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28/29-7
Mi sto per sposare. Mi sono presa all’ultimo minuto, tanto non è la forma che conta ma la sostanza, no? Ho un vestito nuovo, ma non è un abito da sposa. è un bel vestito, panna e nero, a fantasie geometriche. Ha le spalline strette, un corpetto, il busto strutturato, la gonna ampia. Sembra la versione ‘vestito, ma chiaro’ della fantasia della mia tracolla eastpack decennale. Va bene che quello che conta è la sostanza, ok, ma un po’ di trucco non te lo metti il giorno del tuo matrimonio? Incomincio, ma sono prodotti che non ho mai usato e ho difficoltà ad applicarli mentre sono in auto. Intanto ormai siamo arrivati alla chiesa. Non so di preciso dove sia, so solo che la luce e l’orientamento sono gli stessi della vecchia casa dei miei nonni materni. E infatti davanti alla chiesa il sagrato è il cortile, e io e altre signorine che sono mie amiche ma che non ho idea di chi siano facciamo le ultime sistemazioni sotto una struttura tipo stalla rimodernata. Il fondotinta mi macchia la faccia, senza che riesca a stenderlo. Una tipa mi aiuta spruzzando un solvente; metà del colore viene via, ma almeno il risultato ora è uniforme. Mi guardo allo specchio e mi rendo conto che ha fatto reazione, che in mezzo alla fronte ha fatto pellicola e si è rotto in maniera circolare ed è apparso un simbolo “sollevare qui”. Tolgo tutto e non se ne fa più nulla. Intanto mi comincio a chiedere perché. Perché mi sposo? In chiesa, poi? Per fare contento chi? Non so neanche chi sia l’uomo. Mi passa la voglia. Vado a controllare il salone da ricevimento, attiguo alla chiesa. Trovo un bambino che mi dice che il vestito è brutto. Io ci resto un po’ male, lui si corregge: ‘forse sarebbe più bello se fosse della tua taglia...’. Mi rendo conto che ci navigo dentro, farfuglio un ‘l’ho preso quando ero più grassa...’, arriva mia madre che con un colpo solo mi accorcia entrambe le spalline, ma resta largo lo stesso. L’idea di sposarmi mi sembra sempre più sbagliata.
[Mi sveglia una brutta crisi vagale alle sette e mezza. Superata quella, sonno simile a stato comatoso fino alle 11.]
Nota: dev’essere la prima volta in venticinque anni che sogno di sposarmi.
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ventisette luglio
La respiro proprio, l’aria da post-esame.
Arrivando al centro estivo salvo un pulcino di merlo:
Un animatore, F., attacca bottone colpito dalle mie nurturing skillz. È la seconda persona che mi va a genio, e dopo un mese — e su di lui ho ancora dubbi di precipitevoleza relazionale, che non mi garberebbe. A., l’altra animatrice che mi sta simpatica, da questa settimana è stata dirottata in un altro plesso, quello dove c’è M. Gesù che cittadina provincialotta.
Poi supervisiono decorazioni frenetiche di cappelli di carta, e resto affascinata e rapita da quanto alcuni bambini vivano con naturalezza l’essere portati a livello di produzione grafico-estetica. Ho visto cappelli colorati a tempera che se fossero vestiti vorrei averli e usarli. Colori fa-vo-lo-si. Aiuto J. a dipingere il secondo lato con il cappello infilato su una gamba di sedia rovesciata (metodo brevettato da me per dimezzare i tempi), mentre do un occhio al resto dell’aula mi fa una croce sul palmo. Non so cosa si aspettasse come reazione, perché mi guarda di sottecchi con un sorriso leggero e forse un po’ teso; ma io, spontaneamente gli sorrido. Sono suoi i colori che adoro, è riuscito a fare due mélange inversi con un abbinamento di tinte che neanche le case di moda. Da una barte blu/turchese/azzurro/celeste/bianco, dall’altra - non so come definirlo. Un rosa antico pieno di vita? La foto è qui sotto, chiamatelo come vi pare — per me era splendido.
La bambina dei delfini, M., che già mi ha regalato un disegno, me ne fa altri tre. Emme, per competizione, anche lei me ne fa uno...ma i primi due di M, veramente, vorrei averli fatti io. Tutti quanti, anche i meno entusiasti, li incoraggio; a quelli che più mi sconfinferano, lo ammetto, li incito ad arrivare ad esporre al MoMA.
