#poco dritto
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francesco-nigri · 1 year ago
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Piripicchio
Piripicchio Piripicchio Nè palchi vellutati nè applausi di poltronebasta l’abbraccio al viale che ne fa piazzal’ulivo marinaro retato canta di vita al remodi mani in piedi fila la strada che si fa arte Fila di passato e stocca all’intime paretisnocciola d’amori ne fa pane olio e panericcio di lontananza e via con quel saporedi poco s’ama e resta come sale al mare Elegante la polvere che…
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raccontidialiantis · 6 months ago
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Punti di vista, affari di gusto e olfatto
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-Sono brutta. Non mi calcola nessuno. Mi prendono in giro sin da quando ero ragazza.
-Smettila!
-No: sono veramente brutta, nessuno mi si fila…
-Allora oltre che brutta sei scema…
-Aooooh… Che vuoi dire?
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-Ma secondo te perché perdo tutto questo tempo con te? Non ti sei accorta che mi struggo di passione se solo mi ti appendi al braccio? Che così mi sento un vero cavaliere medievale e cammino a un palmo dal terreno? Che ti difenderei da qualsiasi drago?
-Ma… che cazzo dici? Sei sposato con una vera Dea; una gnocca che levati… ma che vuoi, da me? Lasciami perdere, per favore. Non mi illudere, che poi ci credo. Vai a quel paese, vai… ma come ti permetti...
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L’ho presa per un braccio immediatamente, portata nel magazzino stoccaggio pneumatici della ditta in cui lavoriamo. Poi l’ho inchiodata a una pila di ruote di trattore e l’ho baciata. L’ho girata e le ho messo direttamente una mano tra le cosce, perché non ne potevo proprio più e lei, sgranando gli occhi dalla sorpresa, ma comunque felicissima di essere finalmente desiderata da un uomo, mi ha detto che non potevamo rischiare il licenziamento. Ci siamo ricomposti e siamo tornati ognuno al proprio posto di lavoro.
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La sera stessa, con la scusa di un improvviso ritrovato interesse per il calcetto, sono andato dritto a casa sua. Lei non ha neppure fatto a tempo ad aprire e dire: “ciao, non ti aspettav…” che in trenta secondi l’ho spogliata e quindi le ho fatto provare tutto ciò che una donna di quarant’anni deve assolutamente provare, semplicemente perché ne ha diritto. Ogni donna deve poter godere delle gioie che può darle un uomo con gli attributi. L’ho assaggiata, leccata e fatta godere in tutti i modi possibili. Dio, se era felice! E io più di lei.
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Mi spiace tantissimo per mia moglie, che da giovane era una fotomodella e ancora oggi è una femmina stupenda. Ma per questa donna piccola, zitella, dal poco seno, naso aquilino, gambe a X e tutti i complessi del mondo nella testa, io ho proprio perso la trebisonda. Il suo sapore mi ha catturato definitivamente. Il suo odore m’è entrato nell’anima. La voglio. Di continuo. Non so neppure io come sia potuto accadere. Boh?!? Perché l’amore è semplicemente un mistero. Una trappola in cui però ognuno vuole assolutamente cadere. Il prima possibile.
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RDA
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tulipanico · 6 months ago
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Nel momento in cui facevo finta di voler davvero provare a conoscere qualcuno su tinder, periodo durato molto poco, ovviamente mi capitava di vedere volti conosciuti. Un annetto fa matcho con questo amico di amici, fotografa in giro anche lui, scambiamo giusto qualche parola e stop. Mai visti, mai parlati le volte che eravamo nello stesso posto. Questa estate, dopo un evento di questi miei amici, ci seguiamo su ig, �� capitato che mi rispondesse a qualche storia di foto, fine. Tutto questo preambolo per dire: appena finita una serata in cui i nostri amici ci hanno chiesto di fare foto ad un loro evento, che disagio presentarsi "ufficialmente" a qualcuno. CHE DISAGIO. (E che disagio soprattutto parlare con gli uomini che ti guardano dritto negli occhi)
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libero-de-mente · 4 days ago
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Ieri, a due passi da casa mia, un’esplosione di colori ha invaso un angolo di Bergamo. Era la chiusura del Pride 2025, un evento che pulsava di vita in un’area trasformata in spazio di festa: musica, cibo, voci, e un mosaico di iniziative.
Ma quel luogo, pensate, non era nato per la gioia. Era un cimitero. Sconsacrato, abbandonato per oltre mezzo secolo dall’ultima sepoltura, bonificato. I vialetti che un tempo segnavano il passo tra le tombe sono spariti, i colombari e le cappelle rasi al suolo. Dell’antico camposanto resta solo un portale a sud, che un tempo accoglieva il silenzio dei visitatori e ora ospita il tintinnio delle casse o il gorgoglio della birra spillata. Da luogo di lutto a palcoscenico di risate giovani, di suoni, di vita. Non è solo rigenerazione urbana: è una resurrezione umana.
L’evento si chiamava “Identità in rivolta”. Un nome che sa di tempesta, in un mondo che brucia di ribellioni. Non sapevo nulla di quella festa. Mi ci sono trovato in mezzo per caso, con l’auto che arrancava tra la folla. Una marea di giovani e meno giovani, vestiti di estate e provocazione: colori sgargianti, abiti che sfidano ogni regola, dettagli che gridano libertà.
