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NOWHERE SPECIAL : il luogo dove l’Uomo Nuovo prende forma senza fare rumore
In questi giorni è finalmente uscito in sala l’opera seconda di Pasolini, rimasta ingiustamente senza riconoscimenti un anno e mezzo fa alla settantasettesima Mostra del Cinema di Venezia. Io non sono andata a rivederlo (ancora) ma la verità è che non è necessario. Nowhere Special non si dimentica, soprattutto se si ha fatto della relazione particolare con la Morte il centro della propria appendice della tesi magistrale.
Trovare Nowhere Special, dieci anni dopo aver scritto un saggio su Six Feet Under, è stato come annodare di nuovo un filo rosso del cuore lasciato sospeso per una decade. Se la drama serie di Alan Ball mi aveva insegnato ad innestare la morte con l’esaltazione di una giovane donna che posiziona correttamente l’ultimo pezzo del puzzle di 3000 pezzi, il film di Pasolini comincia la sua narrazione proprio 30 secondi prima di quell’attimo di esaltazione, per darle un definitivo sapore di integrità del processo. L’operazione risulta così potente perché protagonisti sono due figure maschili che, ne la società ne lo schermo, ci hanno mai presentato con tanta cura, importanza, e ricchezza di dettagli persuasivi.
Andiamo per ordine.
John è padre di Michael un bimbo di quattro anni, vivono in una piccola casa con una grande finestra in cucina da cui entra la luce del giorno che illumina le pareti puntellate dei colorati disegni del bimbo sparse un po’ ovunque. 
Persino le lenzuola del lettino di Michael, il suo peluche preferito raccontano di un rifugio costruito a misura di Michael che deve sentir vibrare la dedizione e l’amore paterno in ogni angolo della casa, che sia nell’atto di lavarsi i denti o cercare la propria tazza della colazione nello scolapiatti.
John ha appena scoperto che la sua malattia è giunta all’ultimo stadio, deve preparare il Mondo di Michael alla sua assenza fisica, in una corsa all’ultima energia corporea per preservare una quotidianità difficile ma colma d’amore e condivisione per il figlio. John di mestiere è un lavavetri, con la stessa dedizione con cui è padre: il suo lavoro è uno di quei lavori che l’invasione tecnologica e l’avvento del precariato ha parcellizzato e reso non nobilitante agli occhi della desiderabilità social. Diversamente per John e i pochi clienti che ancora si affidano ai suoi servizi il suo lavoro è ancora uno strumento per intessere e mantenere umane ed empatiche relazioni impagabili ed incalcolabili dall’efficienza degli algoritmi.
Man mano che la malattia si fa strada nel corpo e dilaga nella vita di John, le finestre che si ritrova a pulire diventano vere e proprie aperture sul Mondo che ogni giorno sembra allontanarsi, accessibile solo ai suoi occhi di spettatore. Le corse al parco con il piccolo Michael si diradano nel tempo, le passeggiate intorno la casa e la prossimità sul divano che restano le uniche certezze di un amore e la Vita che resiste con la lentezza che diviene una modalità di interazione alternativa all’efficienza, con la presenza mai così pregnante.
Preparare Micheal alla propria morte, alla propria assenza fisica, diventa per John l’ultimo atto della loro storia d’amore e dedizione con la scelta del nuovo genitore per Micheal che non potrà che rivelarsi la riprova del modo in cui l’umanità empatica e la pragmaticità di un’urgente presenza sensibile – nell’accezione letterale del termine – sono i primi ingredienti per una vita dignitosa pur fuori dagli schemi.
Pasolini è un regista militante, partigiano di un cinema brulicante di Verità, una verità scritta dagli abitanti dei margini, animatori del cono d’ombra della ribalta sociale, che non cede un centimetro a scorciatoie di registro od lusinghe visive che possano depontenziare la portata del dolore, della fatica, di ciò che conta per vivere profondamente, scegliendo di incarnare ed ancorare queste qualità ai propri personaggi senza mai farne esibizione.
In una realtà sociale dominata dall’avanzamento tecnologico indisciplinato, Pasolini col suo cinema lascia un segno, che nel cuore si fa solco, per costruire un Mondo in cui dedizione, lentezza ed ascolto sono le nuove qualità per ri-elevare l’Uomo ad artefice di un futuro umanissimo e nuovamente possibile.
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FREAKS OUT: I fenomeni da baraccone diventano fenici incapaci di rinascere.    
-        Sono speciali non straordinari
 Aspettative molto alte aleggiavano sul nuovo film di Gabriele Mainetti, è un tema che mi sta molto a cuore, su cui, per dirla con Godano, c’è ancora tutto da fare, e Mainetti, il suo ultimo lavoro argomentano proprio questa tesi.
Roma, anni Quaranta, il circo Mezzapiotta, giudato da Isdrael, un barbuto ebreo con la bombetta, richiama i bimbi del posto promettendo stupore, magnificenza e avverte i più piccoli che troveranno pane per la loro capacità immaginativa, in una possibilità di materializzarsi con la forza di un’epifania.
Così conosciamo Cencio, giovane carnale ed impulsivo, capelli diafani, muscoli tesi, incantatore, di insetti con predilezione romantica per le lucciole; poi c’è Mario la calamita umana con particolare confidenza con forchette e cucchiaini da thè affezionati alla sua fronte. Immancabile Fulvio, per la famiglia Fù, gigante affetto da leontasi ma che più che il film di Bogdanovich ricorda, Chwube effetto l’Oreal o il Robert Downey di FuR; infine c’è Matilde, occhi lucidi e spalancati, trecce ricce con un corpo naturale conduttore d’elettricità: il suo numero è una danza di subrette tra lampadine accese senza sforzo tenute tra le mani ed i denti.
Israel ha trovato un modo per andarsene in America: quel sogno lo promette a tutti i suoi compagni in cambio di trecento lire: è consapevole d’essere ebreo ma è convinto probabilmente che quei soldi lo traghetteranno in una fuga possibile e mimesi meno codarda di quella offerta dall’armistizio di cui, come tutto il suo Paese si è ritrovato spettatore. Il capo circense convince i suoi al viaggio della speranza, mentre in città è arrivato il circo di Berlino. L
Le due ore che seguono sono la narrazione di quattro fenomeni da baraccone, una versione 3.0 di comne li aveva scovati Browning nel ’32 che la retorica del sensazionalismo trasforma i Supereroi. Il viaggio topico per restare liberi (ed uniti) come quattro lepri in un bosco pieno di trappole naziste, si rivela raddoppiato con la Storia che li vuole morti perché anormali ed un freaks ariano che li vuole salvatori della Grande Germania proprio con l’anormalità strumento allo scopo supremo.
Mainetti, gira un film italiano, con l’aspirazione di far breccia nel cuore americano e mainstream di ogni spettatore.
La prima parte sembra un viaggio di ritorno nelle atmosfere povere ad autentiche di Fellini, senza la violenza dei dialoghi e la disillusione del Matto de “La strada”: così Mainetti perde la traiettoria del proprio discorso autoriale (che con Jeeg Robot l’aveva reso straordinario): si lascia ammaliare dall’accessibilità della retorica della fabbrica del Supereroi in un susseguirsi di citazioni – viaggio nell’etere – che fa eco ai boomers più nostalgici del proprio coming of age.  
Tutta la prima parte, fino alla rivelazione dell’evento puro/ferita di Matilde, ci tiene catapultati ed ancorati ad una speranza di un finale tragico-catartico motore di un cambiamento inevitabile: ma poi l’universo interiore dei personaggi è destinato a restare a sepolto, surclassato da citazioni continue – che certamente sono tributi ad una cinematografia sterminata e super partes al tema - senza riuscire a divenire mai davvero politico. L’aggregazione di Matilde ai partigiani (quasi tutti mutilati e/o comunque tutti rappresentati non conformi dal loro non allineamento al sistema) ed è l’unico vero momento del film in cui lo spettatore sente d’esser tale, in una storia di diversità, diluita in una narrazione del diverso come marginalizzato, esemplare, ma mai sufficientemente degno d’essere annoverato per la sua umanità.
