#D.C. II ~Da Capo II~
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🎀🎁🎄⭐街のイルミネーションは 光の花よMerry Merry Christmas!⭐🎄🎁🎀
#⠀ 🎄 ⊹︵︵︵ ⊹ ୨୧ ⊹ ︵︵︵ ⊹ 🔔#🎁 ˚ ༘♡ ⋆。˚ㅤ 淡紅色 ㅤ ㅤ꒰ 🎄 ꒱ ⠀⠀⠀⠀イ. ₊ ˚ ׅ ㅤ🎅 。˚ ◟#アニメ#かわいい#D.C.~ダ・カーポ~#D.C. II ~Da Capo II~#D.C.II ~ダ・カーポII~#初音岛2#Da Capo#Da Capo II#jojifuku#merry christmas#anime christmas#xmas#vn#visual novel#game cg#anime#kawaii#animecore#otakucore#webcore#kawaiicore#2000s#00s#2000s core#old web#old internet
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Article on the visual novel D.C. II ~Da Capo II~ from the June issue of Dengeki Hime [2006]
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ARCHEOLOGIA / Straordinarie scoperte nel Mediterraneo: il relitto romano "Capo Corso 2" rivela il suo prezioso e imponente carico di vetro [FOTO / VIDEO]
ARCHEOLOGIA / Straordinarie scoperte nel Mediterraneo: il relitto romano "Capo Corso 2" rivela il suo prezioso e imponente carico di vetro (FOTO / VIDEO)
Testo da: Patrimonio Subacqueo Si è svolta dal 1 all’8 luglio 2023 la prima campagna della “Missione italo-francese per lo studio del relitto profondo Capo Corso 2”. Il relitto, datato in via preliminare tra la fine del I e l’inizio del II secolo d.C., si trova a circa 350 metri di profondità nel tratto di mare fra Capo Corso (Corsica-Francia) e l’Isola di Capraia (Italia). Si tratta del secondo…

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#Antichità#archeologia#archeologia subacquea#Capraia#Corsica#Drassm#età romana#Inrap#naufragi#notizie#Patrimonio Subacqueo#relitti#Relitto Capo Corso 2#scavi#scavi archeologici#scoperte#Soprintendenza Nazionale per il patrimonio culturale subacqueo#vetro
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Statua Magno Greca in porfido e marmo bianco di Apollo citaredo – h 2,14 m – 150/174 d.C. (II sec d.C.) - Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Statua colossale di Dio Apollo raffigurato seduto su uno sperone roccioso, con il capo, dai lunghi capelli e sormontato da una corona di alloro, rivolto verso destra a guardare la lira che regge con la mano destra. Il dio è vestito di chitone e di un ampio mantello, i cui lembi poggiano sulle gambe incrociate. Le parti nude e la cetra, originariamente in bronzo, furono sostituite in marmo bianco da C. Albacini.
L’impiego del porfido, per il pregio intrinseco del materiale e per l’uso esclusivamente imperiale delle cave, suggerisce che la statua dovesse essere destinata ad un tempio o ad un edificio privato dell’imperatore.
Apollo era, dopo Zeus, il dio più importante dell’Olimpo. A lui sono collegati numerosi oracoli tra cui il più celebre, quello di Delfi. Ma Apollo era anche il dio della poesia e della musica e, in quanto tale, era a capo delle muse che, infatti, dimoravano a Delfi. Egli rappresentava l’autocontrollo e la conoscenza di se stessi, celebre infatti è la frase che si trovava nel suo tempio a Delfi: ‘conosci te stesso’. Apollo e la sorella gemella Artemide erano figli di Zeus e Leto, che, per sfuggire all’ira della gelosa consorte di Zeus, Era, fuggì a lungo per terra e per mare cercando ospitalità per partorire il frutto del suo amore con il padre degli dei, ma nessuno la ospitò tranne una piccolissima isola dell’Egeo sita di fronte a Mykonos: Delo. Da allora l’isola divenne un importante centro spirituale ma anche politico.
Apollo era anche famoso per essere un’infallibile arciere e un’insuperabile musicista. Sacri ad Apollo erano l’alloro, l’ulivo e la palma, A Delfi, centro principale del suo culto, in suo onore si celebravano ogni quattro anni i giochi Pitici, secondi solo a quelli di Olimpia. Successivamente fu venerato anche come dio Sole in luogo di Helios, e collegato anche alla medicina, era infatti padre di Asclepio, dio della medicina che aveva il suo culto principale a Epidavros.
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I guardiani del mare si raccontano e i più belli sono nel Salento (III parte)
di Cristina Manzo
Faro di punta San Cataldo, Lecce (1)
Questo antico faro che domina la frazione marittima di San Cataldo, dista circa dieci chilometri dalla città di Lecce ed è situato nell’insenatura che ospita i resti di un antico molo edificato intorno al II secolo d.C. dall’imperatore Adriano, al tempo in cui la città di Lecce era una colonia romana, denominata “Lupiae”. Originariamente, infatti, questo punto di approdo era chiamato Porto Adriano in nome dell’imperatore che ne aveva ordinato la ricostruzione. Qui sbarcò Ottaviano dopo aver appreso la notizia della morte di Cesare. Il suo nome attuale, secondo la leggenda, deriva da un monaco irlandese che, tornando da Gerusalemme, naufragò in quest’area e si salvò miracolosamente. Da allora il porto prese la sua attuale denominazione, diventando Porto San Cataldo di Lecce.
“ Il faro è costituito da una torre di forma ottagonale alta poco più di 23 metri a da una struttura in muratura, che in origine era destinata ad alloggio dei fanalisti e magazzino. La costruzione di un faro a San Cataldo fu proposta nel 1863 dal Consiglio Provinciale di terra d’Otranto al Ministero dei Lavori Pubblici. Il primo progetto fu presentato nel 1865; intanto, in attesa della costruzione del faro, fu installato un fanale provvisorio sopra un fabbricato comunale. L’approdo conobbe il suo periodo di maggiore attività nel XVI secolo grazie agli scambi commerciali tra Lecce e la Repubblica di Venezia. Dai Ragguagli sui viaggi di Ferdinando IV di Borbone a Lecce nel 1797 si legge che il re, salito sul campanile del Duomo, vide il porto di San Cataldo, promise di ripararlo e di aprire una strada in linea retta da Lecce in detto luogo… . « concludiamo degnamente questa strada » – !”[1]
Caduta in disuso, Salapia (nome latino di San Cataldo) si trasformò in palude, la cui bonifica avvenne solo in epoca fascista da parte dell’Opera Nazionale Combattenti. Del tram che collegava la vicina città di Lecce non rimangono che alcune fotografie in bianco e nero. Oggi l’antico porto romano è stato completamente abbandonato e il mare lentamente lo sta distruggendo. Del suo splendore restano solo i resti insabbiati e recentemente riportati alla luce dagli scavi archeologici. Qualche muro affiorante dall’acqua testimonia anche il maldestro tentativo dei primi del ‘900 di riportare il porto all’antico splendore, prolungando il molo. I lavori produssero un insabbiamento del porto e subito si dovette desistere dal tentativo, abbattendo parte del nuovo manufatto.
San Cataldo è immersa nel verde di una lussureggiante pineta. La località è circondata da importanti risorse naturali. A nord, oltre la darsena vi è una vasta zona paludosa caratterizzata da un bacino artificiale di bonifica e da depressioni che subiscono l’entrata di acque meteoriche e marine che si estendono fino a Torre Veneri. A sud, vi è invece l’area delle Cesine che costituisce il sistema di lagune e paludi più vasto del Salento. In direzione del capoluogo, vi è il Bosco Fiore, uno dei rimasugli della grande “foresta di Lecce” che un tempo caratterizzava il Salento da Brindisi a Otranto[2].
Il faro di Santa Maria di Leuca, Castrignano del Capo, Lecce[3]
Alto 47 metri rispetto al livello del suolo e 102 sul livello del mare, il faro di Santa Maria di Leuca, frazione del Comune di Castrignano del Capo (Lecce), offre una visuale emozionante a chi accede alla sua sommità, raggiungibile attraverso una scala a chiocciola di 254 gradini: lo dimostrano gli scatti di Roberto Rocca, che catturano le prospettive offerte da questa visuale unica e suggestiva. Nelle immagini si ammirano la basilica di Santa Maria de finibus terrae e la Marina di Leuca. Un emozionante viaggio fotografico compreso tra punta Mèliso a est, per convenzione nautica il punto di divisione tra mar Adriatico e mar Ionio, e punta Ristola, estremo lembo meridionale del Salento, a ovest (Luca Guerra)[4]
Vista dall’alto del faro di Santa Maria di Leuca[5]
Secondo la convenzione nautica, proprio ai piedi del promontorio, si trova il punto di incontro tra i due mari, l’Adriatico e lo Ionio. I raggi del faro superano le trenta miglia. La struttura, massiccia e imponente, situata a pochi passi dalla Basilica Santa Maria De Finibus Terrae, sovrasta la cittadina offrendo la possibilità di ammirare un panorama sempre più apprezzato per la sua unicità. Di giorno, quando il cielo è terzo e l’aria è limpida è possibile sfiorare, con lo sguardo, le coste greche e i monti Acrocerauni situati al confine tra Albania e Grecia. Fu progettato dall’ingegnere Achille Rossi, i lavori durarono tre anni e si conclusero l’11 agosto 1866 per poi essere azionato il 6 settembre sotto la giuda di tre faristi.
La struttura, bianchissima e di forma ottagonale, sostituì la vecchia Torre anti corsara fatta costruire da Federico II. All’interno del Faro i 254 gradini che compongono la scalinata, attraversandone il “corpo” giungono alla Gabbia dell’apparato di protezione; da qui si apre una vista sconfinata. Nel corso degli anni, il guardiano del mare ha subito numerosi interventi di manutenzione, nel 1937 il vecchio sistema di alimentazione a petrolio ha lasciato il passo al più moderno impianto elettrico; lanterna e apparato rotatorio sono stati sostituiti per garantirne sicurezza ed efficienza. La lanterna emette fasci di luce ogni 15 secondi ed è dotata di 16 lenti di cui 10 oscurate; queste permettono la giusta alternanza di segnali luminosi, bianchi e rossi, al fine di dare ai naviganti le corrette informazioni per viaggiare in sicurezza. Nell’occasione dei 150 anni dalla sua costruzione, (nell’estate del 2016), per ricordare l’importante ricorrenza, ogni martedì del mese di agosto è stato possibile visitare il Faro grazie alla gentile concessione del Comando Zona Fari dello Ionio e del basso Adriatico di Taranto e per la cortese disponibilità del farista Antonio Maggio. Numerose sono state le richieste giunte da tutta Italia per ammirare questo piccolo scorcio di Mediterraneo da una prospettiva differente[6].
«I pescatori del tratto di mare tra la Torre del Serpe e la Palascìa raccontano che in certe giornate, quando le nuvole in cielo sono gonfie di pioggia e il sole le illumina come fossero vele, sulla superficie dell’acqua si può scorgere un brillio: i riflessi dorati di qualcosa di simile a una tromba»
(Roberto Cotroneo, E nemmeno un rimpianto, Mondadori, 2011)
Note
[1] https://www.viaggiareinpuglia.it/at/4/castellotorre/5545/it/Faro-di-San-Cataldo-Lecce-(Lecce)
[2] i https://it.wikipedia.org/wiki/San_Cataldo_(Lecce).
[3]https://bari.repubblica.it/cronaca/2017/04/27/foto/salento_la_magia_di_santa_maria_di_leuca_vista_dal_faro-164042161/1/#1
[4] https://bari.repubblica.it/cronaca/2017/04/27/foto/salento_la_magia_di_santa_maria_di_leuca_vista_dal_faro-164042161/1/#1Idem
[5] Idem
[6] https://www.ilgallo.it/attualita/il-faro-di-leuca-una-guida-da-150-anni/
Per la prima parte:
I guardiani del mare si raccontano e i più belli sono nel Salento (I parte)
Per la seconda parte:
I guardiani del mare si raccontano e i più belli sono nel Salento (II parte)
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here @doodledumpster list of series based on video games
See also:
List of anime based on video games
Air (2005)
Angry Birds Toons (2013–2016)
Arc the Lad (1999)
Bible Black (2003–2008)
Blue Dragon (2007–2009)
Bomberman B-Daman Bakugaiden (1998–1999)
Bomberman Jetters (2002–2003)
Canvas 2 (2005–2006)
Captain N: The Game Master (1989–1991)
Carmen Sandiego (2019–present)
Castlevania (2017–present)
Chaos;Head (2008)
Clannad (2007–2008)
Comic Party/Comic Party Revolution (2001, 2005)
Costume Quest (2019–present)
Cuphead (in production)
Darkstalkers (1995)
D.C. ~Da Capo~ (2003–2005)
Devil May Cry (2007)
Digimon (1997–2016)
Dinosaur King (2007–2008)
Donkey Kong Country (1997–2000)
Double Dragon (1993–1994)
Dragon's Lair (1984)
Dragon Quest (1989–1991)
Dragon Quest: The Adventure of Dai (1991–1992)
Earthworm Jim (1995–1996)
Ef: A Tale of Memories. (2007)
Fatal Fury: Legend of the Hungry Wolf (1992)
Fate/stay night (2006)
Final Fantasy: Legend of the Crystals (1994) - A sequel to Final Fantasy V
Final Fantasy: Unlimited (2001–2002)
F-Zero: GP Legend (2003–2004)
Gakuen Heaven (2006)
Galaxy Angel (2001–2004)
Gungrave (2003–2004)
Harukanaru Toki no Naka de Hachiyō Shō (2004–2005)
Higurashi No Naku Koro Ni (2006–2007)
Inazuma Eleven (2008–2011)
Kanon (2002, 2006–2007)
Kimi ga Nozomu Eien (2003–2004)
The King of Fighters: Another Day (2005–2006)
Kiniro no Corda (2006–2014)
Kirby: Right Back at Ya! (2001–2003)
Koisuru Tenshi Angelique (2006–2008)
Layton's Mystery Journey (2018–2019)
The Legend of Zelda (1989)
Little Nightmares (in production)
Magical Girl Lyrical Nanoha series - Based on Triangle Hearts 3 Lyrical Toybox (2004–2016)
Medabots (1999–2001)
Meet the Team (2007–2012) (Web series)
Mega Man
Monster Rancher (1999–2001)
Mortal Kombat: Defenders of the Realm (1996)
Mutant League (1994–1996)
Nightwalker: The Midnight Detective (1998)
Parappa the Rapper (2001–2002)
Pac-Man (1982–1983)
Pac-Man and the Ghostly Adventures (2013–2015)
Persona
Piggy Tales (2014–2019)
Pokémon (1997–present)
Pole Position (1984)
Rayman: The Animated Series (1999–2000)
Rabbids Invasion (2013–present)
Sakura Wars (2000)
Saturday Supercade (1983–1984)
School Days (2007–2008)
Sentimental Journey (1998) - Based on Sentimental Graffiti
Shuffle! (2005–2007)
Sister Princess (2001)
Skylanders Academy (2016–2018)
Sonic the Hedgehog
Star Ocean EX (2001) - Based on Star Ocean: The Second Story
Street Fighter (1995–1997)
Street Fighter II V (1995)
Suki na Mono wa Suki Dakara Shouganai (2005)
Super Mario
Taiko no Tatsujin (2005)
Tak and the Power of Juju (2007–2009) - Game and television series were developed in tandem.
