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Reflections are never as true as the source. (at Falcon Lake, Manitoba)
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THOMAS STRĂNEN, TIME IS A BLIND GUIDE - Lucus (ECM 2576)

Il concetto di âglobalizzazioneâ assume una forma concreta in questo album, dove accanto al compositore/percussionista norvegese Thomas Strønen troviamo il suo ensemble Time Is A Blind Guide arricchito dalla presenza della pianista nipponica Ayumi Tanaka giĂ perfettamente inserita nella filosofia del combo e che arricchisce con un tocco sopraffino la giĂ sofisticata proposta musicale dei jazzisti nordici.
âLucusâ vive, infatti, di momenti rarefatti puntellati dai tappeti di archi, dalle efficaci partiture del pianoforte e dalle spazzole di Strønen che legano il tutto in modo mirabile. Ma questi musicisti non disdegnano anche una certa vivacitĂ come nella title-track, o nella bellissima âFridayâ, o nelle tribali percussioni di âBakaâ, questâultima palesemente âbartokianaâ fino al midollo.
Non è un disco semplice questo; è un lavoro che necessitĂ piĂš ascolti per essere apprezzato nella sua intimitĂ . Un poâ stucchevole, forse, in alcuni intermezzi, ma che globalmente si lascia apprezzare per ispirazione e ricerca sonora. Per molti, insomma, ma non certo per tutti.
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Milford Sound_3031.jpg (New Zealand) by eyemac23Â
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KIT DOWNES - Obsidian (ECM 2559)

Questo album è stupefacente... e la recensione potrebbe anche finire qui, considerato che altri epiteti per definire âObsidianâ difficilmente renderebbero meglio lâidea della magnificenza di questo lavoro. Ma è altrettanto vero che il nuovo album di quello che è considerato uno degli astri nascenti del jazz anglosassone va trattato con tutti i crismi perchĂŠ rischia davvero di meritarsi almeno il podio tra i migliori dischi del 2018 (e siamo solo a gennaio...).
In âObsidianâ, Downes accantona il pianoforte per dedicarsi anima e corpo alla esaltazione dellâorgano liturgico, o, meglio, degli organi visto che per realizzare lâalbum ne sono stati utilizzati tre, diversi per caratteristiche e sonoritĂ . Accompagnato dal sax tenore di Tom Challenger (un gregario di lusso in tutti i sensi), Kit Downes affronta un viaggio introspettivo nel sound organistico piĂš oscuro e inquietante, ma non per questo meno affascinante e suggestivo. Nessun palese riferimento alla musica sacra: qui lâorgano viene trattato come Klaus Schulze trattava i sintetizzatori durante i primi viaggi interstellari dei suoi Tangerine Dream, da cui Downes sembra quasi riceverne lâereditĂ , creando atmosfere di grandissimo impatto emotivo che ne raccolgono il testimone in fatto di âcosmicitĂ â.
Inutile citare lâuno o lâaltro brano:Â âObsidianâ va ascoltato com unâopera nella sua totalitĂ , un vero e proprio concept che si dipana tra sinfonismi e interludi senza un attimo di noia, senza un cedimento ispirativo ma facendo emergere la piena consapevolezza di trovarsi di fronte ad un artista di grande spessore e dalle potenzialitĂ immense.Â
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DJANGO BATESâ BELOVĂD - The Study Of Touch (ECM 2534)

