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ti sogno spesso / nel sogno la città si sta per allagare…
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quando eravamo piccoli, i nonni cominciarono a morire uno ad uno. adesso, a morire sono gli zii. i nostri genitori iniziano ad ammalarsi, il loro corpo si affatica più facilmente e i loro pensieri si fanno meno flessibili. forse tra non troppo tempo, ci lasceranno anche loro. dentro un mondo che intanto collassa. è forse questa la vera misura del tempo. mi sento così triste, vorrei solo piangere e piangere. lo farò.
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nella mia vita ho fatto di tutto per nascondermi. ho curvato la mia schiena per rimpicciolirmi, sono finita a svolgere un lavoro solitario, fuggendo occasioni pubbliche di visibilità. ho da sempre abusato di note a pié pagina e parentesi tonde. ho evitato scollature vistose, abbigliamenti provocanti, eccessi in generale. mi sono sottratta ai festeggiamenti, all’autopromozione, al personal branding e spesso anche al confronto tra pari. gradualmente, ho ridotto fino quasi a smettere di espormi, di esprimere le mie idee a tavola con altre persone come sui social. nel farlo, è cambiato molto il modo che ho di stare con gli altri. a volte è migliorato, altre no. soprattuto, questo atteggiamento mi rende più chiusa nei confronti di nuove conoscenze e potenziali amicizie nascenti. ormai c’è questo guscio che assomiglia più ad una corazza - in cui detriti di insicurezze, paura del fraintendimento e timidezze vanno a costituire questo materiale roccioso, così difficile da scalfire. sto riflettendo su questo aspetto di me da giorni perché mi domando quanto abbia influenzato le mie scelte, quanto in generale mi ha tolto, impedendo una piena espressione della mia persona. e ci penso, perché ho paura che possa influenzare anche il mio futuro.
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mi sento sempre un po’ lusingata quando un* barista mi considera una persona fidata con la quale potersi lamentare del suo lavoro. sono contenta quando riesco a far sentire viste le persone.
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duemilaventidue: l’anno in cui, grazie allo studio, ho iniziato a soffrire di solastalgia e a piangere di commozione e paura davanti ad un paesaggio naturale. peggio ancora se lontano. pensavo fossero stronzate, e invece.
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mia cara tristezza, oggi t’ho confusa per altro. ti ho scambiata per un generico nervosismo. come ho potuto, perdonami. era da un po’ che non venivi a trovarmi, così profonda eppure discreta. hai aspettato che rientrassi per rivelarti. bentornata, dama blu.
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anche di questo rituale sono stata privata: quello della discesa a natale. per un meridionale, si tratta di un rituale identitario - di una condizione che nel farsi, ci fa. quando casa non è più casa, non c’è più un nido dove tornare o una stanza dove riunirsi e ospitare - non più giri di saluti, tovaglie verdi da gioco, noci e nocelle. i luoghi ospitano solo ricordi, non più desideri.
da grande, abbondante e chiassoso che era, natale s’è rimpicciolito, ridotto come un maglione messo in lavatrice col programma sbagliato. s’è ripiegato fino a intristire, fino a disperdere la sua aura di festa.
a questo rituale, non è la prima volta che non partecipo, e infatti non mi ferisce per questo. lo fa per altri motivi, che non riesco a spiegare ma che sento tutti, depositati come uno strato spesso di polvere o forse ordinati e messi in bella vista sugli scaffali della mia vita. mi batte dentro quel verso un po’ pretenzioso un po’ misterioso che dice: tutto fa di noi quello che siamo.
ed ecco, a me, ora, solo l’accento rimane. uno strano attaccamento ai vulcani e alle rovine. una passione per i muri scrostrati. una smania spasmodica per la salsedine. una immotivata tenerezza per le sedie impagliate.
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fun fact: grammarly mi chiede continuamente if you want to sound more confident…
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mettere insieme vari elementi: cura, affetto, riconoscimento, rispetto, impegno, fiducia e comunicazione onesta e aperta
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oggi la mia ecoansia è alle stelle e provo un grande senso di paralisi e sconforto. ho fatto pochissimo finora e non posso permettermelo. ma io non so studiare le cose in modo distaccato, non so come fare a non sentirmi legata, non so separare il cervello dalla pancia. come farò nelle prossime settimane non so, ho tanta paura di non farcela.
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il nostro corpo s’ammala e s’avvelena
poi guarisce e si rigenera
chiede attenzione e cura
ricorda la nostra finitezza
e fa da contenitore d’anima e d’organi
da linea di confine tra noi e il resto
si dona nella sua imperfezione
si intreccia nei suoi slanci d’amore
può dare nostalgia
mancare in una stanza, in un letto
può finire all’improvviso
senza troppe resistenze
può spegnersi
smettere di funzionare
senza che alcun astro celeste interrompa la sua danza
se ne va così com’è arrivato
senza senso
dentro un legame.
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ma quante braccia t’hanno stretto, tu lo sai, per diventar quel che sei
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resting is healthy. let yourself be exhausted.
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incredibile a quanti maschietti bisogna ribadire di non essere nè la loro mamma nè la loro figlia. se c’è un ruolo che voglio togliermi da dosso è proprio questo e non uso più parole gentili per mettere in chiaro questa cosa.