Tales
ToHeart (1999)
Tokimeki Memorial Only Love (2006–2007)
Tokyo Majin (2007)
The Tower of Druaga (2008–2009)
Tsukihime, Lunar Legend (2003)
Utawarerumono (2006)
Viewtiful Joe (2004–2005)
Virtua Fighter (1995–1996)
Viva Piñata (2006–2009)
Wakfu (2008–2017)
Where on Earth is Carmen Sandiego? (1994–1999)
Wild Arms (1999–2000)
Wind -a breath of heart- (2004)
Wing Commander Academy (1996)
Xenosaga: The Animation (2005)
Yo-Kai Watch (2014–present)
Ys (1992–1993)
Yumeria (2004)
Z.O.E. Dolores,i (2001) - Set within the Zone of the Enders universe
Steins;Gate (2011)
Clannad After Story (2008–2009)
Fatal Fury 2: The New Battle (1993)
Mega Man (1994)
Mega Man NT Warrior (2002–2006)
Mega Man Star Force (2006–2008)
Mega Man: Fully Charged (2018–present)
Persona: Trinity Soul (2008) - A spin-off of Persona 3
Persona 4: The Animation (2011–2012) & Persona 4: The Golden Animation (2014)
Persona 5: The Animation (2018–2019)
Pokémon Chronicles (2002–2004)
Sister Princess ~ RePure (2002)
Adventures of Sonic the Hedgehog (1993–1996)
Sonic Boom (2014–2017)
Sonic Mania Adventures (2018)
Sonic the Hedgehog (1993–1994)
Sonic Underground (1999)
Sonic X (2003–2005)
The Super Mario Bros. Super Show (1989)
The Adventures of Super Mario Bros. 3 (1990)
Super Mario World (1991)
Tales of Eternia: The Animation (2001)
Tales of the Abyss: The Animation (2008–2009)
ToHeart Remember my Memories (2004)
To Heart 2 (2005)
Utawarerumono: The False Faces (2006–2009)
There have also been several one-off video game-based cartoons, including specials such as Bubsy (1993), Battletoads (1992) and Pokémon Mystery Dungeon (2006–2009).
Defiance (2013–2015)
Dragon Age: Redemption (2011)
Fallout: Nuka Break (2011–2013)
Maniac Mansion (1990–1993)
Mortal Kombat: Konquest (1998–1999)
Mortal Kombat: Legacy (2011–2013)
Halo 4: Forward Unto Dawn (2012)
Street Fighter: Assassin's Fist (2014)
Street Fighter: Resurrection (2016)
The Super Mario Bros. Super Show! (1989)
Where in the World Is Carmen Sandiego? (1991–1995)
Where in Time is Carmen Sandiego? (1996–1997)
You Don’t Know Jack (2001)
Aaron Stone (2009–2010) - A boy turns into his favorite online superhero
Accel World (2012) - A series about a boy who plays VR video games to escape bullies in school and discovers a secret program that is able to accelerate the human cognitive process to the point at which time appears to stop.
Ace Lightning (2002) - Children's television series centered on a teenage boy's life after his video game characters come to life.
Arcadia (TV series) (2008–present) - Guatemalan TV series about video games
Arcade Gamer Fubuki (2002–2003)
Breadwinners (2014–2016)– The Breadwinners "level up" like video game characters.
Captain N: The Game Master (1989–1991) - Revolves around a kid who travels across various NES video games.
Code Monkeys (2007–2008) - About the lives of video game programmers and animated to resemble and parody the tropes of 1980s 8 and 16 bit video games.
Da Boom Crew (2004)
Deadly Games (1995) - plot centered on video game villains that have escaped into reality.
Future Man (2017–present)
Game Center Arashi (1982)
GameCenter CX (2003–present)
Game Grumps (2012-present) (Web Series)
Game Over (2004) - TV series about the lives of video game characters after the game was over. Aired on UPN originally.
Game Shakers (2015–2019)
Gamer's Guide to Pretty Much Everything (2015–2017)
GamesMaster (1992-1998)
The Guild (2007–2013)
.hack
Harsh Realm (1999) - Hobbes who is a soldier about to retire, is put into a virtual reality where the only way to get out alive and get back to his wife and the love of his life, is to kill a guy called Santiago. Santiago is another soldier who is in the game and has taken it over.
High Score Girl (2018–present)
The Hollow (2018)
Just One Smile Is Very Alluring (2016)
Kamen Rider Ex-Aid (2016-2017) - The 18th installment of the Heisei era Kamen Rider series. This show utilizes game cartridges called Rider Gashats and the rider's motifs inspired by retro video games.
King Koopa’s Kool Kartoons (1989–1990) - not actually based on a game, just a framing device for cartoons and toy giveaways.
Kiss Me First (2018–present)
Level Up (2012–2013)
Log Horizon (2013–2015) - The series follows the strategist, Shiroe, and the other players of the long-lived MMORPG Elder Tales after they find themselves whisked away into the game world following a game update.
Nick Arcade (1992)
The Ones Within (2019–present)
Overlord (2015–2018)- Japanese anime series about a VRMMO that is in the process of getting shut down but becomes real.
Parker Plays (2017–present) - A Disney XD show featuring Youtube personality Parker Coppins, aka ParkerGames, playing video games, the series also features other Youtubers such as CaptainSparklez, Strawburry17, Shubble, and Steve Zaragoza, as well as Jimmy Wong and Whitney Moore.
The Power Team (1990–1992) Featured various Acclaim Entertainment video game characters.
ReBoot (1994–2001) - The characters commonly assume the roles of enemy NPCs in "Game Cubes".
Starcade (1982–1984) - Arcade game-based game show hosted by Geoff Edwards (with early episodes being hosted by Mark Richards)
Sword Art Online (2012–present) - A series where players get trapped in a VRMMORPG (Virtual Reality Massively Multiplayer Online Game) named Sword Art Online.
The Tribe (1999–2003)- Series four focuses on tribes addicted to a virtual-reality game.
Tron: Uprising (2012–2013)
Video Power (1990–1992)
Video Game High School (2006–2009)
Video & Arcade Top 10 (1992–2008)
Virtual Insanity Advance (2012) - Sketch-comedy series centered on video games where people simulate popular and ancient corresponding video-games while interacting with real people and features short animated segments of cartoons based on popular video games.
Game Grumps Animated
Game Grumps Vs
Guest Grumps
Steam Train
.hack//Sign (2002)
.hack//Legend of the Twilight (2003)
ReBoot: The Guardian Code (2018–present)
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Roseto Capo Spulico è un borgo incantato della provincia di Cosenza situato nell’Alto Ionio Cosentino. Era una delle colonie dell’antica Sibari e deve il suo nome evocativo alla produzione di rose, estremamente fiorente in tempi antichi quando i petali di questi fiori riempivano i guanciali delle nobili principesse sibarite. Fondata ai tempi della Magna Grecia, ha preso la forma oggi osservabile solo nel X secolo d.C, con la costruzione della fortificazione del Castrum Roseto ed ha assunto il massimo prestigio nel XIII secolo, momento in cui fu edificato il celebre Castrum Petrae Roseti, icona simbolo del villaggio di Roseto. Le dominazioni successive, comprese quelle francesi e borboniche, hanno lasciato la loro firma tra le strade del borgo, imprimendo il loro carattere nell’arte e nell’architettura della zona. Il borgo ha una posizione strategica sul Golfo di Taranto ed è una delle mete più amate della Calabria. La filosofia delle amministrazioni votata alla cura del meraviglioso ambiente naturale in cui Roseto è incastonata ed una governance attenta alla conservazione delle peculiarità del borgo ha raccolto negli anni i suoi frutti: oggi Roseto è un ordinata e ambita destinazione turistica, a metà tra centro medievale e località balneare. Cosa vedere a Roseto Capo Spulico Roseto Capo Spulico è la classica gemma tutta italiana da esplorare senza fretta, scivolando tra un vicolo e l’altro, affacciandosi lungo i belvedere e sbirciando dentro ogni chiesa e palazzo storico. Il centro storico di Roseto è carico di fascino, arte e meraviglie architettoniche, che sembrano fatte apposta per lasciare a bocca aperta i suoi visitatori. L’antica fortezza di Castrum Roseti, cuore pulsante del villaggio, fu edificata insieme alle mura di cinta attorno al X secolo d.C., ed era il vecchio nucleo difensivo del borgo. Un vero castello medievale con stalle, prigioni, appartamenti reali e sistemi per rendersi autosufficiente. Nel ‘900 fu donato al Comune di Roseto Capo Spulico ed il castello, oggi restaurato, ospita i locali del municipio ed il Museo Etnografico della Civiltà Contadina, un’interessante esposizione di oggetti legati alla vita di campagna di questi territori. Lungo le mura di Roseto sono ancora osservabili alcune delle porte di ingresso in città, come ad esempio la Porta della Terra, così chiamata perché da lì si usciva dal paese per dirigersi verso le campagne, o il Pertugio del Pizzo, poco distante dalla torre di avvistamento di Roseto, realizzata in pietra secca. Una delle caratteristiche più peculiari del centro di Roseto sono le cosiddette “vinelle”, delle strettissime vie che permettevano l’accesso al borgo solamente a piedi e che ancora oggi emanano uno charme tutto particolare. La più celebre delle vinelle è certamente il Vico degli innamorati, uno dei vicoli più stretti d’Europa e romanticissimo luogo di incontro delle coppie di amanti che, ieri come oggi, si intrufolano tra le mura della via per rubarsi baci sognanti. Tra i punti di interesse del centro storico di Roseto Capo Spulico ci sono anche la miracolosa Fontana di S.Vitale e le chiese del piccolo borgo, come la Chiesa Madre di San Nicola di Myra, databile tra il XIII ed il XIV secolo, e la Chiesa dell’Immacolata Concezione probabilmente costruita tra il tra 1400 ed il 1500, celebre per il sarcofago che campeggia sulla sua facciata. Il fiore all’occhiello di Roseto Capo Spulico è però il suo magnifico Castrum Petrae Roseti, il castello federiciano che contribuisce a rendere famose nel mondo intero le splendide coste della Calabria. Il Castrum Petrae Roseti risale originariamente all’epoca normanna e fu ricostruito sui resti di un antico monastero basiliano-normannone per volontà Federico II di Svevia, imperatore e re di Sicilia. La sua imponenza a picco sul mare rende quel tratto della Costa degli Achei assolutamente meraviglioso. Poco distante all’ombra del Promontorio di Cardone sul quale è arroccato il Castrum si estende un tratto di mare cristallino, caratterizzato dalla presenza di uno scoglio a incudine, che viene amichevolmente chiamato “il fungo del Castello”. Le due formazioni, una naturale ed una di laboriosa manifattura umana, contribuiscono a rendere assolutamente irresistibile lo scenario. Cosa mangiare a Roseto Capo Spulico Una delle bellezze di Roseto Capo Spulico è rappresentata dai prodotti della tradizione gastronomica locale. Le tipicità locali a marchio De.Co. di Roseto sono squisitezze dai sapori indimenticabili: olio extra vergine di oliva, soppressata, salsiccia e filettuccio, rendono i menù di Roseto decisamente unici. A completare questo quadro di profumi e gusti succulenti la pittaliscia di Roseto. Si tratta di una pagnotta dalla forma di ciambella, che veniva un tempo utilizzata per assicurarsi che la temperatura dei forni fosse ottimale. Provata oggi ben calda e farcita con i salumi De.Co. di Roseto, oppure con ricotta fresca e zucchero, potrebbe diventare uno dei ricordi più belli di un soggiorno a Roseto Capo Spulico. Gli amanti delle ciliegie avranno qui una bella sorpresa: la ciliegia De.Co. di Roseto è tra le eccellenze del territorio ed è dotata di proprietà organolettiche imbattibili oltre che di una perfezione irreale. Non per niente la Ciliegia De.Co. rosetana si è aggiudicata il titolo di Ciliegia più bella d’Italia, e compare nelle ricette della città tra i primi, come i maccheroncini alle vongole e Ciliegie De.Co., ed abbinata ai secondi, oppure tra i dessert sotto forma di confettura. Eventi a Roseto Capo Spulico L’estate a Roseto Capo Spulico ha ufficialmente inizio a maggio, con l’inaugurazione del festival E’stArt, un palinsesto di eventi tra le più vivaci del Sud Italia. Le giornate estive di Roseto sono allietate da concerti, spettacoli teatrali, manifestazioni artistiche e culturali di ogni genere. E nel calendario di gustosi eventi del borgo non poteva mancare un festival dedicato al rosso frutto orgoglio del paese. Tra maggio e giugno ogni anno Roseto dedica alle ciliegie una manifestazione, che coincide con la Festa delle Primizie, un rituale di origine medievale, dove cortei storici si mescolano a momenti di degustazione del frutto color rubino. https://ift.tt/38MHdzT Roseto Capo Spulico tra mare e castello Roseto Capo Spulico è un borgo incantato della provincia di Cosenza situato nell’Alto Ionio Cosentino. Era una delle colonie dell’antica Sibari e deve il suo nome evocativo alla produzione di rose, estremamente fiorente in tempi antichi quando i petali di questi fiori riempivano i guanciali delle nobili principesse sibarite. Fondata ai tempi della Magna Grecia, ha preso la forma oggi osservabile solo nel X secolo d.C, con la costruzione della fortificazione del Castrum Roseto ed ha assunto il massimo prestigio nel XIII secolo, momento in cui fu edificato il celebre Castrum Petrae Roseti, icona simbolo del villaggio di Roseto. Le dominazioni successive, comprese quelle francesi e borboniche, hanno lasciato la loro firma tra le strade del borgo, imprimendo il loro carattere nell’arte e nell’architettura della zona. Il borgo ha una posizione strategica sul Golfo di Taranto ed è una delle mete più amate della Calabria. La filosofia delle amministrazioni votata alla cura del meraviglioso ambiente naturale in cui Roseto è incastonata ed una governance attenta alla conservazione delle peculiarità del borgo ha raccolto negli anni i suoi frutti: oggi Roseto è un ordinata e ambita destinazione turistica, a metà tra centro medievale e località balneare. Cosa vedere a Roseto Capo Spulico Roseto Capo Spulico è la classica gemma tutta italiana da esplorare senza fretta, scivolando tra un vicolo e l’altro, affacciandosi lungo i belvedere e sbirciando dentro ogni chiesa e palazzo storico. Il centro storico di Roseto è carico di fascino, arte e meraviglie architettoniche, che sembrano fatte apposta per lasciare a bocca aperta i suoi visitatori. L’antica fortezza di Castrum Roseti, cuore pulsante del villaggio, fu edificata insieme alle mura di cinta attorno al X secolo d.C., ed era il vecchio nucleo difensivo del borgo. Un vero castello medievale con stalle, prigioni, appartamenti reali e sistemi per rendersi autosufficiente. Nel ‘900 fu donato al Comune di Roseto Capo Spulico ed il castello, oggi restaurato, ospita i locali del municipio ed il Museo Etnografico della Civiltà Contadina, un’interessante esposizione di oggetti legati alla vita di campagna di questi territori. Lungo le mura di Roseto sono ancora osservabili alcune delle porte di ingresso in città, come ad esempio la Porta della Terra, così chiamata perché da lì si usciva dal paese per dirigersi verso le campagne, o il Pertugio del Pizzo, poco distante dalla torre di avvistamento di Roseto, realizzata in pietra secca. Una delle caratteristiche più peculiari del centro di Roseto sono le cosiddette “vinelle”, delle strettissime vie che permettevano l’accesso al borgo solamente a piedi e che ancora oggi emanano uno charme tutto particolare. La più celebre delle vinelle è certamente il Vico degli innamorati, uno dei vicoli più stretti d’Europa e romanticissimo luogo di incontro delle coppie di amanti che, ieri come oggi, si intrufolano tra le mura della via per rubarsi baci sognanti. Tra i punti di interesse del centro storico di Roseto Capo Spulico ci sono anche la miracolosa Fontana di S.Vitale e le chiese del piccolo borgo, come la Chiesa Madre di San Nicola di Myra, databile tra il XIII ed il XIV secolo, e la Chiesa dell’Immacolata Concezione probabilmente costruita tra il tra 1400 ed il 1500, celebre per il sarcofago che campeggia sulla sua facciata. Il fiore all’occhiello di Roseto Capo Spulico è però il suo magnifico Castrum Petrae Roseti, il castello federiciano che contribuisce a rendere famose nel mondo intero le splendide coste della Calabria. Il Castrum Petrae Roseti risale originariamente all’epoca normanna e fu ricostruito sui resti di un antico monastero basiliano-normannone per volontà Federico II di Svevia, imperatore e re di Sicilia. La sua imponenza a picco sul mare rende quel tratto della Costa degli Achei assolutamente meraviglioso. Poco distante all’ombra del Promontorio di Cardone sul quale è arroccato il Castrum si estende un tratto di mare cristallino, caratterizzato dalla presenza di uno scoglio a incudine, che viene amichevolmente chiamato “il fungo del Castello”. Le due formazioni, una naturale ed una di laboriosa manifattura umana, contribuiscono a rendere assolutamente irresistibile lo scenario. Cosa mangiare a Roseto Capo Spulico Una delle bellezze di Roseto Capo Spulico è rappresentata dai prodotti della tradizione gastronomica locale. Le tipicità locali a marchio De.Co. di Roseto sono squisitezze dai sapori indimenticabili: olio extra vergine di oliva, soppressata, salsiccia e filettuccio, rendono i menù di Roseto decisamente unici. A completare questo quadro di profumi e gusti succulenti la pittaliscia di Roseto. Si tratta di una pagnotta dalla forma di ciambella, che veniva un tempo utilizzata per assicurarsi che la temperatura dei forni fosse ottimale. Provata oggi ben calda e farcita con i salumi De.Co. di Roseto, oppure con ricotta fresca e zucchero, potrebbe diventare uno dei ricordi più belli di un soggiorno a Roseto Capo Spulico. Gli amanti delle ciliegie avranno qui una bella sorpresa: la ciliegia De.Co. di Roseto è tra le eccellenze del territorio ed è dotata di proprietà organolettiche imbattibili oltre che di una perfezione irreale. Non per niente la Ciliegia De.Co. rosetana si è aggiudicata il titolo di Ciliegia più bella d’Italia, e compare nelle ricette della città tra i primi, come i maccheroncini alle vongole e Ciliegie De.Co., ed abbinata ai secondi, oppure tra i dessert sotto forma di confettura. Eventi a Roseto Capo Spulico L’estate a Roseto Capo Spulico ha ufficialmente inizio a maggio, con l’inaugurazione del festival E’stArt, un palinsesto di eventi tra le più vivaci del Sud Italia. Le giornate estive di Roseto sono allietate da concerti, spettacoli teatrali, manifestazioni artistiche e culturali di ogni genere. E nel calendario di gustosi eventi del borgo non poteva mancare un festival dedicato al rosso frutto orgoglio del paese. Tra maggio e giugno ogni anno Roseto dedica alle ciliegie una manifestazione, che coincide con la Festa delle Primizie, un rituale di origine medievale, dove cortei storici si mescolano a momenti di degustazione del frutto color rubino. Il borgo di Roseto Capo Spulico è tutto da esplorare, con le splendide rovine del castello e il mare del Golfo di Taranto: ecco cosa vedere.