Nel tentativo di raggiungere casa, taglio per un parcheggio, sperando di aggirare l’ingorgo. All’uscita, il mio sguardo incrocia un marciapiede dove due ragazze camminano mano nella mano, dirette alla festa. Per non costringerle a scendere in strada, infilo la retromarcia e cedo loro il passo. Fa caldo, i finestrini sono spalancati, e una brezza carica di temporale mi accarezza il viso. Così, nitide, mi arrivano le loro voci. “Guarda questo,” dice una, con un sorrisetto, “pensa di fare il cavaliere. Non ha capito che con noi non attacca.” L’altra scoppia a ridere. Ribelli.
Rimango fermo, con un dubbio che mi morde. Meglio il rimorso di passare per un “matusa” fuori tempo, o il rimpianto di aver tirato dritto, rischiando di sentirmi un boomer arrogante, figlio di un patriarcato che ancora resiste, ostinato?
Non ho il tempo di rispondermi. Poco più avanti, un gruppo di ragazzi, quelli che la gente etichetta “maranza”, sta molestando una coppia. Uno dei due, un ragazzo, porta al collo una bandiera palestinese. Le parole che volano sono taglienti, cariche di rabbia senza radici. Nessuna solidarietà, solo il vuoto di chi cresce senza un’identità, se non quella del rifiuto di ogni appartenenza. Ribelli, a modo loro.
Mentre mi muovo a passo d’uomo, il mio sguardo curioso attira reazioni di chi incrocia il mio sguardo. C’è chi sorride, chi alza due dita in segno di vittoria, chi mi regala un dito medio o una linguaccia. E poi, due baci soffiati nell’aria: uno da una lei, uno da un lui. Ribelli del gesto, dell’amore.
Ma la brezza, che aveva annunciato il suo arrivo, non mente. Il temporale scoppia, improvviso, e la folla si disperde in un fuggifuggi caotico. Chi corre sotto i portici, chi si rifugia nei portoni, chi cerca riparo nei locali o sotto le pensiline degli autobus. Alla fine, forse, la vera ribelle è la pioggia: sa smuovere tutti, senza distinzioni.
La strada si libera d'incanto, come il Mar Rosso si aprì davanti a Mosè, così due ali di folla sgomberano la strada. Posso velocemente avviarmi a casa, sotto il tamburellare di una pioggia che potrebbe trasformarsi in grandine. Io ribelle a una vita che mi sta levando il sorriso, un poco alla volta.
p.s. prego astenersi da eventuali commenti che inneggiano, avviliscono, creano polemiche. Il mio è un puro racconto di cronaca. Non cerco pareri oppure opinioni che, in questo contesto, non servono a nulla. Grazie a chi mi leggerà.
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smokingago · 1 year ago
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"Dipendenza" da "dipendere" "pendere-da" (Trarre origine, derivare, provenire)
Subito ci viene in mente una sostanza, una droga, una sigaretta o l'alcool, ma esistono anche dipendenze emotive e sentimentali.
Gli effetti sono gli stessi, quell'irrefrenabile bisogno di soddisfare noi stessi con quella sostanza, quella sigaretta, quella persona, quell'abbraccio, quel bacio.
Quel senso di vuoto e smarrimento quando ne vieni privato.
Troncare subito e definitivamente ci fa star male in maniera insopportabile.
La cosiddetta crisi d'astinenza
La soluzione è avere sempre vicino ciò che ci crea dipendenza, e decidere comunque di non usufruirne.
Quando ho smesso di fumare ho lasciato in ogni dove per tanto tempo svariati pacchetti di sigarette, sul cruscotto della macchina, in casa, a lavoro.
Li avevo sempre a portata di mano, ma non ho più acceso una sigaretta. Poco dopo ho aperto questo blog per riempire quel vuoto, ecco svelato il perché di "Smokingago" metà del mio cognome legato al fumatore.
Ma non si può certo paragonare una Marlboro o un bicchiere di whisky a una persona, un'anima non è un oggetto, averla vicino e resistere al desiderio di baciarla, abbracciarla, accarezzarla richiede uno sforzo disumano.
Vederla splendere, sorridente, mentre ti guarda dritto negli occhi ... impossibile ignorarla.
Ma proprio perché non si tratta di un oggetto possiamo sentirci appagati soltanto nell'accorgerci che questa persona sta bene, anche senza di noi, perché può anche essere la nostra dipendenza, ma non necessariamente noi dobbiamo essere la sua.
Ci si abitua prima o poi, certo con dolore, ma ci si abitua.
Ci sentiamo fieri di noi stessi per quanta forza di volontà ci abbiamo messo, per come sappiamo controllarci.
Cit. Smokingago
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estaticheparole · 2 years ago
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Sembrava non ci fosse niente, nessun punto di contatto tra noi, nessuna affinità, eppure entrava, come un bisturi.
L’intensità mi attrae. Mi fa sentire morta non sentire. E io non sentivo, li guardavo, tutti quanti, davanti a me come passanti a cui rivolgi uno sguardo distratto, ma non sapresti più dire, dopo un istante, di che colore avevano il cappotto.
Mi bastavo, giuro che mi bastavo e nemmeno sfioravano quel profondo che brucia. Ero riva del mare, fredda, poco mossa, bassa, che non bagna davvero.