F. fa una pensata che mi prende alla sprovvista, a pranzo: abbassa un po’ le tapparelle, e mi dice ‘ magari, sai, la serotonina’. Sono così post-esame che invece che spiegargli che la serotonina segue un ritmo circadiano, e che è molto difficile che abbassando la luminosità allo zenit del giorno si possano ottenere i risultati da lui sperati, no, invece che questo lo abbraccio e gli do del genio. Poi mi contengo, ma credo il danno sia fatto: poco dopo mi racconta che va in montagna da sua nonna, che ci si può organizzare perché vada anch’io e che scrive poesie che mi manderà. Lo saluto col sorriso, ma sospetto possa degenerare. Speriamo di no!
A casa doccia lunghetta, mi faccio otto trecce e dico che uscirò. Ho pianificato con A. di andare a Venezia per l’eclissi; conoscendo i miei polli, a Madre dico che resto in città — e infatti già questo è pretesto per lei di piantare questione, che sto solo facendo finta di pensare, che mi isolo e basta. Con molta, molta calma defletto, e verso quando dovevo uscire inizio a troncare sbottando. Altrimenti non la finiva più.
A Venezia bacari e stelle con A., S. e S.; faccio foto molto belle, soprattutto alla S. e ad A. Torno a casa a mezzanotte, decisamente serena.
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ventisei luglio
Esame.Non scenderò nei dettagli, quarantott’ore sono ancora poche. Male, comunque. Pomeriggio scazzo, sera disegno. Penso a un portfolio. Sarebbe bello.
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venticinque luglio
Il giorno prima dell’esame. Svegliata, studiato. Pranzato a caso. Principalmente ripasso checklist, madre mi aiuta. Non riesco ad abiurare il piano assistenziale che dovrei abiurare. A cena chiedo se vogliono sentire una cosa di psicologia dello sviluppo: Padre esce a sprofilare guarnizioni, dopo un po’ anche Sorella si eclissa. Quindi con molta fatica per i continui ‘non sono d’accordo’ resto a spiegare la mia condizione a mia madre. Pianifico anche i giorni successivi, con le cose che è necessario che faccia (e, ben esplicitato, non altro). Poi con calma chiedo a Padre come mai sia uscito, risponde ‘perché non mi interessava’. Amen.
Tento di nuovo di abiurare il piano: mi viene letteralmente la nausea. Rinuncio. Vado a dormire con un filino di magone.
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Generalizzare è il male logico dell'epoca: semplifica il pensiero e ti complicherai la vita senza più potertene accorgere.
me, considerando scambi acefali su twitter
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ventiquattro luglio
La mattina la passo a studiare, circa. Circa perché verso le 11 esprimo le mie intenzioni di lavarmi i capelli; la doccia l’avevo fatta il giorno prima. Piccola litigata perché scombino gli orari agli altri. I capelli continuano ad essere del loro de-colore, non li tingo di viola e azzurro come vorrei.
Dopo pranzo esco, i miei baldi sette chilometri e sei sotto il sole li percorro in mezz’oretta. Con M. andiamo al bar più vicino e prendiamo due succhi. Io per tutto il tempo sono indecisissima su cosa dire/fare/sembrare, ho il terrore di essere solo qualcosa da compatire — perché non ci sono molti altri motivi per cui uno voglia passare del tempo con me, una specie di via di mezzo tra il ‘non c’è niente di meglio’ e il ‘porella’ — e so anche perché mi sento così, ma non aiuta. In più lo sto invidiando perché è andato via per disegnare un’altra volta e io no (invidia semplice, del tipo ‘anch’io voglio andare via, anch’io voglio disegnare’), ma anche perché lui sa già (o almeno questo è quello che vedo io) cosa fare, e io no, e pure a me piace disegnare ma non voglio impegnarmici per imitazione...poi riesco anche a sorprendermi gelosa quando mi racconta che con una ragazza si è tanto divertito e vogliono fare un libro insieme. Vogliono fare un libro insieme. Anche ora, tra assonanze e persone verbali, mi fa tappare le orecchie. Sì, so contrarre volontariamente lo stapedio. Comunque ovvio che poi uno da fuori sembra un pesce lesso, se dentro sta sia facendo i capricci sia cercando di farsi passare i capricci, perché ben consapevole che quello che per me è normalità di espressione emotiva per il resto del mondo sono scenate — e insomma, scoppiare in lacrime mentre qualcuno ti racconta una cosa bella non è mai consigliabile.