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Io non so se questa mia vita sta spianata su un buco vuoto. Non so se il silenzio che indago è intrecciato alla mia sostanza molle. Io non so se quello che cerco e ho cercato e cercherò, non so se quello che cerco è un insulto a quel vuoto. Non so se questo fatto di non avere un paio di ali, sia premio o castigo, io non so se la polveriera della mia inquietudine sia un trono su cui mi siedo minacciato, se la fuga che a scatti regolari mi pungola, se quel puerile sogno di fuga sia uno sgambetto d’angelo, d’un buffone d’angelo che mi vuole inciampare. Io non so se l’amore sia una guerra o una tregua, non so se l’abbandono d’amore sia una legge che la vita cuce fino al ricamo finale. Io non so che farmene di questi nemici che premono, non so che farmene oggi di questo oggi e me lo ciondolo fra le dita perplesse, non so parlare quello che è sentito nel profondo me, non so parlarlo quell’essere qui presente fra le vite degli altri. Io non so spiegarmi l’imperturbabilità di Dio, e non mi spiego di non udire il suo grave lamento, il suo urlo di collera o d’amore, e non so vederlo che sono in cecità ma vorrei sentirlo almeno piangere come piango io guardando le facce indolorate, guardando le facce con grave malattia terrestre, io non so invocarlo né bestemmiarlo che è troppo nella sottrazione e troppo astratto per i miei chili umani. Io non so forse non voglio consegnarmi negli uffici del mondo, e stare buono nelle sale d’aspetto della vita. Io non so nient’altro che la vita e molte nuvole intorno che me la confondono me la confondono e non so cosa aspetto, cosa sto aspettando in questo sporgermi al tempo che viene. Io non so e vorrei, vorrei, non so stare fuori misura, fuori misura umana, fuori da questa taglia finita. Io non so perché guardando l’acqua del mare mi salta in petto una gioia di figlio con la madre. Non so se questa uscita mia in un secolo a caso, se questo essere qui a casaccio, io non so spiegarmi questa malattia all’attacco del mondo, non so guarire questa malattia che indolora e vorrei sistemare ogni cosa, in un sogno puerile di tregua, in un’arcadia anche retorica, in un dormire abbracciato dei guerrieri che si innamorano. Io non ho capito e dovrei, non ho capito il mondo della vita, io non ho capito la legge sottostante e non ho da fare la consegna a questi eredi cuccioli che aspettano, che esigono da me l’aver capito. Io non so la canzone che spensiera e non so soccorrervi non so pur volendolo con quella forza di cagna che dà il latte, non so soccorrervi nel vostro sbando, io non so farvi un canto della guarigione, non so farvi da balsamo io non so mettervi nel coraggio essenziale, nello slancio, nel palpito. Il mio Graal l’ho ritrovato e perso cento volte. Io non so se le particelle piriche del mio disagio fanno una miccia che incendia. Non so se l’Attila del mondo ha una forza che straborda le mie dita pacifiche, non so se indurlo a guerrigliare, non so se indurlo se sedurlo se ridurlo a sagoma di sogno, non so se alzare bandiera bianca o finirò impantanato nella sua normalità stupefacente, nella sua normalità di Attila che fa terra bruciata, non so se battermi, essere patriota di un’idea sollevata, non so se fare il giuramento alla primavera che dice la sua infiorando e incantando, non so se slanciarmi nel cataclisma barbarico e dare un goccio d’acqua alle bocche screpolate dei fratelli, non so se fare il giuramento a questa tregua domestica, se fare il giuramento delle pance satolle o azionare un voltafaccia che strozza ogni boccone. Non so se nell’uno o nell’altro caso sono salvo, se sono salvo quando viene l’angelo col suo atto d’accusa, e ci condanna ancora ad una logica finanziaria e poi dà l’ordine di sospendere le vite. Io non so se la bellezza è questa accademia di centimetri, se la bellezza, la bellezza è questa carnevalesca decadenza di saltimbanchi, io non mi spiego la crocifissione della grazia, e non mi spiego perché mi trovo qui, in questo covo rivoltato in questa fossa con gli orchi attuali in questo lato barbarico della specie, e non so perché stando ad occidente non si ode quell’alleluia delle cose. Io non so se in questa schiena senza ali ci sono grandi pianure da cui fare il decollo, se in questa spina dorsale ci sono istruzioni per la manovra di decollo, se sono io la freccia di questo arco della schiena, se sono io arco e freccia, non so in quale mano non mano o zampa di Dio mi stanno torchiando, e sottoponendo al duro allenamento dei dolori terrestri. Io non so se la solitudine, se quello strazio chiamato solitudine, se quell’andare via dei corpi cari, se quel restare soli dei vivi, io non so se quel lamento della solitudine, se quel portarci via le facce se quel loro sparire di facce che avevamo dentro il respiro, non so se il dono sia questo portarci via le carezze, questa slacciatura. È poco il poco che so e di questo poco io chiedo perdono. Io chiedo perdono per quello che so, perdono io chiedo per tutto quello che so.
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