Mai come in questo caso titolo fu piĂš azzeccato. Il âtoccoâ sui tasti dâavorio di Django Bates, pur vivendo in parte sullâonda dellâimprovvisazione, si propone come efficace paradigma per mostrare quanta dedizione e quanto impegno un musicista dotato di grande sensibilitĂ deve profondere per raggiungere risultati dâeccellenza.
Da questo punto di vista, il pianista inglese non deve prendere lezioni da nessuno ma, anzi, si percepisce come un raffinato didatta dotato di classe innata e di profondo amore per il jazz. CosĂŹ, chiamati a sĂŠ il bassista svedese Petter Eldh e il batterista danese Peter Brunn, realizza un album in cui, durante la lunghezza delle undici tracce che lo compongono, le memorie dei grandi del passato incontrano una visione musicale del presente da cui traggono linfa vitale e una freschezza invidiabile.
Estimatore di Charlie Parker (la dinamica âPassportâ è un chiaro omaggio al âbopâ di cui âBirdieâ si fece portavoce) ma anche del Jarrett meno âsperimentaleâ e introspettivo, Bates fa fluire le note con naturale dolcezza come in âLittle Petherickâ o in âThis Worldâ ma si lascia andare anche a fraseggi piĂš spigolosi e vivaci (âGiorgianticsâ, âSlippage Streetsâ) fino a confluire nella notturna e misteriosa title-track, di âmonkianaâ memoria che si propone come summa delle idee esposte lungo lâintero lavoro.
Musicista, didatta, pianista, jazzista... Tutti epiteti che singolarmente stanno stretti a Django Bates che, proprio come un moderno Thelonious Monk sfugge a qualsiasi definizione lasciandoci solo la traccia indelebile di un genio innato per la musica.
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ANAT FORT Â TRIO, GIANLUIGI TROVESI - Birdwatching (ECM 2382)

Non è un caso che lâanima sensibile della pianista israeliana Anat Fort si sia incontrata con quella altrettanto musicalmente nobile di Gianluigi Trovesi, musicisti raffinatissimi entrambi e accomunati dallâamore per un jazz notturno ed estremamente sofisticato.
Coadiuvati da Gary Wang al basso e Roland Schneider alle percussioni, i due protagonisti dellâalbum dialogano attraverso pianoforte e clarinetto attraverso dodici capitoli densi di emotivitĂ ma non per questo deboli in fatto di energia espressiva; ne è la prova un pezzo come âNot The Perfect Stormâ, che profuma della salsedine delle onde di un mare agitato e che nel finale trova la calma,
E proprio la natura è la musa ispiratrice della Fort che trova gli sbocchi piĂš ampi per esternare il proprio talento in âEarth Talksâ, âMurmurationâ e nella conclusiva âSunâ, mentre lâapice dellâalbum lo tocca quella âMeditation For A New Yearâ che rivela un mirabile lavoro dâinsieme della band e che consacra definitivamente la musicista di Tel Aviv a stella di prima grandezza nel panorama jazzistico internazionale.
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RALPH ALESSI, GARY VERSACE, DREW GRESS, NASHEET WAITS - Quiver (ECM 2438)

A tre anni di distanza da âBaidaâ (ECM 2321), album di debutto come leader per la ECM, torna sulle scene il trombettista Ralph Alessi e lo fa con un lavoro di non facile assimilazione, morbido nelle linee melodiche ma particolarmente complesso nella costruzione dei singoli brani. Accompagnato dalla fidata sezione ritmica composta da Drew Gress al basso e da Nasheet Waits alla batteria (recentemente apprezzato nellâultimo album di Avishai Coehn - ECM 2482), e con il pianista Gary Versace a sostituire Jason Moran, Alessi prosegue nella sua evoluzione di musicista liberandosi a poco a poco degli âscomodiâ paragoni con i grandi del passato (Kenny Wheeler su tutti ma anche - ovviamente - Miles Davis) e delineando una propria personalitĂ via via sempre piĂš definita
âQuiverâ non è un album semplice proprio perchĂŠ estremamente intimista; è una lente di ingrandimento che analizza minuziosamente il sensibile animo artistico di Ralph Alessi attraverso uno stile notturno ma, nel contempo, ricco di tensione e delicato dinamismo. Ne sono la prova i primi due brani âWindow Goodbyesâ e âSmooth Descendâ (âHere Tomorrowâ altro non è che una breve introduzione allâalbum) ricchi di suggestioni ma, talora, anche spigolosi. Il compito di esprimere una riflessivitĂ piĂš lineare è affidato a âHeistâ, dove il tocco morbido di Waits accompagna il profondo lirismo della tromba di Alessi nel modo piĂš efficace.
Con âGone Today, Here Tomorrowâ  e, successivamente anche in âScratchâ, si torna a percorrere terreni piÚ âaccidentatiâ ma rispetto ai brani precedenti, Alessi si appoggia ad una forma jazzistica piĂš tradizionale e anche il resto della band sembra seguirlo in modo piĂš fluido, sebbene venga lasciato il giusto spazio ad una buona dose di improvvisazione nei breaks centrali. La tradizione del jazz mitteleuropeo ormai diventata marchio di fabbrica della ECM emerge prepotentemente in âI To Iâ e nella title-track (in questâultima da rimarcare il delicato lavoro di cesello al pianoforte di Versace), mentre nella conclusiva e brevissima âDo Overâ si torna a respirare profumo di jazz sessantiano a lĂ Davis, ricco di contrattempi e suggestioni e degna conclusione di un lavoro per nulla facile ma che dopo ripetuti e attenti ascolti potrebbe lasciare una traccia ben difficile da cancellare.
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TORD GUSTAVSEN, SIMIN TANDER, JARLE VESPESTAD - What Was Said (ECM 2465)