La scelta del finale non stratificato è l’ultimo indizio di un film che fallisce la propria caccia al tesoro per una narrazione in cui la diversità non chiede di essere normalizzata tanto quanto non chiede d’esser ricordata per gesta eroiche, semplicemente di coesistere. Per cambiare la storia, come ci ha mostrato Tarantino, oltre la polarizzazione del gusto, con la forza dell’umano petere ci vogliono ben altri politici presupposti.  
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LE STORIE CHE SAREMO 
La pandemia, il 2020 che gli olistici hanno soprannominato l’anno dell’azzeramento: un Mondo governato dalla logica dei consumi in una bulimia generalizzata, l’accumulo ed il superfluo, che collidono, in una manciata di giorni, con uno stato di Realtà capovolto e traumatizzato nel suo ordine innaturale.
La socialità è azzerata, i contagi impennano come solo certi romanzi storici e saggi hanno saputo testimoniare, gli obitori stracolmi, la sacralità del estremo congedo nella possibilità di elaborare il distacco è negata dalle circostanze, le sirene sono il continuum sonoro sul tracciato di cuori infranti dal dolore irreversibile dell’impotenza.
Sette autori, reagiscono all’urgenza di una creativa soluzione, di ritrovare la loro utilità sociale, dare nuovo senso e nuovo sostanza alla paura che annienta. La memoria e l’immaginazione sono i motori della possibile rinascita, ce l’ha insegnato Schnabel e prima di lui un viaggiatore immobile, naufrago sulle sponde della solitudine.
All’isolamento, nel rifiuto di proporre la bulimia della routine domiciliare, Dionisio ha risposto il potere mimetico dell’introspezione, con nuove domande, lasciando al Tempo, lo spazio di dispiegare l’attesa di un riassetto, possibile in un respiro lento, interminabile ed imprevedibile, con la macchina in spalla a cercare le possibilità guardando indietro per scavare consapevolmente il futuro. (Mondo nuovo)
Il cielo è una nube grigia, l’alieno narratore dell’ ignoto spazio profondo di Herzog, ha figliato. La creatura bambina riconosce la devastazione a cui il padre l’aveva preparato, descrive il Nulla con gli occhi e le orecchie: riconosce il potere della similitudine, riconosce una sua simile, una bimba sul canotto giallo sembra tutta la speranza necessaria a spazzare il grigiore. Il colore è conquistato. 
Sulla cresta delle colline che verdeggia un felino si muove incerto ma sinuoso, quasi consapevole della propria crucialità salvifica nell’economia dell’isolamento, una donna in lutto sembra cercarlo con lo sguardo per ricomporre la diade, ella inconsapevolmente è mimesi di una superstite della guerra siriana che nel perdono vede la chiave per la pace. (Ma-MA)
La verità è che il contagio azzera le differenze, ma più di tutto i privilegi, e quando un partigiano dell’immagine autentica si sveglia e si ridesta, con un orecchio ascolta le prescrizioni del qui ed ora, con gli occhi e l’altro orecchio torna alla memoria agreste, alle radici ed alle matrici del cinema che gli hanno forgiato l’animo di resistente. Bertozzi conosce le radici profonde dell’immedesimazione, il cinema che meglio ha raccontato gli ultimi, quelli che il calamaio hanno imparato ad usarlo facendo le aste, quando il confinamento erano le frontiere interne e Schengen una chimera. (Mi sono svegliato)
“La vita è un viaggio sperimentale fatto involontariamente”, l’evasione è una soglia sottile, innestata tra la memoria ed il desiderio d’esser libero, d’essere inquieto e di dubitare… (Vite che non sono la mia)
In una Realtà dove è tutto fragile meno che la prescrittività di una regola, la famiglia la sua coesione ‘perduta nella disgregazione dei conflitto futile d’incompatibilità caratteriale, ritrova bagliore e vigore, nella negazione di una possibilità. 
La pandemia ricodifica a partire dal linguaggio in cui i significanti, sostanza della forza empatica dei sentimenti, sono deviati nel senso nuovo di pericolo: un nonno nella sua gestualità amorevole, ancestrale richiamo smantellato nella violazione della prossimità. (Assembramento)
La verità è che quando parliamo della necessità di un cambiamento di paradigma sociale, nell’accezione onnicomprensiva del temine, pensiamo di dover rifondare, non di ri-strutturare, ri-costruire. 
Le storie che saremo convince lo spettatore che la rivoluzione è possibile ed è iniziata; può iniziare e contagiare se parte dall’istinto di cercare le risposte frutto di una introspezione ed una nuova indagine nelle pieghe del passato, capace di illuminare il futuro e l’ignoto, nella Natura lineare ed incedente del Tempo stesso.   
Il carattere collettivo di questo lavoro è l’ennesima prova che il percorso è disomogeneo e il senso della ricerca di risposte tutt’altro che univoco, non per questo privo di illuminante bellezza.
Fino al 26 novembre disponibile qui https://www.mymovies.it/ondemand/archivio-aperto/movie/le-storie-che-saremo/?stars=1&fbclid=IwAR3uuopr9NH7bdLoWUkQG4gpL8uBIm9qAjnEQEYV-cRWwaxQOoUtY6M-i1g
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La vita è una giostra, la libertà le sfumature del mare
 -        E questo è maschio o femmina?
-        Secondo me è maschio…
-        E come si chiama?
-        Non lo so, però ha un bel nome.
 Maria ha imparato a non dare un nome proprio alle cose, nemmeno alla sua Cane femmina, compagna di mille risalite del Fiume, è femmina ma si chiama con tutte le onomatopee che la protagonista usa per tenerla al suo fianco, sulla terra ferma con il guinzaglio che fatica a starle in tasca. Senza un nome proprio, gli animali (verso i quali comunque Maria dimostra comunque un’inconsapevole empatia particolare) e le persone restano a distanza, sotto controllo.
Quand’era adolescente, nel giorno della sua prima comunione, Maria è scomparsa e poi ritrovata lungo il fiume tra i pesci immobili, abbandonata alla corrente, nel suo abito bianco insanguinato, la sua innocenza rubata. L’ha trovata Pengue, il giostraio felice della propria arte, col potere d’offrire la leggerezza della felicità, in un giro di giostra con la forza cinetica e terrificante d’una centrifuga che sprigiona sorrisi ed occhi serrati nel medesimo istante. E’ quell’empatia acerba, che lo affascina e lo fa resistere in un microcosmo che non concede spazio a scampoli d’umanità. Pengue adagia la ragazzina sulla sua barca, l’avvolge in una coperta, di quelle assemblate con la pazienza e il lavorio delle mani che appartengono a donne d’altri tempi: un quadrato dopo l’altro, un po’ al giorno le azzurre sfumature del fiume acquistano la consistenza per produrre calore al contatto con la pelle umana.
Oggi, quella coperta color del fiume, è il cuore d’una maglia che Maria indossa senza pause, è divenuta la sua armatura, il cappuccio il suo scudo, per farsi un tutt’uno con il cielo perennemente minacciato dalle nuvole e dalla pioggia, sopra di lei. Quella felpa racchiude la sua storia ed al contempo è memoria della sua ferita indicibile ed inscindibile dal suo corpo violato che rifugge la nudità pur conoscendo i gesti della cura, quando si ritrova a dover riportare alla Vita la madre catatonica.
