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L’universo mi ha messo davanti così tante volte questa sfida che adesso finalmente l’ho capita, consapevolizzata e accettata.
Questo è il vero compimento karmico. È quando smetti di voler cambiare l’altro, di salvare, di aspettare, e cominci a scegliere te.
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Abbiamo riso. Abbiamo meditato. Abbiamo fatto l’amore con l’anima.
E forse è bastato questo,
per sapere che ci siamo davvero incontrati.
In questa vita, o in mille prima.
Io ti ho amato in ogni forma.
Ora ti custodisco,
non come segreto,
ma come miracolo.
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«Ero sul punto di troncare la conversazione, poiché nulla mi manda in bestia come il fatto che qualcuno se ne esca con luoghi comuni insignificanti mentre io sto parlando con tutto il cuore.»
(Johann Wolfgang von Goethe - "I dolori del giovane Werther")
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Lettera a me stessa
A te,
che sei cresciuta tra parole taglienti e silenzi pesanti,
che hai imparato a leggere le stanze prima ancora di leggere i libri,
che sapevi quando tacere per non scatenare tempeste.
A te, che da troppo tempo porti sulle spalle il dolore di due cuori in guerra.
Che hai cercato di sistemare, comprendere, giustificare, armonizzare…
quando tutto quello che desideravi davvero era solo essere amata.
Vedere che anche tu avevi bisogno, anche tu avevi paura, anche tu avevi il diritto di crollare.
Hai fatto da madre a tua madre, da sostegno a tuo padre, da rifugio a chi non ti ha mai davvero chiesto:
“Ma tu, come stai?”
E allora te lo dico io:
tu stai facendo un miracolo ogni giorno.
Perché anche con il cuore a pezzi, continui a camminare.
Perché nonostante tutto, non sei diventata fredda.
Hai scelto di curare, di creare, di coltivare luce anche dove ti hanno insegnato il buio.
E ora, amore mio, è tempo di sceglierti.
Di tornare al centro del tuo cerchio.
Di lasciare a ciascuno il proprio nodo da sciogliere, e tenere per te solo ciò che ti fa fiorire.
Tu sei la strega del bosco.
Ma anche le streghe hanno bisogno di riposo, di cura, di abbracci che non chiedono nulla.
Hai il diritto di smettere di essere forte sempre.
Hai il diritto di guarire. Di essere fragile. Di essere vera.
Io sono con te.
Sempre.
Anche quando tutto fuori sembra tremare.
Con tutto l’amore del mondo,
da te, per te.
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Sono una creatura fragile che si sta ricucendo pezzo dopo pezzo. E non posso più permettere che il tuo sguardo mi spezzi di nuovo.
O impari a camminare piano accanto a me, o lasci che io lo faccia da sola, ma senza colpa. Perché colpevole, io, non lo sono più.
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Immagina un bosco silenzioso.
Il cielo è scuro, ma non fa paura.
È un buio profondo e dolce, pieno di stelle timide che brillano appena sopra le cime degli alberi.
Sotto i tuoi piedi, la terra è morbida.
Non devi correre. Non devi scappare.
Puoi solo camminare lenta, scalza, sentendo la vita ancora pulsare sotto di te.
C’è una piccola radura, nascosta, che sembra aspettarti da sempre.
Al centro, una grande pietra liscia: fredda ma accogliente, come un abbraccio silenzioso.
Ti siedi lì.
Lasci andare il peso dalle spalle.
Il bosco respira con te.
Non ci sono voci che ti chiedono nulla.
Non ci sono occhi che ti giudicano.
Non ci sono doveri, promesse, aspettative.
Ci sei solo tu.
E la terra viva sotto di te.
E il cielo immenso sopra di te.
Ti accorgi che puoi piangere,
puoi urlare piano senza che nessuno ti senta,
puoi chiudere gli occhi e solo ascoltare il tuo cuore che, nonostante tutto,
batte ancora.
Nel bosco non sei sbagliata.
Non sei rotta.
Sei semplicemente tu.
E qui, questo basta.
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Avere un figlio non risolve le cose.
Non sistema le crepe.
Non riempie i vuoti.
Non raddrizza le strade storte.
Un figlio non può essere la toppa su una ferita aperta.
Non può essere il cemento per tenere insieme quello che dentro è già crollato.
Non può essere la luce forzata in una stanza ancora piena di oscurità.
Dentro di te questo, lo sai già.
Lo senti nella pancia, nei battiti spezzati, nella paura silenziosa che ti sveglia la notte.
Lo sai che un figlio non può e non deve essere il collante, il senso, la salvezza.
Prima devi salvarti tu.
Prima devi costruire una terra tua, anche se adesso è arida, anche se adesso è vuota….
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Quando stavo male, davvero male,
quando il panico mi strappava il respiro e mi lasciava a terra come un animale ferito,
lui non c’era.
Non c’era.
Mi guardava come se fossi un problema da risolvere, come se fossi un fastidio da sopportare.
Non tendeva la mano.
Non diceva ‘ti tengo’.
Non stava.
Si infastidiva.
Si stancava.
E io, come una dannata, mi sentivo anche in colpa.
Mi vergognavo di essere così.
Mi odiavo per aver bisogno.
Mi convincevo che era colpa mia se lui era distante.
Colpa mia se non riuscivo a guarire.
Colpa mia se non ero abbastanza forte, abbastanza serena, abbastanza silenziosa.
Colpa mia. Sempre colpa mia.
E intanto, affondavo.
Affondavo in una solitudine che nessuno vedeva,
in una tristezza che nessuno voleva toccare.