Dalla psicologa arrivo dopo altri due chilometri e mezzo, la prima cosa che faccio è chiederle se per cortesia ha un bicchier d’acqua perché il succo non mi aveva dissetato proprio per niente. Mi porta una brocca e del limone. Difficilissimo gestire tutte quelle cose in quella situazione. Non parliamo del mio rapporto con gli amici, ma torniamo di nuovo sulla mia personalità fortemente instabile e mi spiega una cosa che mi garba molto su come e perché. La tengo ancora due ore invece che una.
Alla fine c’è fuori mio padre che mi aspetta, era nei dintorni e mi riaccompagna — la bici la carichiamo in camion. Facciamo la spesa al Lidl, ogni volta che ci entro mi ricordo di C. e di Firenze, immancabilmente. Vivere via da casa ha sempre un’altra tonalità, e quando suoni la stessa musica (una routine simile) con un’altra tonalità la noti molto di più che se cambi anche melodia, ritmo...al posto di una canzone totalmente diversa hai una variazione, e a quanto pare certe variazioni, certi universi paralleli che scorrono imperturbabili a un braccio di distanza dal mio flusso spaziotemporale li preferisco di molto.
A casa litigo perché Madre vuole decidere la vita agli altri, anche quanto è stanca mia sorella. Fa sempre sentire gli altri non-abbastanza, poi si mette sulla difensiva pietisticamente. Sarei un po’ stufella. Padre mi chiede se mi devo lavare perché così cucinerei le bistecche. Io dico che non mi interessa se loro ragionano che si può cucinare solo se dopo ci si lava. Ci litighiamo assai. Salto la cena.
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ventitre luglio
Mi sveglio un po' in ritardo sulla tabella di marcia, comunque mi preparo una nuova versione dell'acqua e menta prima di andare al centro estivo. Pedalando litigo con un vecchio in Alfa che non aveva messo la freccia a un incrocio a T, mi rifiuto di concedergli un briciolo di ragione. Al centro estivo va tutto relativamente bene, introduciamo un nuovo balletto che devono imparare entro venerdì, e io seguo la coreografia dei maschi. Speravo meglio, ma pensavo peggio. Oltre a carenze nel ritmo e nel destra-sinistra sono salvabili.
In mensa ad un cento punto con la stessa occhiataccia guardo prima un bimbo che stava provocando e l’animatore che gli diceva ’la prossima volta ti sbatto la testa sul tavolo’. Mi è parso proprio di essere l’unica nella stanza con una dose sufficiente di maturità relazionale.
Con M. ci mettiamo d’accordo per il giorno dopo, per trovarci e fare due parole. Lui sta studiando, io poi ho la psicologa, non ci faremo perdere più di tre quarti d’ora. Mi sembra un buon compromesso, oggettivamente, ma il mio stress da opossum vorrebbe giorni e giorni, una settimana a Sarmede, stile pocket universe, ad ogni occorrenza. Avevo oggettivamente una faccia migliore, in quei giorni.
L’acqua e menta finisce ignorata, io continuo a studiare un po’ a random tipo un insettino. Comincio a pensare di non presentarmi nemmeno. Nel senso, il pensiero di non presentarmi comincia a navigarmi per la testa, e tornare a galla ogni tanto; ma dato che è un esame obbligatorio, vorrebbe dire mettere una pietra sopra anche a questa iterazione della mia esistenza. Il fatto stesso che lo pensi è significativo.
Tornata Sorella, stanca e spossata; a merenda ci aggiorna e mostra le cose. Mio padre è al lavoro, io facco voce di aspettarci tutti — ma evidentemente non era il caso. Ho un nuovo libro da colorare della città proibita; un altro paio di orecchini pucciosissimi; una cartolina con saggezza antica. Voglio proprio farmi i secondi buchi. Credo. Aspetto ancora un po’ per confermare la legittimità della cosa.