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Festa del vino a Mastichari, Kos

Ciao viaggiatori Quanti di voi sono amanti del buon vino? Oggi voglio parlarvi di una festa tradizionale che si tiene ogni anno in Grecia, sull’isola di Kos, nella località di Mastichari. Il mio ex ragazzo era un intenditore di vini e fu grazie a lui che me ne appassionai anche io. Eravamo soliti organizzare dei piccoli viaggetti enogastronomici, alla ricerca dei piatti tipici e dei vini del posto. Fu proprio durante una di queste vacanze che ebbi modo di vistare Kos per la prima volta, e di participare alla festa del vino, della quale mi innamorai perdutamente. Come nostro solito, arrivammo sull’isola con una barca a noleggio di yachtmaster.it. Entrambi amavamo il mare ed eravamo fortemente convinti che viaggiare in barca, oltre ad essere una tra le modalità più economiche al mondo, è anche la più divertente.

Festa del vino a Mastichari, Kos La festa del vino di Mastichari, che si tiene la prima settimana di agosto, è un’occasione imperdibile per gli amanti di questo prodotto e per chi al contempo vuole godersi qualche giorno tra le isole greche in spensieratezza e relax. Oltre alle varie degustazioni alcoliche che vengono preparate lungo tutte le strade dell’isola, è l’occasione perfetta per assaggiare i piatti tipici. Infatti ogni cantina apre le sue porte e mette a disposizione degli ospiti i propri vini pregiati, offrendo anche qualche stuzzichino di accompagnamento. Nell’occasione è possibile anche acquistare le bottiglie di vino e portarle a casa per un’occasione speciale. Il tutto è accompagnato da un clima festoso, balli e musica tradizionale e una marea di gente proveniente da ogni dove. Nei prossimi paragrafi vedremo cosa vedere a Kos e come circumnavigare l’isola con una barca a noleggio.
Cosa vedere a Kos
Che sia per te e la tua famiglia, o che si tratti di una vacanza con gli amici, un viaggio in Grecia è sempre un buona idea. La Grecia ha almeno 100 motivi per esser visitata. Regala luoghi e atmosfere meravigliose senza dover andare necessariamente in capo al mondo in quanto è molto vicina e facilmente raggiungibile dall’Italia. Questo paese offre una cultura e un patrimonio storico come pochi. Il cibo greco è una delle prelibatezze da gustare almeno una volta nella vita. Le isole greche sono dei luoghi incontaminati e circondati da uno dei mari più limpidi e puliti del mondo. Kos offre diverse opportunità sia di divertimento che di relax, inoltre è molto economica ed è davvero semplice organizzare una vacanza indimenticabile in questo luogo. Il miglior modo per partire alla scoperta delle isole greche e di Kos, in occasione della festa del vino di Mastichari, è farlo con una delle barche a noleggio di yachtmaster.it. Più nello specifico a Kos non potete perdervi la Casa Romana, si tratta di resti storici della vecchia Kos distrutta in seguito al terremoto del 1933. Un’altra attrazione è il Castello dei Cavalieri, una fortezza a est del porto turistico di Mandraki. O ancora dovrete visitare l’Odeon, un vecchio anfiteatro nel quale nel I o nel II secolo d.c venivano organizzate gare di poesia e bellissimi spettacoli teatrali.

Festa del vino a Mastichari, Kos Anche il villaggio di Platáni ha il suo perché, qui vive una piccola comunità musulmana ed è un luogo ricco di storia e cultura. Per fare un bel bagno anche in inverno, potrete andare al parco termale naturale di Embros. Al contrario in estate, le spiagge più rinomate sono: le spiagge di Lambì,la spiaggia di Agios Fokas, e la Limnionas.
Come circumnavigare Kos con una barca a noleggio
Se state pensando di partite in barca per la Festa del Vino di Mastichari, sappiate che per il periodo indicato sono 300 le imbarcazioni attualmente disponibili. Ad esempio potreste scegliere Privilage 45 P 45 , ancorata al porto di Kerkira. E’ un catamarano con 5 cabine, 4 bagni e 4 docce, pensato per ospitare un massimo di 5 persone a bordo. È perfetto per godersi un paio di giorni a largo della costa greca, per una vacanza all’insegna del relax ma anche del divertimento con gli amici o con i propri cari. Il prezzo è di 500 euro.Azimut 62 Evolution è invece un grande e moderno motoscafo che può ospitare un massimo si 10 persone a bordo. L’imbarco è al porto di Ilia, in Grecia. Lo yacht offre alloggi sontuosi e dispone di 3 cabine ben arredate, tutte dotate di aria condizionata e di un proprio bagno privato.

Festa del vino a Mastichari, Kos O ancora, Fairline Targa 38, una barca di lusso che potrete trovare nei porti di: Sporadi, Skiathos, Skopelos, Alonisos, Skyros e al porto di Volos. In alternativa è possibile partire da Halkidiki, Sani Marina, e dal porto di Carras. Quest’imbarcazione ospita un massimo di 4 persone, non è strutturata per un pernottamento ma è perfetta per una gita fuori porta di un giorno. Dispone di un bagno con doccia ed ha un costo di 500 euro. Read the full article
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18112019
XL Jоushi Beastars My Hero Academia 4th Season D.C. II Da Capo II D.C.II S.S. Da Capo II Second Season D.C.III Da Capo III Grandmaster of Demonic Cultivation 2 Ensemble Stars! Vinland Saga Kiratto Pri-chan Star Twinkle Precure
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8 giugno 452 d.C. Attila invade l'Italia Dopo essere stato eletto capo della sua tribù e diventato re degli Unni (popolo guerriero nomade proveniente dall’Asia settentrionale), Attila, tra i più grandi e feroci nemici dell’Impero Romano, invade l’Italia. Prima dell’invasione, decisivo era stato il contributo dell’esercito di Attila nella sconfitta dei Burgundi, Bagaudi, Goti e dei Visigoti, a favore dell’Impero Romano d’Occidente, minacciato da ogni lato (campagne militari del 435-445). Queste vittorie, unite ai successi contro l’Impero Romano d’Oriente nel corso delle campagne balcaniche e ai proficui trattati di pace con l’imperatore Teodosio (che pagava annualmente al sovrano Unno pesanti tributi in oro), procurarono ad Attila una grandissima ma sinistra fama riconosciuta in tutto l’Impero mentre il suo Regno, etnicamente eterogeneo e per niente strutturato dal punto di vista amministrativo, cresceva sino a comprendere territori compresi tra l’Europa centrale e il Mar Caspio, il Danubio e il Mar Baltico. Per la prima volta nella storia avveniva l’unificazione, sotto un unico scettro, della maggior parte delle popolazioni barbariche dell’Eurasia settentrionale (Germani, Slavi e Ugro-Finni). Successivamente Attila tentò d’invadere la Gallia (oggi Francia) senza riuscirci. Infine tornò indietro, attraversò le alpi Giulie e l’8 giugno 452 penetrò in Italia. Devastò Aquileia e giunse fino alla Pianura Padana, dove si attestò presso Mantova, alla confluenza tra il fiume Po e il Mincio. Qui venne raggiunto, anziché dall’esercito romano, da una missione diplomatica inviata dal Senato e capeggiata da papa Leone I. Dopo l’incontro con il pontefice, Attila, il “flagello di Dio” (così definito dalla tradizione occidentale) si ritirò con il suo esercito, rinunciando di fatto a conquistare Roma. La leggenda, nata successivamente, racconta che furono la figura sacrale e le parole del papa a convincere Attila a rinunciare ai suoi propositi di conquista. Più probabilmente, a farlo recedere fu la minaccia degli eserciti dell’imperatore d’Oriente Valentiniano II o la stanchezza delle truppe. Nicolò Maggio #costruirestorie #8giugno452 #attila (presso Rome, Italy) https://www.instagram.com/p/CP2rXsyFFgsTZggs6_PZNGL6pOn9nLeGXMx2580/?utm_medium=tumblr
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Antiche cure e rituali del tarantismo presso il mare, le sorgenti e i corsi d'acqua
di Gianfranco Mele
Oggi l’immagine più popolare del tarantismo è quella del ballo al chiuso delle mura domestiche, essendo stata una delle due forme rituali più recenti (l’altra, come noto, instauratasi in una fase successiva, è quella del pellegrinaggio nella chiesa galatinese dedicata a S. Paolo, che giunge anche a sostituire del tutto il rituale musicale domiciliare). Ma non sempre è stato così: forme più antiche son descritte da vari autori del passato e hanno come scenario a volte le strade e i crocevia, altre volte, e ancor più anticamente, ambienti arborei e/o acquatici. Come vedremo, il rituale domiciliare ha poi conservato questi elementi introducendoli (sia pur in modo rimaneggiato) all’interno delle mura domestiche. In “La terra del rimorso”, nella parte della trattazione dedicata agli scenari e all’ambientazione del rito, il De Martino ha ampiamente descritto questi aspetti. In questo scritto ripercorreremo e descriveremo in particolare gli scenari legati all’ambiente acquatico (e ai suoi “surrogati” domiciliari) cercando, per quanto possibile, di risalire ai significati e alle motivazioni del rito in acqua o con la presenza dell’elemento acqua.