Io non so perché ho sorriso.
Non so nemmeno perché ho riso.
Forse era capace di portarmi altrove, di farmi smettere di pensare. Gli piacevo più leggera, senza il peso di questa malinconia, senza i miei “perché?”, senza le mille spiegazioni, il senso della vita, la psicoanalisi, le interpretazioni dei piccoli gesti. Quasi spoglia di me, a vedere un altro strato. Come quando hai le mani così congelate perché hai toccato un sacco di neve e poi inspiegabilmente, senti. Il tatto non mente più, non ti abbadona, esce da quel letargo che sembrava sortilegio.
Ho sentito.
Ho desiderato.
Ho guardato dritto negli occhi altri occhi e mi è sembrato di vedere davvero, di essere stata cieca per tutto il resto del tempo.
Ho chiamato qualcuno “amore” perché per me era il suo unico nome.
Ho immaginato.
Ho fantasticato.
Ho ceduto alle braccia che mi cingevano la notte, non ho opposto resistenza. Ho ceduto allo splendore, ma lo splendore si paga.
Ho usato il mio corpo come un dono, come una canzone, prima assolo di pianoforte e poi musica rock, guardando ancora negli occhi. Perdendomi negli occhi.
Ho immaginato un figlio, gli ho dato un nome, io che non ci avevo mai pensato in maniera così intensa.
Ho sorriso quando il portone di casa si apriva.
Ma ho pianto, ho pianto, ho pianto.
Non mi manca lui.
Mi manca l’amore.
Mi manca la stessa cosa che mi terrorizza.
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arreton · 5 months ago
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In questi giorni mi dicevo che devo tenere molto più presente l'idea che non è più possibile una scalata sociale – e dunque i poveri nascono poveri e muoiono tali e la stessa cosa vale per i ricchi che invece restano ricchi; sapevo già tutto questo ma ho sempre vissuto con l'idea che prima o poi le cose sarebbero cambiate in meglio – e che dunque molto probabilmente le condizioni economiche al limite della povertà che hanno caratterizzato la mia vita per più di trent'anni continueranno ad essere invariate fino alla morte. Ma! C'è un ma. O meglio: c'è un pensiero che si è insinuato ed è il seguente: se, contrariamente a quanto mi è stato inculcato e diversamente dunque da come sono stata educata, invece che ridimensionare i miei sogni mi portassi io alla loro altezza? Mi è venuto semplice, logico e lineare come un sillogismo, dirmi per tutti questi anni: sogno troppo in grande, rimpicciolisco i miei sogni e dunque le mie aspettative – causa anche questo, tra gli altri pensieri, dell'inaridimento del desiderio e dell'ansia –; se è stato un pensiero funzionale in passato, adesso non mi sta portando da nessuna parte. Allora il punto è: se smettessi di pretendere poco ed investissi (detta in maniera capitalistica) su me stessa portandomi e dunque elevandomi all'altezza del mio desiderio? Cioè: voglio questa cosa, come posso fare per raggiungerla? Non è possibile farla subito, bene allora la mettiamo da parte e prepariamo le condizioni per quest'altra cosa, chissà che non ci esce anche la prima. È un ragionamento che apre molte più prospettive rispetto a quello del ridimensionarsi, del farsi più piccoli. L'esempio lampante a tal proposito possono essere Crona e Black star di Soul eater: Crona non ha fatto altro che ridimensionarsi, vivere nella paura di non sapere come affrontare le persone, le cose le situazioni, rendendolo per tre volte oggetto di angherie e soprusi. Mentre l'ego sproporziato di Black Star si è rivelato utile in certe situazioni, come ad esempio nel non farsi frenare dalla follia del Kishin buttandosi a capofitto sempre dritto come un treno. Insomma vivere nella paura ti espone ancora di più al rischio di quanto effettivamente possa fare il correre il rischio. E poi lo dice anche Spengler, dall'alto del suo meraviglioso cinismo – l'unico cinismo che accetto poiché non si sente proprio la puzza di una benevolenza andata a male come in molte altre persone ciniche e burbere, ma si sente l'intelligenza e la consapevolezza di un Io forte: "capire il mondo significa per me essere all'altezza del mondo".
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oltreleparole · 6 months ago
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13.12.2024
Davanti a un piatto di tagliatelle al pomodoro mi dici che mi manca una scintilla.
Mi hai mandato un messaggio all'alba "Pranziamo insieme oggi? Lo so, hai poco tempo, vengo io da te in ufficio, scendi mezz'ora e via."
Quando ti vengo incontro c'è una piogerella sottile, mi aspetti con il cappuccio della felpa tirato su, sembri un liceale a una manifestazione per la pace. Da un locale sulla piazza si sentono note di una canzone dei Beatles, nell'attesa passeggi piano su e giù quasi ballando.
Mi vedi e sorridi appena. "Ho il raffreddore, non ti bacio" dico. "Ma falla finita" e mi tiri in un abbraccio che mi toglie il fiato e mi salva la vita. Lo sai che mi manca l'abbraccio di un uomo e mi tieni stretta un po' di più, mi dai due baci con lo schiocco su una guancia. Sei il solito cuore grande.
"Il posto dove volevo portarti ha gente a strati" mi dici quasi giustificandoti di aver ripiegato sul solito bar. Un piatto di pasta banale, ma chi se ne frega.