Lavora per donna Marì, la sua guida in una vita da riscattare dopo essere sopravvissuta, ha imparato una ritualità contro natura per la sua essenza femminile: è diventata il braccio umano della donna che sfrutta la prostituzione offrendo ai figli indesiderati di quelle donne un futuro diverso. “I figli sono di chi li desidera non solo di chi li fa” è una verità profonda tanto quanto l’argomentazione più forte d’un’etica perversa: in questo modo Donna Marì si rende indispensabile in quel luogo di umanità ultime, con le madri biologiche – generatrici di vita che fanno dei figli il loro bene più prezioso con cui scambiare la loro stessa sopravvivenza, creatrici con essi della loro stessa dignità. Non chiedono altro che sopravvivere, non riescono neppure ad immaginare di salvarsi od avere un’ alternativa.
Maria si occupa di loro quando sono a termine della gravidanza, le traghetta al rifugio dove attendono di partorire, talvolta qualcuna di loro prova a scappare stregata dall’idea che la maternità le offra una possibilità di normalità concreta, fuori da quel microcosmo con la quotidianità scandita dalla nuova creatura a e suoi bisogni; proprio In questi giorni Fatima non si trova, Maria rifiuta il brodo di polpo come non fosse mai stato il suo preferito, divora gli gnocchi con insolità avidità, diviene fulminea nel evitare sguardi profondi e a proteggersi dalle domande quanto dalle intemperie.
Anche Maria aspetta un figlio, si ritrova senza parole a denudarsi per comunicare la notizia: lei non sogna di tenerlo, lei lo vuole per sé ed ora che il suo ventre s’è fatto dimora d’un miracolo deve pur esserci un posto pulito dove far sbocciare la vita.
E’ nata senza paura, con le mani meticolose per “imbastire cappottini di velluto” all’occorrenza con la stessa disinvoltura con cui richiama Cane al suo posto, o doma il cavallo nero, guardiano del mare ai confini del mondo conosciuto. Il fiume che Maria abita e conosce come le sue tasche, fino agli anfratti più nascosti e gli “avamposti” più alti, le scorre dentro, dal giorno in cui Carlo Pengue l’ha salvata; proprio lui le ricorda quanto sia catartico e potente per l’istinto versare le lacrime delle proprie sciagure. Da quegli occhi lucidi il fiume si vivifica, si fa nido della possibilità di rovesciare il proprio destino.
Ogni microcosmo, come ogni minoranza ha i propri margini che donano identità ed insieme unicità alle umanità che include: ecco che allora rifondare la famiglia attraverso coloro che sono stati disconosciuti dalla comunità stessa, acquisisce pieno senso ricordandoci che sono l’anomalia e l’empatia gli ingredienti primi dell’umanità che resiste e condivide.
La libertà di scegliere (e di scegliersi) artefici del proprio orizzonte non è un campo vuoto ma il sole rosso che entra nel mare.
Edoardo De Angelis, con questo film scrive l’autentica genesi delle “Cronache umane lungo il Volturno” facendo del suo precedente Indivisibili un’ opera indispensabile per imparare a conoscere (ed amare) questi luoghi tanto apocalittici quanto brulicanti di Vita resistente e determinata, che vive la quotidianità a pochi passi di distanza dai propri stessi sogni. Se Indivisibili raccontava il dolore e la crucialità di una scelta particolare, ora Il vizio della speranza chiede allo spettatore di scegliere che tipo di persona vuol  essere, senza usare la ridondanza delle parole o la carnalità dei gesti. I volti e gli sguardi dicono tutto della bestialità e della grazia umana: sia la prima tenuta a bada con un sigaro tra i denti, o la seconda incarnata nella pietà sorprendente di un’ inaspettata sepoltura.
De Angelis propone la rifondazione dell’Umanità costruendo un racconto ritmato dalla risolutezza dell’istinto e il potere della memoria, lasciando fuoricampo la retorica delle parole e le didascalie all’umano vibrare.
Per insegnarci a resistere, per imparare a (ri)costruire.
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                                                                                                 A Luca,
                                       che mi ha insegnato ad amare questi luoghi
      dalle rive del mare fino ai crateri dove la terra disegna le arene.
  DOGMAN : la cura nelle mani e il sacrificio nel cuore.  
Ricordo ancora oggi il salto nella poltroncina che ho fatto con la sequenza iniziale di Gomorra quel colpo di pistola alle spalle, talmente assordante da procurarmi quasi un’allucinazione olfattiva di polvere da sparo.
Col tempo, ho scoperto essere una soluzione ricorrente negli incipit di Garrone, una collaudata tecnica immersiva per farti entrare emotivamente ed immediatamente nel mondo narrativo delle sue storie.
A tal riguardo l’icipit di Dogman non è da meno: un mastinoide abbaia ferocemente mostrando in denti in primo piano infastidito dall’acqua che Marcello distribuisce accuratamente nel suo manto insaponato. Quel verso rabbioso sovrasta la voce di Marcello che inneggia alla calma puntando sulla brevità dell’atto, appena la bestia si placa un momento, si sovrappone l’aspirapolvere che asciugherà la schiena e il muso labbroso del cane, che improvvisamente in quello sbuffo d’aria rumoroso riconosce un momento di piacere.
Marcello nel suo negozio, dimora di sacrifici e rinunce, si prende cura dei cani, come fossero bambini, figli, creature che in quel luogo si spogliano delle loro peculiarità razziali o specifiche inclinazioni; sono i protagonisti e fruitori di un’ arte della cura fatta di gesti piccoli, parole evocative e mani sapienti.
Marcello è un’ uomo di bassa statura con occhi enormi, zigomi scavati fronte spigolosa, mani tozze nodose e callose, dedite al servizio del benessere altrui. Ha anche un segreto, come suo scrigno, di cui solo sua figlia Alida ha la chiave: un sorriso aperto, larghissimo che, nei sui denti irregolari e sproporzionati per la sua stessa bocca, quando s’apre pare un’ epifania. Solo Alida sembra conoscere le combinazioni per quel miracolo: l’amore di suo padre la fa sentire importante e consapevole del suo ruolo salvifico in quella reciprocità. Hanno il loro mondo, sotto il livello del mare, dove si incontrano nella magia dell’ antigravità, dove il mondo torna “dritto”: Marcello è padre lì sotto, Alida è al sicuro e il contatto fisico, la prossimità scrivono la loro relazione nell’ autenticità del bene.
Marcello ha aperto il suo negozio in periferia, il lato ovest di un quadrato con al centro un parco giochi che, dopo il tramonto, s’intona perfettamente con le pareti di palazzi che chiudono l’orizzonte umano in un’ arena di gladiatori. I suoi colleghi – vicini lo conoscono lo rispettano, conoscono Alida, sanno che tutto quello che di buono c’è nel suo fare, è per amor suo e i suoi desideri da esploratrice marina .
La dedizione e la qualità del lavoro però, non pagano, non abbastanza, e così Marcello col suo spirito resiliente e la sua pragmaticità sgangherata si ritrova ad accettare lavori sporchi per potersi garantire i suoi momenti di pace con sua figlia. Un furto, un prestito per droga, un altro furto in nome di precarie promesse per un presente più semplice, meno buio pur nella fatica.
Ci sono angoli di mondo in cui anche le indoli più positive perdono l’innocenza, posti dov’è impossibile restar puliti e sopravvivere; il quartiere di Marcello è uno di quelli.
Nonostante questo Marcello non può morire: resta lì col suo errore più grande sulle spalle, a guardare l’alba riempire il giorno di luce, il suo cane ascolta la sua solitudine piangere solo con gli occhi, seduto al centro di quell’arena vuota, quell’orizzonte chiuso che gli nega un futuro per mantenere la promesse al suo amore più grande.
Non vedevo una sequenza finale così potente da molto tempo: pur nella disperazione, c’è così tanta poesia che da spettatrice totalmente immersa ho visto arrivare il cammello de Le meraviglie di Alice Rohrwacher, metafora del potere straniante dei desideri esauditi.
Nel film di Garrone, le conseguenze di una fine (cercata) hanno i poteri magici dei fuochi fatui delle ballate di Coleridge, e il coraggio di raccontare poeticamente dell’umano orrore, che è anche l’umano errare.