E’ lo stesso De Martino, a riferirci che lo studioso orietano Quinto Mario Corrado, nel suo De copia latini sermonis (1581) ricorda come i tarantati “ad aquam, ad fontes, ad ramum viridem, ad umbras, ad amaena omnia rapiuntur”[1]
Sempre il De Martino, ci fa notare che
“Atanasio Kircher […] attesta che nel luogo destinato alla danza venivano spesso collocate conche colme d’acqua, addobbate con erbe e rami verdeggianti: e dall’acqua e dalle fronde i tarantati traevano grandissimo diletto, sino al punto di tuffarsi nella conca, e di guazzarvi a mò di anitre”[2]
Epifanio Ferdinando nel 1621 riferisce una serie di comportamenti dei tarantati, fra cui quelli di “giovani donne che si buttano nei pozzi” e di altri che “si lanciano in mare”;[3] i tarantati sembrano trovare conforto alla vista del mare e dell’acqua, traggono giovamento dall’immergervisi, manifestano desiderio ardente di bagnarsi nel mare, e gioia al solo sentir parlare di mare o di acqua. Epifanio si dà una spiegazione di questo comportamento, sostenendo che
“il veleno della tarantola non agisce esso solo in tutto e per tutto, ma essendo la sua costituzione secca, [i tarantati] amano quello che è opposto al secco, cioè l’acqua. Infatti nei tarantati l’immaginazione non è alterata a tal punto, come in quelli che sono stati morsi da un cane rabbioso, i quali hanno l’idrofobia e perciò, rabbiosi, rifiutano quel rimedio che a loro potrebbe giovare”[4]
Ma, altra cosa importante, Epifanio è a conoscenza del fatto che già secondo Dioscoride l’acqua del mare sana le persone morse dai ragni (e lo cita), così come cita il medico persiano Rasis (854-930) il quale raccomanda l’immersione in acqua del mare per le persone avvelenate dai ragni.[5]
I tarantati trovano sollievo dall’acqua in genere, non solo quella del mare ma anche quella di conche e pozzi:
“Perché alcune fanciulle tarantate si lanciano nei pozzi, esibiscono le parti intime, si strappano i capelli e gridano? La causa deve ritenersi la stessa, ma più intensa: infatti, quanto più secca sarà la tarantola, più intensi diventeranno questi sintomi. “[6]
Come le tarantole amano l’umidità, così secondo Epifanio la prediligono le persone che ne son state morse:
“Perché alcuni gioiscono a sentire nominare il mare e i canti che fanno riferimento al mare? La causa risiede in quello che si è detto: in conseguenza della secchezza del temperamento, sembrano amare l’umidità sia le tarantole, sia le persone che sono state morse da esse. Noi conosciamo molti che non trovano sollievo se non si immergono nell’acqua delle conche o nei pozzi, legati ad una fune per non annegare.” [7]
Epifanio descrive anche i rimedi balneoterapici indicati dal Rasis:
“Rasis ha prescritto molti rimedi utili, come il bagno in acqua calda, teriaca, succo di foglie di mora, vino puro, aglio, cumino, agnocasto, l’immersione nell’acqua del mare riscaldata, la sudorazione abbondante”.[8]
Cita poi il medico greco Rufo di Efeso (I sec.-II sec. d.C.):
“Rufo raccomanda più di tutto la teriaca, il bagno e il vino vecchio”.[9]
Ancora, sui bagni:
“Ezio, nel libro XIII, cap. 18 e Paolo, libro V, cap. 7, fra gli altri rimedi, lodano molto l’aglio, il vino e i bagni; ugualmente nel libro V, cap. 27. “[10]
Anche il medico Giorgio Baglivi parla, nel 1696 (Dissertatio de anatome, morsu et effectibus tarantulae), della presenza dell’acqua nel rituale, e, in questo caso, di fosse scavate all’esterno, nel terreno, nelle quali i “malati” si immergevano. Nell’acqua, i tarantati immergevano anche fronde e rami verdi che poi si ponevano in testa. De Martino ne fornisce sunto:
“… il medico dalmata Giorgio Baglivi, non manca di accennare ai pampini e ai rami fronzuti che i tarantati agitavano e immergevano nell’acqua, per adornarsene poi il capo; e accenna anche al ricorrente gesto che i tarantati eseguivano di immergere nell’acqua mani e capo. Non parla a dir vero di tino o conca apprestati al centro dell’ambiente, ma di un fosso scavato nel terreno, e colmato d’acqua, onde l’immergersi in esso richiama al Baglivi non già, come nel Kircher, l’immagine di anitre che starnazzano, ma quella di maiali che si voltolano nel fango”.[11]
Dei balli nell’acqua, e in questo caso nel mare, parla dettagliatamente anche il naturalista seicentesco Paolo Silvio Boccone, che scrive:
“Una delle forze, e fatiche incomprensibili, che hanno, e che ci assicura non esservi finzione, si è quella, che per un quarto d’hora, e più di seguito girano intorno, come un Arcolaio, con impeto, e furore; l’altra è di voler ballare in Mare, e però vi si gettano con violenza, e cecità tale, che gli astanti sono obbligati a legare i Pazienti alla poppa della Barca in mezzo alle acque, e li Sonatori di dentro suonano, e in quella forma resta satisfatta l’imaginazione depravata, e corrotta degl’Infermi.” [12]
Il De Martino, proprio in riferimento a questi passi del Boccone, scrive:
“… il suicidio per eros precluso, l’impulso di morte per disperato amore, la corsa verso il mare per scomparire nelle onde trovavano orizzonte in un rito ch’era praticato a Taranto e a Brindisi: il tarantato in crisi, legato con una fune alla poppa di una barca, veniva fatto baccheggiare a suo agio nelle acque del mare, mentre i suonatori in barca cercavano di imporre al disperato il ritmo delle loro melodie”[13]
Nel passo suddetto il De Martino non sembra sottolineare tanto il ruolo curativo dell’acqua, quanto il gesto disperato della corsa verso il mare, e rispetto al quale i parenti del tarantato si adoperavano a “limitare i danni” legandolo alla poppa o ricreando per lui il contesto acquatico in ambiente più “protetto”: rimarca questo aspetto quando in un passo successivo descrive la presenza delle conche d’acqua come surrogati casalinghi del mare, e, a seguire, parla, riprendendo i Kircher, dell’episodio di un cappuccino di Taranto il quale, morso dalla tarantola, corre con impeto verso il mare e là vi trova la morte:
“C’è da chiedersi se la tradizionale conca colma d’acqua nella quale diguazzavano i tarantati non assolvesse almeno in dati casi la funzione di modesto surrogato casalingo in cui spegnere simbolicamente un ardore che nel suo cieco trasporto poteva sospingere a disperate fughe verso il mare e a pericolosi salti in acqua: come fu il caso di quel cappuccino di Taranto, cui i superiori avevano proibito di eseguire l’esorcismo musicale e che un giorno, irresistibilmente stimolato dal suo impulso di immersione, fuggì dal convento come folle e con tanto impeto si inoltrò nel mare da trovarvi non già refrigerio al suo male, ma miserabile morte per annegamento”.[14]
Eppure il De Martino, nel capitolo della sua trattazione intitolato “Tarantismo e cattolicesimo”, affronta il tema dell’acqua risanatrice e “miracolosa” del pozzo di San Paolo, ma evidentemente non la mette in stretta relazione con questi altri aspetti del rituale acquatico.
Laddove non era presente o non era immediatamente raggiungibile un ambiente acquatico (ed arboreo, altra caratteristica dell’ambientazione più antica del rito), questo veniva ricreato “artificialmente”, anche tra le mura domestiche: ancora una volta, è il De Martino a notarlo, riportando passi del De Phalangio Apulo di Ludovico Valletta (monaco della congregazione dei Celestini al convento di Lucera). Scrive il De Martino:
“Ludovico Valletta […] conferma che talora i tarantati gioivano «alla vista di limpide acque, e di fonti artificiali che con soave mormorio scorrevano in un tino apprestato alla bisogna», compiacendosi di verdi fronde spiccate di fresco dagli alberi e disseminate qua e là nell’ambiente destinato alla danza, e ciò «per rappresentare in qualche modo una selva».”[15]
Successivamente, il Valletta descrive le spese che le famiglie dei tarantati son costrette a sostenere per l’organizzazione dell’intero rituale di cura (compensi in denaro, regali e vitto per i musicisti; ingaggio di giovinette abbigliate in abiti nuziali con il compito di danzare con i tarantati; spese varie per l’arredo – compreso il fitto di armi da appendere alle pareti o l’ acquisto di drappi multicolori -), e fa riferimento anche alle spese per la ricostruzione dello scenario acquatico-arboreo:
“E faccio grazia di molti altri sussidi e opportunità di cui si servono gli intossicati sia al fine di sollevare e rallegrare gli animi mesti durante la danza, sia perchè di queste cose hanno bisogno per qualche motivo: come, per esempio, fonti artificiali di limpida acqua congegnate in modo che l’acqua, raccolta, torna sempre di nuovo a versarsi: le quali fonti son ricoperte e circondate di verdi fronde, di fiori e di alberelli […]”[16]
Anche il Valletta descrive il rituale della sospensione al soffitto con una fune (pratica che ai tempi delle indagini sul campo di De Martino è già in disuso e della quale, come lui osserva, gli intervistati conservano solo il ricordo): al termine del dondolio con le mani strette alla fune, e ad essa aggrappata con tutto il corpo, la tarantata, sudata, si immergeva in acqua:
“A motivo di questa agitazione e dell’incredibile fatica sopportata, tutto il corpo e soprattutto il volto della donna erano coperti di sudore copioso, finchè infiammata da così strenua agitazione correva anelante al gran tino colmo d’acqua apprestato a sua richiesta, e vi immergeva completamente il capo, onde trarre con l’acqua fredda qualche lenimento al dolore che l’avvampava”.[17]
illustrazione dal testo del Valletta
Il Serao fa riferimenti sia ai balli in mare che alla presenza dell’acqua nel rituale domiciliare. Riferendosi alla ricerca di Epifanio Ferdinando, scrive:
“Cerca egli, verbigrazia, perchè i Tarantati si compiacciano di farsi seppellire fino al mento nella terra: perchè amino di cercar luoghi ermi , e desolati, e sogliano fin anche aggirarsi volentieri intorno a’ sepolcri, e cimiteri : perchè altri si gettino in mare; altri urlino; altri si avventino per mordere questo e quell’altro: perchè il sono delle campane loro ecciti passione, e mestizia: perchè cerchino di esser sospesi da una fune; o messi in una culla, e quivi dimenati, come si fa co’ fanciulli. Perchè le giovinette si sieno talora precipitate nei pozzi; perchè le medesime senza alcuno ritegno facciano altre sconcezze: si strappino i capelli: vogliano sentir le canzoni, in cui sia nominato il mare.” [18]
In riferimento al rituale domiciliare, il Serao così descrive il ruolo e le funzioni dell’acqua:
“Ben credo d’intendere, perchè vogliano che loro si pongano avanti degli specchi; e molto meglio e più facilmente perchè cerchino de tinelli, e de’ bacini pieni d’acqua; o almeno perchè i pietosi spettatori arrechino di questi ordigni in vicinanza de Tarantolati che danzano: poichè vanno essi di tanto in tanto a tuffar la testa nell’acqua, e ripigliano perciò lena, quando sono più trafelati e molli di sudore.”[19]
frontespizio del testo del Serao
Il Berkeley, nel suo “Diario di viaggio in Italia” (primi del ‘700), descrive tra le altre cose l’abitudine dei tarantati di gettarsi nel mare di Taranto:
“A Taranto vivono diverse famiglie nobili. Anche qui abbiamo assistito alla danza di un tarantato. […] Il console ci ha detto che tutti i ragni, ad eccezione di quelli con le zampe più lunghe, se ti mordono, provocano i tipici sintomi, benché non così forti come quelli dei ragni più grandi di campagna. Ha poi aggiunto che la tarantola provoca un forte dolore e un livido che si estende su tutta la zona circostante il morso ed anche oltre. Non credo che fingano, la danza è davvero faticosa. Inoltre, ha raccontato che i tarantati siano vittime di una pazzia febbrile e che a volte, conclusa la danza, si gettavano in mare e finivano per annegare se qualcuno non li avesse salvati. “[20]
Il leccese Nicola Caputi nel suo De tarantulae anatome et morsu, descrive gli scenari del rito e la presenza costante dell’acqua anche in ambito domiciliare:
“La camera da letto destinata al ballo dei tarantati sogliono adornare con rami verdeggianti cui adattano numerosi nastri e seriche fasce di sgargianti colori. Un consimile drappeggio dispongono per tutta la camera; e talora apprestano un tino, o una sorta di caldaia molto capace, colma d’acqua, e addobbata con pampini di vite e con verdi fronde di altri alberi; ovvero fanno sgorgare leggiadre fonticelle di limpida acqua, atte a sollevare lo spirito, e presso di queste i tarantati eseguono la danza, palesando di trarre da esse, come dal resto dello scenario, il massimo diletto. Quei drappi, quelle fronde e quei rivoli artificiali essi vanno contemplando, e si bagnano mani e capo al fonte: tolgono anche dal tino madidi fasci di pampini, e se ne cospargono il corpo interamente, oppure – quando il recipiente sia abbastanza capace – vi si immergono dentro, e così più facilmente sopportano la fatica della danza.”[21]
Questa la descrizione che il ricercatore ottocentesco Giovan Battista Gagliardo offre delle danze delle tarantate presso il podere Malvaseda nei pressi di Taranto:
“Succede al promontorio della Penna il podere Malvaseda nome di un’estinta famiglia Tarentina, il quale è innaffiato da’ varj canaletti di acqua perenne. Qui nelle belle giornate d’inverno concorrono i Tarentini per mangiarvi il pesce fresco, le ostriche, ed altre conchiglie.
Il vedere in quei giorni tutta questa campagna, la quale è piena di agrumi, e di ogni specie di alberi da frutto, popolata da famiglie sparse qua, e la, tutte intente a preparare il pranzo, e quindi sdrajate per terra divorarselo, ricordano le belle adunanze greche che terminavano colla danza, come finiscono anche le moderne. Dopo il pranzo unisconsi le varie compagnie e ballano al suono della chitarra la pizzica pizzica, ballo che esprime tutta la forza dell’entusiasmo, e di quel clima, che diede occasione ad Orazio di chiamarlo molle.
Concorrevano anche qui una volta le Tarantolate. Credevano quelle maniache, e facevano crederlo anche ai loro amanti, che senza rivoltarsi nell’acqua, ciò che dicevano Spupurare, non sarebbero guarite. Grazie alla filosofia, alla quale le femmine debbono ora la libertà che prima era loro negata, non vi sono più tarantolate né in Taranto, né nel resto della Provincia. “[22]
La ricercatrice inglese Janet Ross intraprende intorno al 1888 un viaggio in Italia: nella sua tappa pugliese è accompagnata dal manduriano Giacomo Lacaita. Assiste al ballo della “pizzica-pizzica” presso la masseria di Leucaspide a Statte (Taranto), e successivamente conosce un altro manduriano, Eugenio Arnò, al quale rivolge una serie di domande sul tarantismo.[23] La descrizione che Eugenio Arnò offre del tarantismo è molto particolare, come la stessa ricercatrice osserva, poiché l’ Arnò distingue fra “tarantismo secco” e “tarantismo umido”, indicando con quest’ultimo termine l’usanza di ballare presso sorgenti d’acqua. Vediamo, a seguire, uno stralcio del testo della Ross:
“Le informazioni che mi diede Don Eugenio, spettatore di centinaia di casi, differiscono da quelle avute da altri. Egli mi diceva: Esistono varie specie di quest’insetto che ha differenti colori, e vi sono due specie di tarantismo, quello umido e quello secco. Le donne, quando lavorano nei campi di grano, sono più soggette ad essere morsicate a causa delle poche vesti che portano addosso, durante il caldo eccessivo. Il male si annunzia con una febbre violenta, e la persona colpita di dimena furiosamente in tutti i versi gridando e lamentandosi. Allora subito si fanno venire dei musicanti, e se la musica che si suona non incontra la fantasia della tarantata (o tarantato, vale a dire la persona morsicata), la donna ( o l’uomo) si contorce e si lamenta più forte, gridando ”no, no, no questa canzone“. I musicanti allora cambiano immediatamente motivo, e il tamburello strepita e picchia furiosamente per indicare la differenza del tempo. Finalmente quando la tarantata trova la musica che fa per lei, si slancia d’un balzo e si mette a ballare freneticamente.
Se poi si tratta di ”tarantismo secco“, i parenti cercano il colore dell’insetto che l’ha morsicata, e le adornano le vesti e i polsi di nastri dello stesso colore dell’insetto, bianco o celeste, verde, rosso o giallo. Se nessun colore risponde a quello che si cerca, allora vien coperta da strisce di ogni colore, che svolazzano intorno a lei come essa balla, si dimena, si agita con le braccia per aria, da vera indemoniata. La funzione o cerimonia si comincia generalmente in casa; ma va a finire sempre per la strada, sia per il caldo, sia per la tanta gente che si raccoglie. Quando finalmente la “tarantata” si calma, vien messa in un letto caldo, dove dorme qualche volta sino a diciotto ore di seguito. Pel “tarantismo umido“, i musicanti vanno a sedere per lo più vicino ad un pozzo, dove la tarantata viene irresistibilmente attratta; e mentre la disgraziata balla, un numero straordinario di parenti e di amici la inondano d’acqua, per cui, diceva Don Eugenio, ”è incredibile la quantità d’acqua benedetta che viene consumata“. E ne parlava con vero dispiacere, perché in Puglia non è difficile il caso, che il bestiame muoia in estate per mancanza d’acqua. Pare che il “tarantismo umido” sia quello peggiore, perché talvolta la febbre si prolunga a sino a settantadue ore; ma in tutti e due i casi, fui assicurata che se i musicanti non sono chiamati, la febbre continua indefinitivamente, e viene qualche volta seguita da morte.[24]
Albero millenario Leucaspide (disegno Carlo Orsi) dal testo di Janet Ross
Antoine Laurent Castellan, riportando osservazioni sul tarantismo compiute durante un suo viaggio a Brindisi nel 1897, scrive:
“Qui si crea l’opinione che i malati fuggano dalla società, cerchino l’acqua con avidità e ne approfittino anche se non sono osservati; si crede anche che a loro piaccia essere circondati da oggetti i cui colori sono molto vivaci.”[25]
illustrazione dal testo di Antoine-Laurent Castellan Lettres sur l’ Italie (1819)
Sempre in un contesto di fine Ottocento, anche il manduriano Giuseppe Gigli riferisce della presenza di acqua durante i balli:
“Alcuni usano ballare nelle case; altri nei crocicchi delle vie; alcuni vestiti a festa, altri quasi seminudi; alcuni tenendo in mano i fazzoletti, o simili adornamenti femminili, altri reggendo pesanti arnesi della casa. Uno dei più barbari balli è quello che taluni fanno nell’acqua. E non solamente nell’acqua si agitano per mezza persona, ma continuamente se ne versano con un catino sul capo e sulle spalle. E’ una cosa che muove a pietà, a sdegno per così orribile pregiudizio!”[26]
Esula dal tema di questo scritto l’occuparci in modo approfondito degli altri dettagli tipici dell’ambiente del rito domiciliare, tuttavia ne faremo un accenno, per completezza espositiva: come ci ricorda il De Martino, altri oggetti rituali sono le spade per il combattimento rappresentato durante la danza, gli specchi (nei quali i tarantati di tanto in tanto si contemplavano),[27] i nastri multicolori, i drappi, e fazzoletti, scialli, monili con i quali spesso le tarantate si adornavano.
