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The Vision Of Sound
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Le magia musicale della ECM Records
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rickthedoctor-blog ¡ 7 years ago
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Reflections are never as true as the source. (at Falcon Lake, Manitoba)
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rickthedoctor-blog ¡ 7 years ago
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THOMAS STRØNEN, TIME IS A BLIND GUIDE - Lucus (ECM 2576)
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Il concetto di “globalizzazione” assume una forma concreta in questo album, dove accanto al compositore/percussionista norvegese Thomas Strønen troviamo il suo ensemble Time Is A Blind Guide arricchito dalla presenza della pianista nipponica Ayumi Tanaka già perfettamente inserita nella filosofia del combo e che arricchisce con un tocco sopraffino la già sofisticata proposta musicale dei jazzisti nordici.
“Lucus” vive, infatti, di momenti rarefatti puntellati dai tappeti di archi, dalle efficaci partiture del pianoforte e dalle spazzole di Strønen che legano il tutto in modo mirabile. Ma questi musicisti non disdegnano anche una certa vivacità come nella title-track, o nella bellissima “Friday”, o nelle tribali percussioni di “Baka”, quest’ultima palesemente ‘bartokiana’ fino al midollo.
Non è un disco semplice questo; è un lavoro che necessità più ascolti per essere apprezzato nella sua intimità. Un po’ stucchevole, forse, in alcuni intermezzi, ma che globalmente si lascia apprezzare per ispirazione e ricerca sonora. Per molti, insomma, ma non certo per tutti.
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rickthedoctor-blog ¡ 7 years ago
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Milford Sound_3031.jpg (New Zealand) by eyemac23 
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rickthedoctor-blog ¡ 7 years ago
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KIT DOWNES - Obsidian (ECM 2559)
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Questo album è stupefacente... e la recensione potrebbe anche finire qui, considerato che altri epiteti per definire “Obsidian” difficilmente renderebbero meglio l’idea della magnificenza di questo lavoro. Ma è altrettanto vero che il nuovo album di quello che è considerato uno degli astri nascenti del jazz anglosassone va trattato con tutti i crismi perché rischia davvero di meritarsi almeno il podio tra i migliori dischi del 2018 (e siamo solo a gennaio...).
In “Obsidian”, Downes accantona il pianoforte per dedicarsi anima e corpo alla esaltazione dell’organo liturgico, o, meglio, degli organi visto che per realizzare l’album ne sono stati utilizzati tre, diversi per caratteristiche e sonorità. Accompagnato dal sax tenore di Tom Challenger (un gregario di lusso in tutti i sensi), Kit Downes affronta un viaggio introspettivo nel sound organistico più oscuro e inquietante, ma non per questo meno affascinante e suggestivo. Nessun palese riferimento alla musica sacra: qui l’organo viene trattato come Klaus Schulze trattava i sintetizzatori durante i primi viaggi interstellari dei suoi Tangerine Dream, da cui Downes sembra quasi riceverne l’eredità, creando atmosfere di grandissimo impatto emotivo che ne raccolgono il testimone in fatto di “cosmicità”.
Inutile citare l’uno o l’altro brano: “Obsidian” va ascoltato com un’opera nella sua totalità, un vero e proprio concept che si dipana tra sinfonismi e interludi senza un attimo di noia, senza un cedimento ispirativo ma facendo emergere la piena consapevolezza di trovarsi di fronte ad un artista di grande spessore e dalle potenzialità immense. 
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rickthedoctor-blog ¡ 8 years ago
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looking into infinity | itseriksen
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rickthedoctor-blog ¡ 8 years ago
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DJANGO BATES’ BELOVÈD - The Study Of Touch (ECM 2534)
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Mai come in questo caso titolo fu più azzeccato. Il “tocco” sui tasti d’avorio di Django Bates, pur vivendo in parte sull’onda dell’improvvisazione, si propone come efficace paradigma per mostrare quanta dedizione e quanto impegno un musicista dotato di grande sensibilità deve profondere per raggiungere risultati d’eccellenza.