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ventidue luglio
Niente di che. Stata a casa, pranzato a caso (un kinder pinguì e una confezione di pancetta), visto La truffa dei Logan (carinissimo). Studiato poco. Male alle gambe, mi sembra ci sia sabbia al posto dell'endomisio — più che dolore bruciante al movimento, peso aggiuntivo. Ti prego fa' che non sia un'altra cisti ovarica che infiamma oltre misura la pelvi. Prendo un po' il sole, se non fosse per la pelle tutta inestetismi non sarei affatto male. E la ciccia superflua, vabbe’. È da venerdì che non mi tocco i capelli, continuo a non farlo. Mi sono preparata dell’acqua e menta (acqua, rametto di menta, due fette di lime perché non avevamo limoni) è un mezzo fallimento, sa troppo di acido e non mi invoglia a berne. Riesco a farmi togliere il turno di martedì e quello di meroledì, per fortuna. Domani torna Sorella! (che era via per studio da tre settimane ormai.)
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arretrati
In questi giorni mi sono successe parecchie cose e non sono ancora abbastanza brava da scardinare la frase “se usi il tempo per vivere poi non puoi usarlo per raccontarla”, quindi oggi che non sta succedendo nulla mi rimetto in pari.
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Cerco di non scrivere qui gli arretrati
perché so che dovrei ripassare
a rotta di collo
per l’esame di domani, ma
finisce che non faccio
comunque un cazzo.
Alé.
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esame
Per studiare quel che devo studiare avrei bisogno di due cervelli, uno che studia e uno che supporta l'altro: uno che legge le cose come le so e uno come le dovrei sapere, uno che si fionda sul materiale e uno che pensa a come sto.
Le checklist fanno cagare, il clima fa cagare, il mio piano assistenziale faceva cagare, la mia volontà di ragionare sulle cose alle prof fa palesemente cagare, idem la mia pelle, la mia vita relazionale, e l’esame è giovedì. Dopodomani.
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22/23-7
Ero di nuovo in una città a gradoni, ma il mare qui era verso est. C’era parecchia gente alternativa in giro, gruppi di ascolto/artistici, non vedevi un indizio d’ordine a perdita d’occhio. Ognuno faceva un po’ quel che gli pareva. C’erano dei topi, anche, nelle zone più vicine alla campagna circostante; avevano il naso sotto la punta fisica del muso, non so bene se fossero più simili a marionette o a ratto×talpa stellata. Ad un certo punto le strade cominciavano a svuotarsi, credevo fosse perché era sera — invece chi mi aveva accompagnato fin lì mi faceva notare che dal mare stava arrivando una supertempesta. Nelle nuvole alte chilometri si vedevano scie di comete. Provavo a disegnarla; quando l’ho riguardata minacciava di piovere lava. Siamo andati da qualche parte al coperto.
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21/22-7
Sono sicura di aver fatto due sogni, ma in mezzo mi sono svegliata, e il primo non riesco più a metterlo a fuoco. Mi pare ci fossero delle linci colorate. Boh.
Nel secondo ero invitata a una festa, un matrimonio bizzarro, una celebrazione aziendale. Io facevo parte degli impiegati, ma c'era qualcosa che non mi quadrava.
Avevo colto che i festeggiati nascondevano qualcosa: quando venivamo tutti riuniti in una sorta di reception provavo a spiegare alla figura più autorevole (una segretaria di mezz'età, paffuta, bionda e dai ricci cotonati) che non aveva renso riunirci tutti in un punto - non venivo ascoltata.
Da una porta usciva la festeggiata roteando una maschera antigas - e qui il mio cervello deve aver fatto una capriola. Lo sgomento della signora bionda 'cosa ci fai con una maschera' è stato ovviamente accettato come obiezione (se non l'aveva addosso a che serviva?) e quindi la malfattrice rispondeva 'non è una maschera, è un nebulizzatore!" mentre la stanza si riempiva di fumo.
In qualche modo finivano di fare la rapina che volevano fare e il sogno finiva.
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20/21-7
Ho sognato a ridosso della sveglia, ma ricordo solo navicelle a forma di tazza, come nelle giostre.
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ventun luglio
Svegliata alle otto e mezza, alzata alle nove. Studiato, un po'. Combinato ben poco. A pranzo boh, sto scrivendo dopo poco più di ventiquattr’ore e neanche mi ricordo. Al pomeriggio non ho dormito. Ha piovuto un po' poi è passata, a Padova invece a quanto pare nubifragio. Pianura padana clima monsonico, come dico da un po’ — come nelle grandi pianure americane. Ho discusso con uno online: l'illogicità è dilagante e apparentemente irrimediabile. Alla sera ho mangiato salmone: era buono, ma mi è rimasto pesante. Sono rimasta a studiacchiare fin quasi le due.