Ho riconosciuto subito, da lontano, i luoghi dove il film è stato girato, aveva qualcosa di famigliare, ho “rivisto” la terra di Indivisibili di De Angelis ma con una sostanziale differenza pur nella coincidenza geografica: la storia e il destino delle gemelle, si affacciava al mare aperto, cornice ed insieme limite ultimo di quel cammino. Nel destino di Dogman, il suo quadrato, il suo quartiere, sono l’arena, il vortice in cui il suo percorso di dipana per ripiegarsi, senza alternativa. Forse è davvero la città, che in un modo o nell’altro chiama a sé i suoi abitanti, senza distinzioni.
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D’ incoscienza e amore si nutre La terra dell’abbastanza
 -        Non piagni mai…
-        Perché nun me viene
-        Allora non t’è mai capitato niente di grave…
 Sin dalla prima inquadratura m’è balenato in testa il pensiero che il film dei Fratelli D’Innocenzo iniziasse, dal punto di vista cinematografico, alla fine di Dogman di Matteo Garrone. Attribuisco questa prima sensibile suggestione all’eco di quella che, Hugo Pratt, poeticamente chiamava l’ora blu: a ridosso dell’ imbrunire, quando il tramonto si prepara a dissolversi nel buio. In Dogman la stessa ora blu incornicia il futuro impossibile del protagonista, consapevole del proprio destino.
 La terra dell’abbastanza inizia in quello spazio-tempo sospeso tra due momenti della giornata, immerso in silenzio anomalo, lontanissimo dal frastuono capitolino, in una macchina parcheggiata in un’arena di cemento. Attraverso i finestrini, i due protagonisti con le facce immerse nella stagnola trangugiano i loro panini, ridono e scherzano, complici in quel fragore dal sapore di cicoria che contamina tutto, e rimane incastrata tra i denti.
Mirco e Manolo sono amici fraterni dalle elementari, inseparabili diciottenni senza segreti, sull’ orlo di quel bivio su cui s’affaccia il loro futuro certo solo della precarietà. Stanno tornando a casa, sfrecciano sulla strada deserta, un ostacolo blocca la corsa all’altezza del campo sportivo, dal lunotto posteriore dell’auto si riconosce una sagoma immobile in un silenzio assordante.
Quel tonfo sordo che ha fermato la macchina ha cambiato tutto: l’irreversibile si manifesta come impotenza, risponde fulmineo il panico.
 Ho sentito spesso dire, sin da bambina, “errare è umano” (spesso decurtata del perseverare data la mia educazione da non credente) ma quello di cui mi sono resa conto, alla fine del film dei D’Innocenzo, è che personalmente, sono stata educata a sbagliare: a considerare l’errore una tappa per comprendere le implicazioni di una direzione da seguire. Una possibilità in divenire.
Per i protagonisti del film errare non è contemplato, ad esso non c’è rimedio; agli occhi del padre di Manolo è un’ occasione, un’alternativa reversibile quanto le conseguenze di un vizio divenuto patologico.
Gli amici restano insieme, non conoscono un equilibrio in assenza dell’altro: Mirco è l’attore delle potenzialità che la scorciatoia offre, Manolo al momento della scelta ne diviene pura incarnazione, in quelle nuove apparenze, nasconde l’espiazione di una colpa incomprimibile. Per Mirco, l’umanità dell’errore diviene escalation del macinare pensiero, del senso di colpa che imprigiona e tutto sgretola senza soluzione.
Le azioni post-traumatiche dei due amici diventano specchio di puberale incoscienza agli occhi degli adulti, e d’ altra parte il riflesso del senso di colpa al lavoro sulla scacchiera degli inscindibili destini.
 Quello che ho trovato, a dir poco, non ordinario nel film dei Fratelli è la capacità di proporre allo spettatore molteplici sfumature ad ogni atto della vicenda, attraverso le peculiarità dei personaggi, pur nel loro essere così indissolubilmente legati dalla reciprocità più autentica.
Secondariamente, ma non per importanza o per minore potere espressivo, risultano determinanti le soluzioni della messa in scena, la scelta di scavare le singolarità dei protagonisti nella mostrazione oltre il tempo della visione narrativa, di dettagli fisici-corporei. Questi ultimi, di volta in volta divengono indizi di acquisizione d’autorevolezza; mentre il Mondo s’anima delle ombre notturne e la luce diurna si fa accecante.
Oltre ogni aspettativa, La terra dell’abbastanza, nelle sue pieghe più nascoste ed insieme profonde, dispiega una grande storia sull’amore, sul suo essere indispensabile alla Vita, al ri-conoscimento di sé stessi, al di sopra d’ogni regola ed entro la finitezza d’un corpo che respira.
 Gratitudine, è la parola che resta indispensabile.  
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Reading Bloom presenta: Brussels Loops di Shirley Clarke  (Live soundtracking by M. T. Soldani)
Ecco il mio contributo più recente al progetto #projectshirleyclarke promosso e sostenuto con dedizione da #readingbloom realtà distributiva indipendente nata per promuovere opere sperimentali. Qui presentiamo il lavoro di sonorizzazione dal vivo di Maria Teresa Soldani delle opere realizzate per l'Expo di Bruxelles del 1958.
https://medium.com/@readingbloom/brussels-loops-di-shirley-clarke-musica-originale-dal-vivo-di-m-t-soldani-f1edc622595c
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(A SORPRESA) IL TIMBALLO DI MACCHERONI E’ UNA SPECIALITA’ LOMBARDA
Appunti e divagazioni su Call me by your name
 Elio è alla finestra con la sua amica Marzia, aspetta l’arrivo dell’ospite d’estate, lo guarda scendere dall’auto che lo ha portato alla villa della sua famiglia per trascorrere le sei settimane più calde dell’anno tra spunti per nuove ricerche ed ozio intellettuale. Elio, con lo slancio e l’irrequieta frenesia dei suoi diciassette anni lo chiama l’usurpatore: senza avergli ancora neppure stretto la mano è come se potesse intravedere la portata del loro imminente incontro.
Elio è una ragazzo prodigioso, creativo in modo appassionato senza limiti alle sue stesse possibilità. E’ il figlio unico d’una coppia più che benestante, appena uscita dagli anni cocenti del cambiamento portato dagli anni Settanta: è per questo che tutto è possibile e tutto è concesso, purchè esso si manifesti. Elio nei suoi capelli selvaggi, ancora accarezzati ingenuamente dalla madre, durante le letture serali ancora condivise, sintetizza tutto ciò che, il suo corpo magro e non ancora (s)colpito dai segni del tempo e dell’esperienza, non può ancora raccontare.
L’ ospite Oliver, dal canto suo, ha una decade d’anni in più sulle spalle, un fascino virile capace di mutuarsi in silente complicità, schiusa nei dettagli: che sia all’ombra di un albicocco o al chiaro di luna quando tutto è silenzio.
Tutto ha inizio con una porta che sbatte, senza chiave nella toppa. La chiave è rimasta davanti al Monumento ai caduti del Piave, quello stesso pomeriggio: quando Elio ha confessato ad Oliver la propria impura innocenza. Quella chiave, aprirà il cuore del ragazzo dall’interno senza soluzione di continuità con il conosciuto ed il prevedibile.
Guadagnino porta al cinema il romanzo di Andrè Aciman, direttamente da una sceneggiatura di James Ivory: il risultato è unico ed efficace, ancor prima che nella messa in scena, rispetto le scelte dell’intreccio. Non esistono ancore razionali: tutto è spinto dal vortice emotivo vissuto dal protagonista, diviso tra le sue acerbe certezze del suo prodigioso talento e le gemme della consapevolezza annaffiate dal maturo Oliver, stregato dalla purezza delle prime volte di Elio.
Per buona parte del film sembra di essere stati teletrasportati dentro la dimora e il microcosmo del Gattopardo, la sua ridondanza d’altri tempi, ma mai fuori dal tempo, la stessa consapevolezza (nei personaggi) che una rivoluzione interiore finirà per compiersi e con essa una scelta è alle porte: farsi attivi testimoni d’un tempo perduto o sopravvivere ed incarnarsi in una ferita che forse mai si farà cicatrice?