Ci sediamo e non metti tempo in mezzo, che tempo non ne abbiamo. "Non hai una bella cera" mi dici, "ti manca una scintilla. Devi smettere di dedicarti sempre agli altri, guarda che gli anni passano". "Sei uno stronzo" ti dico con tutto il bene che ti voglio. "Sì ma dico la verità" chiosi, mentre prendi la prima forchettata.
Ed è così. Sono 15 anni che ti conosco e non mi hai mai detto una bugia, né su di me né su di te. Hai ammesso senza pudore ogni tuo difetto, fragilità, incoerenza, ogni perversione, piccolo crimine, ipocrisia; con me non hai omesso niente, nemmeno le bugie dette agli altri, quelle proprio brutte che potevano farmi cambiare idea su di te. Soprattutto, non hai negato la tua grande passione per le donne, animo da traditore seriale. "Siamo amici, non ti devo vendere niente di me", mi hai sempre detto. E continui ad andare giù dritto senza pietà. Così mi dici la verità anche stavolta, su come sto di merda.
"E fammi capire, dovrei trovare una scintilla a settimana, come qualcuno di mia conoscenza?" dico con un filo di cattiveria. Ti offendi appena, ma lo nascondi dietro un occhiolino da bulletto. "Non ho mai detto di essere un esempio". Fai il duro ma un paio di volte ti sei fatto parecchio male anche tu, ce lo ricordiamo bene tutti e due.
"Non sono pronta, mi sembrerebbe di usare le persone" ti dico mentre cincischio nel piatto. "Sei sempre la solita pesantona" mi guardi dritto nei pensieri "ci sono le vie di mezzo". "Con le vie di mezzo non ho mai fatto pace, lo sai" dico, ma non lo reggo il tuo sguardo, cerco di distrarmi sul tavolo accanto. Tre studenti stanno ripetendo per un esame, stentano un inglese tecnico.
"Non vorrai mica fermarti all'ultima strofa della tua canzone" mi dici. "Invece sono proprio caduta sul mio ultimo metro" ti rispondo, ma sento la tristezza che sale troppo, non la so gestire, devo cambiare argomento. Penso alla canzone, a quante volte l'ho ascoltata in questi anni e a come ogni volta mi sono salite le lacrime.
"Se sono anni che la scegli e me la dedichi, vuol dire che lo sapevi già come sarebbe finita. La mia corona di stelle e di spine" dico e ci scherzo su, ma mica tanto. L'ho pensato spesso, in questi ultimi mesi, che tu forse l'avevi previsto che lui mi avrebbe lasciato così da un giorno all'altro; i tuoi tanti consigli detti o appena abbozzati, e che non ho mai voluto ascoltare, erano profetici.
"Te l'ho già detto mille volte, le canzoni non si scelgono. Semplicemente la ascolto e sei tu" dici fermo. Hai queste grandi certezze, le vorrei anche io.
"Avrò sempre paura" ti dico "anche quando odio averne. Ma mi resta la fantasia". Fai una smorfia. "La solitudine non è mai dolce, come la pioggia nelle scarpe" sussurri appena, e mi fai tenerezza perché lo so cosa intendi, lo siamo un po' tutti, soli. "E comunque" aggiungi "tre anni sono tanti anche per te. Ora basta starci sotto."
"Mezz'ora scaduta" cerco di sdrammatizzare, ma lo so che hai ragione. Ora basta. "Non facciamo che ci rivediamo fra un anno, eh" ti dico mentre, come sempre, litighiamo per chi deve pagare. Ridi di gusto ma già guardi il cellulare e sei di nuovo lontano, di nuovo perso dietro chissà quale amore settimanale. "Almeno l'anno prossimo non sarà di venerdì, io non sono superstizioso ma..." paghi e mi fai la linguaccia. Ti dò un pugno sul braccio, ti rimetti il cappuccio e usciamo sulla piazza dove ancora suonano i Beatles.
Vorrei sentire Santa Lucia in questa luce grigia, per gli amici che vanno e ritornano indietro. E hanno perduto le ali.
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gcorvetti · 9 months ago
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Sa, sa, prova...
Sono di nuovo online, eh si, mi sono trasferito due sabati fa nel nuovo appartamentino, in quei giorni sono anche passato dal provider dritto al negozio per chiedere una connessione ma il tecnico è venuto oggi, ho passato la settimana comunque a pulire e sistemare casa anche se ancora non ho finito di portare cose. Lei, Maarja, vuole che le libero il tavolo in soggiorno, quello che era il mio laboratorio tra stampante 3D e giochi da tavolo, vedrò di fare entrare anche parte di quel tavolo (che è in effetti grande) in qualche modo in questo mini appartamento che però vi dirò mi piace tanto, ci sto bene.
