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CASSANDRA WALKER
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ᴄᴀssᴀɴᴅʀᴀ sᴇʟᴇɴᴇ ᴡᴀʟᴋᴇʀ : nata a detroit il 10 aprile del '84. successivamente cresciuta a los angeles.  🌿 // criminologa e detective per l'fbi.
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cassandrawalker · 2 years ago
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cassandrawalker · 2 years ago
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cassandrawalker · 5 years ago
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      ᴄᴀssᴀɴᴅʀᴀ: 
 Il suono ritmato ed estraneo del macchinario che le registrava i battiti fu, oltre il dolore, la prima cosa che sentì. Nel silenzio della notte era l’unico rumore presente tra quelle quattro mura, il cui bianco si perse nelle luci soffuse che illuminavano la stanza. In silenzio continuò a sbattere le palpebre, doloranti anch’esse, ed una sensazione di fastidio le colpì le narici; i tubi per la respirazione la costrinsero a muovere il capo, nonché a sollevare faticosamente una mano in direzione del volto, nel vano tentativo di tranciare via tal presenza. Non ci riuscì, le dita si chiusero attorno all’aria, sprofondando ancora una volta nel candore delle lenzuola. Un lamento le uscì dalle labbra, intestardito, confuso, e che le causò ancora dolore. Le pareva, infatti, di muoversi nella melma, ogni arto pesava tonnellate, ma ciò che più la destabilizzò fu il disordine nella mente, il quale venne accentuato quando – scioccamente – provò a sollevare il capo dal cuscino. Un nuovo lamento, questa volta meno ovattato del precedente, la portò a scandagliare la stanza in cerca di dettagli. Dapprima non notò la figura seduta sulla poltrona accanto a letto, del danese s’accorse dopo, quando gli smeraldi misero a fuoco e la mente le donò una parvenza di lucidità. Si stranì nel vederlo, corrugando la fronte, allungando le dita per riuscire a toccarlo ma lui era troppo lontano, e lei troppo debole per raggiungerlo. L’impossibilità di muoversi venne registrata dalla donna come panico sotto la pelle, difatti i respiri divennero più profondi, e la cassa toracica perì sotto al dolore che si immagazzinò in quel semplice atto, spingendola a mugugnare.   ‹‹ A... Aksel. ›› Il suono uscì flebile, roco per via delle ore passate a non proferire parola, in assenza d’acqua, con tubi che le avevano scorticato la gola. Dovette sforzarsi, quindi, per ripetere il nome del forense, che più come una persona reale sembrava più l’eco d’un sogno.
        ᴀᴋsᴇʟ:
Probabilmente le sinapsi neppure registraron l’esatto momento in cui la stanchezza ebbe la meglio sulle dolenti membra e sulla mente, vittima, questa, d’una tumultuosa e violenta burrasca. S’era assopito, l’uomo, cadendo vittima di quel nubifragio ch’oramai da diverso tempo – un anno e mezzo, per l’esattezza – aveva smesso di reclamarlo. Ed in tale oceano tempestoso, ove gli incubi veniva sommersi unicamente dalle tenebre più impenetrabili, queste ultime avevan il potere di renderlo impotente ed inerme più dei primi. Fu un lamento ad esser registrato per primo, e ad annidarsi, contro il suo volere, in quel pozzo di pece nel quale era immerso; ed era consapevole, la sua mente assopita, che quello che venne percepito dalle tese orecchie come un unico, flebil lamento era, invero, in quel tenebrore, un dettaglio fuori posto: una cacofonia, in confronto a quello ch’avrebbe dovuto esser un luogo contraddistinto dall’assordante e crudo silenzio. Fu per tal motivo, dapprima, che si vestì d’una fitta ragnatela di scanalature la fronte, eppur, fu solo quando anche il suo nome venne registrato, colpendolo con il fervore d’una ghiacciata cascata, che le palpebre s’ersero, permettendo alle iridi d’esser accolte dal barlume di soffusa luce che regnava nella stanza. E poi, quelle stesse iridi si posaron su ella. Avrebbe potuto giurare, qualche ora più avanti – quando la mente avrebbe ripreso il normale funzionamento fisiologico – che l’organo cardiaco, il medesimo organo cardiaco ch’egli stesso aveva percepito frantumarsi quello stesso pomeriggio, aveva ripreso a battere con la velocità d’un colibrì, per poi fermarsi di colpo, perdendo uno, due, tre, quattro battiti. E ancora, avrebbe giurato d’aver sentito, ad un certo punto, una mano stringer le sue viscere, e far d’esse i propri, inutili giocattoli. A dir il vero, al danese neppur sarebbe importato del loro destino – l’importante, pensò, sarebbe stato poter continuar ad usufruire degli organi dediti alla vista, in modo da poter sognare e bearsi dell’immagine della gracile, ferita, spezzata e distrutta 𝘴𝘶𝘢 Cassandra, ch’era viva. E non importa che riteneva che quello fosse uno sciocco e crudele sogno che la sua mente stava proiettando, per chissà quale malsano motivo; lì, ove nessuno avrebbe potuto nuocerle e causarle alcun male, era viva. E gli si colmaron di lacrime gli occhi, le prime di quello che gli era parso come un calvario, che senza ritegno, seppur silenziosamente, presero ad annebbiargli la vista, e a ricader copiosamente lungo le barbute gote. Sciagurate, quelle dannate stille, maledette, che osavan privarlo di quello che credeva esser un miraggio.   ‹‹ Sei  — ›› Non riconobbe il proprio tono di voce – per un istante, neppur fu sicuro d’aver proferito verbo. Sapeva unicamente che, ad un certo punto – e, anche in questo caso, non avrebbe saputo dire quando – aveva abbandonato quella scomoda sedia che l’aveva ospitato per ore, finendo quasi per modellare il suo stesso corpo, e s’era precipitato al capezzale d’ella, alzando gli occhi al cielo per richiamar a sé le lacrime, nel timore che queste potessero andare ad umettar il di lei viso, cui colorito era così pallido e bigio che il forense non poteva far a meno d’annoverar quello di coloro che, invece, eran i suoi pazienti.   ‹‹ Io — Dio, io  — ›› Fu con ambo le mani – rosse, rovinate, con il sangue che minacciava ancor d’uscire dalle ferite non cicatrizzate – che accolse una delle sue. La strinse, eppur quasi gli sembrò di non toccarla al contempo, timoroso di poter arrecare ulteriore danno alla donna. Lo sguardo, invece, mai abbandonò quello della criminologa, e mai smise di lambire la di lei supina figura. V’era disperazione nelle glauche iridi; v’era tormento; v’era ogni sensazione ch’era persino riuscito a soffocar in presenza di Irene, ch’era riuscito a far perire durante il viaggio e nelle ore passate a controllar minuziosamente chiunque ad ella s’avvicinasse – ma che non riuscì a far soccombere dinanzi a lei. E sebbene credesse d’esser stato demolito nel momento in cui aveva ricevuto la notizia, Aksel capì che quelle parole ch’avevan lasciato le labbra della profiler non avrebbero mai potuto causargli lo stesso male – e la stessa gioia – ch’invece provava in quel momento.   ‹‹ Sei viva. Sei ancora qui. Dio, sei ancora qui. ›› Crollò, Aksel, genuflettendosi – senza tuttavia piantar le ginocchia contro il pavimento – e abbandonando il viso sulle altrui mani, nascondendosi, vergognoso per quello che non era riuscito a fare; e si permise ancor di piangere, lasciando, forse per la prima volta, ch’ogni particella del suo essere venisse meno, denudandosi dinanzi a lei.