 Se inizialmente tutto è esplicito e le parole possono spiegare e dire tutto (anche troppo), più la relazione diviene profonda man mano i protagonisti entrano e diventano padroni dei loro reciproci corpi, incontrando il limite. La scoperta del limite, delle finite possibilità d’ un orizzonte d’esperienza è ciò che immette autenticità nei gesti e nelle emozioni.
In queste scelte narrative precise c’è molta dell’esperienza di Ivory che, per raccontare questa storia, ha fatto tesoro della forza umana di A soldier’s daughter never cries tanto quanto della potenza nella muta complicità e lentezza dell’Uomo tanto quanto della Natura appresi direttamenti da Ishiguro (The remains of the day).
Così come il carattere esplicito delle parole, il film di Guadagnino risulta a tratti eccessivo nella contemplazione (che diviene autocompiacimento) e talvolta presunzione di poter sottotitolare il sentire delle emozioni e dell’esperienza. D’altra parte, a suo pro il regista, s’arrotola le maniche, si costruisce una corazza d’ orgoglioso coraggio per raccontare l’Amore a tutto tondo, dalla luce del sole fino alle lacrime più nere che solo la neve ad Hanukkah può pacificare (Inarritu docet).  
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JULIAN SCHNABEL: A PRIVATE PORTRAIT 
IL TUFFATORE, SURFISTA DELL’EMOZIONANTE IGNOTO
“E’ nato il 26 ottobre del 1951, è stato un parto difficile, tutti avevano grande riguardo nei suoi confronti, era il primo a ricevere il biberon; credo sia stato lì che ha cominciato a sentirsi speciale”.
Julian Schnabel ci viene presentato così dalla sorella maggiore ma, per noi spettatori la storia d’artista inizia con il suo tuffo nel mare siciliano di Li Galli.
Subito balena in mente “La tomba del tuffatore” del Museo di Paestum, quella sagoma lanciata nel vuoto, sospesa ma destinata ad incontrare il mare, Visivamente il richiamo non è diretto: l’affresco bidimensionale non può che immortalare la sospensione d’un’intenzione, mentre qui il corpo possente lanciato verso il mare raggiunge l’acqua e la macchina da presa segue la fine del tuffo tra schiuma e schizzi.
Il fatto è che, nel ritratto che Corsicato dedica a Schnabel, fuori i riflettori del successo e della vita pubbilica, c’è qualcosa che richiama un’atmosfera senza tempo, con sfumature d’ancestrale ancor prima che archetipico. Corsicato cerca di fornire ad ogni fase della vita narrata del personaggio, “un’ancora” narrativa, personale ed al contempo universale (talvolta con episodi biografici precisi, talvolta con testimonianze familiari) finendo poi sempre per farsi testimone di una costante urgenza creativa: di un’ arte inscindibile dalla quotidianità dell’artista.
Schnabel ha sempre vissuto per essere un’artista: centinaia di disegni dei suoi primi anni sono andati perduti: e in un attimo lo spettatore si trasforma in un cercatore o restauratore d’una storia inconoscibile al pari di uno studioso del cinema muto, del periodo in cui le pellicole erano riciclate. E’ come se dai primi minuti del film ci si rendesse conto di essere di fronte ad una storia impossibile da raccontare, come le storie dei tesori, non perché Julian Schnabel sia criptico ma fin troppo umano, non volubile ma percettibilmente irraggiungibile.
Cresciuto, fino alla maggiore età, “incontaminato” dall’Arte la sua Vita esplode quando la sua famiglia si trasferisce in Messico ed egli diventa straniero d’un mondo ignoto. Infila i guanti e spalma i colori su tele enormi, fuori all’aperto, lontano dalla piccola casa americana dove aveva vissuto.
La sua carriera esplode negli anni Ottanta a New York: la sua pittura fisica, viscerale ed insieme figurativa, inonda il mondo dell’arte concettuale, che spopolava all’epoca, con la potenza d’un onda oceanica che solo un abile surfista riesce a governare.
Molti anni dopo gli inizi, chi lo conosce da vicino, a più riprese, lo definirà il pittore con la gestualità eloquente d’una idea, mentre lui stesso spiegherà di dipingere per rappresentare ciò che non conosce, per conoscerne la sensazione.
La pittura per Schnabel è salvifica, una soluzione per le questioni che la Realtà gli pone: siano esse la perdita di una persona cara o semplicemente l’urgenza di decifrare uno stato  interiore. Dipinge all’aperto perché è nell’imprevedibilità della Natura che l’opera, in un secondo momento, diverrà comunicativa appesa o parte di uno spazio interno.
E’ nella Natura che la Vita libera le radici ed inizia l’umana esperienza: non è un caso se ogni figlio di Schnabel abbia con lui una memoria di condivisione lontano dalla città; ciascuno di questi episodi, contemporaneamente, ha in sé la portata di un momento iniziatico in senso profondo.
In questo ritratto di Schnabel, artista per vocazione, il cinema resta sullo sfondo, non certamente per minore rilevanza, ma perché l’incontro-scontro con la settima arte è, l’evoluzione dell’urgenza di raccontare storie: intreccio di memorie emozionali e vicende a lui ignote.
Allo spettatore, estimatore dello Schnabel cineasta, non resta che cercar dettagli evocativi dei suoi film, durante gli allestimenti espositivi: uno su tutti il Masp di San Paolo, dove un palazzo si intravede dietro una leggera tenda avorio mossa dalla brezza proprio come il giorno in cui Bauby scrisse la prima pagina de “Lo scafandro e la farfalla”.
Schnabel congeda il suo spettatore così come l’aveva invitato ad entrare nel suo mondo, con quel suo ottimismo, che non è autostima ma “cieca fede”, nel suo essere abitante di un Mondo in cui il bianco (della purezza) non è mai abbastanza, e il pennello è sempre pronto.
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Ecco la mia ultima scoperta, la prima di una serie, almeno quanto è lunga la filmografia di Shirley Clarke.
Per scrivere questo pezzo ho ascoltato all’alba Kind of blue a paletta nelle cuffie chiuse, ne sono uscita stordita e rinvigorita insieme.
Grazie a Reading Bloom prima, e Inverso poi.
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Chi l’ha detto che due binari non si incontrano mai? Nello scambio s’intersecano. “Niente sta scritto”
Sopra le cime degli abeti dove la nebbia resiste, ancora troppo bassa per diradarsi, ai piedi del cielo, ancora lontano dall’omogeneità polverosa e densa del gesso. Una voce racconta una scalata, il potere del dislivello, come il corpo reagisce diversamente, come s’adatta velocemente, al silenzio rimbombante, l’attenzione si alza, la concentrazione schizza su particolari salvifici. I dettagli di gambe muscoli e piedi al lavoro, sembrano come brulicare, da una parte all’altra dell’inquadratura, come formiche operaie al lavoro per la sopravvivenza.
Giù in città qualcuno legge questo estratto: si emoziona di tanta densità di scrittura, almeno tanto quanto della forza e la determinazione dell’autore. L’autore di questa scalata è Piergiorgio Cattani, attivista e scrittore trentino abitante tra le sue montagne.
Riconosco quella densità, molto bene, le scritture di chi non può correre con i piedi ma solo con le ruote (o con la lingua) spesso si somigliano: è lo spessore dei pensieri che non potendo cercare la leggerezza nella mobilità fisica cercano scavando nel potere empatico del dettaglio. Nella scrittura il dettaglio si dipana diviene preciso, mima minuziosamente le azioni che un “viaggiatore immobile” può solo immaginare.