Da questo punto di vista, il pianista inglese non deve prendere lezioni da nessuno ma, anzi, si percepisce come un raffinato didatta dotato di classe innata e di profondo amore per il jazz. CosĂŹ, chiamati a sĂŠ il bassista svedese Petter Eldh e il batterista danese Peter Brunn, realizza un album in cui, durante la lunghezza delle undici tracce che lo compongono, le memorie dei grandi del passato incontrano una visione musicale del presente da cui traggono linfa vitale e una freschezza invidiabile.
Estimatore di Charlie Parker (la dinamica “Passport” è un chiaro omaggio al “bop” di cui “Birdie” si fece portavoce) ma anche del Jarrett meno ‘sperimentale’ e introspettivo, Bates fa fluire le note con naturale dolcezza come in “Little Petherick” o in “This World” ma si lascia andare anche a fraseggi più spigolosi e vivaci (”Giorgiantics”, “Slippage Streets”) fino a confluire nella notturna e misteriosa title-track, di ‘monkiana’ memoria che si propone come summa delle idee esposte lungo l’intero lavoro.
Musicista, didatta, pianista, jazzista... Tutti epiteti che singolarmente stanno stretti a Django Bates che, proprio come un moderno Thelonious Monk sfugge a qualsiasi definizione lasciandoci solo la traccia indelebile di un genio innato per la musica.
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rickthedoctor-blog ¡ 8 years ago
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(by Filip Zrnzević)
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rickthedoctor-blog ¡ 8 years ago
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ANAT FORT  TRIO, GIANLUIGI TROVESI - Birdwatching (ECM 2382)
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Non è un caso che l’anima sensibile della pianista israeliana Anat Fort si sia incontrata con quella altrettanto musicalmente nobile di Gianluigi Trovesi, musicisti raffinatissimi entrambi e accomunati dall’amore per un jazz notturno ed estremamente sofisticato.
Coadiuvati da Gary Wang al basso e Roland Schneider alle percussioni, i due protagonisti dell’album dialogano attraverso pianoforte e clarinetto attraverso dodici capitoli densi di emotività ma non per questo deboli in fatto di energia espressiva; ne è la prova un pezzo come “Not The Perfect Storm”, che profuma della salsedine delle onde di un mare agitato e che nel finale trova la calma,
E proprio la natura è la musa ispiratrice della Fort che trova gli sbocchi più ampi per esternare il proprio talento in “Earth Talks”, “Murmuration” e nella conclusiva “Sun”, mentre l’apice dell’album lo tocca quella “Meditation For A New Year” che rivela un mirabile lavoro d’insieme della band e che consacra definitivamente la musicista di Tel Aviv a stella di prima grandezza nel panorama jazzistico internazionale.
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rickthedoctor-blog ¡ 9 years ago
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rickthedoctor-blog ¡ 9 years ago
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RALPH ALESSI, GARY VERSACE, DREW GRESS, NASHEET WAITS - Quiver (ECM 2438)
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A tre anni di distanza da “Baida” (ECM 2321), album di debutto come leader per la ECM, torna sulle scene il trombettista Ralph Alessi e lo fa con un lavoro di non facile assimilazione, morbido nelle linee melodiche ma particolarmente complesso nella costruzione dei singoli brani. Accompagnato dalla fidata sezione ritmica composta da Drew Gress al basso e da Nasheet Waits alla batteria (recentemente apprezzato nell’ultimo album di Avishai Coehn - ECM 2482), e con il pianista Gary Versace a sostituire Jason Moran, Alessi prosegue nella sua evoluzione di musicista liberandosi a poco a poco degli “scomodi” paragoni con i grandi del passato (Kenny Wheeler su tutti ma anche - ovviamente - Miles Davis) e delineando una propria personalità via via sempre più definita
“Quiver” non è un album semplice proprio perché estremamente intimista; è una lente di ingrandimento che analizza minuziosamente il sensibile animo artistico di Ralph Alessi attraverso uno stile notturno ma, nel contempo, ricco di tensione e delicato dinamismo. Ne sono la prova i primi due brani “Window Goodbyes” e “Smooth Descend” (”Here Tomorrow” altro non è che una breve introduzione all’album) ricchi di suggestioni ma, talora, anche spigolosi. Il compito di esprimere una riflessività più lineare è affidato a “Heist”, dove il tocco morbido di Waits accompagna il profondo lirismo della tromba di Alessi nel modo più efficace.