Non posto foto per privacy e poi non sono il tipo, lo sapete, però è molto simpatico anche se ha un ambiente unico cucina-soggiorno, alla fine costa poco 300€ + bollette, che però non arrivano oltre i 120 d'inverno per via del riscaldamento h24; altra fantasticheria è la posizione, sono a 10/15 minuti a piedi da tutto, il lavoro, il centro, la piscina, ho un mini market a 10m, basta che attraverso la strada. Ho detto piscina perchè penso di iniziare ad andarci visto che nuotare mi piace molto ma non lo faccio da anni. La settimana che è passata è stata lunga e faticosa a lavoro, soprattutto domenica con ste pulizie di fondo, sono caduto un istante dopo aver poggiato il pesante grill sul frigo basso, ho impattato la caviglia col frigo e sono finito di culo a terra, risultato ho l'osso grande (perché se non erro è stata fatta male la traduzione dal greco ed è uscito osso sacro) che ancora mi fa male, l'interno dell'avanbraccio un pò escoriato e la caviglia con un buchetto (niente di che non mi fa neanche male in confronto all'osso), avrò preso lo spigolo.
Per il resto non sto male e penso che il peggio sia passato, devo solo tracciare una nuova rotta e prendere il largo.
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susieporta · 1 month ago
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Quando fioriscono i tigli, mi sento meglio.
È una questione di certezze, di profumi, di familiarità.
È come se la vita avesse mantenuto la promessa e anch'io fossi sempre io, ancora.
Mia nonna avrebbe voluto regalarmi il naso, a diciotto anni; un naso nuovo, in cambio del mio naso storto. Un naso per annusare i tigli di profilo, senza vergognarsi.
Credevo che buona parte della felicità dipendesse dall'abilità nel discostarsi il meno possibile da sé, rimanere identici per correggere l'errore con i benefìci dell'esperienza, ché a cambiare, l'errore è un errore nuovo.
Ora, che sono uguale a sempre, credo che l'altra parte della felicità dipenda dall'amore. Non è una visione romantica della vita, la farfalla di una poesia banale e già scritta, solo la presa di coscienza che un profumo non lo si può abbracciare e che perde di senso avere degli avambracci e delle spalle a sorreggere delle mani aperte lungo i fianchi.
Al mattino, senza che alcun sogno mi abbia turbata, mi sveglio e piango.
Non sono triste, è un freddo; fra le braccia, ho la vertigine di un salto nel vuoto, tutto il freddo di un abbraccio mancato, un presentimento di miseria.
Sono povera delle tue braccia, una mendicante sul gradino sbagliato.
So che cosa sei.
Sei il passante che sa la cosa giusta, che non mi dà la moneta, ma mi trova un lavoro.
So anche di non aver bisogno della tua pacca sulla spalla, del fuoco del tu che è una bestemmia in chiesa, eppure ho molto freddo. Piango, senza dolore, come ad essere una cosa. Una cosa con un brutto naso.
Prendo la macchina, sfreccio lungo i viali, respiro il profumo dei tigli e mi accorgo di essere io la mia promessa non mantenuta.
Guardo la tua maschera di capelli ordinati, con gli occhi generici che non si sorprendono, le mani curate che non accarezzano mai.
Sei vigile ed immobile, impassibile come il corso delle cose ed è una fortuna, per me, guardarti e sederti vicino, ma mi fa piangere. Anche i tigli ridono poco e guardano dritto negli occhi.
Mi ricordi quel profumo, la maschera imperturbabile di una stagione che torna e che non posso abbracciare e il mio cuore è una serranda che si alza sugli invenduti.
Sei una stagione che mi fa bene, che non mi vuole bene.
Beatrice Zerbini
dal libro “Mezze stagioni” (AnimaMundi Otranto)
Ph: Nicola Bertellotti
Beatrice Zerbini - In comode rate - Poesie ed Eventuali
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a--piedi--nudi · 3 months ago
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Oggi andavo al lavoro cantando. Ore 08:05, un tizio esce fuori dritto dritto da uno stop. Lo vedo, penso no, no, no, sta proprio uscendo, sterzo tutto a sinistra, credo di averlo schivato ma arriva un botto forte dietro. La Panda si solleva, su due ruote invado la corsia di sinistra, vedo arrivare un'altra auto e per fortuna Santa Panda rimette giù le due ruote, schivo questo altro malcapitato e mi ributto sulla corsia di destra. Panda non si è rovesciata ma c'è mancato davvero poco. Accosto, tremo un po', faccio inversione, accosto vicino al tizio che dice "scusa, non ti avevo vista...ho visto una macchina nera che correva molto davanti a te ma te non ti ho proprio vista." Ho la macchina gialla. Non ci siamo fatti male, fortunatamente. Ho compilato la constatazione amichevole sbagliando a mettere la crocetta. Fessa che sono. Ad ogni modo Panda non si è fatta quasi nulla, pochi graffi e il cerchione mal messo. Domani si va dal carrozziere. Stasera ho pagato la cena ad un'amica. Buona notte e via.
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bee-ingquinn · 4 months ago
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Puoi bruciare un po' di più.
B. « Ieri Shu mi ha dato una mano per quel falò che ti dicevo. » quello per darsi una closure sulla questione breakup e tutto ciò che la contorna, ma a giudicare dalla rabbia che inizia a montarle dentro, non sembra aver funzionato granchè. « E’ andata un po’ così. » che a sentire il tono, sembra più un’introduzione che un commento a sè. [...] L’elettricità della propria magia la percepisce nel solleticarla sotto la pelle, scegliendo di incanalarla attraverso il catalizzatore; lo stesso che viene alzato assieme alla mandritta, impiegato in quella saetta disegnata a cui segue un « Concùssio. » sibilato, neanche davanti a lei ci fosse chi l’ha ferita al posto di quell’oggetto senza vita. E poco importa dove andrebbe a segno l’incanto, in caso di successo. A lei basta sfogare quello che ha dentro. 
