leggi –izo) che, attraverso il latino volgare –idiare, ha dato vita all’italiano -eggiare di maneggiare, corteggiare , etc, etc. Va detto, però che, se questo suffisso è di lontana origine greca, non lo è sempre il primo segmento della parola che lo esibisce. Faccio l’esempio di manisciare=sbrigarsi, darsi da fare; esso suppone un latino volgare *manidiare in cui il primo segmento è manus=mano, che non è certamente parola di origine greca. Insomma: il latino volgare avrebbe aggiunto (nella stragrande maggioranza dei casi) il suffisso greco a parole non necessariamente di origine greca. Ci sono pure casi in cui la parola greca è passata tal quale in latino: è il caso di caminus (da cui il nostro camino) che è dal greco κάμινος (leggi càminos). Per quanto finqui detto mi pare più plausibile ipotizzareper la nostra voce la seguete trafila: *caminidiare>*caminisciare>canisciare (per sincope dal precedente), anche perché i rapporti tra κάμινος e κάπνος (leggi capnos)=fumo sono tutt’altro che certi.
Cagnisciare Per questa voce il Rohlfs si limita a dare il significato,che è quello di aborrire, avere a schifo. Mentre per canisciare mancava il corrispondente italiano, qui invece esso è, almeno dal punto di vista formale, cagneggiare, attestato da Benedetto Varchi (1503-1565) nel suo L’Ercolano:” … e quei bravoni o bravacci che fanno il giorno su per le piazze, e si mangiano le lastre e vogliono far paura altrui coll’andare e colle bestemmie, facendo il viso dell’arme, si dicono cagneggiarla o fare il crudele“. Tale significato continua edulcorato nella locuzione italiana guardare in cagnesco, che, tuttavia semanticamente ancora non coRrisponde alL’esatto significato della voce dialettale,nella quale si manifesta ancor più edulcorato, pur chiarendone l’etimologia di base, che è dalla parola cane assunta ancora una volta dalla presunzione umana a simbolo di ostile negatività. E l’effetto è sempre quello: tenersi lontano da qualcosa che per noi costituisce, se non un pericolo, un motivo di fastidio, non solo fisico ma anche psicologico, com’è capitato al mio gatto …
*Fanno schifo e per un gatto come me il colmo è cagnisciarle. Mi stai facendo venire una crisi dì identità.
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Il nostro dialetto. STUTARE (SPEGNERE)
di Armando Polito
* Pensa piuttosto a chiamare i pompieri!
Chi ha un’idea distorta del dialetto, considerato pregiudizievolmente inferiore alla lingua nazionale, probabilmente avrà un sussulto sentendomi affermare che stutare è, linguisticamente parlando, un nobie decaduto, vittima del tempo e dell’uso. Lo confermano, infatti, i dizionari, in cui non è qualificato come voce regionale, volgare o gergale ma obsoleta (addirittura nel vocabolario Treccani on line, in cui il lemma è puntualmente registrato, manca pure quest’ultima qualifica).
Sulla “nobiltà” di stutare, voce non esclusivamente “meridionale” credo sia sufficientemente eloquente quanto segue:
Iacopone da Todi (XIII secolo), Laude, LXX, 86): … cà ‘l tuo plagner me stuta …
Brunetto Latini (XIII secolo), La rettorica, I, 2 E 10: … a stutare molte battaglie …
Guittone d’Arezzo (XIII secolo), Trattato d’amore, CCXLVIII, 12: … che per nulla copia si stuta fiore …
Cino da Pistoia (XIII-XIV secolo), Rime, LXXXVIII, 22 (edizione dell’Itituto editoriale italiano, Milano, 1862): … e la cui vita a più a più si stuta …
Giovanni Boccaccio (XIV secolo), Amorosa visione, VI, 10-12: … tra me dicendo: Deh, perché il foco/di Lachesis per Antropos si stuta/ in uomo sì eccellente e dura poco?” e Filocolo, II: … anzi che più s’accenda il fuoco, providamente pensate di stutarlo …
In altri autori toscani della letteratura delle origini, che qui per brevità non riporto, ricorre la variante astutare. La voce ebbe scarsa fortuna, tant’è che non son riuscito a trovare nessuna attestazione per i secoli successivi e lo stesso Vocabolario della Crusca registra il lemma solo nelle sue prime quattro edizioni (1612, 1623, 1691, 1729-1738) con due (Cino da Pistoia e Boccaccio)degli esempi datati che prima ho riportato.
La locuzione nel dialetto salentino, vista nei suoi significati diacronici, è stutare lu fuecu (spegnere il fuoco del camino o di un incendio), stutare la candela (spegnere la candela), stutare lu lume (spegnere il lume a petrolio); poi, con la diffusione dell’energia elettrica, stuta la luce (premi l’interruttore per spegnere la luce della lampadina), stuta lu furnu (spegni il forno).
A questo punto chi è abituato a leggermi si sarà meravigliato perché sto tardando a dare l’etimo di stutare, ma alla fine sarà chiaro quanto questa premessa fosse imprenscindibile.
Non mi lascia perplesso *extutare (voce latina ricostruita), ma quel guardare il fuoco coprendolo. Infatti questa definizione che oso definire sibillina, sembra tirare in campo contemporaneamente come secondo componente di extutare i verbi tueri (o tuere), che significa guardare) e tutari che significa proteggere.