        ᴄᴀssᴀɴᴅʀᴀ:
Pesanti le palpebre s’ostinarono a dar spettacolo alle iridi, di colmare, queste, della figura dell’uomo che le si ergeva davanti in tutta la sua imponenza. Eppur a guardarlo nella penombra di quel luogo asettico, le parve sfibrato d’ogni forza, impaurito mentre le si avvicinava quasi a capofitto, come l’essere più fragile al mondo. Vide disintegrarsi la corazza del danese, lì, in quel posto di guarigione, non potendo far nulla per fermare la discesa delle lacrime che gli riempirono il volto, o delle parole che pronunciò con disperato stupore. Piuttosto nell’osservare il suo dolore si sentì sciocca, privilegiata per le ferite che portava addosso, nulla in confronto alla devastazione che aveva preso il forense in ostaggio. Ancor di più, ciò che le frantumò l’organo pulsante, fu la consapevolezza – e questo la colpì come un  pugno allo stomaco – d’essere lei la causa di quel male. Sentì, nel silenzio, gli errori di quel disastro ricaderle addosso, le scelte sbagliate che aveva preso e che, inesorabilmente, l’avevano condotta lì, su un letto d’ospedale accanto all’uomo che professava d’amare. Eppure quell’uomo della sua morte avrebbe sofferto, e chissà quanti pensieri gli avevano sfiorato la mente in quelle ore di totale buio. Per un attimo si sentì in colpa per aver preferito il nulla a quel dolore, per aver pensato alla morte come qualcosa da desiderare piuttosto che da evitare, non curandosi delle briciole che avrebbe lasciato dietro di sé, o delle conseguenze di quell’abbandono. Servendosi d’ogni forza le dita della mano destra – ove un ago le deturpava il dorso – trovarono la strada per raggiungere le sue; le accarezzò con talmente tanta leggerezza da rendere quei tocchi inesistenti, eppur la sua pelle la sentì, avvertendo anche le cicatrici che gli tagliavano le nocche e che – dopo essersi stranita – portò alle labbra per macchiarle d’un bacio.   ‹‹ Cosa hai fatto alla mano? ›› Ancora roca risultò la voce di Cassandra, che quelle parole le pronunciò con lentezza, strascicando sulle sillabe faticosamente. Le iridi, dunque, lo esaminarono, valutando il danno, e nel farlo la mano danneggiata se la portò al petto, tenendola stretta, lì dove l’uomo poteva sentire il battito darle vita.   ‹‹ Mi dispiace tanto, Aksel. Mi dispiace di averti causato sofferenza, di aver scompigliato la tua vita, anche dal saperti lontano da casa, da Victor. Dio – non volevo. ›› La presa, ora, assunse nuova forza, nonostante la debolezza per le membra che le dolevano, ed annaspò sopraffatta dai sensi di colpa, dal panico che le scivolò dentro senza preavviso, e che per una manciata di secondi le tolse il fiato. Ricercò quiete nel volto del danese, sollevandolo affinché il mare del suo sguardo placasse in lei ogni tempesta, ritrovandosi tra le onde che gli infestavano le iridi di lacrime; delicata osò portarle via con l’ausilio delle dita, provando poi a combattere con le fitte alla spalla per raggiungerle anche con le labbra, così che da sottrargli ogni inquietudine.   ‹‹ Guardami, siamo ancora qui. Va tutto bene, amore. Non piangere, va tutto bene. Andrà bene. ›› Lo consolò non facendo caso alle condizioni in cui riversava, in quell’attimo lui era la sua medicina, solo colmandosi della sua essenza, e di quel dolore che lo dilaniava, avrebbe potuto guarire.   ‹‹ Ti prego, perdonami. 𝘗𝘦𝘳𝘥𝘰𝘯𝘢𝘮𝘪. ››
         ᴀᴋsᴇʟ:
Da ella si lasciò scortar affinché il capo abbandonasse il sicuro riparo ch’eran le sue mani – seppur, invero, fido rifugio era ogni aliquota della criminologa. S’erse indi il volto, e al contempo persino le d’egli ginocchia s’appropriaron di vergine forza quando la donna, apparentemente incurante del dolor ch’indubbio avvolgeva le sue membra ed era autocrate, questo, d’ogni fibrilla muscolare del di lei corpo, si protese verso il forense, a voler consolare quegli occhi bagnati.   ‹‹ — Persino ora, sei tu a consolarmi. Mi dispiace, Cassandra. Mi dispiace. ›› Scosse il capo, il danese, gesto che s’impregnò d’un’autorità ch’aveva ritenuto, fino a quello stesso istante, esser non remota, bensì annientata, tanto l’aveva percepita lontana dalla sua persona. E non si sentiva degno, egli, di presentarsi al cospetto della donna; avrebbe forse unicamente potuto decantar del brucior ch’aveva preso in ostaggio la sua anima, e d’ella, ch’era Musa, ispiratrice di dilaniate parole frutto di dilaniata anima, ma si ritrovò a pensar che neppur esse sarebbero risultate dignitose abbastanza per veder la propria aurora sulla illibata carta. E tali interiori conflitti eran scaturiti da un’unica, apparentemente semplice domanda, che continuava a divorar la sua mente: se tempo addietro, avesse dato voce alle sue preoccupazioni, avrebbe potuto cambiar le sorti del mastro del fato?   ‹‹ E — No, te ne prego. Non devi scusarti di nulla, non importa nulla. M’importa che tu sia viva, m’importa solo questo. Non so cosa sia successo, non so perché tu sia andata da sola — Sei viva, e quasi neppur credo alla mia stessa vista. Non importa null’altro per ora e, a dir il vero, sono io che dovrei farmi perdonare. Non sono riuscito a proteggerti, eh? ›› E sembrava esser incapace di protegger ogni anima che gli camminava accanto, l’uomo: forse s’era immerso troppo nella sua professione, forse s’era calato nelle vesti di Caronte, poiché d’ogni persona che a lui stava vicina aveva visto unicamente gli orrori e le disgrazie – la sorella, il fratello, il padre, il suo stesso figlio ed Astrid, Irene, ed ora persino la donna che, più di tutti, avrebbe voluto stringer e proteggere dalle intemperie del mondo. Prestando accortezza ai tubi che giacevan sulla sua pelle, le falangi s’adagiaron sulle gote della criminologa, ed i polpastrelli di queste carezzaron con flebil tocco la diafana pelle; fu leggero, questo, quasi come se fosse opera d’un mitologico esser in procinto di sfiorar una bolla di sapone, colmo del timore ch’essa potesse esplodere – che quel sogno potesse esplodere – strappandogli, così, la possibilità di poter lambir ancora quel miraggio. Si chinò sulla trentacinquenne, Aksel, e le labbra si coricaron su quelle della donna, in un timido ed effimero sfiorarsi, che quasi ebbe modo di distruggerlo maggiormente.   ‹‹ Te l’avevo già detto, no? Un sistema all’equilibrio è un sistema morto. Per esser vivo, deve tender all’entropia. ...Forse hai cercato di tender troppo all’entropia, però. Credo basti per una vita intera. ›› Cercò di dar a quelle parole vita con una scaglia di gaudio, che tuttavia si manifestò sol per mezzo della bocca, ch’ora si deturpò a formar il fantasma d’un sorriso.   ‹‹ E.. Non ti preoccupare per Victor, o per le mie mani. Victor è con Astrid, sta bene. Non preoccuparti di nulla, se non di te stessa. Qualsiasi altra cosa è secondaria al momento, d’accordo? ›› Sospirò, e le mani, sol a quel punto, andaron ad asciugar e a catturar i residui di quel ch’era stato il suo copioso sfogo.   ‹‹ Hai sete? Dovrei.. Dovrei chiamare qualcuno, immagino, avvisare qualche dottore? ››
         ᴄᴀssᴀɴᴅʀᴀ:
Nella burrasca in cui entrambi s’erano ritrovati a navigare, nel vento dell’altrui respiro la criminologa trovò quiete, una serenità che annichilì qualunque tormento fin a plasmarlo – quel dolore – in energia. Sebbene gli arti le pensassero ancora, e il semplice immettere aria fosse paragonabile ad un supplizio, le mani continuarono a tenersi salde sulle guance barbute, così come anche la bocca nei connotati dell’uomo s’erse a dar loro conforto. Li accarezzò senza percepire forza, senza far caso ai tubi che la legavano a quel letto, piuttosto in essi si ritrovò come polvere sulla superficie, come se tra l’epidermide che li lambiva lui l’avesse racchiusa, nel timore, forse, di dirle addio. In quei mesi più volte aveva tentato, detto e ridetto, d’abbandonarlo, di tornare ad uno status in cui nulla poteva scalfirla, in quanto lasciarsi esplorare da lui avrebbe significato fare i conti con una fragilità che non era pronta a sentire, impreparata ad affrontare, eppur della sua essenza s’era nutrita, perdendosi tra le particelle che lo componevano, fin quasi a fondersi con esse. E nel vederlo non poté fare a meno di sorridergli, o d’allungare le labbra in una smorfia che a lei parve dolce, regolando il respiro affinché quel dolore seguisse l’andamento del suo.   ‹‹ Come potrei non farlo sapendo che soffri? Non importa che sia io ad essere rilegata ad un letto, di te mi prenderò sempre cura. – Avrei voluto, tra le altre cose, risparmiarti e non darti mai la preoccupazione di sapermi in pericolo, o di farti vivere in un perenne stato d’inquietudine. E non osare chiedermi scusa, non le accetto, non le voglio. Non mi servono, Aksel, non avresti potuto fare nulla. ›› Delicatamente gli riversò quelle parole sulle labbra, le cui linee vennero poi calcate dall’indice d’una mano, mosse dall’urgenza di far propria la morbidezza che le caratterizzava, di imprigionare l’oceano all’interno della bolla creata dagli smeraldi.   ‹‹ La verità è che non ti ho permesso di proteggermi, e mi sono lanciata in questa missione senza mettere in conto i rischi. Sono io il tuo peggior nemico, io che di nascondermi dietro spalle altrui non riesco, che preferisco  affondare da sola che portarti giù con me. ›› Ora, lenti, le dita trovarono fine nelle ciocche scure dei suoi capelli, un momento flebile che durò un attimo, il tempo necessario per godere di tal contatto; dunque caddero ancora sul lenzuolo, inermi, troppo pesanti per tornare da lui.   ‹‹ Ti prego, ho bisogno di preoccuparmi anche per te. Ho bisogno di capire quanto ti abbia distrutto tutto questo, e se possibile arrabbiati con me, me lo merito. Merito anche di lasciarti andare, di spingerti verso qualcosa di sereno, qualcosa diverso da me. Solo che – non riesco. Dio, non ci riesco. Che hai fatto alla mano, Aksel? Dimmelo. ›› Divenne acqua il verde del suo sguardo, cadendo come pozze lungo le guance martoriate, e nel dar sfogo anche la vista le si appannò, tant’è che il danese per lunghi istanti sparì, causandole panico che le schiacciò ancor di più il torace. Mugugnò, dunque, singhiozzando come la bambina che era stata senza più riuscire a fermarsi. E piangeva per lui, non per sé, mai per sé.   ‹‹ Ti scongiuro, non andare. Rimani qui, non lasciarmi da sola. Non ho bisogno di niente, solo di te. Sempre di te. ›› E lo disse con disperazione, allungando le mani affinché lui tornasse, affinché ogni tassello di entrambi trovasse la via per ricongiungersi con l’incastro dell’altro, così da sopraffare ogni dolore, lacrima o lamento.