E. Domanderebbe pure come è andata, ma la verità è che sente benissimo le emozioni altrui come risposta. Se poi Blythe le usa anche per infliggere quell'incanto al manichino, lui non può fare a meno di ascoltare come se fossero chissà quale ninna nanna piacevole. Una melodia che lo culla perché la conosce bene; perché è violenta il giusto da lasciargli il senso di adrenalina di chi non dovrebbe sentire il thrill, eppure lo sente eccome. [...] Si dà una spintarella verso Blythe solo alla fine, quando cerca di raggiungerla con calma per TENTARE di darle un piccolo abbraccio. Dal lato, dal dietro, non cambia molto. Magari non di fronte, che così evita di mettersi in linea con la bacchetta. Sarebbe una stretta, nel caso, anche abbastanza morbida, come morbido è il tono con cui le soffia un « Mh. E' okay. Puoi bruciare un po' di più. » che ha senso forse solo nella sua testa, e benché l'idea di quell'abbraccio sia di ovvio conforto, è inevitabile come anche lui lo cerchi in maniera decisamente diversa, quando PROVA ad invadere le emozioni altrui di nuovo; a cercare il fondo di quella rabbia e tutti i sentimenti a lei appresso. Non ha timore di quanto soffocante possa essere, come se la mera sensazione fosse quanto di più soddisfacente c'è nella vita.
B. Il tocco del Prefetto è quanto più di simile ci sia ad un balsamo, ad un unguento da versare sull’ustione che si porta dietro da troppo tempo ormai - si lascia andare all’indietro, appoggiandosi completamente ma soprattutto con il capo alla figura dell’amico, un sospiro che le abbandona le labbra nell’osservare il manichino e gli eventuali danni. La mano libera che va a posarsi sul braccio altrui corrispondente. [... ] Ammicca, tentando poi di sollevarsi quanto basta sulle punte per avvolgere un braccio attorno al collo dell’amico - col chiaro intento di stampargli un bacio appiccicoso di lucidalabbra dritto dritto su una guancia.
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distaccati · 4 months ago
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Alla cara mia Luna, che non ho più veduto da quel tempo. Che i tuoi futuri raggi, possano portare alla rinascita mia, cosicché io abbia la forza ed il coraggio, di venerarti ancora.
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Nascosta tra i crateri te ne stai, lontana dagli occhi miei - 11/08/2024
Ho veduto la Luna appoggiarsi ai rami d'un albero, d'istinto mi sono spostata in più direzioni, con lo scopo di poterla ammirare. Ad un certo punto ho messo fine a quel continuo dimenarmi e il respiro, poco dopo, mi si è bloccato all'altezza del petto, al cospetto di tale consapevolezza: forse, non vuole che la guardino. Quella dolce meraviglia coi crateri scoperti s'è messa in quell'angolo provando a camuffarsi con del colore giallastro, ch'io ho prontamente scorto, imprimendolo nel verde che c'ho negli occhi. Meritevole di tale atto non sono, ritengo d'essere necessitante della maestosità che mi si è posta, rendendomi il più fortunato tra i disgraziati. Un forte tepore m'ha riacceso le membra e mi son sentito capita, ma quand'è, che non mi capisce? È raro che non lo sappia fare. Avrei voluto sussurrarle che mi avrebbe ritrovato seduto sulla seggiola in soggiorno, che non mi sarei stancato d'attendere, poiché è una cosa che faccio da tutta la vita. Ho accompagnato il liquido fresco contenuto dal bicchiere in vetro dritto alla mia bocca, l'ho sentito scorrere veloce, m'ha idratato e a tratti compatito. Sarebbe sciocco da parte mia attendere il giorno in cui sentirà profondamente la mancanza del modo mio di venerarla, sono uno tra tanti in questo pianeta così arido.
Eppure mi piacerebbe dissetarti, prendermi cura di te con tutto quello che c'ho, renderti campo fiorito e non solo magnifica desolazione¹;
questo le farei sapere, privandomi di quello che io stesso ho assaporato sulla lingua, in segno d'una devozione che vorrei durasse in eterno.
¹ Buzz Aldrin - Astronauta statunitense che mosse i primi passi sul suolo lunare, definendo la visione che gli si pone dinanzi una magnifica desolazione.
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libero-de-mente · 6 months ago
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Sliding doors - la decisione
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Le sliding doors, le porte scorrevoli, vengono spesso utilizzate per definire quegli eventi, spesso delle decisioni, che una persona prende nella propria vita. Possono sembrare avvenimenti insignificanti, invece spesso possono innescare una serie di conseguenze a catena, che possono modificare radicalmente il corso della vita di chiunque.
Una porta scorrevole, già. Come quella di un reparto ospedaliero.
Era un'estate dei primi anni '90, una di quelle estati segnate dalle canzoni degli 883 nei Juke Box dei bar, delle musicassette con i Queen nelle autoradio delle auto, il mito di Baywatch in televisione e delle telefonate dai telefoni fissi. I telefonini sarebbero arrivati di lì a poco. Quell'estate Roberto si trovò ad affrontare in virus gastrointestinale molto aggressivo, a tal punto che fini ricoverato in un letto d'ospedale. Era giovane Roberto, un inguaribile sognatore, sempre ottimista. Quel suo ottimismo gli faceva ben sperare di rimettersi al più presto, e velocemente, per poter partire in vacanza con altre coppie di amici di lì una decina di giorni. Destinazione Spagna.