Un ruolo particolare come abbiamo evidenziato più volte lo avevano anche le fronde e i rami degli alberi (una delle funzioni di questi addobbi posti nelle case dove si svolgeva il rito, era, secondo il De Martino, quella di ricostruire l’ambiente arboreo (insieme a quello acquatico), erbe varie, e/o, come riferisce Anna Caggiano a proposito dei tarantolati tarantini, vasi con piante vive. Nella descrizione della Caggiano, ritorna (e siamo già nel 1931) l’acqua:
“tutte le comari offrono – in prestito s’intende – fazzoletti, scialli, sciarpe, sottane, tovaglie d’ogni colore, vasi di basilico, di cedrina, di menta, di ruta, specchi e gingilli ed infine un gran tino pieno d’acqua. L’ambiente viene così addobbato e quando tutto è pronto la morsicata, vestita di colori vistosi, sceglie a suo gusto nastri, fazzoletti, sciarpe, che le ricordano i colori della tarantola, e se ne adorna in attesa dei suonatori” [28]
Le piante poste a “decorazione” dell’ambiente del rito, secondo alcune interpretazioni fungevano anche da stimolo olfattivo, ai fini di una sorta di aromaterapia: è lo stesso De Martino a dedurlo e specificarlo,[29] anche se non specifica che molte di esse, e in particolare quelle che vengono nominate nel passo della Caggiano, nella medicina antica erano impiegate come rimedio specifico contro i veleni e contro i morsi di animali velenosi (ma affronteremo questo tema in altro scritto).
La “cura con l’acqua” (per i morsi delle tarantole, degli aracnidi e degli animali velenosi in genere) sia con l’acqua dolce che con l’acqua di mare, risale alla medicina antica (abbiamo già accennato a Dioscoride), e viene indicata come rimedio specifico sino ai tempi della letteratura medica ottocentesca, e difatti scrive nel 1859 il medico Achille Vergari:
“In certi luoghi la stufa secca forma l’unico mezzo curativo de tarantolati. I bagni d’acqua calda possono adempiere al la stessa indicazione. Si crede che l’acqua di mare sia meglio per più ragioni. […] Quando forti dolori vessano i tarantolati, conviene l’ uso dei bagni d’acqua calda, le stufe secche, e le vaporose. Quindi Mercuriale sull’avviso di Avicenna e di Aezio diceva, che gli avvelenati dalle tarantole con dolori deggiono essere posti ne bagni (Merc. de morbis venenosis. L. Il. C.V. p.39.)” [30]
Dunque i bagni nell’acqua (e spesso nell’acqua calda) costituiscono un rimedio e una usanza di tipo strettamente medico contro i veleni, sin dai tempi antichi, e si ritrovano, come abbiamo accennato e come vedremo più avanti, nelle prescrizioni di Dioscoride (I sec. d.C.), Rufo di Efeso (I – II sec. d.C.), Aezio (VI sec.), Avicenna (980-1037), Girolamo Mercuriale (1530-1606), Andrea Mattioli (1501-1578), Ambrogio Parco (XVI sec. anche costui) fino alla medicina ottocentesca.
La medicina popolare, come noto, è fortemente intrisa di conoscenze sia empiriche che nozionistiche, trasmesse e accumulate oralmente attraverso la tradizione, nei secoli, e provenienti, in genere, dalla medicina più antica. Ad una cura contro i veleni a base di balneazioni nota e praticata da millenni, si aggiunge, nel rituale del tarantismo, la musica come complemento, contenimento e rimedio ad uno stato di eccitazione motoria provocato dal veleno (reale o immaginario che fosse), che gradualmente va a soppiantare totalmente la cura balneare (della quale tuttavia restano residuati o reminiscenze simboliche inserite nel rito terapeutico domiciliare).
Come abbiamo anticipato, anche Dioscoride individua i bagni nell’acqua come rimedio contro i veleni. Nelle indicazioni del medico greco si ritrova, fra i vari rimedi, come indicazione per la cura degli avvelenamenti in genere, il bagno in acqua calda. Ma come vedremo più avanti, il Dioscoride indica proprio nei bagni dell’acqua di mare il rimedio specifico per punture di ragni e scorpioni.
La cura per i morsi di animali ritenuti velenosi tramite l’ acqua (in questo caso di sorgenti, aventi anche la caratteristica di essere “calde”) era praticata anche nella Sardegna di alcuni secoli fa. In un manoscritto anonimo (intitolato “Delle tarantole”) della fine del XVII secolo – inizi XVIII, edito da Crsec Galatina si legge:
“La Tarantola solfuga, che nasce nell’ isola della Sardegna, ha pure di proprio li sovradetti sintomi, il nome di Serpente, ed il suo veleno ha per controveleno i medesimi medicamenti; afferma Giulio Salino, famosissimo ed antichissimo scrittore, nelle sue Istoriche descrizioni del Mondo, dove tratta dell’Isola di Sardegna: «la Sardegna è priva di serpenti, vi è soltanto, in vari luoghi nei campi della Sardegna, la “solfuga”, insetto molto piccolo privo di ali, simile ai ragni; è chiamata “sol fuga” poiché evita la luce e preferisce stare nelle miniere d’argento: si muove in modo poco visibile e, se uno senza vederla le si siede sopra, ne è morso»; e poco dopo, parlando del modo di curare questo veleno, soggiunge: «in alcuni posti vi sono sorgenti molto calde e salutari, che sono medicamentose: saldano le fratture ossee, annullano gli effetti del veleno della “solfuga” o quelli di punture di varie piante e animali».[31]
Lo stesso Epifanio aveva parlato della Solfuga e delle fonti di acqua risanatrice:
“Quante sono le specie di ragni? Rispondo che noi troviamo 21 specie, infatti oltre le diciassette enumerate sopra, secondo le Storie delle Indie di Oucto, libro XV, cap. 3, c’è un’altra specie di tarantola che prospera a Ispaniola, isola del Nuovo Mondo, che è tanto grande da gareggiare col cancro gigante, della quale fino ad oggi non abbiamo nessuna conoscenza diretta. La diciannovesima è quella che secondo Solino e Isidoro, cap. 2, libro XI, si chiama solfuga e vive in Sardegna. È una specie di ragno e odia la luce, per questo di chiama solfuga; con il suo morso procura all’uomo un danno mortale, ma la natura o Dio Ottimo Massimo, per non lasciare niente senza uguale, ha prodotto lì delle fonti, la cui acqua bevuta da chi è stato morso funge da bezoartico”[32]
La Solfuga o Solìfuga cui fanno riferimento questi autori, nonostante il nome generico e improprio, è da identificarsi nel Latrodectus tredigimguttatus, il ragno il cui morso sta probabilmente alle origini delle credenze sviluppatesi attorno alla “tarànta”, al suo veleno e ai sintomi del suo morso, e che ha un suo corrispettivo mitico-rituale nell’ Argia sarda.[33]
Tornando al ruolo dell’acqua, un cenno va fatto anche all’acqua del Fonte Pliniano manduriano, che, sembra di capire dalle parole di un altro medico, il Pasanisi, doveva essere utilizzata, almeno sino al Settecento, per la cura del tarantismo. Il Pasanisi ne accenna, tuttavia, per confutare l’idea che l’acqua del fonte mandurino possa contrastare gli effetti del veleno:
“Può essere preservativo del tarantismo? Se il tarantismo, secondo il pensare di molti moderni, anche leccesi (fra gli autori leccesi è il cavalier Carducci nell’ annotazioni sopra il libro intitolato Delizie tarantine), non è effetto del morso velenoso della tarantola, ma un particolare morbo de’ pugliesi e del genere dei deliri melancolici, farebbe certamente un grande preservativo. Ma se poi sia effetto del veleno della Tarantola, come altri sostengono, sarebbe inutile fidarsi all’acqua di Manduria“. [34]
Nel Dioscoride del Mattioli si legge:
“Dell’acqua marina. […] E’ veramente salutifera alle punture velenose, specialmente degli scorpioni, di quei ragni che si chiamano phalangi, e degli aspidi, i quali inducono tremore, e frigidità nelle membra: il che fa anchora entrandosi in essa calda”.[35]
Ancora, Il Mattioli cita Aezio, medico bizantino del VI secolo, scrivendo:
“Dei segni universali dei morsi dei Phalangi, e parimenti della cura, scrisse complicatamente il medesimo Aezio nel luogo sopradetto, così dicendo. […] si causa frigidità nelle ginocchia, ne i lombi, nelle spalle: aggravasi alle volte tutto il corpo: i dolori punto non cessano, il sonno si perde, e fassi la faccia non poco pallida, e smarrita. In alcuni nasce nella verga non poco stimolo del coito, con prurito di testa, e di gambe: fanno gli occhi lacrimosi, torbidi, concavi: il ventre inegualmente si gonfia, e gonfiasi oltre a ciò tutta la persona, la faccia, e massimamente quelle parti, che sono intorno alla lingua, di modo che non poco impediscono la loquela. Sono alcuni pazienti, che non possono orinare, quantunque n’habbiano desiderio, se non con dolore: e quantunque pure orinino, fanno l’orina acquosa, nella quale si veggono alcune cose simili alle tele dei ragni: il che similmente si vede nei vomiti loro, e nelle feccie, che vanno del corpo. Messi i pazienti nell’acqua, s’alleggeriscono d’ogni dolore: ma come se ne vengono fuori, si dogliono non pco nelle parti vergognose, e lor tira la verga fuori di modo, come che ne i vecchi intervenga tutto il contrario perciocchè in loro quelle membra del tutto si rilassano. […] Giovano ne i morsi di tutti i continui bagni […]”.[36]
Successivamente il Mattioli parla anche della cura del “veleno delle tarantole” “con la musica dei suoni, e col lungo ballare”[37] ma risultano particolarmente interessanti le citazioni di cui sopra, per capire come tutta la sintomatologia attribuita al morso e al veleno dei “falangi” non solo abbia un riscontro in quella che nel Salento è attribuita al morso della “tarantola” (nome generico dato a un non meglio identificato ragno: non è assolutamente detto che ci si riferisse alla Lycosa piuttosto che non al Latrodectus oppure a tutte le specie di ragni più o meno velenosi), ma soprattutto che sin dall’antichità i bagni e l’acqua (e in particolare l’acqua calda e l’acqua marina) sono considerati strumenti terapeutici al fine di contrastare gli effetti del veleno.
Continuando con le citazioni sugli elementi acquatici nel rito e nel ballo, facciamo alcuni cenni sulla presenza costante dell’acqua e del mare anche nelle canzoni: a parte i numerosi versi che parlano di malinconiche storie d’amore (in genere perduto) e d’attesa in cui son presenti mari, naufragi, partenze per mare, almeno due canti in particolare sembrano delineare o quantomeno rievocare il quadro del rituale acquatico. Uno è quello pervenutoci tramite il De Simone, l’altro ci perviene tramite il Kircher. Il primo:
Mariola Antonia! Mariola te lu mare!
Taranta Mariola pizzica le caruse tutte quante !
Pisce frittu e baccalà e recotta cu lu mele,
maccaruni de Simulà.
(nota del De Simone): “… la tarantata risponde, esclamando”:
Ohimme! Mueru! Canta! Canta!
Il canto “allu mari”, citato dal Kircher nel Magnes sive, è ripreso anche dal De Martino:
Allu mari mi portati,
se volete che mi sanati!
Allu mari, alla via!
Così m’ama la donna mia!
Allu mari, allu mari:
mentre campo t’aggio amari!
Come abbiamo già visto, Epifanio Ferdinando nel 1621 ci fa sapere che i tarantati amavano udire il nome del mare, e “canti che narravano episodi in cui aveva parte il mare”[38] : “tarantati gaudent audire nomen maris, et cantilenas de mare mentionem facientes”.[39]
In conclusione, l’elemento acqua ricorre sin dall’antichità come cura specifica per i morsi di una serie di animali ritenuti velenosi, così come anche nelle forme e nei riti più antichi ascrivibili al tarantismo.
Il rituale dell’acqua non solo è, dunque, antichissimo e precedente, nella cura del tarantismo, a quello domiciliare (che tuttavia ne conserva elementi come la presenza di tinozze o bacinelle), ma ha evidentemente una origine e una motivazione prettamente “medica”: sin dall’antichità si ritiene che i bagni in acqua, e specie nell’acqua del mare, giovino e siano rimedio alle morsicature da aracnidi e altri animali velenosi o ritenuti tali.
Antidotum Tarantulae, dal Magnes sive de magnetica arte (1644)
NOTE
[1] Q. Marii Corradi Uretani, De copia latini sermonis, libri quinque. Ad Camillum Palaeotum, cum eius ipsius vita & aliis, quae versa pagina indicabit, Venetiis, apud Franciscum Zilettum, Venezia, 1581, V, pag. 171; vedi anche Ernesto Ernesto De Martino, La Terra del Rimorso, Il saggiatore, Milano, 1961, pag. 127
[2] Ernesto De Martino, op. cit., pag. 128; qui De Martino traduce e riassume da Athanasius Kircher, Magnes sive de Arte Magnetica opus tripartitum, Colonia, 1643 (1a ed. Roma 1641), pag. 759
[3] Epifanio Ferdinando, Centum historiae, Venezia, 1621, storia LXXXI “De morsu tarantulae”, trad. da Silvana Arcuti, Epifanio Ferdinando e il morso della tarantola, Edizioni Pensa Multimedia, Lecce, 2002. Epifanio descrive anche altri comportamenti bizzarri, come quello dell’aggirarsi tra i sepolcri, del calarsi in una tomba e stendersi in un feretro in compagnia del defunto, ma anche di donne che mostrano i genitali, si strappano i capelli; riferisce di altri che cantano nenie, son tristi, desiderano essere dondolati in un letto pensile, altri che chiedono di essere ricoperti di terra fino al collo, altri che si rotolano per terra, altri che supplicano di essere frustati
[4] Silvana Arcuti, Epifanio Ferdinando e il morso della tarantola, Edizioni Pensa Multimedia, Lecce, 2002, pag. 64
[5] Ibidem
[6] Ibidem
[7] Ivi, pag. 65
[8] Ibidem
[9] Ibidem
[10] Ibidem
[11] Ernesto De Martino, op. cit., pag. 129; cita qui Giorgio Baglivi, Dissertatio de anatome morsu et effectibus tarantulae, in Opera Omnia, Venezia, 1754; Dissertatio VI, pag. 314. Il De Martino, citando il Baglivi ed Epifanio Ferdinando, evidenzia anche l’utilizzo dell’altalena nel tarantismo antico, e più in generale di funi di sospensione appese agli alberi (nel rito domiciliare appese al soffitto) ricollegandolo (come del resto fa il Kircher) all’imitazione del comportamento del ragno che sta appeso ai fili della ragnatela oscillante al vento. La pratica dell’altalena è ritenuta dal De Martino parte integrante e originatasi dal rito all’aperto (nel duplice scenario arboreo ed acquatico):“La pratica dell’altalena, come è evidente, è legata all’esorcismo all’aperto, presso alberi e fonti; nell’esorcismo a domicilio si cercava di imitare lo scenario vegetale e acquatico e l’altalena si tramutava in una fune sospesa al soffitto, alla quale i tarantati si reggevano nel corso della loro danza...” (De Martino, cit., pag. 129)
[12] Paolo Boccone, Intorno la Tarantola della Puglia, in: Museo di Fisica e di Esperienze variato, e decorato di Osservazioni Naturali, Note Medicinali e Ragionamenti secondo i Princìpi de’ Moderni, Venezia, 1697, pag. 103
[13] Ernesto De Martino, op. cit., pag. 145
[14] Ernesto De Martino, op. cit., pag. 145. Qui il De Martino cita il Kircher, Magnes sive, pag. 768
[15] Ernesto De Martino, op. cit., pag. 128; con citazione di Ludovico Valletta, De phalangio apulo, Napoli 1706, pp. 77 e sgg.