          ᴀᴋsᴇʟ:
Fu quando la visione di quella frantumata anima si pose innanzi al glauco sguardo – chʼora pareva aver assunto striature del color della pece, e genitrice di queste era stata la mareggiata dʼalgido tormento che sulla plumbea riva aveva lasciato solo il crudo nulla – che lʼuomo si chinò ancor sul femmineo corpo, e quelle salate lacrime che avevan e continuavan a violare le iridi del color della malachite e le pallide gote, immediatamente vennero catturate dalle leste falangi. Sʼerse poi il capo del danese, in modo da permettere ai macchinari che della donna misuravan i parametri vitali di investir il di lui campo visivo; e quando i valori, seppur la crisi dʼella, gli parvero normali – per le reminiscenze chʼancora deteneva dagli anni di studio – ancor una volta la concentrazione venne alla bionda rivolta, e le labbra tramontaron a sfiorare lʼumettata pelle, al fin di proseguire il lavoro che le dita dʼambo le mani avevan abbandonato a favor della ricerca delle di lei mani.   ‹‹ Non lo sei. Non sei il mio peggior nemico, e – come diamine puoi dire che vuoi lasciarmi andare verso qualcosa di sereno, lontano da te? Cazzo, Cassandra, tu non hai idea — Non hai idea di come siano state queste ore per me. Non ne hai la più pallida idea. ›› Quando le rosee labbra smisero di lambir il femmineo viseo, celeri si schiusero per dar forma a quelle parole, chʼusciron caute, con pacato e ovattato tono, forse fin troppo flebil per essere udito correttamente persino dalla criminologa, dalla quale il forense distava solo qualche spanna. Eppur, mentre più sʼimmergeva in quelle iridi che ben conosceva, più la sua mente ripeteva i verbi che la californiana glʼavea rivolto; e fu per quello, forse – o forse fu colpa, ancor, di quella tempesta che su loro sʼera abbattuta, facendoli naufragare – che lʼuomo continuò il suo sproloquio, senza mai abbandonar la posizione assunta.   ‹‹ E cazzo, con quale faccia posso dirti quello che provo e quello che ho provato, quando sei qui, su questo dannatissimo letto — Quando, sin dal momento in cui ti ho vista, ho temuto di poter vederti esalar l’ultimo respiro. ›› Venne celata, per diversi istanti, la vista dalle palpebre – e non avrebbe saputo dir quando, queste, trovaron la forza dʼergersi ancora, mettendolo nuovamente a confronto con la donna.   ‹‹ Io.. Io non capisco. Non— For soren! Non capisco perché tu ti sia immolata in una fottuta missione suicida. Non lo capisco, ci ho pensato per – cazzo, sin da quando ho capito che qualcosa in tutta questa storia non quadrava. E non lo capisco, Cassandra, non lo capisco! Perché fidati, credo d'aver vagliato tutti i possibili e dannatissimi motivi per i quali avresti dovuto scegliere di gettarti nelle mani dʼun carnefice, di mantenere un segreto tale, i motivi per non fidarti di nessuno, quelli per 𝘮𝘦𝘯𝘵𝘪𝘳𝘮𝘪 – perché avevi detto che avresti accettato la sorveglianza del tuo partner, che di lui ti fidavi, che da lui ti saresti fatta accompagnare in questa fottutissima città e porca puttana, io non capisco. Sono così nel buio per cose che riguardano te – te, cazzo, che dico di amare e non riesco neppure a proteggere – che ho preso a pugni un dannatissimo muro, perché era l'unica cosa che potevo fare. Perché tu eri.. Perché tu— ›› E seppur le forti parole, mai, neppur per un istante, il tono della voce abbandonò i sussurri tramite i quali quei verbi eran espressi; ma si caricaron, esse, di quella rabbia – rivolta nei confronti di se stesso – chʼaveva unicamente sfogato contro quel muro. Eppur, in quel momento Aksel non aveva un muro contro il quale sacrificar il suo mentale dolor, sperando chʼesso diventasse abbastanza fisico da alleviar, per qualche ora, quel turbamento.   ‹‹ Non mi aspetto che tu tenga in considerazione i miei sentimenti del cazzo, non mi aspetto una cosa del genere. Mi aspetto che tu capisca che c'è gente, oltre me, che ti ama e.. Io lo so che questo è un mestiere difficile. Lo so, lavoro con la tua categoria ogni singolo giorno della mia vita, ma tu non fai parte di una dannatissima squadra suicida, Cassandra. ›› La carezzò, piano, e la baciò, ancora, quasi a voler ricordarle, tramite quel gesto, chʼera ancora lì.   ‹‹ E – No. Dio, no. Non ho mai pensato e né mi permetterei mai di pensare di lasciarti, di andare via — Non lo farei. Non posso, perché sei tu che, forse paradossalmente, mi doni serenità. E... Per favore. Per favore, permettimi di starti accanto. Di starti davvero accanto, non unicamente per i lati che fai emergere, sperando di poter soffocare tutti gli altri. Perché non mi importa del resto, non mi importa dʼavere accanto qualcuno che non influisca sul mio equilibrio. Qualsiasi cosa sia successa, qualsiasi cosa succederà, per quanto brutta — Affidati a me. Per favore, amore. Affidati a me. ››
          ᴄᴀssᴀɴᴅʀᴀ:
Una valanga di parole s’abbatté in Cassandra con inaspettata brutalità, spoglie d’alterazione data dalla voce – che nel favellare tal pensieri non osò andar oltre il delicato sussurro – e per questo ancor più di impatto. Tra le sillabe percepì la frustrazione del danese, la rabbia che le accendeva, e nell’udirle le parve di sentire uno scoppio nell’animo, come se all’interno dell’essere qualcosa si fosse irrimediabilmente rotto. Una guerra, forse, portata avanti da troppo tempo. Ed ora che di lei non restavano altro che briciole tutto quel dolore che l’annientava s’amplificò, tant’è che ulteriori singhiozzi si unirono ai precedenti, spaccandole la cassa toracica. Annaspò aria, comportandosi come la bambina d’un tempo, sopraffatta dalle fitte alla spalla, dal rogo che le inceneriva il petto ad ogni stilla di fiato che immetteva, eppur non si fermò, piuttosto quella crisi l’accolse fin a permetterle d’annichilirla. Era un pianto disperato, un lamento che andava oltre la pietà, e con le iridi colme d’acqua trovò la forza necessaria per strappare via i tubi del respiratore, nascondendo il volto nella protezione di ambo le mani. Lì cercò confortò, così come nel buio affondarono gli smeraldi, che in esso vi trovarono quiete – una calma differente, illusoria, barricata nell’angoscia. Ancora trasse ossigeno, e dopo l’assenza di parole da parte dell’uomo rimase ad ascoltare il silenzio che li avvolgeva, rotto solo dal suono che le registrava i battiti. Ad ogni ‘’bip’’ parte di sé tornava ad occupare gli spazi vuoti, lasciati vacanti in quel disastro che l’aveva vista protagonista, assorbendo ogni lacrima, ogni debole singhiozzo. All’ennesimo ‘’bip’’ – con gli occhi provati per via del pianto – sollevò il capo in cerca dell’uomo, la cui sagoma venne registrata dalla criminologa come una salvezza in cui ricadere; Aksel rappresentava un porto sicuro, privo di minacce, e ciò che lei era riuscita a donargli in quei mesi sembrava essere troppo poco, un misero brandello d’un sentimento vasto, che non sapeva gestire, o gestirsi dentro al vortice che li univa. Impaurita – più da se stessa che dal dolore – si mosse in avanti con le braccia tese, affinché queste affondassero nell’uomo fin a modellarsi con esso, fin quando anche il volto trovò protezione nel largo torace. Ascoltò il battito dargli vita, l’urgenza lambirlo, e per riuscire a dirgli ciò che non era in grado di spiegare, quel petto gonfio di fiato iniziò a riempirlo di deboli schiocchi. Baci, quelli, che si susseguirono senza sosta.   ‹‹ Una volta ti dissi che ero un disastro, ho talmente tante macerie dentro da non riuscire più a contarle. Alcuni sono dei sassolini, altre rocce troppe pesanti da sollevare. Ho passato anni a fossilizzarmi su l’idea che quei massi li avrei gestiti da sola, in quanto mai – mai – avrei permesso a qualcuno di scoprire la loro esistenza. Quando ho deciso di tagliare fuori il mondo non sapevo ancora di te, e ho alle spalle una quantità infinita di tempo dove ho collezionato sbagli, muri e barriere. Non ti avevo messo in conto, sapere quanto questo ti abbia ferito mi distrugge. Vorrei essere in grado di cambiare, ma ciò che ho capito è che non serve cambiare – a te non importa che io sia diversa, tu vuoi conoscere i miei disastri. Li vuoi tutti, ed io – io che non ho mai amato nessuno – quei disastri mi auguro di demolirli. Ma... per la prima volta, vorrei farlo insieme a te. ›› S’affievolì la voce, e fine trovò nell’altrui bocca quando – delicata – quelle curve le modellò, solcandole con il timore di vederle sparire. Dunque, anche i polpastrelli s’affiancarono a tal contatto, avvicinandosi al profilo d’una guancia barbuta, la quale di dolcezza venne colmata.   ‹‹ Mi dispiace, amore mio. E – credimi, ti prego, neanche la morte potrebbe tenermi lontana da te. ››