Prima di entrare nel merito dell’appunto è necessario dire qualcosa in più su questi due verbi.
Tueri è un verbo deponente (ha cioè forma passiva ma significato attivo) e il suo paradigma è tueor/tueris/tuitus sum/tueri. La sua variante tuere, invece, presenta forma e, naturalmente, pure significato, attivi e il suo paradigma è tueo/tues/tuere. Il lettore anche digiuno di latino noterà che nel paradigma di quest’ultimo manca al terzo posto quello che nel primo verbo è tuitus sum (cioè il perfetto, corrispondente al nostro passato prossimo o remoto). Ora è intuitivo che non esiste forma passiva di un verbo senza la sua forma attiva, perché è lo stesso concetto di passivo che nasce da quello attivo. E che tuere (forma e significati attivi) sia più antico di tueri (forma passiva ma significato attivo) lo mostra il fatto che tueri compare con significato passivo in due autori cronologicamente molto distanti tra loro: Vitruvio (I secolo a. C.) e Papiniano (II-III secolo d. C.). in altre parole nei verbi deponenti è legittimo supporre che all’origine avessero un significato passivo e che col passare del tempo abbiano assunto quello attivo, salvo, come abbiamo visto, in qualche autore.
Tutto ciò fa ritenere che tuere prima di essere soppiantato dal figlio tueri avesse anche lui se non la terza voce paradigmatica (perfetto), almeno la quarta prevista per i verbi di forma attiva (detta supino) e che questa dovesse essere *tuitum, come si deduce dal tuitus che compare nel perfetto di tueri. Parente strettissimo di *tuitus è l’aggettivo tutus/tuta/tutum (che significa sicuro) come mostra tutus sum, cioè la variante di perfetto di tueri presente in Livio(I secolo a. C.-I secolo d. C.); il femminile tuta ha dato vita all’analoga voce italiana, così come tutela, mentre da tutor è il nostro tutore.
E da tutus è nato prima tuto/tutas/tutare che vuol dire proteggere, difendere e poi tutor/tutaris/tutatus sum/tutari che significa vegliare su, proteggere e, in senso riflessivo, difendersi da, allontanare. Da notare, di passaggio, che anche tutare come tuere appare difettivo di perfetto e supino ma che quest’ultimo, analogamente a quanto rilevato in tueri sarebbe stato tutatum, come mostra il tutatus sum di tutari.
Alla fine di questo lungo ragionamento mi pare di poter concludere che non è il caso di dannarsi l’anima per elucubrazioni fonetiche e tantomeno semantiche e che si può bypassare la diplomazia la del Rohfs che nella sua definizione unisce i due concetti, etimologicamente parlando, paralleli, come ho dimostrato, di guardare (tueri) e di coprire (tutare)sinonimo di proteggere, dicendo che che extutare è composto dalla preposizione ex (con regolarissimo esito in s– nel nostro stutare) con valore privativo e tutare, sicché lo stutare non è altro che privare il fuoco della vigilanza indispensabile perché esso non si spenga e, se si pensa alla sacralità del fuoco e alle Vestali, la definizione sembra affondare le radici in un atto blasfemo …
Se la definizione del Rohlfs non appariva troppo chiara, decisamente strano appare ciò che si legge nel Dizionario De Mauro al lemma stutare a proposito della sua etimologia: extutare, compostodi ex- con valore intensivo, e tutari “estinguere”.
Come è conciliabile in tutari il significato attribuitogli di estinguere con quello di proteggere, cosa che ha costretto, fra l’altro, a dare alla preposizione ex un valore intensivo e non privativo? Quest’ultimo dettaglio è secondario perché in teoria ex col suo esito s– può avere valore privativo come in sbarbare, sbucciare, squagliareetc., etc., oppure intensivo, come in sbattere, spossare, strombazzare, etc. etc. Ciò che appare strano è il significato di estinguere attribuito a tutari; il che ricorda tanto l’antica, sarcastica locuzione neretina ti ògghiu tantu bbene ca ti cciu (ti voglio tanto bene che ti uccido), che oggi potrebbe essere tranquillamente messa in relazione, privata del suo significato sarcastico ma altrettanto drammatica, con l’eutanasia o messa in campo da qualche avvocato a corto di argomenti oltre che non aggiornato sull’evoluzione dei costumi, a difesa del cliente reo di aver ucciso il partner colpevole di averlo lasciato.
Il De Mauro evidentemente ha seguito l’opinione di alcuni filologi (REW 9018) che mettono in relazione con tutari il francese tuer, che significa uccidere, e l’italiano antico attutare (da cui l’attuale attutire) attraverso la filiera concettuale (sembra un climax ascendente) proteggere da >attutire il pericolo>eliminare il pericolo>eliminare l’autore del pericolo>uccidere. A parte la rocambolesca filiera che ho dovuto mettere in campo c’è da chiedersi, sul piano fonetico, che fine abbia fatto la seconda t di tutari, che apparirebbe aspirata solo nel catalano atuhir.
Comunque stiano le cose, mezzanotte è passata da un pezzo e, almeno per me, è ttiempu cu stutu lu compiuter e cu vvo mmi corcu (tempo di spegnere il computer e di andarmi a coricare) …
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