[16] Ludovico Valletta, op. cit., pag. 92; cit. in Ernesto De Martino, op. cit., pag. 128
[17] Ludovico Valletta, op. cit., pag. 76
[18] Francesco Serao, Della Tarantola o sia Falangio di Puglia, Lezioni Accademiche, Napoli, 1742, pag. 156. Sul farsi seppellire nella terra, citato in questo passo, vedi anche paralleli con il rito dell’argia sarda (in De Martino, op. cit. pag. 196): “L’esorcismo è effettuato a suonatori e ballerini, mentre l’avvelenato viene sepolto sino al collo nel letame o in una fossa ricoperta poi di terra, oppure lasciato al suolo in preda alla crisi: in quest’ultimo caso può aver luogo o meno la sua partecipazione al ballo”
[19] Francesco Serao, op. cit., pp. 5-6
[20] George Berkeley, Diario di viaggio in Italia (1717 – 1718), trad. it. a cura di Nicola Nesta, Ed. Digitali CISVA 2010, pp. 53-54
[21] Nicola Caputi, De tarantulae anatome et morsu, Lecce, 1741, pag. 201
[22] Giovanni Battista Gagliardo, Descrizione topografica di Taranto, pp. 64-65, Napoli, 1811
[23] Janet Ross racconta di queste esperienze ella sua opera The Land of Manfred prince of Tarentum, edita a Londra nel 1889. Vi riporta anche i testi di tre canzoni popolari che ha raccolto: trascrive tre canzoni: Riccio Riccio, Larilà e La Gallipolina.
[24] Janet Ross, La Terra di Manfredi ( La Puglia nell’800), trad. I. Capriati, Tip. Vecchi, Trani, 1899, pp. 138- 140
[25] Antoine Laurent Castellan, Lettres sur l’ Italie, faisant suite aux lettres sur la morée, l’ Hellespont et Costantinople, Tomo I, Parigi, 1819, Lettre IX, pag. 82
[26] Giuseppe Gigli, Il ballo della tarantola. In “Superstizioni, pregiudizi, credenze e fiabe popolari in Terra d’Otranto” Firenze 1893.
[27] Nelle varie descrizioni e interpretazioni relative alla presenza degli specchi, questi oggetti vengono identificati come funzionali a una non meglio specificata auto-contemplazione, a volte specificamente interpretati come funzionali ad una sorta di auto-ammirazione narcisistica; da parte di alcuni autori si dice che nello specchio (e/o anche nell’acqua o nella bacinella d’acqua fungente da specchio) i tarantati “vedevano” la Tarantola che li aveva morsi, ma non è da escludersi una funzione dello specchio di tipo medico-diagnostico: nella antica medicina, difatti, lo specchio (e anche lo specchiarsi nell’acqua) era utilizzato per verificare il grado di avvelenamento e di malattia, e la compromissione delle facoltà del paziente. Nel Sesto Libro di Dioscoride del Mattioli, si legge: “Riferisce Avicenna, che quantunque temano i pazienti l’acqua, si può tenere nondimeno speranza di salute, pur che rimirando nello specchio, riconoscano se stessi. Il che dimostra, che si possa havere speranza di curare nel timor dell’acqua, quando il veleno non sia di tal forte confermato, che restino ancora i pazienti con qualche conoscimento” (Pietro Andrea Mattioli, I Discorsi di M. Pietro Andrea Matthioli, Sanese, Medico Cesareo, nelli sei libri di Pedacio Dioscoride Anazarbeo della materia Medicinale, Venezia, 1573, pag. 947)
[28] Anna Caggiano, La danza dei tarantolati nei dintorni di Taranto, in Folklore italiano: archivio trimestrale per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari, VI, 1931, pag. 72
[29] Ernesto De Martino, op. cit., pag. 131
[30] Achille Vergari, Tarantismo o malattia prodotta dalle tarantole velenose, Napoli, stamperia Società Filomatica, 1859, pp. 34-35. Il Vergari prosegue citando anch’egli l’uso delle funi, ma in riferimento al morso della tarantola in Dalmazia: “Assicurava il Fortis « che nel Contado di Traù in Dalmazia i contadini che nella stagione ardente agir deggiono in campagna, sono soggetti frequentemente al morso della tarantola, Pauk nell’ idioma illirico; e che il rimedio che usano per calmare a poco a poco, e far poi cessare del tutto i dolori dal veleno del pauk prodotti, si è il mettere gli ammalati a sedere sopra d’una fune non tesa, ben raccomandata tra due capi alle travi, e dondolarveli per cinque o sei ore (Michelangelo Manicone, Fisica appula, vol. V pag 81. )” (Vergari, cit., pag. 35)
[31] AA.VV., Sulle Tracce della Taranta, Documenti inediti del Settecento, Crsec Galatina, Crsec San Cesario – Regione Puglia, 2000, pp. 57-58
[32] Silvana Arcuti, Epifanio Fernando e il morso della tarantola, Pensa Multimedia, Lecce, 2002, pp. 43-44
[33] Propriamente, con il termine Solifugae si intende, nella attuale classificazione, un ordine di aracnidi (peraltro non velenosi), e non già un genere e tantomeno una determinata specie. Tuttavia il Serao identifica, con una lunga dissertazione, la Solìfuga sarda con la “tarantola di Puglia” (Serao, op. cit., pp. 80-89); e Giovanni Spano, nel suo Vocabolario Sardu-Italianu (1851) riferisce che questo ragno è da identificarsi con la taràntola citata dal Berni nel suo Orlando innamorato (Francesco Berni Orlando innamorato, XLI, ottava 6, vv. 5-8; ottava 7, vv. 1-4 ), e, propriamente, con l’ Arza o Argia sarda ( Giovanni Spano, Vocabolario Sardu-Italianu, a cura di Giulio Paulis, Ilisso Edizioni, Nuoro, 2004, pag. 110 e pag. 119). L’ Argia sarda altro non è che il Latrodectus tredigimguttatus, volgarmente detto malmignatta o anche vedova nera mediterranea.
[34] Salvatore Pasanisi, Saggio chimico – medico sull’acqua minerale di Manduria, Napoli, Stamperia Nicola Russo, 1790, pp. 32 – 33
[35] Pietro Andrea Mattioli, I Discorsi di Pietro Andrea Mattioli nei Sei Libri di Pedacio Dioscoride Anarzabeo nella Materia medicinale, Venezia, 1573, V Libro, pag. 825
[36] Pietro Andrea Mattioli op. cit. pag. 958-959
[37] Pietro Andrea Mattioli op. cit. pag. 959
[38] Ernesto De Martino, op. cit., pag. 145
[39] Epifanio Ferdinando, Centum historie seu observationes, Venezia, 1621, pag. 258
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Cosa ha consentito a Roma di costruirsi l'impero?
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Cosa ha consentito a Roma di costruirsi l'impero?
Lo storiografo greco Polibio (II secolo a.C.) individua nella Costituzione romana la ragione prima della travolgente conquista romana. Polibio passa molta parte della sua vita a Roma, ospite coatto della famiglia Scipione. Coatto, perché ostaggio. Infatti, nell’imminenza dello scontro con Perseo, figlio di Filippo V di Macedonia, i romani chiesero alle città della Lega Achea di allearsi con loro. E Megalopoli, patria di Polibio, faceva parte di quella Lega. Questa si dichiarò neutrale, ed allora i romani, per garantirsi quella neutralità, si fecero consegnare mille ostaggi, persone di alto prestigio sociale, dalle città della Lega Achea, e li distribuirono per tutta l’Italia. Tra questi Polibio, figlio di una famiglia eminente di Megalopoli, e già in vista come autore di opere storiche. Megalopoli esiste tuttora, è al centro nord del Peloponneso, non lontano da Olimpia, nella regione dell’Arcadia, zona divenuta mitica nella cultura europea, sito dell’ideale vita campestre, amena e pastorale. Gli Scipioni lo vollero in casa loro, e divenne precettore dei giovani di casa, in particolare di Emiliano, figlio naturale del console Paolo Emilio vincitore di Perseo a Pidna, e nipote adottivo di Scipione l’Africano. Secondo l’uso romano dell’adozione, il suo nome da Emilio divenne Emiliano, ed entrava a far parte dell’onomastica del giovane, che quindi fu Publio Cornelio Scipione Emiliano. Egli conquistò Cartagine e la distrusse nel 146 a.C. , e sul sito fece spargere il sale a significare che nulla più avrebbe dovuto nascere là. E Polibio era presente, e ci riferisce che il suo giovane allievo, invece di festeggiare, pianse. Alla domanda di Polibio rispose: “Piango questa città così importante ed ora distrutta. E penso a Roma, e mi angoscia il pensiero che possa finire così anche lei!”. Ed allora divenne l’Africano Minore, essendo il nonno adottivo l’Africano Maggiore: junior e senior. Ed Emiliano fu l’animatore del circolo culturale, che diede un potente impulso alla cultura romana, che evolvette nelle tematiche e nella lingua, sotto il magistero della Grecia. Polibio in primis.
La Costituzione romana secondo Polibio è perfetta, e garantisce la stabilità politica necessaria alla formazione di un grande impero. Non sembri strano questo tifare di Polibio per un grande impero, che era stato vagheggiato ormai per secoli, un impero che, unendo tutti i popoli rivieraschi del Mediterraneo, fondasse il regno della pace. Alessandro Magno era stato quello che più di tutti l’aveva fatto intravvedere, ma era morto troppo presto, che l’opera non era ancora ultimata. I romani – dice Polibio – mettono in equilibrio reciproco le tre forme PURE di costituzione, le quali da sole e senza equilibrio reciproco, sono destinate a scadere nelle forme degenerative corrispondenti: così la monarchia diventa tirannide, l’aristocrazia (forma pura) abbatte la tirannide, ma dopo un po’ degenera nell’oligarchia, e questa a sua volta viene abbattuta dalla democrazia, che poi degenera nell’anarchia convulsa. Dimentichi dell’esperienza storica precedente, ci si affida all’Uomo della Provvidenza. E si ricomincia da capo. I romani hanno messo insieme le tre forme pure: i consoli ed i pretori sono come i re (monarchia), ma sono elettivi, a tempo (1 anno) e collegiali (almeno in due); il senato ha il ruolo della forma pura dell’aristocrazia, mentre i comizi popolari sono la veste romana della democrazia. Finché monarchia, aristocrazia e democrazia coesistono, tutto fila liscio. E a Roma esisteranno equilibrandosi a vicenda, lo Stato sarà stabile e potente. L’interpretazione appare affascinante e fondata, ma ha un evidente difetto dico io: la Costituzione è perfetta, e la perfezione non appartiene all’uomo. Allora è preferibile una Costituzione imperfetta, che meglio si adatta all’imperfezione umana, e questa forma si chiama democrazia, forma imperfetta e illimitatamente perfettibile. E chiedo scusa per l’intrusione personale. Polibio comincerà ad avere anche lui qualche dubbio, e lo scrive.
SPQR, Senatus PopulusQue Romanus, la famosa sigla, che ben sintetizza i primi 500 anni circa della vita politica romana: il Senato e il Popolo. In epoca monarchica (753-510) alla morte del re il Senato ed il Popolo eleggono il successore: una monarchia elettiva dunque e non ereditaria, almeno fino ai re etruschi (Tarquinio Prisco, Servio Tullio, Tarquinio il Superbo). Il popolo (la plebe) ha sempre dovuto lottare contro i privilegi dei patrizi (i discendenti dei Patres, i vecchi patriarchi dei cento clan iniziali), per strappare i propri diritti, ed il sistema ha funzionato fino alla fine della guerra annibalica (202). Poi la ricchezza ha preso il sopravvento, con la nascita del latifondismo e dell’urbanesimo: la plebe di fatto fu declassata, ed il popolo perdette di autonomia: uno dei tre pilastri, quello democratico, iniziò a perdere di forza. E Roma iniziò a traballare.
Perché Roma conquistasse l’Italia, ci vollero circa 500 anni, con una serie infinita di guerre feroci contro popolazioni irriducibili e battagliere: etruschi sanniti galli latini ed anche campani diedero ai romani tanto filo da torcere. Alla fine Roma li sottomise tutti, ma le occorsero 500 anni. E questi popoli, che tanto avevano combattuto il dominio romano, tuttavia all’arrivo di Annibale restarono per lo più fedeli a Roma, contrariamente alle attese del cartaginese, e consentirono ai romani di resistere per 16 anni, una sconfitta dopo l’altra, fino alla vittoria di Scipione a Zama. Come mai? I romani lasciavano ai popoli sottomessi larga autonomia amministrativa, imponendo pochi obblighi. Niente più politica estera, ormai prerogativa di Roma, i tributi alla capitale, le truppe in caso di bisogno. Ma poi anche strade, templi, abbellimenti di città, acquedotti, terme e vasti territori pacificati, nei quali muoversi senza problemi. Inoltre i romani evitavano l’arroganza verso i vinti, perché non escludevano affatto di poter imparare qualcosa da tutti. Poi loro magari la perfezionavano. Ed avevano cura di trovare una forma di cooptazione con i potenti locali.
I 500 anni di asperrime lotte con gli italici avevano forgiato una forza militare praticamente invincibile. Le migliaia di morti seminati in tale lungo periodo avevano fornito ai romani un’esperienza, che in oriente nemmeno potevano sognare. Ed i romani abbatterono con irrisoria facilità tutti i regni orientali e nordafricani, stendendo dappertutto l’ala della pax romana. Il dominio romano toccò la massima estensione territoriale con l’imperatore soldato Ulpio Traiano, all’inizio del II secolo d.C.
L’esercito dunque è stato un altro importante fattore dell’impero romano. Per circa 500 anni il servizio militare era sentito, più che come un dovere, come un diritto, la maniera principale per affermare il proprio status di civis romanus. La disciplina era ferrea, e l’imperium del console o del dittatore era terribile. Il console Tiberio Claudio Nerone, che si era accampato nei pressi del campo di Annibale, saputo che il duce cartaginese attendeva l’arrivo del fratello Asdrubale con un secondo esercito, lasciò nel campo alcune centinaia di uomini, con l’ordine di agitarsi, per dare ai cartaginesi la convinzione che i soldati romani fossero ancora là. Invece nottetempo li fece uscire zitti zitti, ed a tappe di circa 60 km al giorno li portò a sorprendere Asdrubale sul Metauro nelle Marche. Dopo la vittoria, a tappe rapide fece il cammino a ritroso, e, come messaggio terribile per Annibale, mandò a gettare nel campo punico la testa di Asdrubale. Era l’episodio che invertiva l’inerzia della guerra. Gli eserciti romani subirono delle sconfitte da parte degli schiavi guidati da Spartaco. Assunse il comando Licinio Crasso, che mise in fila i suoi uomini e ne fece uccidere uno ogni dieci: era la decimazione, con la promessa di fare peggio, in caso di ulteriore sconfitta. Disciplina ferrea e tremenda.
Altro fattore di forza era la ferrea logica che presiedeva alle decisioni. Annibale aveva nelle sue mani diecimila soldati romani, dei quali chiese il riscatto. In senato si disse che, se il riscatto conveniva ad Annibale, non conveniva ai romani. Quindi che li uccidesse pure. Ma non ne ebbe l’animo. Ed il riflesso tuttora tangibile della logica ferrea lo si coglie nella lingua, un modo di esprimersi quasi da computer. Noi diciamo: “Potremmo fare una gita.”. I romani dicevano: “Possiamo fare una gita.”. Insomma o si può o non si può: potremmo non ha senso. Una lingua concreta, direi ancorata al mondo. Cicerone diceva: “Quando io ero console”, e non “Durante il mio consolato”, dato che ‘consolato’ è una astrazione. E Polibio dice che i romani, quando si ficcano in testa di fare una cosa, la fanno, non illudersi che rinuncino.