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cassandrawalker · 5 years ago
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Il colpo era partito centrando il lobo occipitale dell’uomo, il cui corpo s’accasciò sotto lo sguardo vigile di 𝗕𝗲𝗿𝗶𝘀𝗵, che non si diede tempo per pensare a cosa fosse accaduto tra la sponde di quel lago, piuttosto raggiunse con un balzo l’esile corpo della criminologa, togliendole di dosso quel peso che la schiacciava a terra. Fu con orrore che spalancò gli occhi, notando la pozza di sangue che – come rami di un grande albero – s’allargava sotto di essa con velocità allarmante. Lo sparo le aveva perforato un’arteria, da lì a breve, se non fosse riuscito a bloccare l’emorragia, si sarebbe dissanguata tra le sue mani; svelto si inginocchiò, facendo pressione sulla ferita. Il dolore causato per un attimo la trascinò via dall’oblio in cui era caduta, dando modo al detective di sollevarle il capo affinché respirasse.   ‹‹ Ti prego, Cassandra, rimani sveglia. Resta con me, parlami, cos’è successo? ›› Di rimando nessuna parola uscì dalla bocca della giovane, se non lamenti sconclusionati che persero suono fin a morirle nell’esofago. Imprecò, Berish, infilando una mano nella tasca del pastrano in cerca del cellulare, che per l’agitazione quasi gli sfuggì dalle dita. Celere compose il numero d’emergenza urlando le coordinate affinché qualcuno corresse in loro aiuto, pretendendo rapidità ed efficienza, e nel farlo tentò di tenere vigile la collega, che di riaprire gli occhi non voleva saperne. Se non fosse stato per il debole battito che riusciva ancora ad avvertire tramite il tocco dei polpastrelli, l’avrebbe temuta morta tanto pallida era, immobile come una bambola rotta. Era stata una sciocca ad andare lì da sola senza di lui, pensarlo gli fece provare un moto di rabbia, acceso dalla preoccupazione per la sorte dell’amica, la quale, nell’incoscienza, aveva trovato la quiete. Sembrava in pace, lì, sul terreno ghiacciato d’un posto sconosciuto.   ‹‹ Perché lo hai fatto? ― Cristo, perdi troppo sangue! ›› La tenne in vita, Berish, cullandola come avrebbe fatto tenendo tra le braccia una bambina, aspettando l’arrivo dei soccorsi sotto al temporale, nel gelo di quella sciagurata mattina. Il tempo gli parve infinito, ad ogni minuto le condizioni di Cassandra s’aggravavano, e del suo aguzzino rimaneva solo un’espressione vuota, che pur nella morte continuava ad osservarla, quasi deridendola. E di lei cos’era rimasto? Solo membra fredde e tante domande, a cui Berish non seppe dare risposta, ma che continuò a pensare anche quando – minuti dopo – il suono della salvezza giunse il loro soccorso.
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L’ospedale del 𝗦𝘁. 𝗝𝗼𝗵𝗻 era la più vicina struttura raggiungibile, fu lì che i paramedici scortarono la criminologa, intubandola, contenendo la perdita di sangue con interventi rapidi, affinché il tempo concedesse loro un po’ di tregua. La coprirono, arrestando l’ipotermia, ma ciò non bastò a donar alla donna colore; i capelli macchiati di rubino sotto tutto quel bianco spiccavano in modo accecante, eppur chi cercava di salvarle la vita di tal spettacolo non si fece toccare, bensì continuarono ad invaderla conficcandole aghi nella pelle, tubi nelle narici, mossi da una lucidità che parve assurda agli occhi di Berish. Lungo il tragitto non osò parlare, lo fece occasionalmente e solo per rispondere alle domande dei paramedici riguardo l’accaduto. Non sapeva cosa dire, non conosceva le dinamiche di quel triste epilogo, né chi fosse l’uomo che aveva ucciso senza esitare – sebbene un’idea a tal proposito gli frullasse nella testa, per quanto incerta –, non sapeva neanche chi chiamare, o se chiamare qualcuno. Quando la portarono in sala operatoria, attraversando il corridoio asettico in tutta fretta, il detective ebbe modo di analizzare la situazione, rimanendo da solo con i suoi pensieri. Dalla tasca tirò fuori il cellulare della collega, aggeggio che gli aveva permesso di localizzarla quando – svegliandosi ore addietro – in camera sua non l’aveva trovata. Diede una rapida occhiata alla rubrica, fermandosi a metà, timoroso di valicare quel personale confine a cui la donna teneva molto, eppur dopo essersi accertato di riferire a Sherpard dell’accaduto – il quale s’era messo subito in viaggio – non gli restava che avvertire l’unica persona, a detta di Berish, importante per lei. Non sapeva che ore fossero a Los Angeles, nell’avviare la chiamata pregò che la donna, all’altro capo del cellulare, trovasse un modo per darsi conforto da sola, perché lui una spiegazione non era ancora riuscito a darsela.
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                                 𝘈𝘱𝘳𝘪𝘭 𝟢𝟣, 𝟤𝟤.𝟥𝟢.
𝗙𝗹𝘂𝘁𝘁𝘂𝗮𝘃𝗮. Era ancora viva? La sua era una condizione talmente precaria da annichilire l’urgenza, da sopprimere persino il debole respiro che le gonfiava dolorosamente il petto, perché constare d’esser viva avrebbe significato, per lei, fare a pugni con il dolore. Nell’oblio non esistevano ferite, niente demoni a sussurrarle nelle orecchie, o ad invaderle la quiete dei sogni. V’era solo il buio e nient’altro, nulla oltre il vuoto che la circondava come acqua di un grande stagno. L’odio e la vergogna s’erano plasmati attorno a lei in sentimenti d’accettazione per quel corpo da sempre detestato, persino anche per la morte che l’attendeva all’altro capo della riva. La scrutava con l’oscurità nelle orbite, invitandola a mollare la presa, ad andare oltre la devastazione, promettendole pace, assicurandole un posto accanto alla persona che l’aveva cresciuta, quella che, ora, di rimando la guardava. 𝗝𝗮𝗿𝗲𝗺𝘆 𝗪𝗮𝗹𝗸𝗲𝗿. L’uomo che più di tutti s’era ritagliato un ruolo importante nel destino di Cassandra, era lì a sorriderle con gentilezza, a prendersi cura ancora una volta della sofferenza che l’annientava, per dirle che il suo tempo non s’era concluso e che doveva tornare al punto di partenza, all’apice del suo dolore. Intestardita quelle parole vennero cacciate, negate, buttate via, come la possibilità d’allontanarsi da quel vuoto, uno spazio che di disperazione venne colmato da lacrime amare, dalla distruzione che la divise in due, tra il silenzio e l’assordante realtà fatta di fantasmi, di quei mostri dai volti malefici che non esitavano a prendersi gioco di lei. Lambivano pezzi d’anima, sporcando le membra, inquinandole la mente ed ogni altro ricordo, trascinandola sul fondo d’un immenso lago, dove nessuno l’avrebbe salvata, neanche l’eco delle urla che dall’acqua risalivano fin in superficie, riempiendole i polmoni. E quasi le parve di sentire davvero quel dolore, di percepire il respiro farsi più pesante, come se dei massi le fossero caduti addosso solo per trattenerla lì, eppur su quel lago ciò che rimaneva era il ricordo di due occhi profondi, neri come l’abisso da cui era ritornato. Aprì gli occhi. Il dolore era reale, forte come un carico di botte, che sentì attraversale persino le ossa, attingendo nel profondo d’un’esistenza fatta di cenere tra le dita, quelle stesse dita che tentò d’allungare ma che – tristemente – caddero senza forza. 𝗘𝗿𝗮 𝗮𝗻𝗰𝗼𝗿𝗮 𝘃𝗶𝘃𝗮. E per un attimo, Cassandra, desiderò non esserlo.