E fu mentre questi pensieri d'impazienza, quelli di tornare alla sua vita normale, giravano nella sua testa che i suoi occhi incrociarono quelli di Arianna. Un'infermiera che lavorava in quel reparto e che era di turno nel momento in cui lui venne ricoverato.
Arianna si presentò a lui per i soliti prelievi ed esami di routine che si fanno, quando una persona viene ricoverata. Quei suoi occhi lo colpirono dritto al cuore. Il sorriso di lei, poi, gli fece capire che quella strana sensazione che gli faceva fremere il corpo non era dovuto al virus gastrointestinale.
Nelle ore successive al suo ricovero Arianna passò spesso a controllare Roberto, a ogni passaggio la sua permanenza vicino a lui si allungava nel tempo. Era chiaro che le faceva piacere parlare con lui. Il suo sorriso, i suoi occhi e le sue mani non mentivano.
Era talmente chiara l'alchimia tra i due che Roberto, vincendo la sua proverbiale timidezza con le ragazze, divenne sempre più loquace e affascinava Arianna con piccoli racconti sulla sua vita.
Arianna, con i suoi occhi luminosi e un sorriso che sembrava scaldare l’ambiente, era un raggio di sole in quei giorni di grigia noia in cui Roberto rimase ricoverato.
Alla fine di ogni turno lei passava a salutarlo trattenendosi ben oltre il suo orario, lui per essere assicurato di rivederla le chiedeva, quale sarebbe stato il turno del giorno dopo. Impaziente di rivederla.
- "Lavoro qui" - gli ripeteva per rassicurarlo - ci sarò anche domani, non preoccuparti.
Roberto rimase ricoverato cinque giorni, tanto da saldare quelle due anime che si cercavano sempre con lo sguardo tra le corsie e i letti. Lui aspettava l'inizio del turno di lei sulla porta della camera, sospirando con sollievo quando la vedeva entrare. Lei guardava lui, in fondo al corridoio, con un'espressione che le illuminava il volto.
I giorni di degenza rafforzò un legame invisibile, che culminò il giorno delle dimissioni. Quando Arianna aiutò Roberto a prendere le sue cose, mettendogliele nello zaino, e lo salutò dandogli una carezza. Senza dire una parola, con due occhi che erano un invito a non desistere.
Roberto, una volta giunto a casa, pensò subito a come fare per rivederla. Non aveva un numero di telefono, un riferimento. Così il giorno dopo le dimissioni Roberto si presentò fuori dal reparto, una porta scorrevole, una sliding doors, separava lui dall'ambiente dove lei lavorava. Bloccato. Rimase paralizzato davanti a quella porta, inibito da delle decisioni già prese nella sua vita, da delle situazioni che avrebbe dovuto stravolgere e buttare all'aria. Con la paura di lasciare qualcosa di "certo" per un "incerto". Dopo un po' di tempo si arrese, tornando sui suoi passi.
Roberto non seppe mai se Arianna avesse provato lo stesso sentimento per lui. Forse, pensava, un giorno si sarebbero rincontrati per caso del resto non abitavano distanti, ma fino a quel momento, quelle emozioni provate sarebbero rimasto un segreto custodito nel cuore di entrambi.
Il futuro "certo" di Roberto non fu quello che desiderava, a distanza di anni Roberto ripensa ad Arianna, convinto che quello che allora era "incerto" sarebbe potuto diventare un vita appagante concreta.
Forse non era nel loro destino quella vita, ma il destino è un concetto complesso e affascinante, e le "sliding doors" ci ricordano che il nostro percorso di vita è influenzato da una combinazione di scelte e casualità.
Se ci fosse stato coraggio in quel cuore giovane, di superare quella porta scorrevole, chissà oggi che vita sarebbe. La loro, dico.
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lamargi · 1 year ago
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Quella panchina è strategica, così vicino la scuola. VI passano davanti tanti bei giovanotti. Quasi tutti passando buttano l’occhio.
D’altra parte io sono lì proprio per questo. Farmi notare, farmi guardare, farmi ammirare. Abbigliamento e atteggiamenti li scelgo proprio con l’intento di fare colpo: e anche se di questi giovanotti potrei essere madre, sottolineando la mia femminilità riesco ancora a competere con ragazze molto più giovani.
La tattica è ormai stata messa a punto. Quando passano quelli che non mi interessano fingo di parlare al telefono o di scrivere sul cellulare. Mi sbirciano, e la cosa mi provoca immenso piacere, ma tirano dritto. Quando ne adocchio uno carino, invece, qualcosa cade giù dalla borsa per terra quando il ragazzo è ormai vicino alla panchina.
La gentilezza di lui nel raccogliermelo è la scusa per sorridergli, invitarlo a sedersi, dargli da chiacchierare.
Rapidamente lo vedo arrossire. Poi cerca gli amici con lo sguardo ma sono già lontani e siamo rimasti soli. Gli parlo, gli sorrido, accavallo le gambe, scopro un po’ le cosce, le spalle, il décolleté. Mi diverte vederlo a disagio, combattuto tra guardare e temere di apparire maleducato.