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Salomone in da ghetto
Mettiamo i bambini in fila per il pranzo.
Chiediamo silenzio e continuiamo a non ottenerlo.
A un certo punto una bambina, N., è in lacrime. Vado da lei.
“Cos'è successo?”
“A. mi ha dato un pizzicotto!”, piange.
A., lì a un passo, dice di no. Un altro bambino, che stava là, dice che non è stato A.. Un'altra bambina, minuta, dice che è stato A..
Chiedo a N. di darmi la mano. Un po’ si tranquillizza. Chiedo ad A. di darmi la mano, si rifiuta. Gli dico che andiamo a parlare dentro, accetta.
Mi siedo in un angolino dell’atrio, li faccio sedere uno di qua e uno di là. Parlo solo con uno alla volta, poi riferisco all’altro: continuano a non concordare.
Spiego che finché uno dice una cosa e uno un’altra io non posso sapere chi dei due sta dicendo una bugia perché non ho visto la scena; e che mangiare con un bugiardo non mi va proprio, e allora aspetto finché entrambi non sono d’accordo, e allora mangiamo insieme senza bugiardi.
Viene fuori, per sua stessa ammissione, che N. non faceva silenzio, e che ai richiami di A. gli ha dato un pizzico (”non un pizzicotto, era piccolino però”). Al che lui le ha dato un calcio, forse non intenzionale perché l’amico lì vicino l’aveva sollevato, e un pizzicotto — intanto le stava venendo fuori il livido.
A. continua a dire che non è stato lui, che al pizzico di N. si è girato e l’ha ignorata.
Io faccio presente che un livido c’è e le possibilità sono tre: o N. se l’è fatto da sola, o gliel’ha fatto A., o è stato qualcun altro. Subito A. difende gli astanti: “lui non è stato perché era lontano, lui stava parlando con me…”. Io non tiro fuori la dichiarazione della bimba minuta; dico solo: allora aspettiamo. Tutto questo condito da molto, molto silenzio.
Talvolta passa qualche animatore, che si fa spiegare che succede: un ragazzo, R., dice anche ad A. che secondo lui è stato lui. Anche a me pare ovvio, dalle guance troppo ferme mentre parla, ma non posso giudicare la mimica facciale di un bimbo che non conosco. Faccio capire a R. che per me non è un problema restare lì tutto il tempo necessario.
Ancora molto silenzio.
A un certo punto A. chiede: “Ma se viene fuori chi è stato, cosa succede? Tutto viene dimetnicato?” Rispondo: “No, se viene fuori chi è stato dovremo trovare un modo perché non succeda di nuovo.”
Ancora silenzio. N. spesso dice che non è stata lei. La tranquillizzo, ma non le do ragione, sto attenta a non dire mai lo so.
Per evitare che si perdano a pensare ad altro, più di una volta dico: io non sono un giudice, sono un’animatrice. E non sono un genitore, quindi non devo educarvi. Solo che mi da fastidio mangiare con chi dice bugie, e spero di aiutare la vostra coscienza a fare la scelta giusta.
Ogni tanto N. non ce la fa più a stare così senza far nulla: dice che è stata colpa sua (che per prima gli ha dato un pizzico), che tanto le è passato e vuole andare a mangiare. Poi ogni volta si rende conto che c’è A. seduto anche lui e aggiunge “però ti ho visto che sei stato tu! Non dire le bugie!”. Tenerissima. Ogni volta la tranquillizzo poi chiedo ad A.: “Dice che sei stato tu.” “No non sono stato io!” e io “Ok.”
Alla fine A. dice: “Mi sono stancato, sono stato io.”. Faccio alzare N. Dico a lui: “Cosa devi dirle?” “Scusa.” “E per cosa?” “Del calcio e del pizzicotto.” “E basta?” “Anche di averla fatta arrivare in ritardo a pranzo.” “Ok. N., lo perdoni?” “Va bene ma non farlo mai più!” “Su, vai a lavarti le mani senza correre.” e N. se ne va.
“E a me cosa dici?” faccio ad A. “Scusa.” “Lavati le mani sciacquati il viso e ne parliamo.”