I tribuni della plebe Tiberio e Caio Gracco, e dopo di loro il tribuno Livio Druso, tentarono una riforma agraria, tesa a restituire la dignità del lavoro ai plebei, restituendo loro la libertà economica perduta con l’urbanesimo. Ma andarono a toccare interessi ormai troppo grandi e consolidati, e quindi morirono di morte violenta: era l’inizio del tramonto. Lo storico Tito Livio, di epoca augustea, dice che è incredibile la rapidità con cui Roma ha sottomesso l’intero mondo allora conosciuto, una crescita di potenza sotto il cui peso l’intero edificio inizia a scricchiolare. Le disuguaglianze economiche avevano scavato un solco largo e profondo tra classe dirigente e popolo. E questo cominciò a sognare l’Uomo Carismatico, che si chiamò imperatore, un sistema prossimo allo Stato Etico, che tutto cristallizzò, in un crepuscolo in apparenza senza fine e dorato all’inizio, a partire da una crisi demografica cronica, di cui si rese conto Augusto per primo, e che invano cercò di guarire. Una crisi demografica cronica di un popolo, per perdita di identità nebulosità del futuro difficoltà del presente, è il lento suicidio di massa di quel popolo. Si crea un vuoto di popolazione, e, come nei vasi comunicanti si sposta l’acqua, così nei territori si trasferiscono le persone. Quando i barbari arrivarono, trovarono un fragile guscio vuoto, in apparenza integro, ma ormai senza difese. Non sono state le invasioni a demolire l’impero, ma questo era già svuotato dal suo interno a dispetto delle apparenze. E per i barbari fu facile.
Virgilio al tempo di Augusto indicava ai romani il destino che loro competeva: “Parcere subiectis, debellare superbos”, comprensione per i sottomessi, punizione per i superbi. Cento anni dopo, Tacito scriveva: “Fanno il deserto [i romani], e lo chiamano pace.”. Ma straordinaria è l’eredità di valori che ci hanno lasciato, che sarebbe salvifico riscoprire nella nostra epoca così disorientata: “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”, diceva Terenzio. Sono un uomo, e nulla di ciò che tocca un altro uomo lo ritengo a me estraneo. E’ l’humanitas, l’antidoto al vitello d’oro, cioè il dio profitto uno e quattrino, il PIL, e ai valori dell’humanitas sarebbe necessario educare i nostri giovani, nella prospettiva di un nuovo e urgente umanesimo. Nuccio Ordine, professore emerito, ha scritto un prezioso volumetto, “L’utilità dell’inutile”, dove l’inutile sarebbero le materie umanistiche, secondo alcuni. E vi si dice che, se il criterio di giudizio si impernia sull’utile, allora in una nostra casa lo spazio più importante è il cesso. Come per Ferreri ne “La grande abbuffata”.
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Giurdignano: giardino megalitico d'Italia
È nel cuore del Salento, a pochi chilometri da Lecce, che sorge il “giardino megalitico d’Italia” Il piccolo borgo di Giurdignano si è guadagnato questo nome grazie ai magnifici monumenti megalitici che si concentrano sul suo territorio, e che ogni anno attirano numerosi turisti. Il paese si trova a poca distanza da Capo d’Otranto, il punto più orientale d’Italia. È un luogo di grande rilevanza storica e archeologica, proprio a causa della presenza di tracce di civiltà antichissime che vi si sono insediate in epoche remote. Possiamo infatti trovare a Giurdignano splendidi esempi di dolmen, menhir e pietre antiche, a riprova di un passato lontano in cui la zona era abitata. Ma anche monumenti e architetture di origine romanica, come l’affascinante necropoli di età imperiale risalente al II o III secolo d.C. Scopriamo allora alcune delle bellezze che hanno reso questo borgo così suggestivo. I dolmen e i menhir di Giurdignano Come abbiamo visto, la caratteristica principale del paese è la presenza di numerosi esempi di monumenti megalitici, che costellano sia il centro abitato che le campagne dei dintorni. Di menhir, strutture che in tempi antichi arrivavano anche ad altezze superiori ai venti metri, se ne contano addirittura 19, sparsi in tutto il territorio di Giurdignano. Alcuni sono raggiungibili semplicemente passeggiando per le viuzze del paese, come quello della Madonna di Costantinopoli. Sorge infatti nei pressi dell’omonima chiesa, nel pieno centro storico del borgo. Anche il menhir San Vincenzo si trova nei paraggi, vicino alla cripta bizantina di San Salvatore. Quest’ultimo è uno dei più alti tra quelli presenti sul territorio leccese, con i suoi oltre 3 metri e mezzo. Anche i dolmen sono ampiamente rappresentati in questa zona. Si tratta di antiche tombe costituite da due pietre verticali sulle quali poggia un architrave orizzontale. Tra i più famosi di Giurdignano ci sono sicuramente i dolmen Grassi, due strutture contrapposte a poca distanza l’una dall’altra, di cui solo una è però ancora integra (dell’altra sono rimaste solamente le pietre verticali, dal momento che il lastrone di copertura è crollato all’interno della struttura stessa). Spettacolare anche il dolmen Chiancuse, un’imponente tomba ormai crollata su se stessa a causa dell’avanzare del tempo. Era in origine una struttura molto grande, la cui lastra orizzontare era sorretta da ben 7 ortostati. Purtroppo, le sue rovine sono oggi difficili da scorgere perché ricoperte da rovi. Giurdignano, il centro storico Ma il borgo non presenta solo monumenti megalitici: il suo centro storico è ricco di architetture di origine romanica e medievale, che ci raccontano il suo vivace passato. Un tempo, il paese era infatti un castello di Otranto, ed era utilizzato come quartiere da alcuni soldati dell’esercito romano. Del periodo successivo rimangono molte tracce nell’architettura di Giurdignano. Ne sono degli splendidi esempi la cripta di San Salvatore, interamente scavata in un banco tufaceo e riccamente decorata da volte scolpite e affreschi ormai svaniti da tempo, e il Palazzo Baronale, eretto in quella che oggi è piazza Municipio agli inizi del XVI secolo, come fortezza contro le incursioni dei Saraceni. FONTE: SiViaggia Read the full article
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“Frontiere? Non ne ho mai vista una, ma ho sentito che esistono nelle menti di alcune persone” (Thor Heyerdahl)
Mi sono imbattuto recentemente sulle tracce di questo grande personaggio visitando il museo ubicato presso le Piramidi di Güímar, al centro dell’isola di Tenerife, alle Canarie Perché questo norvegese è così noto in questo luogo? Raccontiamo la sua straordinaria vita ricca di avventure e scoperte.
Thor Heyerdahl nasce a Larvik , una cittadina costiera a sud di Oslo, in Norvegia, il 6 ottobre del 1914. Il padre, anch’egli di nome Thor, era un birraio, mentre sua madre Alison era impegnata a capo dell’associazione museale regionale di Larvik. Fu proprio la madre a stimolare nel piccolo Thor l’interesse per le scienze naturali e per gli animali. Thor sin da bambino era molto bravo anche nel disegno. Amante dello sci di fondo e delle lunghe passeggiate, in gioventù compì molti viaggi a piedi con l’amico Erik Hesselberg in diverse regioni montuose norvegesi, sempre accompagnato anche dal suo amato cane husky della Groenlandia, Kazan.
Thor con il suo fedele husky Kazan nei primi ani ’30 ( (Foto Kon-Tiki Museum)
Nel 1933 conobbe Liv Coucheron Torp, con lei condivise anche la passione per la natura; la sposò nel 1936 ed ebbe da lei due figli: Thor Jr. e Bjorn.
Heyerdahl frequentò l’Università di Oslo, studiando zoologia e geografia, ma lasciò gli studi prima di laurearsi per recarsi in Polinesia. Fu mentre era a Fatu Hiva la più suggestiva delle isole Marchesi, nella Polinesia Francese, che iniziò a chiedersi come gli abitanti del Pacifico avessero raggiunto ed abitato queste isole, così lontane dalla terraferma, in epoche remote. Fu una delle domande alla cui risposta dedicò la vita, ed era in contrasto con le teorie dell’epoca, secondo le quali non sarebbero mai esistiti contatti tra le popolazioni europee/africane e il continente americano e tra le isole del Pacifico e il Sudamerica. Questa convinzione divenne il suo cruccio e fece di tutto per smentire queste teorie, a parer suo errate. Rimase a Fatu Hiva circa due anni con la moglie Liv, parlò con indigeni e con un norvegese che viveva lì da molti anni e che gli mostrò delle statue molto simili ad alcune rinvenute in Colombia. Poteva essere che in epoca precolombiana delle imbarcazioni potessero affrontare 6500 km in pieno Oceano Pacifico? Non restava che provare a dimostrarlo, di persona.
Kon-Tiki – 1947
Thor Heyerdahl, grazie a finanziamenti privati, riuscì ad organizzare la sua prima e leggendaria spedizione, costruì una zattera, battezzata Kon-Tiki, lunga 14 metri e larga 5,5, munita di vele, realizzata nella ricostruzione utilizzando esattamente i materiali che avevano a disposizione le civiltà precolombiane.
Il percorso del Kon-Tiki (Foto Kon-Tiki Museum)
Il Perù mise a disposizione un porto per l’allestimento e il varo. La base della zattera era formata da 9 tronchi uniti di totora, una tipica pianta peruviana, nota per le grandi
Il Kon-Tiki (Foto Kon-Tiki Museum)
capacità di galleggiamento, lunghi 14 metri per 60 cm di diametro. Fu utilizzato anche legno di balsa. L’albero era formato da fusti di mangrovia, la più grande delle tre vele era quadra (4,6 x 5,5 m.). L’esercito americano rifornì di vettovaglie la spedizione con carne in scatola, fu stoccata circa una tonnellata d’acqua dolce. L’equipaggio era formato da sei persone, cinque norvegesi e uno svedese, e un pappagallo. Il 28 aprile 1947 la spedizione partì dal porto di Callao, in Perù. Il 30 luglio fu avvistato l’atollo di Puka-Puka, ma le condizioni del mare impedirono lo sbarco. Il 7 agosto il Kon-Tiki tentò di raggiungere l’atollo di Raroia, ma il mare grosso spinse la zattera sulla barriera corallina provocando gravi danni all’imbarcazione. L’equipaggio sbarcò, e grazie alle mareggiate riuscì a recuperare i resti della primitiva imbarcazione. Si calcolò che Heyerdahl e il suo equipaggio percorsero circa 6890 km. (3770 miglia marine), la sua teoria era credibile, altri avrebbero potuto navigare con imbarcazioni analoghe e raggiungere le isole del Pacifico dalle coste sudamericane. La sua idea cominciava ad essere presa in considerazione.
Una riproduzione della zattera Kon-Tiki al museo di Güimar, a Tenerife (Foto Donato Milione)
Galápagos – 1953
Nel 1953 Thor Heyerdahl e i due archeologi norvegesi Erik K. Reed e Arne Skjølsvold furono i primi ad effettuare studi archeologici nell’arcipelago. Prima di raggiungere le isole della Polinesia, le popolazioni sudamericane precolombiane – sempre secondo la sua tesi – sarebbero dovuti passare per le Galápagos prima di raggiungere il centro del Pacifico. Nelle loro ricerche ritrovarono un flauto inca e moltissime ceramiche risalenti addirittura al periodo pre-inca. Giunsero alla conclusione che non fu mai stabilito un insediamento fisso sulle isole, in quanto carenti di acqua potabile per buona parte dell’anno, ma furono area di passaggio. Dal Sudamerica comunque antiche popolazioni arrivarono alle Galápagos, indubbiamente.
Isola di Pasqua– 1955/1956 e 1986/1987
Thor Heyerdahl accanto a un “moai” ( (Foto Kon-Tiki Museum)
Nel 1955 Yjor Heyerdahl, in compagnia di altri 5 archeologi intraprese una spedizione dell’Isola di Pasqua. Su tutta quest’isola del Pacifico erano presenti quasi 900 colossali statue di pietra chiamate “moai” nella lingua locale, che furono scolpite dagli abitanti del luogo a partire circa dall’anno 1000 d.c.. Rappresentano delle figure umane stilizzate con grandi teste. Dapprima si pensava che i moai fossero solo teste, ma scavando si scoprì che sotto, interrati, erano presenti enormi busti. Heyerdahl dimostrò come in antichità fosse possibile trasportare ed erigere queste enormi statue alte, dai 2,5 ai 10 metri generalmente.
Ra – 1969
Il Ra in Marocco poco prima del varo (Foto Kon-Tiki Museum)
Il Ra in difficoltà, missione da ritentare (Foto Kon-Tiki Museum)
Thor Heyerdahl durante il suo soggiorno sull’Isola di Pasqua scoprì, attraverso antiche raffigurazioni, che le popolazioni locali utilizzavano in passato delle piccole imbarcazioni di giunco con albero e vela. Scattò il desiderio di provare che le antiche popolazioni africane potevano essere in grado di raggiungere le Americhe ben prima della scoperta di Cristoforo Colombo del 1492. Si recò in Egitto e realizzò una barca in giunco del tutto uguale a quelle utilizzate dagli antichi egizi e la chiamò Ra, come il Dio del Sole. Fece trasportare la barca in Marocco, a Tafi, dove fu varata. L’equipaggio erano composto da 7 uomini di diverse nazioni, tra cui l’italiano Carlo Mauri e lo stesso Heyerdahl. La barca, nonostante fosse chiaro che non fosse ben costruita e con un timone rotto, percorse ben 5000 km. in pieno Oceano Atlantico, ma senza giungere a destinazione. La spedizione fu abbandonata prima che il Ra affondasse.
Ra II – 1970
L’impresa del Ra II celebrata in copertina dal National Gographic
L’anno successivo, Heyerdahl, facendo tesoro degli errori della prima spedizione, costruì il Ra II. Quattro indigeni Aymara della zona del lago peruviano del Titicaca, molto esperti nel costruire questo tipo di imbarcazione, aiutarono a perfezionare la barca. Quasi tutto lo stesso equipaggio delle prima spedizione volle ritentare l’impresa (tra cui Mauri). La nuova imbarcazione era più corta della prima, ma molto più resistente. Il Ra II navigò per circa 6100 chilometri dal Marocco fino alle isole Barbados, nei Caraibi, in 57 giorni. Il successo della spedizione obbligò gli antropologi e studiosi di tutto il mondo ad abbandonare la loro convinzione che nessuno prima di Cristoforo Colombo avesse mai raggiunto l’America. Gli stessi antichi Egizi avrebbero potuto farlo con le loro barche di giunco. In questa spedizione Heyerdahl riferì tracce di inquinamento da petrolio scoperto nell’Atlantico.
Il più robusto Ra II in navigazione (Foto Kon-Tiki Museum)
Una riproduzione del Ra II al museo di Güimar, a Tenerife (Foto Donato Milione)
Tigris – 1978-1979
La costruzione del Tigris (Foto Kon-Tiki Museum)
Sulle pareti delle tombe di alcuni faraoni si possono vedere illustrate delle barche di giunco in navigazione. Heyerdahl si chiese se mai le popolazioni dell’Egitto e della Mesopotamia fossero mai venute in contatto via mare con gli abitanti della valle dell’Indo. Si recò in Iraq con un nuovo progetto, realizzò un’imbarcazione di giunco molto più grande delle precedenti, lunga ben 18 metri.