Piergiorgio respira regolare nel suo letto, legge fiumi di pagine, racconta il Mondo di cui è abitante il suo fluire inarrestabile. Il respiratore devia il flusso del suo fiato che deforma la pronuncia delle parole che il suo assistente decifra in un baleno, il volume e l’intonazione del suo dettare sono soldati che marciano a scandire argomenti taglienti ed argomentazioni mai banali sulle paure del mondo. Il suo assistente personale esegue prontamente, senza farsi troppe domante, è lui il donatore di una quotidianità possibile, di una ritualità magneta che cattura anche chi si è offerto di testimoniare questa storia per immagini.
Il regista resta a guardare, facendosi invisibile, il suo sguardo nudo d’ogni compiacimento dilata il tempo della visione per portare allo spettatore il valore – ed il peso – della lentezza, qualità troppo spesso bistrattata dalla frenesia urbana e contemporanea. Coglie i gesti della cura ed è testimone d’una partenza, un passaggio di consegne mai uguale, se in ballo c’è l’umano equilibrio di qualcuno e del suo stesso universo. Zuin indugia nei luoghi che si riempiono e si svuotano, di volta in volta, stratificandosi degli umani passaggi.
S’è vero che niente sta scritto è altrettanto vero che la Natura è testimone di tutto, quando l’aria è satura le testimonianze troppo “dense” è la natura a riequilibrare l’indicibile, a riportare lo spettatore di nuovo nel Mondo.
Martina sull’aereo, ascolta concentratissima qualcosa dalle cuffiette: vola verso il Kenya, non è mai stata in Africa, tra un po’ di timore e un pizzico di imbarazzo, consapevole della sua prima fortuna essere nata nel “primo” Mondo. E’ un’atleta, ha perso la gamba sinistra in un incidente in moto, in una scuola femminile, racconta la sua storia in una lingua non sua, non può far altro che parlare in modo semplice, gli eventi salienti di una vita stravolta in cui ha vinto la volontà di ricominciare e l’incertezza di riuscire. Parla piano, guarda le ragazze negli occhi cercando nelle braccia la forza per non lasciarsi sopraffare dalle emozioni.
Tra gli ultimi in una struttura riabilitativa keniota, gli artigiani del legno sono la risorsa più preziosa per chi cerca di nuovo una mobilità funzionale, una possibilità per non restare ai margini d’un mondo lontano e svantaggiato rispetto a dove ha svoltato la vita di Martina.
Marco Zuin sceglie di frammentare il racconto di due esistenze (qui) non destinate ad incontrarsi raccordando i due percorsi nel loro andare diverso ma parallelo. L’anomalia dell’andare guida la narrazione per contrasto.
La presenza “ritmica” di Piergiorgio (scandita dal respiro e fisicità particolari), la sua lentezza si rivelano armi potente nell’imparare il valore dell’attesa: che sboccia in un giorno feriale con una nomina istituzionale, o una passeggiata fino al museo di Storia Naturale.
La disinvoltura di Martina, nell’agganciarsi l’arto funzionale, ci racconta quanto l’esteriorità di ciascuno riveli solo l’ultimo frammento d’un percorso esperienziale invisibile agli occhi; altrettanto disarma il suo coraggio nel suo sorriso più aperto quando saluta la montagna dallo snowboard.
Due persone, due universi si raccontano tra abitudini e prime volte in due storie di Vita in cui la diversità ha preso il timone della quotidianità ma non il sopravvento.
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Face – Esposizione di Redville (Off Bologna 23 ottobre – 18 novembre)
  HO SEMPRE SOGNATO DI BACIARE GRACE JONES (Carmen Nemrac)
All’Off di Bologna, tra le bottiglie esposte, s’è infrattato Babau, un mostrillo tutto rosa ti invita ad entrare alla “We want you”. Il mostrillo rosa shockin’ (come lo chiamavamo da piccoli) è l’ultima creatura di Redville (Benedetta Bartolucci), arrivata con l’aria frizzante di fine primavera destinata alla celebrità, a scrivere il proprio futuro con la saggezza dei suoi tre occhi da non corvo, ma un po’ cervo.
La mostra inizia con un tuffo nel blu bestiale, denso come il sangue delle bestie impaurite dall’odore della morte, il sangue blu: nobile per definizione ma carnale nelle intenzioni.
I moltheniani titoli delle opere, dal primo all’ultimo, scrivono una storia parallela a cio’ che il cavernoso spazio – nell’accezione platonica del termine - ci invita a cercare alle pareti: occhi bocche, facce, persino barbe e fasi del sonno alterate da alcool e ombre. I titoli restano la chiave per provare a decifrare l’universo interiore dell’ artista: la sua memoria e la sua immaginazione sono la materia prima delle sue creazioni, colei che vive la sua vita senza paura del dolore e delle ferite se questo regala verità e profondità al vissuto.
Per riuscire a tuffarsi letteralmente in questa parentesi blu occorre prendersi il tempo per guardare, percepire la stratificazione che spalanca l’umano orizzonte; ciò che un altro artista del confine tempo fa ha rappresentato come i 21 grammi che fanno la differenza, nel disegnare ogni singolo destino.
Ciascuna opera è un tributo all’umana esperienza che, ad ogni tappa, mette a fuoco un dettaglio, emerso come un ancora narrativa, dal caos blu spesso scontornato nel giallo.
La pace, è partenza e finale di un girotondo di corpi, dei loro stessi umori interni, è sintetizzata nella distinta chioma bionda che incornicia il profilo di un volto (finalmente o no)  rosa plastic barbie: terreno e superficie per occhi serrati, o forse, accecati di Vita. Occhi rivolti al dentro, al richiamo del cuore, in ascolto di quell’amore e di quel sentire che tutto muove.  
I miei occhi sono i tuoi poco importa se mi vedi, ti vedo. M’hai scavata da dentro, il mostrillo almost fucsia, obeso e leggiadro è il nuovo ossimoro interiore: le conseguenze dell’amore.
Incontrare le facce di Redville è un viaggio dentro un ellisse: un non tempo per ridisegnare l’identità, uno spazio dove le geometrie diamantesche e i colori primari cercano il loro posto nelle sfumature, coadiuvate dall’indeterminatezza delle forme, metafora dell’autorevolezza del sentire,
Il volto si stratifica, attraverso la tecnica creatrice della faccia stessa, schermata nel suo profondo sentire dalle apparenze spesso disturbanti che se non attraggono lo scavo, al contempo scherniscono chi non riesce a cogliere l’ironico strato di colla idratante che invita a non abbassare lo sguardo.
Le facce di Redville, sono tattili alla vista e vorticose oltre il tempo della visione puramente narrativa.
Invitano al contatto e all’empatia con i (s)oggetti delle opere, protagonisti di carnali ferite ed umane tragedie.  
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Loving (We are hopeful)
Primavera 1952, è tarda sera Mildred è seduta sul porticato della casa della sua famiglia, accanto a lei è seduto Richard: stasera non riesce a guardarlo negli occhi mentre gli comunica di aspettare il loro bambino. Mildred tiene gli occhi bassi al grembo, il suo profilo pare dorato nella penombra della luce, la stessa che fa risaltare solo i capelli quasi albini di Richard, uomo possente di poche parole che l’emozione tutto trattiene. E’ in questa penombra di complice meraviglia di corpi simmetrici che sul volto di Richard si disegna un sorriso crescente e l’attesa si scioglie nei due palmi che si intrecciano.
Così inizia Loving la storia d’un amore d’altri tempi, la prima unione interrazziale pubblica della memoria storica americana. Richard è meccanico e muratore in Virginia, vive con la madre che fa la levatrice poco distante da dove abita la famiglia di Mildred.
Presto Richard e Mildred saranno una famiglia: lui vuole costruire la loro casa e quando compra il campo, sceglie l’ancora immaginaria camera da letto, per la proposta di matrimonio.
Viaggiano tutta una notte per arrivare a Washington dalla Virginia: la licenza di matrimonio sarà la prima cornice appesa, a sancire l’orizzonte del loro Amore agli occhi del Macrocosmo che entrerà nella loro Casa.