Non è assolutamente facile stilare un giudizio su questo nuovo lavoro del pianista norvegese Todd Gustavsen per due ordini di motivi. Innanzitutto, la fonte di ispirazione rappresentata dalla tradizione sacra scandinava qui ripresa e trasfigurata in una forma di jazz minimale, aggraziata dalla voce della cantante tedesco-afghana Simin Tander. In secondo luogo, proprio lâunione della riscoperta della musica tradizionale sacra autoctona e di una vena intimista esaltata dalla grande sensibilitĂ di Gustavsen, della Tander e del batterista Jarle Vespestad, fa sĂŹ che il valore di ogni singolo brano sia apprezzabile solamente dopo piĂš di un ascolto attento e scevro da preconcetti.
Solo in questo modo si riesce a cogliere il grande lavoro di rielaborazione in pezzi come âI See Youâ, âCastle In Heavenâ o âSweet Meltingâ, tutti appartenenti alla cultura musicale sacra norvegese e interpretati con grande partecipazione da Simin Tander, la quale declama versi creati dal connazionale poeta B. Hamsaaya che si sposano incredibilmente bene con melodie apparentemente cosĂŹ distanti. Ed è proprio questo il maggior merito del trio, lâaver avvicinato, cioè, due culture talmente diverse tra loro a tal punto da non distinguerne le differenze strutturali quando assumono la forma della poesia in musica.
Accanto a tutto questo, non bisogna dimenticare gli interludi creati da Gustavsen e Vespestad che trovano nella doppietta âThe Way You Play My Heartâ/âRullâ il momento musicalmente piĂš alto dellâalbum, raffinato compendio della piĂš fulgida espressione del jazz nordico. Il tutto destinato a sublimarsi in un lavoro suggestivo e nel contempo di difficile interpretazione ma che trova nella sensibilitĂ estrema del trio la chiave di volta per essere certamente apprezzato da chi si professa amante della buona musica.
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GyĂśrgy KurtĂĄg ha compiuto ieri 90 anni: tanti auguri, Maestro.
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FOOD - This Is Not A Miracle (ECM 2417)