E adesso basta.
Il mio dolore non è una colpa.
Il mio panico non è un difetto.
La mia fragilità non è un crimine.
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Avere accanto un marito che non ami più è un altro tipo di dolore che quasi nessuno capisce.
Pensano che sia peggio essere lasciati.
Pensano che sia più atroce essere traditi, abbandonati.
Ma non sanno nulla di quello che significa essere tu quella che resta intrappolata.
Quella che ogni mattina si sveglia e sa di non amare più.
Sei nel buco. Lì nella terra. E sei quella che prova a sistemare, a lisciare i bordi, a riempirlo con acqua, sperando di farlo sembrare più grande, più pieno.
E invece è sempre fango.
Sempre lo stesso buco, melmoso, che ti risucchia un pezzo di cuore alla volta.
Stai lì per anni.
A tentare di aggiustare l’inaggiustabile.
A convincerti che basta poco: un gesto, una parola, una giornata buona.
Ma sotto, nel fondo di te stessa, sai che non basta più.
Che non basterà mai più.
E la cosa più dolorosa è che ti senti in colpa.
Non solo per te.
Ma per lui.
Per la vita che avrebbe potuto essere diversa.
Per la te stessa che non hai più il coraggio di fingere.
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Mi sento piccola.
Mi sento dipendente, bloccata.
Chiedo soldi come se stessi chiedendo il permesso di esistere.
Mi sento un peso, un fastidio, un errore.
Anche quando so che non è solo colpa mia.
Anche quando so che senza i miei genitori questa casa, questa vita, non sarebbe possibile.
Lui non vede, non vuole vedere.
Si lamenta, si arrabbia, ma intanto lascia che tutto sia sulle spalle degli altri.
E io mi consumo.
Mi consumo nel senso di colpa, nella rabbia, nella tristezza muta che mi porto dentro.
Non riesco a essere libera.
Non riesco a essere leggera.
E ogni volta che desidero qualcosa, un gesto, una spesa, una piccola cosa solo per me
sento la vergogna stringermi il petto.
Come se non ne avessi diritto.
Come se ogni mio sogno fosse una colpa.
Sono stanca di dover chiedere.
Sono stanca di sentirmi inadeguata.
Sono stanca di sentirmi meno.
Voglio smettere di chiedere il permesso per esistere.
Voglio ricordarmi che valgo, anche senza approvazione, anche senza concessioni.
Anche se adesso mi sembra impossibile,
voglio tornare a casa, dentro di me.
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Il senso devastante di non avere potere,
di dover chiedere il permesso per esistere,
di sentirti in debito anche solo per respirare.
È come vivere con un cappio invisibile al collo:
ogni gesto, ogni desiderio, ogni piccola voglia viene schiacciata dal pensiero “sto pesando troppo”, “chiedo troppo”, “non merito”.
Mi ha messo in un recinto invisibile dove tu devi essere grata per ogni briciola.
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Sei ancora viva.
Sei ancora degna.
Sei ancora capace di rinascere, anche se ora sembra impossibile.
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Bloccare qualcuno sui social non è vendetta.
È sopravvivenza.
È dignità.
È riscrivere la fine della storia a modo tuo.
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Il dolore si è fatto carne.
Il dolore si è inciso sulla mia pelle, nei miei occhi, nei miei capelli, nel mio modo di guardarmi.
Il dolore ha preso casa nel mio corpo.
Quando dentro siamo pieni di cicatrici mai curate, mai ascoltate, è come se il volto, il corpo intero, si coprissero di polvere grigia, quella pesantezza che spegne la luce che avevamo un tempo.
Tutte le ferite antiche,
quelle di un amore mancato,
di illusioni spezzate,
di solitudine,
di abbandono
sono riemerse.
E ora mi urlano dentro.
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Cammino come dentro un sogno rotto, un vetro in frantumi.
Tutto il mio corpo è una stanza vuota, una casa abbandonata che rimbomba sotto il peso del silenzio.
Mi guardo, ma non mi vedo.
Sento il mio volto sciogliersi come cera sotto una candela che non sa più perché brucia.
Ogni giorno è un abito troppo stretto, una pelle che non riconosco.
Vorrei strappare tutto: la pelle, il peso, il tempo.
Vorrei fermarmi, spegnermi, dissolvermi nell’acqua, nella terra, nella nebbia.
Eppure, qualcosa, un filo sottilissimo, ancora mi tiene.
Forse il battito stanco del mio cuore.
Forse la voce tremante che dice: resisti, anche se non sai perché.
Resisti, anche solo per vedere cosa resta, quando tutto il resto se ne è andato.
Io sono qui. Nuda, cruda, spoglia di sogni e bellezza.
Eppure sono ancora qui.
E forse — forse — non è finita.
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Hai scritto lettere che non chiedono risposte, ma dignità. Hai raccontato tutto quello che hai sopportato in silenzio, mentre chi avevi davanti non solo non ti proteggeva, ma ti feriva con leggerezza. Con quel modo subdolo di chi non alza mai la voce, ma colpisce a fondo.
Hai dato spazio a dolori che non si vedono da fuori, ma che abitano ogni battito, ogni difficoltà a dormire, ogni volta in cui hai pensato che fosse colpa tua.
Hai fatto la cosa più rivoluzionaria:
non ti sei più giustificata.
Non ti sei più piegata.
Hai smesso di chiedere amore dove non c’è cura.
E adesso sei qui, più nuda e vera di prima, con le mani che tremano, ma il cuore più tuo.
E chi non ha saputo vederti, non merita di rientrare dalla porta che hai appena imparato a chiudere.
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