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cassandrawalker · 5 years ago
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𝔏a sagoma di casa 𝗕𝗮𝗹𝗱𝘄𝗶𝗻 – dimora estiva della famiglia – entrò nel campo visivo della criminologa all’alba d’una fredda mattina alle sponde del 𝗟𝗮𝗴𝗼 𝗦𝘁. 𝗖𝗹𝗮𝗶𝗿𝗲. Lo specchio tranquillo dell’acqua s’ergeva in tutto il suo splendore, spoglio d’imbarcazioni o di qualsivoglia presenza, muto come i segreti che custodiva da millenni, sepolti sul fondo in attesa di rivedere la luce. Tra i tanti ve n’era uno, che da vent’anni tormentava l’animo di chi l’aveva vissuto, di chi, ora, di coraggio si colmava per arrestare i passi sulla ghiaia, dove estati addietro dal terrore era fuggita a fatica. Ancora ricordava – con sorprendente lucidità – quando, nel dolore d’esser stata violata, il vialetto che la separava dal suo aguzzino, s’era allungato in modo esponenziale tanto da crearle affanno, tanto da farle credere che sarebbe rimasta indietro in balia d’una sorte che l’aveva spezzata. Tra le memorie che conservava v’era anche l’attimo successivo, quando nella protezione di quattro mura s’era vista nuda, macchiata da mani invisibili plasmati da lividi sulla pelle, quelle stesse macchie che aveva tentato di lavar via sotto il getto dell’acqua. Le ore a raschiarsi le membra non erano servite a nulla, neanche piangere o disperarsi, non una consolazione arrivò dall’oblio d’un sogno agitato, solo demoni e mani ingorde, incubi ricorrenti negli anni a venire, i quali ancora oggi riuscivano a mozzarle il fiato. Nulla era servito, no, lui era ancora lì, a lambirle l’animo con il ricordo dei gemiti che aveva versato, nella carne che aveva tediato senza autorizzazione. 𝗘𝗿𝗮 𝗹𝗶̀ 𝗽𝗲𝗿 𝗺𝗮𝘀𝘀𝗮𝗰𝗿𝗮𝗿𝗲 𝗹’𝘂𝗹𝘁𝗶𝗺𝗼 𝗽𝗲𝘇𝘇𝗼 𝗰𝗵𝗲 𝗹𝗲 𝗲𝗿𝗮 𝗿𝗶𝗺𝗮𝘀𝘁𝗼. Alle prime luci del mattino s’era recata in quel luogo di terrore, spoglia della protezione di 𝗕𝗲𝗿𝗶𝘀𝗵 – unico compagno di quel viaggio tortuoso – consapevole di star andando incontro all’ignoto. Di certo, quando aveva lasciato la camera d’albergo, non aveva messo in conto l’amaro destino che confabulava alle sue spalle, o di aver commesso un errore nel non lasciare tracce di sé, sicura che – di lì a qualche ora – si sarebbe recata stanca dal collega con più domande che risposte. Eppure Cassandra non lo sapeva ancora, ma da quel luogo non sarebbe più uscita.
Il silenzio era lo spettatore pubblico del suo avanzare, che l’accompagnò oltre il recinto che delimitava la casa, anch’essa muta in quell’ultimo giorno di Marzo, spettrale tra le nuvole cariche di pioggia. Poteva sentire l’elettricità tipica che precede un temporale attraversarle la pelle, o l’odore dell’acqua che chiedeva di venir giù in quel luogo di supplizio per lavar via ogni peccato, ed istintivamente – come l’adolescente che era stata – il capo dal biondo crine s’alzo al cielo per godere di quello spettacolo. Inspirò, la criminologa, velando gli smeraldi per un brevissimo istante, distendendo i muscoli, sradicando certezze, pronta per venir battezzata dall’acquazzone in arrivo. Immersa nel tormento dell’attesa la bionda non s’accorse che il suo carnefice la stava guardando, né che sulle labbra gli si era plasmato un ghigno di puro divertimento, alla stregua del 𝗱𝗲𝗺𝗼𝗻𝗲 di cui portava il nome. 𝗔𝗹𝗮𝘀𝘁𝗼𝗿 di infernale possedeva tutto, anche l’aspetto; bello a sufficienza da ingannare le anime che incontrava, abile oratore le stordiva prima d’assalirle con il suo buio ed annientarle, capacità che ben conoscevano le vittime che – senza rimorso – aveva gettato nel fiume che solcava la città delle luci. Era così che era solito chiamare New York, un ammasso di luci che offuscavano i sensi di chi ci viveva; capre, questi, in balia di un afflusso che non concedeva scampo da anime nere come le sue, libere di soffocarle per mero piacere. Il piacere l’aveva guidato fin lì, alle sponde del lago, solo per guardare la sagoma di Cassandra fondersi con il freddo del mattino, e nell’osservarla l’adrenalina data dal ricordo gli infiammò l’animo fin a farlo vibrare. Eccitato mosse incautamente un passo in avanti, con il palmo teso – a stringere il fantasma dell’esile collo della donna – rendendosi conto troppo tardi dello scricchiolio della ghiaia sotto i piedi.
Il solletico alla nuca si diramò lungo la spina dorsale della giovane criminologa, le cui palpebre si spalancarono quando – immersa nel silenzio – quel rumore le attraversò la mente. Un avviso, forse non propriamente voluto, ma che ciononostante la costrinse a raddrizzare il capo. Fiato le gonfiò il petto, mescolandosi all’incertezza e alla paura; assunse nuova pelle, questa, depositandosi come velo sull’epidermide diafana, strisciando insidiosa fin alle viscere. Fu l’orrore a prenderle in ostaggio la mente, a bloccarle le gambe nel terreno, come un albero nodoso, totalmente incapace di guardarsi alle spalle. Sapeva, nel profondo, che oltre l’ignoto v’era lui, e per tal motivo si costrinse a deglutire a fatica, quasi scorticandosi la gola nel tentativo di farlo, arida di paura e gelo. Dovette obbligarsi a ricordare che non era più la ragazzina impaurita di vent’anni addietro, ma che piuttosto era una 𝗱𝗼𝗻𝗻𝗮 forgiata da mille intemperie, e che poteva difendersi se lo desiderava, che poteva combatterlo. Incalzata da quelle idee i passi – pesanti come massi – trovarono la via per sradicarsi, compiendo un piccolo giro affinché le iridi scivolassero tra la distesa di alberi che nascondevano il lago. Lì, ad incontrare il buio.
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L’incubo si palesò davanti agli occhi di Cassandra, fiero come l’uomo alto che era – screziato solo dalle rughe del tempo, ancora simile al fantasma che le infestava i sogni. Ed ora, che ben pochi metri li separavano, era lì a prendersi gioco di lei. Indossava un cappotto che gli metteva in risalto le linee larghe delle spalle, nero, in contrasto con l’argento dei capelli, che quando l’abisso degli occhi si fuse su di lei, quasi parve esultare di soddisfazione. L’uomo che per anni aveva infestato le sue memorie, l’uomo che in quei mesi si era divertito a torturare ed uccidere, era lì, che la guardava di rimando come un leone con sua la preda. Eppure, nonostante il terrore che la dilaniava, non arretrò d’un solo passo, ciò che invece ruppe la paralisi fu il chiudersi di ambo le mani in due piccoli pugni di rabbia. Non solo quel demone le aveva sottratto la possibilità d’una vita priva di tormenti, ma come il mostro che era aveva reclamato per sé altre esistenze.   ‹‹ Sapevo saresti venuta. Ho lasciato semini di me lungo la strada che tu non hai potuto fare a meno di raccogliere, 𝗺𝗶𝗮 bella Cassandra. ›› Ancora ferma a quel suono sceso dall’abisso non diede risposta, piuttosto il panico le strisciò nel corpo come un essere invadente, procurandole dei brividi che le risuonarono fin alle ossa. Intanto, il carnefice, di tal vantaggio si beò, muovendo passi nella direzione del suo magnete.   ‹‹ Per anni mi sono chiesto in quale angolo di mondo fossi finita. Ero ossessionato da te, ho passato anni a cercati, poi, chissà come, la sorte ha voluto riportarti da me. Perché è a me che appartieni. ›› Viscida la voce continuò a riempire l’aria, seguendo le orme sulla ghiaia, quel sentiero invisibile che – ingiustamente – legava il destino di entrambi in uno solo. Erano due calamite destinate ad incrociarsi, pronte a collidere da un momento all’altro. Ancora qualche passo e sarebbe stato in grado, la 𝗯𝗲𝘀𝘁𝗶𝗮, di valicare con i suoi artigli la pelle della criminologa. Eppur questa non si mosse, non si mosse neanche quando lo ebbe a poche spanne dal volto, paralizzata da ciò che le tuonava nel petto, dal ricordo di quel pomeriggio d’una estate vecchia vent’anni.   ‹‹ Hai cambiato tutto, sei la fine e l’inizio d’ogni cosa. Con te ho imparato a superare i miei confini, a saziarmi in altro modo. ›› Il fiato le raggiunse la pelle del collo, ove le labbra del saccheggiatore d’anime si fermarono con fame cocente, impazienti d’affondare nel candore per squarciare ogni stilla di pudore; esaltato l’indice scattò sulla superficie, regalando un nuovo brivido.   ‹‹ Mentre ti guardavo dormire mi dilettavo ad immaginare la tua pelle perire sotto al mio tocco, alle sofferenze che avrei potuto causarti. Se strangolarti o meno mentre ti facevo mia ancora una volta. — Ah, 𝗖𝗮𝘀𝘀𝗮𝗻𝗱𝗿𝗮, mi hai reso persino geloso quando ti sei fatta scopare da un altro, tanto da costringermi ad essere brutale. La piccola Harriett ha urlato parecchio mentre la uccidevo nel tuo letto. ›› Il panico come scintille defluì in lei, e da quelle parole seguì lo scatto della destra mano sulla fondina, che, però, non fu abbastanza veloce da liberare; Alastor la bloccò, serrando le dita sulla nuda pelle del suo polso, il quale perì nella stretta che – veloce – le causò una fitta di dolore. Nessun lamento valicò le labbra di Cassandra, ostinata a non mostrare la benché minima sofferenza, non quando l’oscurità s’ostinava a piegarla fin a farla perire, fin a godere delle sue pene. Nonostante tenesse testa a quel dolore, la stretta non rallentò e le ossa del polso vennero schiacciate dalle falangi, strattonante, poi, – con la velocità d’un serpente – quando il mostro le bloccò l’arto dietro la schiena, facendole compiere un piccolo giro. Ora gli smeraldi si colmarono della sagoma bianca della rimessa delle barche, a pochi metri dall’abitazione di casa Baldwin, dove venne spinta con esortazione dall’aguzzino, il quale, incurante, le infestò il collo con il suo fiato. Il semplice avvertire il tocco invadente che premeva l’uomo contro di lei, le causò nausea ed una sensazione di totale stordimento, eppur, nonostante tutto puntò i piedi sul terreno, arrestando la discesa verso gli inferi.   ‹‹ Non ti darò ciò che vuoi. Non mi sentirai urlare o pregarti, se è questo ciò che speri. E so che lo speri, ed è per questo che da me non ricaverai niente, neanche un briciolo di soddisfazione. ››     ‹‹ La tua tattica è arrenderti, Cassandra? Conosco un paio di modo per istigare le tue urla, non temere. Ho fatto pratica in questi anni, so come tenerti in vita e straziarti alla stesso tempo, e credimi, alla fine vorrai solo morire. ››   ‹‹ Lo desidero da vent’anni. E — 𝗔𝗹𝗮𝘀𝘁𝗼𝗿, dimentichi che sono la figlia di mio padre. ›› Mai s’era definita la figlia di 𝗘𝗶𝗻𝗮𝗿 𝗕𝗮𝗹𝗱𝘄𝗶𝗻, in quel frangente, ove l’adrenalina le scorreva nelle vene, però non poté fare a meno che accoppiarsi alla figura dell’uomo che l’aveva messa al mondo; una furia colpì il demone, il corpo di questo venne sbalzato via – celermente – ed una corsa per la salvezza aprì le danze verso 𝗹’𝗮𝘁𝘁𝗼 𝗳𝗶𝗻𝗮𝗹𝗲. Fu un susseguirsi di ansimi, di passi rumorosi e parole urlate al vento, di immagini sfocate che si fusero con la distesa di bianco che macchiava l’aria attorno a loro, troppo ostile, debellando ogni via di fuga. Cassandra non ne aveva, per quanto s’ostinasse a correre non era abbastanza veloce per liberarsi da quell’incubo, neanche l’auto parcheggiata fuori dai confini della villa poteva aiutarla, ed i polmoni le bruciarono sotto le stille di ghiaccio che immetteva nel petto tramite il banale respiro. Divenne doloroso persino arrancare, ma niente fu paragonabile a ciò che venne dopo. Prima sentì lo sparo, il rumore sordo della pistola, poi il bruciore e l’intorpidimento della spalla, successivamente le fitte che dal collo, fin giù alla clavicola, si diramarono fin a mozzarle il fiato, tant’è che finì sul terreno ghiacciato battendo violentemente la testa. Stordita tentò di rialzarsi, facendo leva con le dita su un arbusto, piegando le ginocchia, eppur non servì, ancora una volta cadde giù procurandosi un livido sulla guancia. L’indumento – e la conseguente sciarpa – si impregnarono di sangue che, ferruginoso, l’odore le arrivò alle narici, tale afflusso seguì il suono d’un lamento flebile, che continuò anche quando la bestia la obbligò a ricadere di schiena. Al dolore dello sparo si unì quello delle costole, causato dal peso dell’uomo, e la successiva stretta attorno al collo macchiato di rubino.   ‹‹ Pessima, pessima mossa, Cassandra. ›› Lambì il suo nome con lussuria, eccitandosi all’idea di vederla soccombere; l’istinto intessuto dentro di lui portò la criminologa alla rovina, che intanto indifesa soffocava sotto gli artigli del suo carnefice, dimenandosi come un’anima in pena. Non servì combatterlo, non servì neanche provare ad urlare quando, con la furia da cui era nato, la dilaniò di un nuovo taglio, macchiandosi le mani della linfa del suo sangue. Il terrore a quel punto le morì negli occhi, e la logica venne annientata dalla consapevolezza di star per perire sotto di lui. Ed era pronta, Cassandra, a mollare la presa, tant’è che gli arti persero forza, ed una lacrima – l’unica che versò – le cadde tristemente dagli smeraldi, come la pioggia che le accarezzò il volto. 𝗨𝗻𝗮 𝗴𝗿𝗮𝘇𝗶𝗮 𝗽𝗲𝗿 𝗾𝘂𝗲𝗹𝗹’𝗮𝘁𝘁𝗶𝗺𝗼 𝗱’𝗮𝗯𝗯𝗮𝗻𝗱𝗼𝗻𝗼. Quando percepì il respiro mancarle si sentì quasi felice, di lì a poco avrebbe potuto riposare, ma un secondo sparo ovattò l’aria nel giro di pochi minuti – ore per lei – e il corpo di Alastor s’afflosciò come una bambola su di lei, schiacciandola del tutto. Aveva gli occhi aperti, vitrei, ed un’espressione di sorpresa per quel colpo che non s’aspettava di ricevere; rapita guardò la morte investirlo, e fu l’ultima cosa che vide mentre si lasciava andare all’oblio: Il demone che giaceva nella pozza rossa del suo stesso sangue. 𝗕𝘂𝗶𝗼.
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cassandrawalker · 5 years ago
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L’estate del 99’ a Detroit era stata la più afosa mai registrata negli ultimi dieci anni. I palazzi scintillanti della città perivano sotto al sole di agosto, e gli abitanti pur di fuggire al caldo si rifugiavano nelle loro tane in cerca di frescura. Altri, invece, preferivano abbandonare gli appartamenti per passare le giornate sulla riva del lago, il cui specchio rifletteva le figure delle imbarcazioni – dalle più lussuose alle più umili – ormeggiate come spettri in attesa d’intraprendere una nuova corsa. Il Lago St. Claire accoglieva più di semplici mezzi, s’era fatto carico, in realtà, d’un crimine silenzioso, mosso dagli impulsi di un cacciatore in preda al più viscerale desiderio, schiavo di cercar in altrui membra un appagamento fugace eppur violento. E violenta era stata la sorte che aveva preso le redini della vita d’una giovane Cassandra, ancora bambina, vestita di un’ingenuità limpida, non contaminata, genitrice del più imperdonabile degli sbagli. La ricordava bene quella mattina, nonostante vent’anni la separassero da quel terribile avvenimento, ma non era lei a conservare le memorie d’ogni singolo dettaglio, v’era un altro, in verità, l’uomo che l’aveva spogliata delle sue più intime certezze per darla in pasto ai tormenti. Alastor Graham, amico e confidente della famiglia Baldwin, nonché esperto di teologia di una delle più famose università del Michigan, figura di spicco nel mercato della droga – motivo per cui s’era conquistato un posto tra i collaboratori di chi gestiva il traffico di merci nell’aria di Detroit. L’uomo altro non era che Einar Baldwin, padre biologico da cui Cassandra era tornata dopo aver appreso la verità sulle origini di chi l’aveva generata. Vestita dei suoi quindici anni s’era buttata a capofitto nella ricerca, ingenua anche mentre accettava di abbandonare chi l’aveva cresciuta, mentre la violenza da cui era stata strappata tornava a ripresentarsi con sorprendente regolarità. Era una violenza infida, non prettamente fisica, nonostante fosse stata sfregiata di alcuni lividi durante la permanenza, quanto più mentale, mirata a demolire ogni radicata convinzione. Quel giorno di metà agosto s’era rivelato essere il più idoneo per Alastor, che tra le liti di casa Baldwin se ne stava tranquillo sulle sponde del lago, in attesa che la preda da lui scelta trovasse la via per raggiungerlo; impetuosa Cassandra, accesa da un fuoco che ancora non sapeva gestire, da quel torrente s’era lasciata travolgere, accettando – inconsapevolmente – la più incandescente delle ferite.