Eâ sempre motivo di interesse e fonte di curiositĂ il ritorno sulla scena del progetto Food, ovvero il duo formato dal polistrumentista Thomas Strønen e dal  sassofonista Ian Ballamy, come sempre affiancati da quel genio della musica elettronica che risponde al nome di Christian Fennesz (da ricordare il suo capolavoro âCendreâ realizzato assieme a Ryuichi Sakamoto). Questo terzo lavoro, dopo âQuiet Inletâ (ECM 2163) del 2010 e âMercurial Balmâ (ECM 2269) del 2012 radicalizza ulteriormente lâatteggiamento sperimentale del trio, portando la loro proposta su territori in cui la musica si fa sempre piĂš spigolosa, soprattutto dal punto di vista ritmico, e addolcita solamente dalle note del sax di Ballamy.
Lâinfluenza di Fennesz si sente eccome (basti ascoltare attentamente i suoi plurimi interventi chitarristici in âThe Concept Of Densityâ o nellâincipit ruvido di âSinking Gardens Of Babylonâ), ma ciò non snatura minimamente lo spirito di gruppo, ove la mente pensante rimane quella di Strønen, autore unico di tutti i brani, ma lâamalgama finale è quello di un riuscito lavoro di insieme. Prova ne è un pezzo come âWhere Dry Desert Endsâ, in cui lâandamento ritmico di base è un mirabile pretesto per costruire una architettura sonora complessa e affascinante, dove elettronica e puro spirito jazzistico dâavanguardia si sposano perfettamente.
Ci sono comunque momenti di grande atmosfera, come quelli creati da âAge Of Innocenceâ, brano dominato dal sax di Ian Bellamy, inframmezzati, comunque, da episodi di suggestivo minimalismo sonoro (âThe Grain Millâ è paradigmatica in tal senso) che non mancheranno di soddisfare i palati piĂš fini della elettronica piĂš sofisticata. Insomma, terzo album, terzo centro per un progetto che ha raggiunto unâidentitĂ oramai ben definita e che si propone come fulgida realtĂ della fusion electro-jazz europea.
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AVISHAI COHEN - Into The Silence (ECM 2482)

Ho un ricordo vivido dellâemozione che mi diede il suono della tromba di Avishai Cohen quando ascoltai per la prima volta il suo bellissimo âContinuoâ: da profondo estimatore di Miles Davis, rimasi piacevolmente stupito da come il trombettista di Tel Aviv avesse catturato lo spirito âesplorativoâ del Maestro, pur con uno stile personalissimo, inglobandolo nella tradizione mediterranea di un sound ormai diventato paradigmatico per le nuove leve jazzistiche europee.
Questa coraggiosa e affascinante attitudine trova pieno sviluppo in questo âInto the silenceâ, lavoro dedicato da Avishai alla figura del padre David e, pertanto, condizionato (favorevolmente, aggiungerei...) da un coinvolgimento emotivo che ne eleva il lirismo. Difatti, la tromba di Cohen raggiunge livelli estremamente significativi di espressivitĂ giĂ dal primo brano âLife And Deathâ, in cui si sente, sĂŹ, la lezione di Davis e di Enrico Rava, ma dove si può tranquillamente apprezzare quanta personalitĂ Cohen infonda nel sound, dolce e nel contempo drammatico come la dicotomia che dĂ il titolo al pezzo. Ottimo, il lavoro di insieme della band, su tutti la grande abilitĂ del pianista Yonathan Avishai, il quale si eleva prepotente nella successiva âDream Like A Childâ lasciando a Cohen il difficile compito di doppiarlo solo nella seconda metĂ del brano.
Eâ affidato al tribale suono della batteria di Nasheet Waits il drammatico incipit della title-track, subito agganciata da pianoforte e tromba a tessere una trama oscura e riflessiva e dove maggiormente si apprezza il coraggio di sperimentare del musicista israeliano e dei vari componenti della band. I toni si smorzano in âQuiescenceâ e torna a farsi apprezzare un suono vicino al Rava ânotturnoâ di âNew York Daysâ (ECM 2064), sostenuto dal basso ipnotico di Eric Revis e dal tappeto di pianoforte di Avishai a sostenere efficacemente il monologo della tromba. Sulla stessa linea si pone âBehind The Broken Glassâ, unâaltra riflessione in musica piĂš dinamica dal punto di vista ritmico (Paul Motion docet) ma comunque estremamente âsentitaâ da Cohen, che lascia il giusto spazio anche alle noti calde del sax tenore di Bill McHenry che a suo tempo collaborò proprio con Motion e Andrew Cyrille.
Un breve epilogo affidato ancora alla sensibilitĂ estrema di Yonathan Avishai fa calare il sipario su un album che consacra definitivamente Avishai Cohen a stella di prima grandezza del panorama jazz moderno e che si pone come emozionante e intenso termine di paragone per le nuove leve che si affacciano su di esso.Â
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