In navigazione sul Tigris (Foto Kon-Tiki Museum)
Intraprese il viaggio nel 1978 con alcuni storici compagni d’equipaggio (tra cui l’italiano Mauri) ed altri, alla prima esperienza. Era credenza comune che Sumeri e Babilonesi utilizzassero le barche solo per la navigazione fluviale. La nuova sfida di Heyerdahl era dimostrare che le barche di giunco potessero navigare anche in mare aperto. Partendo dal fiume Shatt al-‘Arab, la congiunzione di Tigri ed Eufrate, il Tigris proseguì lungo il Golfo Persico fino a raggiungere la valle dell’Indo (Pakistan) e tocco anche Gibuti, nell’Africa orientale. Il viaggio durò 143 giorni e coprì una distanza di 6800 km. Ancora una volta Heyerdhal dimostrò che i contatti tra le antiche popolazioni intorno alla penisola arabica non erano utopia, ma una possibilità tutt’altro che remota.
Maldive 1983-1984
Nel 1982 Heyerdahl ricevette una lettera anonima dalle Maldive contenente una foto di una statua sconosciuta. La curiosità lo portò ad organizzare una spedizione archeologica nell’arcipelago dell’Oceano Indiano. Accompagnato dall’amico archeologo Arne Skjølsvold e da altri collaboratori alla prima esperienza. Su molte isole trovarono dei cumuli che contenevamo piccoli templi che vennero datati intorno al 550 d.C. Vicino a questi templi vennero rinvenute della vasche in pietra con delle scale, delle piscine. Vennero scoperte anche alcune statue di pietra, alcune raffiguranti Buddha. Fu ritrovata anche una moneta romana risalente al 90 a.C., ma nonostante tutto Heyerdahl non riuscì a confutare le tesi degli scienziati che negavano che i primi abitanti delle Maldive provenissero dall’India e dallo Sri Lanka.
Túcume (Perù) 1988-1992
Nel 1988 Thor Heyerdahl si recò in Perù nella zona archeologica nei pressi di Túcume, nel nordovest del paese, che all’epoca fu il più grande progetto archeologico. Nel sito erano presenti 26 edifici di forma piramidale. Dopo studi e rilevazioni gli archeologi stabilirono che le rovine risalissero all’incirca al 110 d.C. Fu nel marzo 1992 che venne fatta la scoperta più importante della spedizione, dei bassorilievi che mostravano dei mitologici uomini uccello, accovacciati con in mano un uovo, molto somiglianti a quelli trovati sull’Isola di Pasqua, seguirono altre scoperte, come le pagaie doppie ritrovate finora solo nella suddetta isola. Erano le prove che i popoli precolombiani del Sud America avevano per primi scoperto e popolato l’Isola di Pasqua, spingendosi fino alla Polinesia orientale. Oggi è universalmente accettato che intorno al 1300 d.C. ci fossero stati contatti tra popoli polinesiani e sudamericani.
Thor Heyerdahl con l’amico archeologo Arne Skjølsvold a Túcume (Foto Kon-Tiki Museum)
Güimar (Tenerife, Canarie) 1992-1998
Thor Heyerdahl nei primi anni ’90 si recò sull’isola di Tenerife, nelle Canarie, attratto dalle costruzioni che emergevano nella cittadina di Güimar lungo la costa est dell’isola. Quelle file di pietre, che le popolazioni locali attribuivano a raccolte di pietre da parte di pastori per liberare il terreno, si rivelarono essere parti di piramidi, che l’archeologo norvegese riportò alla luce con i suoi scavi. Queste piramidi hanno molto in comune con quelle americane di Incas e Maya, come l’orientamento astronomico.
Cit. “Nel giorno del solstizio d’estate si può vedere un doppio tramonto dalla piattaforma della piramide più alta, dove il sole scende dietro il picco di un’alta montagna, lo oltrepassa, appare di nuovo e scompare dietro la montagna successiva. Tutte le piramidi hanno una scalinata sul lato occidentale, sulle quali è possibile salire seguendo esattamente il sole nascente, la mattina del solstizio d’inverno.” (http://www.costaestenerife.com/)
Le pietre, di origine vulcanica, provengono dal Monte Teide al centro dell’Isola. La domanda che si poneva era chi avesse costruito quelle piramidi. Non certo i Guanches, popolazione primitiva ancora ai tempi di Colombo, che viveva nell’isola. Heyerdahl era convinto che le Canarie fossero (come lo furono per Cristoforo Colombo) una tappa di passaggio per la navigazione verso l’America. Questo mistero non è ancora stato chiarito del tutto, ma il sospetto che tra le piramidi egizie, quelle delle civiltà precolombiane e, aggiungiamo, anche quelle di Tenerife ci sia un collegamento è un argomento piuttosto intrigante, ricco di indizi e non del tutto fantasioso. Nel 1998 il parco etnografico di Güimar è stato aperto al pubblico e, per il turista che non sia solo in cerca di mare e divertimento, è una tappa irrinunciabile sull’isola di Tenerife. Il parco etnografico, oltre alle piramidi è sede di un giardino botanico con specie autoctone canarie. C’è un museo, in gran parte dedicato ai misteri delle piramidi e alle imprese di Heyerdahl con tanto di ricostruzioni di alcune delle sue leggendarie barche e molte fotografie. Heyerdahl fu aiutato economicamente in queste sue ricerche dal compatriota Fred Olsen, armatore operativo alla Canarie.
Sotto alcune foto del sito archeologico di Güimar (Foto Donato Milione).
Thor Heyerdahl si spense il 18 aprile del 2002 a Colla Micheri, una frazione di Andora (SV), in cui trascorse molti anni della sua sua vita. Nel giugno del 2019 un’ala del Museo Luciano Dabroi a Palazzo Tagliaferro di Andora è stata dedicata, in collaborazione con il comune di Larvik, all’esploratore norvegese, molto legato a questi luoghi.
Una scultura della testa di Thor Heyerdahl al museo di Güimar a Tenerife (Foto Donato Milione)
Thor Heyerdahl è stato un grande uomo, oltre che un grande etnologo, antropologo, esploratore, scrittore, regista, ambientalista. Pur essendo spesso deriso e osteggiato da molti scienziati dimostrò con i fatti, e sulla propria pelle, mettendosi sempre in gioco, quelle che erano le sue convinzioni, le sue teorie, le sue idee, senza badare ai pericoli e alle conseguenze. Un pioniere affamato di conoscenza e desideroso di scoprire quella storia del mondo ancora poco conosciuta, un grande scienziato e un grande uomo. Un dovere ricordare le sue imprese.
Alcune pillole e curiosità
A Oslo, capitale della Norvegia, c’è un museo dedicato al grande archeologo ed esploratore, The Kon-Tiki Museum, Bygdøynesveien 36,0286 Oslo, mail [email protected]
Thor Heyerdahl ebbe tre mogli: Liv Coucheron Torp (1936–1947), Yvonne Dedekam-Simonsen (1949–1980), e Jacqueline Beer (1991–2002), e 5 figli, Thor jr. e Bjørn (da Liv), Anette, Marian e Helen Elisabeth (Bettina), da Yvonne.
Heyerdahl si considerava cittadino del mondo, pacifista e sostenitore dei valori di eguaglianza e ambientalista. Fece parte del Movimento federalista mondiale (World Federalist Movement) e ne divenne un membro molto attivo.
Si dilettava anche nel disegno e nell’intaglio artistico del legno.
Thor Heyerdahl (Foto Kon-Tiki Museum)
Heyerdahl scrisse 14 libri di divulgazione scientifica, molti tradotti in varie lingue. Kon-Tiki (Kon-Tiki ekspedisjonen, 1948) è stato tradotto in 70 lingue e vendette decine di milioni di copie.
Thor Heyerdahl realizzò anche dei film su molte delle sue spedizioni. Nel 1950 uscì il documentario Kon-Tiki, che vinse l’Oscar l’anno successivo.
Nel 2012 è stato prodotto un film, sempre dal Titolo Kon-Tiki, diretto da Joachim Rønning ed Espen Sandberg, che racconta l’avventura di Heyerdahl sulla mitica zattera, l’eploratore è stato interpretato dall’attore norvegese Pål Hagen.
L’Oscar vinto per Kon-Tiki
Il trailer del film Kon-Tiki, prodotto nel 2012 e distribuito nel 2013
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Personaggi: Thor Heyerdahl uno dei più grandi esploratori del XX secolo “Frontiere? Non ne ho mai vista una, ma ho sentito che esistono nelle menti di alcune persone” (Thor Heyerdahl)
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È nel cuore del Salento, a pochi chilometri da Lecce, che sorge il “giardino megalitico d’Italia”: il piccolo borgo di Giurdignano si è guadagnato questo nome grazie ai magnifici monumenti megalitici che si concentrano sul suo territorio, e che ogni anno attirano numerosi turisti. Il paese si trova a poca distanza da Capo d’Otranto, il punto più orientale d’Italia. È un luogo di grande rilevanza storica e archeologica, proprio a causa della presenza di tracce di civiltà antichissime che vi si sono insediate in epoche remote. Possiamo infatti trovare a Giurdignano splendidi esempi di dolmen, menhir e pietre antiche, a riprova di un passato lontano in cui la zona era abitata. Ma anche monumenti e architetture di origine romanica, come l’affascinante necropoli di età imperiale risalente al II o III secolo d.C. Scopriamo allora alcune delle bellezze che hanno reso questo borgo così suggestivo. Uno dei menhir di Giurdignano I dolmen e i menhir di Giurdignano Come abbiamo visto, la caratteristica principale del paese è la presenza di numerosi esempi di monumenti megalitici, che costellano sia il centro abitato che le campagne dei dintorni. Di menhir, strutture che in tempi antichi arrivavano anche ad altezze superiori ai venti metri, se ne contano addirittura 19, sparsi in tutto il territorio di Giurdignano. Alcuni sono raggiungibili semplicemente passeggiando per le viuzze del paese, come quello della Madonna di Costantinopoli. Sorge infatti nei pressi dell’omonima chiesa, nel pieno centro storico del borgo. Anche il menhir San Vincenzo si trova nei paraggi, vicino alla cripta bizantina di San Salvatore. Quest’ultimo è uno dei più alti tra quelli presenti sul territorio leccese, con i suoi oltre 3 metri e mezzo. Uno dei dolmen di Giurdignano Anche i dolmen sono ampiamente rappresentati in questa zona. Si tratta di antiche tombe costituite da due pietre verticali sulle quali poggia un architrave orizzontale. Tra i più famosi di Giurdignano ci sono sicuramente i dolmen Grassi, due strutture contrapposte a poca distanza l’una dall’altra, di cui solo una è però ancora integra (dell’altra sono rimaste solamente le pietre verticali, dal momento che il lastrone di copertura è crollato all’interno della struttura stessa). Spettacolare anche il dolmen Chiancuse, un’imponente tomba ormai crollata su se stessa a causa dell’avanzare del tempo. Era in origine una struttura molto grande, la cui lastra orizzontare era sorretta da ben 7 ortostati. Purtroppo, le sue rovine sono oggi difficili da scorgere perché ricoperte da rovi. Giurdignano, il centro storico Ma il borgo non presenta solo monumenti megalitici: il suo centro storico è ricco di architetture di origine romanica e medievale, che ci raccontano il suo vivace passato. Un tempo, il paese era infatti un castello di Otranto, ed era utilizzato come quartiere da alcuni soldati dell’esercito romano. Del periodo successivo rimangono molte tracce nell’architettura di Giurdignano. Ne sono degli splendidi esempi la cripta di San Salvatore, interamente scavata in un banco tufaceo e riccamente decorata da volte scolpite e affreschi ormai svaniti da tempo, e il Palazzo Baronale, eretto in quella che oggi è piazza Municipio agli inizi del XVI secolo, come fortezza contro le incursioni dei Saraceni. Giurdignano https://ift.tt/2HPKhAw Giurdignano: nel leccese, un borgo circondato da dolmen e menhir È nel cuore del Salento, a pochi chilometri da Lecce, che sorge il “giardino megalitico d’Italia”: il piccolo borgo di Giurdignano si è guadagnato questo nome grazie ai magnifici monumenti megalitici che si concentrano sul suo territorio, e che ogni anno attirano numerosi turisti. Il paese si trova a poca distanza da Capo d’Otranto, il punto più orientale d’Italia. È un luogo di grande rilevanza storica e archeologica, proprio a causa della presenza di tracce di civiltà antichissime che vi si sono insediate in epoche remote. Possiamo infatti trovare a Giurdignano splendidi esempi di dolmen, menhir e pietre antiche, a riprova di un passato lontano in cui la zona era abitata. Ma anche monumenti e architetture di origine romanica, come l’affascinante necropoli di età imperiale risalente al II o III secolo d.C. Scopriamo allora alcune delle bellezze che hanno reso questo borgo così suggestivo. Uno dei menhir di Giurdignano I dolmen e i menhir di Giurdignano Come abbiamo visto, la caratteristica principale del paese è la presenza di numerosi esempi di monumenti megalitici, che costellano sia il centro abitato che le campagne dei dintorni. Di menhir, strutture che in tempi antichi arrivavano anche ad altezze superiori ai venti metri, se ne contano addirittura 19, sparsi in tutto il territorio di Giurdignano. Alcuni sono raggiungibili semplicemente passeggiando per le viuzze del paese, come quello della Madonna di Costantinopoli. Sorge infatti nei pressi dell’omonima chiesa, nel pieno centro storico del borgo. Anche il menhir San Vincenzo si trova nei paraggi, vicino alla cripta bizantina di San Salvatore. Quest’ultimo è uno dei più alti tra quelli presenti sul territorio leccese, con i suoi oltre 3 metri e mezzo. Uno dei dolmen di Giurdignano Anche i dolmen sono ampiamente rappresentati in questa zona. Si tratta di antiche tombe costituite da due pietre verticali sulle quali poggia un architrave orizzontale. Tra i più famosi di Giurdignano ci sono sicuramente i dolmen Grassi, due strutture contrapposte a poca distanza l’una dall’altra, di cui solo una è però ancora integra (dell’altra sono rimaste solamente le pietre verticali, dal momento che il lastrone di copertura è crollato all’interno della struttura stessa). Spettacolare anche il dolmen Chiancuse, un’imponente tomba ormai crollata su se stessa a causa dell’avanzare del tempo. Era in origine una struttura molto grande, la cui lastra orizzontare era sorretta da ben 7 ortostati. Purtroppo, le sue rovine sono oggi difficili da scorgere perché ricoperte da rovi. Giurdignano, il centro storico Ma il borgo non presenta solo monumenti megalitici: il suo centro storico è ricco di architetture di origine romanica e medievale, che ci raccontano il suo vivace passato. Un tempo, il paese era infatti un castello di Otranto, ed era utilizzato come quartiere da alcuni soldati dell’esercito romano. Del periodo successivo rimangono molte tracce nell’architettura di Giurdignano. Ne sono degli splendidi esempi la cripta di San Salvatore, interamente scavata in un banco tufaceo e riccamente decorata da volte scolpite e affreschi ormai svaniti da tempo, e il Palazzo Baronale, eretto in quella che oggi è piazza Municipio agli inizi del XVI secolo, come fortezza contro le incursioni dei Saraceni. Giurdignano Sede di splendidi esempi di monumenti megalitici risalenti all’età del bronzo, Giurdignano è un piccolo paradiso di pietra assolutamente da esplorare.
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Shingeki no Bahamut: Manaria Friends ganha data de estreia
Shingeki no Bahamut: Manaria Friends ganha data de estreia
Foi anunciado depois de mais de 2 anos sem informações, a data de estreia de Shingeki no Bahamut: Manaria Friends que tem data prevista para 20 de janeiro de 2019.
O Anime terá direção de Hideki Okamoto (D.C. II: Da Capo II, Battle Girls – Time Paradox) o roteiro é de Satoko Sekine (Is This a Zombie? of the Dead, Tayutama…
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