I primi visitatori, li sveglieranno nel cuore della notte, per portarli via dalla loro quotidianità e ne sanciranno l’esilio per venticinque anni se, da “colpevoli” vorranno evitare la prigione.
L’amore è sentimento semplice e profondo, i Loving non chiedono altro che Vivere insieme, crescere i loro figli dove sono cresciuti loro, con le loro famiglie intorno. Mildred non accetta d’essere sradicata dalla sua Terra, dalla sua casa perché ama un uomo coraggioso, pronto ad essere l’unico bianco della sua stessa comunità dov’è amato e rispettato. I desideri e la possibilità di essere, nel quotidiano Vivere, quale potenza e atto delle proprie aspirazioni, sono le armi più potenti di ciascun Essere Umano. Senza riflettori ne’ parole altisonanti, la gratitudine di Richard alla sua amata è tutto ciò che il Mondo dovrà ricordare di questa storia: l’amore è la gemma per la più profonda reciprocità.
 Nichols sceglie una storia lineare, come una linea cronologica immaginaria per raccontare un amore con molti nemici, identificati con il Fuori e gli amici animatori di una domiciliarità comunitaria inclusiva senza gesti eclatanti: le scene conviviali sono il riflesso dello scambio possibile.
L’utilizzo della scala dei piani, nella sua fisiologica progressione, coadiuvano una narrazione di quotidiane sequenze con le digressioni negli universi interiori dei protagonisti, affidate ai loro stessi volti scavati dalle ottiche, che indugiano oltre il tempo della diegetica narrazione.
 E’ meraviglioso poter vedere quanto l’amore può essere raccontato nei gesti, nei silenzi e nel coraggio che muove una volontà al cambiamento: nel tempo in cui è ambientata questa vicenda la complessità esisteva: era parte d’un mondo che voleva migliorarsi. Oggi la complessità galleggia la superficie d’ogni evento, persino d’ogni sentimento, scava la ricerca d’un autenticità che la presenza (umana immagine) non riesce più a trasmettere nel suo agire e manifestarsi. Per questo, decifrare il sentire della prima sequenza è così difficile, fino a che le mani non si intrecciano. 
Tutto è diverso, da quanto tutto è cambiato.  
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Blade Runner 2049 
Dopo una breve didascalia che ci racconta l’ellisse tra la matrice e il suo sequel entriamo direttamente nell’extramondo e subito siamo catapultati nella stessa rarefazione psicofisica in cui ci aveva lasciato Denis Villeneuve col suo ultimo lavoro.
Gli umani sono pietre miliari solo per quanto sono rari, non quanto rassegnati ad essere l’ultimo anello di una catena monoalimentata a proteine condensate, al riparo solo da un cielo, bianco gesso, immensa discarica del non riciclabile metallo e composti.
I replicanti di nuova generazione, non più schiavi anzi, schiavi della società consumistica al pari degli umani appena una generazione prima, vivono del loro lavoro, senza più desideri e aspirazioni, solo alimentati da un’omologata domanda di consumo da parte degli stessi portatori di domanda.
La minaccia sono i Nexus 8, i primi replicanti, quelli che abbiamo amato nel primo film, i “figli di Rachael” quelli nati dal suo prototipo, quelli creati per desiderare ed interagire con gli umani senza esserlo. La caccia alle streghe s’è aperta nel 2020 dopo un megablackout, alcuni di loro sono stati presi, altri si sono nascosti, altri sono dovuti andare via. Molti di questi sono stati testimoni di un miracolo: una creatura che presto diverrà la chiave per costruire un ponte tra due mondi che possono di nuovo schiudersi l’uno all’altro.
L ’agente K tra le file della polizia, ha appena ucciso uno degli ultimi Nexus, senza saper d’aver aperto una porta sulla sua storia, trasformandolo in un cercatore d’origini, eventi puri, ferite e memorie: gli indizi per una ricerca di senso, ma ancor prima d’una identità. La propria.
Neppure occorre anticipare che sarà un viaggio ai de confini dell’extramondo, dove l’Umanità s’è stratificata a tal punto da scolpirsi nella pietra con voluttà e finitezza divenuti idoli; la vulnerabilità è ciò a cui il colosso nella creazione dei replicanti aspira a riprodurre.
L’aspirazione dei creatori di artifici umani – non umani è la riproducibilità dell’Essere Umano: in realtà ciò che identifica l’umano e lo distingue da ciò (e da coloro) che vengono creati è l’esperienza e la consapevolezza del sacrificio.
Il mondo possibile di Blade Runner 2049 è un mondo senza umani destini, umane imprevedibilità, solo un pozzo senza fondo semi infinito di memorie autentiche, fecondate solo dalla Verità del vissuto. Questa verità è l’unica speranza rimasta, in un mondo senza seconde occasioni.
 Villeneuve firma il secondo capitolo d’una saga impossibile, le matrici sono come il monolite di 2001: Odissea nello Spazio, indicano la strada senza prendere una direzione perché sono esse stesse l’orizzonte. 
Il Blade Runner del 2017 è intenso e potente con sequenze memorabili (dalla mutilazione del ventre della neonata replicante alla lunga sequenza ai confini dell’Extramondo, solo per citarne due), ma manca della complessità e della pionieristica incoscienza di mettere in discussione l’Umana Superiorità.
Ciò che rende veramente godibile ed interessante questo film è la scelta precisa dello stesso regista di tornare al suo primo cinema, alla “narrazione investigativa” che lo ha fatto conoscere al Mondo (fuori dal suo Canada). L’agente K (e con lui lo spettatore) alla ricerca dell’origine e della sostanza dello stesso miracolo che lo ha reso parte del mondo in cui abita. Non era forse lo stesso enigma e la ricerca della pace a cui sono stati chiamati i gemelli di Incendies ?
 Dopo Blade Runner di Ridley Scott, tutti i mondi sono divenuti immaginabili, tutte le creature uniche, le anomalie amabili e le date di scadenza (o imperfezioni) dolorose ferite ed origini di Storie possibili (da raccontare).
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Dove cadono le ombre
 Chi conosce il cinema di Valentina Pedicini sa bene che prima delle parole ci sono i rumori ed i suoni del Mondo, tanto quanto prima delle scene madri dei corpi ci sono i loro silenzi.
Dal profondo iniziava con una discesa di cinquecento metri sottoterra per raggiungere le viscere del sottosuolo nel rumore degli ingranaggi in funzione, in Dove cadono le ombre la storia di Hanna e del suo amico fraterno Hans, inizia con i tacchi che attraversano con fermezza un corridoio interminabile che conduce in nessun luogo, si ripiega su se stesso in un labirinto di cui solo il Tempo stratificato nei decenni è padrone.
Hanna lavora in un istituto per anziani, un tempo abitava quello luogo insieme ad altri bambini portata lì dalle sue radici nomadi, vittima d’un sistema che credeva nel trionfo della superiorità razziale, nell’anomalia delle minoranze da estirpare.
Ha passato tutta la sua vita in quel posto, divisa tra la necessità di sopravvivere alla sua carnefice e l’amore trovato nella sua amica d’infanzia. Tutto il film si snoda nell’ossessiva ricerca di riconquistare la purezza del perduto Amore e la rabbia nutrice della vendetta. E’ come se Hanna non conoscesse il proprio corpo, quella carnalità repressa, la vitalità estirpata dalla sua stessa presenza, fanno di lei l’incarnazione della propria storia di sopravvissuta al terrore alla ricerca di una verità che solo il sacrificio (anche solo simbolico) alla propria vendetta le regalerà la libertà dall’orrore.  
 Valentina Pedicini esordisce alla finzione puntando le sue ottiche su una pagina sconosciuta della Storia Europea recente, scegliendo la stratificazione spaziale e il loop temporale (che rincorre passato e presente) come efficaci artifici per raccontare l’orrore e le sue indicibili conseguenze. Sceglie di non dare coordinate per contestualizzare, quello che solo alla fine verrà identificato come il “piccolo genocidio svizzero”.