Placco N. all’uscita del bagno, le dico: “Mi raccomando, nessuno è un santo e in altre occasioni avresti potuto essere lui. Se qualcuno chiede qualcosa in mensa tu — non sono fatti tuoi. Ok?” “Sì!” E intanto mi preparo il discorsone.
“Siediti sul tavolo anche tu. Devo dirti una cosa, ma prima te la devo spiegare, quindi ascolta bene. Non del pizzico, perché so che puoi imparare a non usare le mani. E non per la bugia, perché so che più ci si abitua più è peggio. Ma: ma per il fatto che alla fine hai detto la verità da solo, sono orgogliosa di te. Se hai dei problemi, negarli non li risolve, anzi spesso li fa diventare più grandi. D’accordo? Me lo fai un sorriso? Sono orgogliosa di te. Su, buon appetito.”
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venti luglio
Voglia di centri estivi proprio zero, sono arrivata cinque minuti in ritardo. Ultimo giorno di N., in scambio dalla Turchia; il boss sempre dentro con le cose burocratiche, ma sappiamo che non è questione di numeri: sono un branco di scimmiette a prescindere.
Un bambino mi ha mostrato un quaderno con dei giochi scritti, stile libro-gioco. L’ho incoraggiato a proseguire, e per farmi credere che è una cosa che si può fare anche crescendo gli ho mostrato Sir Gore da telefono. Un capannello in .5 secondi, in un quarto d’ora se lo sono divorato fino al capitolo 3. Ero gioiosissima per procura (io lo traduco, ok, ma in inglese, quindi non c’entravo un piffero).
Ho sbraitato le regole di un gioco nuovo, e non ne vado fiera; ma a mia discolpa si stavano facendo male e vederli in piena deriva ‘Signore delle mosche’ non era niente di tranquillizzante. Urlare mi ha fatto salire la pressione alla faccia, soprattutto agli occhi. Che fastidio. Mi sono lamentata a proposito della disparità tra animatori, chi si fa il culo e chi solo un pochino — o non sta ai piani, o permette rapporti 1:1 quando abbiamo detto in tutti i modi che vanno evitati, o minacciano di violenza fisica i bambini con una nonchalanche che mi fa infuriare dentro. Cosa dici a un bambino che gli spezzi le gambe se ancora salta? Cosa lo minacci che la prossima volta sbatti la sua testa sul tavolo per far fare silenzio? No, seriamente, cosa credi di ottenere. Io se fossi in loro ti sfiderei, e se non avessi i genitori che ho farei in modo che si lamentassero. Più pedagogicamente: sono bimbi inclini alla violenza fisica, fornirgli nuovi piani da mettere in atto non mi pare il caso. Vabbe’. Non sanno neanche distinguere la destra dalla sinistra, non sanno chi sia Beethoven (mi sarei accontentata del cane) ma non è un buon modo di fare imho.
Però sono stata soddisfatta di come ho risolto una questione tra due bimbi, robe che neanche Salomone. E ho osservato rapita una bambina più strana degli altri — penso che vorrei essere stata lei. M., che tipina. Mi ha fatto un disegno. L'ho appeso in camera. È una bimba posata e tranquilla, che a comando (proprio o altrui) inizia a shakerarsi, oppure a incrociare gli occhi, a fare versi da delfino-scimmietta, o tutte e tre assieme. Bambini come alieni.
A pranzo è una bolgia, torno verso casa serenamente oltre gli orari pattuiti e oltre il limite di decenza per tentare di nuovo l’esame. Chiamo a casa e avviso che vado in piscina, diretta. Sono stata un’ora a mollo, e fuori arrivava il temporale. M. è tornato, ma aveva turno al pomeriggio e allora in piscina ci sono andata indipendentemente (è una specie di traguardo, per me); un’ora a sguazzare, è stato bello. A un certo punto mi sono immaginata sul bordo di una piscina infinita, profondissima. Non mi ha spaventato, ma un po’ di freddo l’ho sentito. Ho fatto in apnea dieci metri; senza occhialini dopo un po’ ne ho risentito. A casa mi sono stropicciata le palpebre un po’ troppo forte e a un certo punto vedevo tutto opaco, poi è passato.
Per strada, tornando dalla piscina, ho aiutato N. a pianificare il viaggio di ritorno. Un taxi da qui all’areoporto internazionale più grande costa cento euro! Spero trovi una soluzione.
La sera non ho studiato molto, anzi; ho guardato Maigret di Atkinson, e poi praticamente basta.
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