Con ”Gone Today, Here Tomorrow”  e, successivamente anche in “Scratch”, si torna a percorrere terreni più ‘accidentati’ ma rispetto ai brani precedenti, Alessi si appoggia ad una forma jazzistica più tradizionale e anche il resto della band sembra seguirlo in modo più fluido, sebbene venga lasciato il giusto spazio ad una buona dose di improvvisazione nei breaks centrali. La tradizione del jazz mitteleuropeo ormai diventata marchio di fabbrica della ECM emerge prepotentemente in “I To I” e nella title-track (in quest’ultima da rimarcare il delicato lavoro di cesello al pianoforte di Versace), mentre nella conclusiva e brevissima “Do Over” si torna a respirare profumo di jazz sessantiano a là Davis, ricco di contrattempi e suggestioni e degna conclusione di un lavoro per nulla facile ma che dopo ripetuti e attenti ascolti potrebbe lasciare una traccia ben difficile da cancellare.
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rickthedoctor-blog ¡ 9 years ago
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by Vince
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rickthedoctor-blog ¡ 9 years ago
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TORD GUSTAVSEN, SIMIN TANDER, JARLE VESPESTAD - What Was Said (ECM 2465)
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Non è assolutamente facile stilare un giudizio su questo nuovo lavoro del pianista norvegese Todd Gustavsen per due ordini di motivi. Innanzitutto, la fonte di ispirazione rappresentata dalla tradizione sacra scandinava qui ripresa e trasfigurata in una forma di jazz minimale, aggraziata dalla voce della cantante tedesco-afghana Simin Tander. In secondo luogo, proprio l’unione della riscoperta della musica tradizionale sacra autoctona e di una vena intimista esaltata dalla grande sensibilità di Gustavsen, della Tander e del batterista Jarle Vespestad, fa sì che il valore di ogni singolo brano sia apprezzabile solamente dopo più di un ascolto attento e scevro da preconcetti.
Solo in questo modo si riesce a cogliere il grande lavoro di rielaborazione in pezzi come “I See You”, “Castle In Heaven” o “Sweet Melting”, tutti appartenenti alla cultura musicale sacra norvegese e interpretati con grande partecipazione da Simin Tander, la quale declama versi creati dal connazionale poeta B. Hamsaaya che si sposano incredibilmente bene con melodie apparentemente così distanti. Ed è proprio questo il maggior merito del trio, l’aver avvicinato, cioè, due culture talmente diverse tra loro a tal punto da non distinguerne le differenze strutturali quando assumono la forma della poesia in musica.
Accanto a tutto questo, non bisogna dimenticare gli interludi creati da Gustavsen e Vespestad che trovano nella doppietta “The Way You Play My Heart”/”Rull” il momento musicalmente più alto dell’album, raffinato compendio della più fulgida espressione del jazz nordico. Il tutto destinato a sublimarsi in un lavoro suggestivo e nel contempo di difficile interpretazione ma che trova nella sensibilità estrema del trio la chiave di volta per essere certamente apprezzato da chi si professa amante della buona musica.
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GyĂśrgy KurtĂĄg ha compiuto ieri 90 anni: tanti auguri, Maestro.
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rickthedoctor-blog ¡ 9 years ago
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FOOD - This Is Not A Miracle (ECM 2417)
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E’ sempre motivo di interesse e fonte di curiosità il ritorno sulla scena del progetto Food, ovvero il duo formato dal polistrumentista Thomas Strønen e dal  sassofonista Ian Ballamy, come sempre affiancati da quel genio della musica elettronica che risponde al nome di Christian Fennesz (da ricordare il suo capolavoro “Cendre” realizzato assieme a Ryuichi Sakamoto). Questo terzo lavoro, dopo “Quiet Inlet” (ECM 2163) del 2010 e “Mercurial Balm” (ECM 2269) del 2012 radicalizza ulteriormente l’atteggiamento sperimentale del trio, portando la loro proposta su territori in cui la musica si fa sempre più spigolosa, soprattutto dal punto di vista ritmico, e addolcita solamente dalle note del sax di Ballamy.