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Lo specchio d’acqua rifletteva l’immagine d’una quindicenne dai capelli color del grano, troppo simile alla madre che l’aveva partorita, e per questo impossibile d’apprezzare. Odiava il suo corpo, Cassandra, tra le forme rivedeva l’oscenità d’una pelle che non sentiva d’appartenerle, ma che ogni giorno era chiamata ad indossare nonostante la rabbia di pensieri sbagliati, che contribuivano a farla sentire piccola, persino troppo per la sua età. Imprigionata nella bolla di quel difetto, l’uomo dagli affascinanti lineamenti – e dagli occhi troppo neri, come l’abisso da cui era arrivato – lasciò che quel dolore causasse un effetto domino; indifesa la costrinse – seppur subdolamente – ad affogare i dispiaceri in una bottiglia di vodka, liquido che mai prima aveva osato assaggiare la quindicenne, ma che venne comunque tracannato tra un sorriso d’incoraggiamento ed un altro. Era bravo Alastor ad ingraziarsi le giovani ragazze dalle pelle diafana, premuroso e mai scontato, abile nel guidarle attraverso un sentiero pericoloso. Eppur Cassandra il pericolo non lo percepì nemmeno quando i sensi rallentarono la loro corsa, offuscandole la ragione, l’unico barlume di panico venne dopo, quando il corpo perse libertà di movimento e lei finì nella rete del suo aguzzino. Atroce fu il modo in cui la violò d’ogni pudore, sottraendole la possibilità di scegliere a chi concedere l’intimità del suo corpo, un corpo dilaniato da mani ingorde, da gemiti che le macchiarono la pelle, quella stessa pelle che detestava, e che non sarebbe riuscita ad apprezzare per molto, molto tempo. Sentì ogni affondo, ogni movimento, ogni tocco sgraziato che le venne riservato, lì, nel deserto d’un lago che non conosceva, soggetta al vuoto di un aiuto che non sarebbe mai arrivato. E provò ad urlare ma nessun suono prese vita, perché la disperazione le rimase incastrata dentro fin all’ultimo, anche quando la bestia grugnì di soddisfazione, lasciandola lì, sotto i raggi d’un caldo sole, come l’essere più insignificante al mondo. Non si curò neanche di coprirla, anzi, rimase a fissarla per ore, gustando il ricordo di quell’atto consumato, e s’esaltò quando la vide trattenere le lacrime, chiusa nella testardaggine che l’aveva portata lì, da lui.
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Vent’anni dopo l’ossessione per la ragazzina che era stata non si placò nell’animo di Alastor, la cui indole s’era trasformata fin a sfociare in devianze più crude del semplice abuso, toccando il fondo d’una fame incontrollata. Ed era stata la 𝗳𝗮𝗺𝗲 a muovere i fili di quel gioco che l’aveva condotto dalla criminologa, ancor vestita, questa, d’un fuoco d’accecante bellezza, convincendolo ad intraprendere una partita ben più pericolosa della precedente. Anni passati a cercarla, a desiderare di sentire il suo profumo ancora una volta, e adesso che era lì, mischiata tra la folla di gente che riempiva il Federal Plaza, una calma gli prese in ostaggio l’animo; non avrebbe mai peccato d’impazienza, sarebbe arrivata nel momento giusto, al culmine della sua vulnerabilità. E lì l’avrebbe attesa, sperando di sopraffarla ancora, di umiliarla ancora. Pregustando l’attimo in cui la vita della sua musa gli sarebbe scivolata tra le dita.   ‹‹ Si è dimostrata tenace come la ricordavi. ››   ‹‹ Più di come la ricordavo. E’ un fuoco che non si spegne, ed è ammaliante      vedere il modo in cui brucia. ››   ‹‹ E’ vicina alla soluzione. ››   ‹‹ Non abbastanza, altrimenti lo capirebbe che sono qui ad osservarla. ››   ‹‹ Cosa ti aspetti? ››   ‹‹ Che combatta e che torni lì, dove tutto è iniziato. So che lo farà, la conosco.       E’ la mia Cassandra. ››
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cassandrawalker · 5 years ago
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Non godeva di ottima reputazione la prigione di Rikers, una delle peggiori nello Stato di New York. I detenuti spesso venivano assaliti dalle guardie, ed i casi di decesso superavano di gran lunga quelle di qualunque altro dipartimento, accidentali o premeditati era difficile dirlo. V’era uno strano e contorto codice tra gli agenti penitenziari, lo stesso dei poliziotti e di chicchessia ruolo all’interno dell’istituzione, in cui vigeva la regola generale di proteggere il branco o, in alternativa, il più forte tra gli individui. Se uno di loro commetteva un crimine, un abuso o qualunque altra scorrettezza, era compito degli altri nascondere le prove, mettere a tacere e persino eliminare i soggetti scomodi. Era un cerchio il sistema, corrotto fin dalle fondamenta, se un solo ingranaggio ritardava la sua corsa il castello periva. Di violenza dunque i volti dei prigionieri erano tinti, alcuni meno degli altri, i più anziani in ordine di arrivo ne erano sprovvisti, ma tale sorte non valeva per Andreas Goran, uno dei pochi federali chiusi all’interno di quelle mura. I lineamenti da sempre ben curati sottostavano ora alla brutalità altrui, facendosi carico di molteplici lividi, cerchi neri attorno agli zigomi, al labbro inferiore, come tatuaggi che cambiavano colore con il passare dei giorni. Non v’era dunque più fascino in quel volto, solo apprensione e sofferenza, dolore che percepivano bene le ossa dell’ex capitano mentre venivano scortate in una delle stanze per le visite ufficiali, scosse da uno spietato assalto avvenuto nella notte. Impettito però camminava fiero tra i corridoi, ergendosi in tutta la sua stazza che neanche la reclusione era stata capace di demolire, così come l’ego di cui era provvisto. Non mancò di sorridere nemmeno quando intravide l’esile figura della criminologa, bensì permise alle labbra di deformarsi in un ghigno diabolico, borioso persino, il quale continuò a persistere anche dopo, quando la porta della stanza si chiuse alle loro spalle lasciandoli da soli. Silenzio cadde tra le pareti, avvolgendo il tavolo in metallo, anche l’unico neon venne oscurato da tale assenza di suoni, cui un’elettricità differente scorreva parallela allo spazio che li separava; si scrutavano invero, mossi entrambi da una curiosità cocente, alimentata dai segni che entrambi portavano sul viso. Quello di Goran d’evidente abuso, quanto a quello femminile v’era una sofferenza silenziosa, fusa più nella mente che nel corpo. Vispo lo sguardo del Capitano s’accese ancora di divertimento nel vedere la donna soccombere allo stress, in quel rompicapo che le era finito tra le mani, non casualmente, ma che tal dettaglio la donna non conosceva in quanto torturarla era lo scopo del suo aguzzino. S’ingobbì quindi l’atletico corpo del sessantenne, sporgendosi in avanti in modo da dare maggior attenzione alla minuta controparte, la quale elegante nel suo completo scuro non mostrò la benché minima espressione di impazienza.   ‹‹ Mi chiedevo quanto c’avresti messo per venire a strisciare da me. ››   ‹‹ Ero curiosa di sentire il racconto dei tuoi giorni da carcerato. Alla fine le mie parole si sono dimostrate esser vere: ti hanno massacrato. ››   ‹‹ Ti rallegri molto, la sofferenza è qualcosa che piace anche a te, Cassandra. Per quanto ti ostini a nasconderti dietro un dito di finta moralità. ››   ‹‹ Dipende dal soggetto, per esempio mi rallegrerei nel vederti morire ma non credo di aver mai celato questo piacere. ››   ‹‹ Dimmi, è stato bello? Ti ha riservato uno spettacolo niente male, ho contribuito anch’io all’idea, sai? Peccato, avrei voluto gustarmelo di persona. ››   ‹‹ Se vuoi assistere ad uno spettacolo crudo posso offrirtene uno io. ›› Leggere le membra del femminil corpo abbandonarono la statica posizione in cui erano cadute, rimettendosi in piedi; il rimbombo dei tacchi accompagnò l’esile figura fin a poche spanne dall’altrui persona, ben legata alla sbarra di metallo forgiata insieme al tavolo, ove lì sarebbe rimasto anche quando – con i movimenti d’una falena – la criminologa s’apprestò a girargli attorno, calibrando ogni passo. Ebbe l’accortezza di fermarsi alle sue spalle, piegandosi affinché il fiato potesse raggiunger l’attenzione d’un suo orecchio, dove morbide parole si posarono.   ‹‹ Non si batte un mostro usando la forza, Capitano. Serve solo imparare a coglierlo di sorpresa. ›› Lesta una mano venne portata sul capo del sessantenne, il quale s’accorse dello schianto contro la fredda superficie in metallo solo quando il dolore gli paralizzò una tempia, stordendolo. E lì continuò a stare, soffiando aria, bloccato dal peso della criminologa, che seppur delicata pareva mossa da un fuoco implacabile. Si deformarono, indi, le morbide curve in una mezzaluna che gli occhi dell’uomo non videro, ma che poté percepire comunque.   ‹‹ Non sono qui per sentirti vantare su quanto tu ti sia eccitato al pensiero di avermi causato un trauma; mettiti in fila, ho una lunga lista di stronzate, il tuo gioco non mi tocca minimamente. Ti consiglio però di parlare, e attento a quello che dici, non mi farò il minimo scrupolo dal perforarti un timpano. ›› Mai prima di quel momento Andreas Goran s’era ritrovato a fronteggiare la furia della criminologa; l’impulso alla violenza stuzzicò nell’uomo una frenesia che alimentò il lui un piacere primordiale, difatti una risata gli imperversò tra le labbra. E rise, rise come un diavolo a cui erano state aperte le porte dell’inferno, godendo persino del dolore al petto e alle costole.   ‹‹ E’ questo che gli piace di te. Sei tenace proprio come loro, ma lui ti vuole anche per un altro motivo. Oh, quando lo scoprirai! ››   ‹‹ Quale motivo? ››   ‹‹ E’ nella tua testa, è sempre stato lì e non è mai andato via. Ti ha cercato per tanto, tanto tempo, era così felice d’averti trovata. ››   ‹‹ Cosa cazzo stai dicendo?! ›› Sebbene il capo venne ulteriormente schiacciato fin a comprimere la trachea il suono assordante di quei ghigni non diminuì, Goran continuo a ridere, ed esasperata la giovane criminologa s’azzardò a perforargli la carne con le unghie, la quale parve argilla sotto i polpastrelli. E non potendosi più controllare anche l’indice della mano maschile, bloccata ai polsi con le manette, perì sotto al peso d’un pugno che decretò la rottura dell’osso. Urlò Goran, eppur nessuna guardia corse in suo aiuto, nessuno l’avrebbe salvato dalla furia impetuosa di Cassandra.   ‹‹ Lui chi è? ››   ‹‹ E’ il tuo incubo, Cassandra. Sai benissimo dove cercare, ma posso darti un indizio se vuoi batterlo sul tempo: Lake St. Claire, è lì che ha iniziato. ›› Fu un’avvisaglia, un minimo campanello d’allarme, ma quel nome, quel posto, Cassandra lo ricordava bene, tant’è che un brivido le attraversò il corpo come la lama di un coltello puntata alla schiena; rapida fu la sensazione di panico che le causò un conato, repulsione che la costrinse anche a mollare la presa ed annullare la posizione di forza da cui s’ergeva.   ‹‹ Trovalo prima che sia lui a prendere te. ››
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cassandrawalker · 5 years ago
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In Accademia, e ancor prima tra i banchi dell’università, i resti macabri di chi aveva sopperito alla violenza d’una mente criminale, venivano analizzati attraverso l’uso di diapositive; immagini nude e crude, disturbanti nella loro interezza, non adatte allo stomaco di chiunque. Talvolta capitava di scontrarsi con una quantità indicibile di sangue, un male minore rispetto alle parti del corpo che erano state tranciate via – o in alternativa – martoriate al punto tale da perdere ogni forma riconoscibile. Una violenza, quella, che richiamava il caos, attingendo al piacere di devianze non comuni ai più, che per riuscire a comprenderle bisognava partire anche da ciò che si lasciavano dietro. Alcuni li chiamavano rifiuti, altri trofei, altri ancora se ne sbarazzavano trovando loro un nascondiglio, come un cane con l’osso, ma tutti dipendevano dalla caccia e dall’impulso che essa donava. Il piacere di soddisfare un rischiamo, un istinto intessuto tra le cellule celebrali, li portava ad essere ingordi, eccedendo fino all’inverosimile, fin a superare la soglia d’ogni orrore. Dopo un primo impatto a quelle immagini ci si abituava, quantomeno si imparava a distanziare le emozioni per non rischiare di perdere la ragione, per poter svolgere correttamente un’indagine dove la vita di qualcuno chiedeva giustizia.  Eppur se a tale scempio si poteva incanalare altrove l’atrocità di una scena, nulla risultava più sgradito dell’odore di un corpo in putrefazione. Era pungente, forte come un pugno, ed era capace anche di permanere nelle narici per giorni interi. Cassandra ricordava ancora la prima volta che aveva messo piede in un obitorio, maggiormente la volta in cui s’era ritrovata testimone di uno spettacolo orrendo – in entrambe le occasioni il suo stomaco non aveva retto – e le erano stati necessari anni prima che l’olezzo di morte non mandasse all’aria ogni suo controllo. Impegno e costanza, chiavi fondamentali per il lavoro che era chiamata a svolgere, non sapeva se per destino o scelta, con ogni probabilità la sorte l’aveva macchiata al primo vagito, e quella s’era rivelata essere una vocazione; era brava, Cassandra, tenace e forte abbastanza da reggere ogni confronto, astuta, talvolta persino manipolatrice, eppur dedita al lavoro come pochi. Possedeva un forte senso di giustizia, unito alla compassione per le vittime e le famiglie coinvolte, in quanto lei stessa faceva parte di quel gruppo. Il dolore nonostante gli anni non spariva mai davvero, a maggior ragione quando non si aveva nessuno da incolpare per quel vuoto che niente poteva riempire, e per tal motivo metteva più impegno nel portare al termine un incarico, per dare alle famiglie un pretesto per non vivere perennemente nella frustrazione. L’esperienza sul campo non l’aveva ancora spogliata di quella vulnerabilità umana di cui era vestita, capace di crearle stupore che, per quanto intenso, non avrebbe confessato perché l’esser fragile era una debolezza da nascondere, come i traumi che si portava appresso. Il rimbombo normale di passi accompagnò le membra nell’ennesimo disastro, in un palco che Cassandra conosceva, tra le familiari pareti che aveva scelto di chiamare casa. Non tornava lì da un po’, constatarlo fu l’unico pensiero che le attraversò la mente quando, con la calma di chi non immagina nulla, le mani andarono a scovare le chiavi dell’appartamento. Il vecchio mazzo era andato disperso alcuni giorni addietro, e per attingere al nuovo era stato necessario l’aiuto del portiere, il quale non aveva ben pensato – così come neanche lei – di cambiare la serratura. Non s’accorse dell’odore quando si fece strada tra l’immobilità del salotto, ritrovando vecchie abitudini, spolverando pigramente la posta lasciata ad abbellire il tavolo. Non notò i dettagli fuori posto, o la minuscola macchia di cremisi che deturpava l’angolo d’una parete; l’unica avvisaglia di qualcosa di strano fu data dal freddo. Una scia d’increspature s’affacciò sul volto della criminologa, prendendole in ostaggio sia la fronte che le labbra, espressione che continuò anche quando un brivido le salì lungo la spina dorsale, attraversando ogni articolazione fino a giungere alla nuca, lì dove un formicolio invadente la obbligò a voltare il capo in cerca della fonte di tale stranezza. I passi si susseguirono in un andamento lento, ove nessun suono interruppe il silenzio, unico spettatore di quel macabro gioco; avvertì una nota pungente alle narici solo quando giunse sulla soglia della camera da letto, nota che ben conosceva, la criminologa, che in un attimo le gelò il sangue e, al tempo stesso, le inaridì l’esofago, sottraendole la possibilità di deglutire.  Non v’era più il silenzio ora a soffocarle l’udito, bensì un tamburo di battiti che sovrastò ogni suo pensiero, ogni possibile ragionamento, domanda o dubbio. Neppur le labbra s’azzardarono ad accogliere aria, tanto malsana era questa, e per i secondi che seguirono il petto cessò di muoversi, in contrasto con le pulsazioni dell’organo chiuso all’interno di quella gabbia.  All’orrore era preparata, pensò, ma non alla squarcio che la separava da un atto disumano. E serviva un’anima scarna d’emozioni per compiere una simile atrocità. Lì dove prima v’erano lenzuola pulite, ora, un rubino invadente colmava ogni candore, così come di schizzi era macchiato il pavimento, eppur di quella violenza consumata restava solo un arto. L’unico che la Bestia avrebbe mai concesso: il braccio sinistro, esattamente come tutte le altre bambine che aveva precedentemente trucidato. Ed era lì, sul letto, con il palmo aperto a reggere qualcosa che la criminologa non riuscì a vedere, in quanto nell’apprendere la scena arretrò sopraffatta dai conati, da un senso di panico che la lasciò inorridita, paralizzata, totalmente vuota. Non fu capace neanche di riflettere, o di agire, quello andava oltre le sue competenze, e tutto ciò che fece fu continuare a guardare quel cremisi deturpare ogni angolo. E non seppe capire quando gli smeraldi si colmarono di pianto, né si udì mentre dilaniava il silenzio con un grido d’orrore, nemmeno i successivi colpi alla porta vennero registrati, o le voci dei vicini che s’affollavano sul pianerottolo. Non s’accorse neanche dello scatto che seguì lo spargersi di frettolosi passi lungo il corridoio; quella baraonda non poteva in alcun modo surclassare la devastazione mentale di quell’attimo.   ‹‹ Cristo, Cassandra! Guardami – no, guardami, cos’è successo? ››  Il volto di Gabriel si unì allo spettacolo di morte, liberandole per un attimo la vista, un secondo che servì alla donna per acquisire una parvenza di raziocinio, sufficiente abbastanza da permetterle di incrociare lo sguardo dell’amico. Alle domande si unirono le mani di quest’ultimo, i cui tocchi invasero dapprima le spalle e, successivamente, le guance umide della criminologa, accucciata ancora sul pavimento come un essere indifeso.   ‹‹ Chi devo chiamare? Cassandra, parlami. Ho bisogno che tu mi dica cosa fare. ›› Impertinenti nuove richieste s’aggiunsero alle domande, eppur di trascinarla lontano da quel torpore non v’era rimedio, solo un barlume s’accese in lei quando una roca voce si unì al baccano, riportando le parole lasciate sul palmo di quell’arto smembrato: malum enim prope est.    ‹‹ Berish. Chiama Berish. ››
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