Grazie alla bravura dei protagonisti, il terrore è messo in scena direttamente dal corpo dei personaggi congelati in un Tempo non scandito dagli eventi ma smerigliato da epifaniche scoperte, che ritmano il racconto abbagliando di luce la ricerca dell’essenza dei protagonisti stessi.
Credo che questa storia abbia molto in comune (cinematograficamente) con quello che Alix Delaporte, parlando del suo cinema definiva: un viaggio fisico dove lo spettatore non può mettersi comodo e subire la storia ma usare la propria intelligenza (emotiva) per decifrare il film e la sua storia tragica.
 I silenzi e i corpi irriducibili vibrano della Verità che l’orrore ha tolto alla Vita, all’orizzonte di possibilità che un’anomalia conferisce al senso stesso dell’esperienza.
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Moonlight.
Il silenzio è una poesia, le parole una selva in cui districarsi.
“At some point, you got to decide for yourself who you wonna be,
can’t let nobody made that decision for you”
 E’ questa la più importante consapevolezza che “Nobody” passa a Chiron little man a margine dello stesso pomeriggio in cui gli insegna a nuotare. Queste parole, preziose come un rifugio sulla strada di casa, guideranno il protagonista lungo tutta la sua storia, riecheggeranno ad ogni passo, della sua identitaria ricerca.
Chiron è da sempre il bersaglio dei suoi coetanei, figlio di una tossica e di un uomo qualunque, corre scomposto nel suo corpo magro e gracile, un fuso; gli occhi espressivi e penetranti di un incassatore per forza, dissimulatore per necessità.
La sua arma più potente? Il silenzio, di quello assordante che sovrasta le spallate, coadiuva la tempra nel cercare la verità più profonda nelle sincere risposte che seguitano rare domande. Risposte che Chiron trova quotidianamente a casa di Theresa, la compagna di Nobody  che lo nutre dopo la scuola, lo sostiene nei suoi affannati tentativi di prendere il timone di sé stesso, durante la sua indeterminatezza purile. E’ in uno di quei pomeriggi, davanti un succo d’arancia che il protagonista scopre il potere delle parole: il potere esoterico in grado di qualificare le cose e gli abitanti del mondo: un insulto è una parola generatrice di dolore, che il destinatario può ribaltare in un’ innocua etichetta.
Chiron però, è solo un ragazzo, rannicchiato nel guscio di una solitudine che ha qualcosa di ancestrale e di predestinato, è un ragazzo con un unico amico capace di vederlo per ciò che è: un ragazzo, suo pari. E’ uno contro tutti gli altri.
Kevin è l’unico a cui Chiron confida i suoi desideri, li esprime senza filtri, eppure con discrezione: concedendosi al chiaro di luna, un momento di pace in cui la quiete, si accorda al silenzio. Quella pace, effimera come un colpo di mano sulla sabbia, apre una ferita che diventa incomprimibile ma gli offirà la forza di alzare lo sguardo, dopo che per anni, ha sempre visto le suole delle scarpe dei bulli mettersi tra i suoi occhi e il cielo.
La luce della luna ha cambiato tutto: la profondità del contatto fisico gli ha regalato la consapevolezza di sé, senza alcun bisogno di cercare il perché nella ridondanza nelle parole, tutto è scolpito nel riverbero di quel momento, nella fisicità dei sogni.
Definire fisica la materia dei sogni è un ossimoro, eppure sarà proprio il muto desiderio di ritrovare quella pace che lo porterà fuori dal limbo della coercizione, alla ricerca di quello stesso ragazzo che, nel suo esserci, ha avuto cura di lui, ha scavato le corde d’un anima suadente con il cuore in tumulto che guizza quando si satura della muta attesa degli eventi.
Da adulti la cura è preparare il piatto speciale, scegliere una canzone per un ricordo, è la cura di un figlio.
La scoperta della Vita è in ciò che fai non in ciò che sei, perché ciò che sei è il tuo (primo) sguardo, la tua sagoma disegnata dalla luce della luna, testimone privilegiata della tua pace.
 Jenkins adatta McCraney, affidando ai corpi ai silenzi e ai “vuoti” dell’umana esperienza, tra attese e folgorazioni, la storia d’un bimbo che diventa uomo abituato alla violenza ed alla sopraffazione; educato all’ascolto di sé stesso e del proprio istinto.
In un mondo di corpi violenti, le parole sono sopravvalutate, gli eventi rari eppur pieni di poesia.
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Il padre d’ Italia
-        Andiamo verso Sud
-        Perché che c’è a Sud?
-        Niente…
 E’ dall’ultima tappa del viaggio dei protagonisti, che questa storia entra nel vivo e nel corpo di chi guarda, forse perché Paolo e Mia non sono più estranei l’uno all’altra, forse perché, alla fine dell’opera prima di Fabio Mollo, tutti eravamo rimasti con una risposta sospesa.
Paolo e Mia si sono incontrati a Torino, mille e trecento chilometri più a nord di dove sono diretti, nella penombra d’un locale dove Paolo cercava qualcosa di familiare a cui non sapeva dar forma ed ancor meno sembianze. Mia finisce tra le sue braccia perdendo i sensi disegnata dai suoi capelli fucsia e il giubbino glitterato d’un disegno old school.
Lui deve andare a lavorare, lei deve raggiungere Asti, che poi è Roma, che diviene Napoli che muta in un luogo dove sarà il mare nella sua vastità, l’architetto dei tre destini di questa storia.
Tre sì perché Mia è incinta.
Paolo sta con Mario da molto tempo, vive i suoi giorni senza orizzonte, disegna per sé un destino senza futuro con le radici nei suoi incubi d’abbandono e silenzio. Non possiede un corpo, non è mai riuscito a dare un volto a suo padre, rivive ogni notte la presenza di sua madre nel suo andarsene.
Mia fa la cantante, la musica riempie il suo spazio, la sua solitudine, si muove come una saetta spinta dal suo universo di luce e sensazioni che frullano come le effimere forme d’un caleidoscopio. E’ la Vita che porta in sé ad ancorarla a terra.
Paolo e Mia sono come uno specchio senza il suo stesso potere riflettente, non conoscono neppure loro stessi, cercano la prossimità senza aver consapevolezza del contatto, si sfiorano senza annusarsi. Nella loro relazione i corpi diventano spazi, in cui sperimentare le paure e le resistenze agli eventi, nella ricerca d’un equilibrio nella condivisione. La prossimità si materializza nella presenza del bambino, nello spazio che occupa, nella pancia sporgente di Mia, ciò che richiama il desiderio (ed il bisogno) del contatto stesso.  
Cos’è che contatta l’Altro?
Una soluzione a quella luce che non si spegne mai, che affama di libertà, senza offrire la pace o la luce d’un orizzonte; difficile a dirsi se a stagliarsi uno di fronte all’altro sono due specchi opachi.
Solo la musica, in una canzone per addormentarsi e per congedarsi segna la possibilità di un inizio.
Di radici per un futuro lontano dal conosciuto ma illuminato dall’autenticità dell’imperfezione.
 Fabio Mollo, con la sua opera seconda entra nell’età adulta a passi doppi, presentando i dubbi del suo protagonista, quali assiomi indispensabili per lasciarsi sorprendere dalle soluzioni che l’esperienza offre. I desideri sono il motore d’una vita da vivere profondamente, allo scoperto, l’unico riparo a disposizione in fondo agli occhi o al centro del petto.
I corpi anomali, nei loro gesti muti perennemente inondati di luce, guidano in questo road movie costruito sui labirinti interni ed invisibili dei personaggi. I loro silenzi ci offrono la matassa rossa dell’empatia per uscire dal film alla scoperta di un personale miracolo che ci determini spettatori unici ed insieme contraddittori.
Esseri umani dopo tutto.
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