L’influenza di Fennesz si sente eccome (basti ascoltare attentamente i suoi plurimi interventi chitarristici in “The Concept Of Density” o nell’incipit ruvido di “Sinking Gardens Of Babylon”), ma ciò non snatura minimamente lo spirito di gruppo, ove la mente pensante rimane quella di Strønen, autore unico di tutti i brani, ma l’amalgama finale è quello di un riuscito lavoro di insieme. Prova ne è un pezzo come “Where Dry Desert Ends”, in cui l’andamento ritmico di base è un mirabile pretesto per costruire una architettura sonora complessa e affascinante, dove elettronica e puro spirito jazzistico d’avanguardia si sposano perfettamente.
Ci sono comunque momenti di grande atmosfera, come quelli creati da “Age Of Innocence”, brano dominato dal sax di Ian Bellamy, inframmezzati, comunque, da episodi di suggestivo minimalismo sonoro (”The Grain Mill” è paradigmatica in tal senso) che non mancheranno di soddisfare i palati più fini della elettronica più sofisticata. Insomma, terzo album, terzo centro per un progetto che ha raggiunto un’identità oramai ben definita e che si propone come fulgida realtà della fusion electro-jazz europea.
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Stormy Sea, Italy
by PICCOLAUMA
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rickthedoctor-blog ¡ 9 years ago
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AVISHAI COHEN - Into The Silence (ECM 2482)
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Ho un ricordo vivido dell’emozione che mi diede il suono della tromba di Avishai Cohen quando ascoltai per la prima volta il suo bellissimo “Continuo”: da profondo estimatore di Miles Davis, rimasi piacevolmente stupito da come il trombettista di Tel Aviv avesse catturato lo spirito “esplorativo” del Maestro, pur con uno stile personalissimo, inglobandolo nella tradizione mediterranea di un sound ormai diventato paradigmatico per le nuove leve jazzistiche europee.
Questa coraggiosa e affascinante attitudine trova pieno sviluppo in questo “Into the silence”, lavoro dedicato da Avishai alla figura del padre David e, pertanto, condizionato (favorevolmente, aggiungerei...) da un coinvolgimento emotivo che ne eleva il lirismo. Difatti, la tromba di Cohen raggiunge livelli estremamente significativi di espressività già dal primo brano “Life And Death”, in cui si sente, sì, la lezione di Davis e di Enrico Rava, ma dove si può tranquillamente apprezzare quanta personalità Cohen infonda nel sound, dolce e nel contempo drammatico come la dicotomia che dà il titolo al pezzo. Ottimo, il lavoro di insieme della band, su tutti la grande abilità del pianista Yonathan Avishai, il quale si eleva prepotente nella successiva “Dream Like A Child” lasciando a Cohen il difficile compito di doppiarlo solo nella seconda metà del brano.
E’ affidato al tribale suono della batteria di Nasheet Waits il drammatico incipit della title-track, subito agganciata da pianoforte e tromba a tessere una trama oscura e riflessiva e dove maggiormente si apprezza il coraggio di sperimentare del musicista israeliano e dei vari componenti della band. I toni si smorzano in “Quiescence” e torna a farsi apprezzare un suono vicino al Rava ‘notturno’ di “New York Days” (ECM 2064), sostenuto dal basso ipnotico di Eric Revis e dal tappeto di pianoforte di Avishai a sostenere efficacemente il monologo della tromba. Sulla stessa linea si pone “Behind The Broken Glass”, un’altra riflessione in musica più dinamica dal punto di vista ritmico (Paul Motion docet) ma comunque estremamente ‘sentita’ da Cohen, che lascia il giusto spazio anche alle noti calde del sax tenore di Bill McHenry che a suo tempo collaborò proprio con Motion e Andrew Cyrille.
Un breve epilogo affidato ancora alla sensibilità estrema di Yonathan Avishai fa calare il sipario su un album che consacra definitivamente Avishai Cohen a stella di prima grandezza del panorama jazz moderno e che si pone come emozionante e intenso termine di paragone per le nuove leve che si affacciano su di esso. 
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