Invece, gli faccio i complimenti per l’educazione, e cosi lo incastro quando gli chiedo una piccola cortesia, che guarda caso prevede che si vada verso la mia automobile parcheggiata poco distante. Non può dirmi di no. Come non sa dirmi di no quando gli propongo di salire in macchina.
Gli darò un passaggio, gli prometto.
Bugia!
È in una zona appartatatissima vicino al parco che lo porto. Ed è sul sedile posteriore che me lo faccio…….
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multiverseofseries · 5 months ago
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We Live in Time: provateci voi a non innamorarvi di Florence Pugh e Andrew Garfield
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L'amore, il tempo, la vita, la morte e tutto quello che sta in mezzo nel folgorante film di John Crowley. Mai lacrimoso, eppure capace di arrivare dritto al cuore.
Mica è facile saper dosare al millimetro le emozioni peculiari di un film come We Live in Time. Dietro al film c'è la bravura registica di John Crowley su sceneggiatura del drammaturgo Nick Payne.
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Florence Pugh e Andrew Garfield
A proposito di drammaturgia, il film è un meraviglioso esempio di racconto. Una sceneggiatura di marmo nella sua luminosa semplicità (e sensibilità). Piena, aperta, focale nel tempo scandito dal montaggio (Justin Wright) che alterna diversi piani temporali (e quindi le diverse tonalità), spingendoci a riflettere sul valore assoluto del tempo inteso come momento da vivere fino in fondo, andando oltre la stessa percezione di vita o di morte che, senza accavallarsi, pervade il film.
We Live in Time: la vita, l'amore e tutto quello che sta in mezzo
Sotto We Live in Time c'è una storia che potrebbe essere quella di tutti: Almut (Florence Pugh), che fa la chef, conosce (dopo averlo investito!) Tobias (Andrew Garfield), da poco divorziato. I due si innamorano, perdendosi in dieci anni di assoluta passione, complicità e uova sbattute al mattino (l'uovo è un elemento altamente simbolico nel film, che torna e, per certi versi, apre e chiude ogni blocco narrativo).
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Il sorriso di Florence Pugh
Un amore che culmina con la nascita di una splendida bambina, data alla luce in una stazione di servizio. Poi, la violenta irruzione di un cancro alle ovaie che torna a chiedere il conto. Le frequenze verranno alterate, con Almut che, intanto, non si da certamente per vinta, e anzi sceglie di vivere fino in fondo il tempo che le rimane.
L'alchimia tra Florence Pugh e Andrew Garfield
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Un momento del film
Potremmo quasi dire che We live in time - Tutto il tempo che abbiamo è un film in cui la cifra emotiva gioca un ruolo cardine, pur non inseguendo mai la faciloneria di certi sentimenti, e quindi senza essere mai lacrimoso o ricattatorio. Certo, ogni visione ha una propria personalità (la commozione è palese, ma almeno non cade nello strappalacrime), tuttavia l'umore (e l'amore) scelto da John Crowley evita l'appiattimento, nonché la semplificazione di un dramma che finisce per essere, invece, prospetto dalla forte adiacenza (e dai tanti colori), e ben legata alla strepitosa prova di Florence Pugh e Andrew Garfield. Un'alchimia, la loro, tanto tangibile che sembra uscire dallo schermo, portando lo spettatore ad innamorarsi al primo sguardo.
Ancora, nella loro performance non-lineare, si rintraccia l'analisi della drammaturgia secondo Crowley, e sulla stessa strada l'analisi del tempo che corre e non si ferma. Ma che, in qualche modo, può essere addomesticato, smussato e addolcito. E non è un caso che Almut faccia la chef: mestiere che più di ogni altro deve confrontarsi con i secondi che corrono.
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Andrew Garfield e Florence Pugh in scena
In questo senso, tra cinema classico e approccio contemporaneo, l'opera del regista irlandese lambisce ogni tipo di emozione, sorrette e sottolineate dall'utilizzo tecnico della fotografia (Stuart Bentley), dall'organizzazione dello spazio, dei dialoghi reali e mai artificiali. Quasi circolare - la sequenza d'apertura dialoga con quella di chiusura -, We Live in Time, fin dal titolo, affrontata quindi il tempo dalla prospettiva sbilenca di una intuizione banalmente romantica, superando in modo lucido i rischi di una storia giammai piagnucolosa, eppure in grado di toccare, in pieno, il cuore. Quanto dolore, e quanta bellezza.
Conclusioni
L'analisi del tempo e dell'amore secondo John Crowley. We Live in Time è un manuale di sceneggiatura, mai melensa e mai piagnucolosa, eppure potente nel dramma romantico portato in scena da Florence Pugh e Andrew Garfield. Se, senza di loro, il film non sarebbe probabilmente lo stesso, è poi la tecnica e la narrativa a rendere l'opera un esempio di linguaggio cinematografico, che calca al meglio lo spettro emotivo di una storia in cui perdersi, e ritrovarsi.
👍🏻
Florence Pugh e Andrew Garfield sono fantastici.
L'uso della luce.
Il tono, mai melenso, mai piagnucoloso.
Il montaggio.
👎🏻
Emotivamente non è mai ricattatorio, ma alcune vibrazioni personali potrebbero portare a pensarlo.
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