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Un poco alla volta
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codelpho · 5 years ago
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Fase 2 di covid Italia
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codelpho · 5 years ago
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Il picco, la discesa, la fase 2
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codelpho · 5 years ago
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Lui: Ci proviamo?🤔
Lei: Di questi tempi meglio no😔
Lui: Casa mia è sicura😇
Lei: Ma tu no, diavolo😂
Lui:Ti prego, solo un caffè☕️🙏
Lei: I bar sono chiusi😩
Lui: Allora vediamoci al supermercato🛒
Lei: Ok👍
Lui: Alle 12⏰
Lei: Ok👌 Io sono falsa bionda🙎‍♀️ porterò un vestito rosso💃
Lui: Io castano naturale👨‍🦰 completo nero🕺🏽
Lei: Ricorda di portare la certificazione🔰
Lui: Che scrivo?🙄 Che ho un appuntamento?👩‍❤️‍👨
Lei: Ma nooo!😂 Che vai a fare la spesa🛒
Lui: Oooook👍👍👍 Non arrabbiarti😡
Lei: Guarda che non si scherza🤪 C’è la multa di soldi💰
Lui: Non ne ho di soldi💰
Lei: ??? Scusa ma te non sei Mauro nick ErDorado?
Lui: No son Mario Nick CiccioBello 😃 Te sei Mara Nick Sirenetta 🧜‍♀️vero?
Lei: No son Giulia nick Libellula🧚
Lui: Ah va be’
Lei: Ah va beh
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codelpho · 6 years ago
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codelpho · 6 years ago
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Dalla finestra lo vide scendere i gradini saltellando e rimase colpita da quanto fosse esile, una persona in miniatura, più scolaro appassito che uomo. Indossava un impermeabile di plastica trasparente color inchiostro annacquato. Aveva i capelli rossi e fini e una faccia stretta, lentigginosa, ed era sempre scompigliato, come se avesse dormito vestito e fosse appena saltato giù dal letto.
***
loro congedi erano sempre impacciati; lei l’aveva baciato, una volta soltanto, anni prima, quando non sapeva che lui fosse suo padre, e al momento dei saluti il ricordo di quel bacio brillava ancora tra loro come un lampo di magnesio.
***
«Tu sapevi che April Latimer era incinta?» le chiese. Lei sgranò gli occhi. «Stai scherzando» gli disse. Si appoggiò all’indietro sulla sedia scoppiando in una risata allegra. «Mio Dio! Non credevo che April sarebbe stata così... così banale.» Poi annuì. «Ma certo, ecco dov’è finita, è andata in Inghilterra a sistemare la cosa.»
***
Si era svegliata supina con i pugni stretti contro la gola, i denti digrignati e la cassa toracica che andava su e giù. Era come se fosse fuggita a precipizio da qualcosa e ce l’avesse fatta a scappare, ma ciò da cui fuggiva, di qualsiasi cosa si trattasse, rimaneva pur sempre nascosto nel buio, in attesa di un’altra notte per strisciare di nuovo fuori a terrorizzarla.
***
La famiglia è l’elemento base della società, ed è stato così fin dal principio, quando andavamo ancora a quattro zampe, questo almeno lo sa di sicuro. Il sangue è il sangue. Vincola»
***
Quirke uscì dall’ascensore e oltrepassò la porta girevole, sbucando sulla scalinata. Quella mattina aveva ricevuto una telefonata di Ferriter, l’uomo del ministro. Il ministro, gli aveva detto Ferriter con la sua voce monotona e sommessa, era certo di poter contare sulla discrezione del dottor Quirke in merito alla tragica morte del nipote. Quirke gli aveva sbattuto il telefono in faccia ed era andato nella sala autoptica, dove Sinclair stava segando lo sterno del cadavere di un vecchio, fischiettando tra sé e sé. Quirke aveva pensato a April Latimer, che non aveva mai conosciuto.
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codelpho · 6 years ago
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codelpho · 6 years ago
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RINO
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Al mattino non c’era anima viva e il fiume scorreva lento. Raramente qualcuno entrava nel negozio e se vi entrava ne usciva poi in fretta, quasi a non farsi scorgere e la strada tornava immobile, sotto il tremolio di quell’aria torrida. Rino non usciva mai dal suo negozio; si faceva vedere solo al tramonto quando la via si animava e si piazzava all’angolo dove il fiume faceva una pozza. Era una bestia enorme, tutta muscoli e quell’angolo di fiume era suo. Gli altri animali bevevano un poco più in là ma sempre con l’occhio attento a Rino. Bello era bello; capelli neri e ricci che gli scendevano sul collo; i suoi occhi non li vedevi perché li teneva sempre socchiusi e aveva un gran nasone con una bocca sensuale. Due metri di fisico che spesso faceva vedere sotto quel gilet che indossava aperto sul petto e la pelle degli avambracci gli fluttuava ad ogni movimento dei muscoli che si gonfiavano. Quando al tramonto scendeva al fiume, sbirciava con quegli occhi socchiusi non solo le gazzelle che gli stavano attorno, ma anche qualche giraffa che passava con passo sinuoso e gli lanciava languidi sguardi. Ma lui non si distraeva più di tanto e continuava a sbuffare fumo dal sigaro che gli pendeva dalla bocca. Al calar della sera iniziava il lavoro vero; c’era la fila lungo il marciapiede e Rino intascava i soldi e faceva un cenno alla ragazza vicina che prendeva a braccetto il cliente e insieme entravano nel negozio. Al bancone ci stava il vecchio, un cinese col codino e il pizzetto che, nonostante l’eta avanzata, provvedeva alla consegna della chiave. Salivano per la stretta scala che portava ad un corridoio ai cui lati si aprivano le porte della felicità. Un’ombra scura si stava avvicinando alla pozza del fiume, Rino la vide avanzare goffamente sulle quattro zampe e, quando si alzò eretta sulle zampe posteriori, apparve enorme. Rino lo riconobbe, era Oran che viveva lontano da lì e aveva sconfinato; quel tratto di fiume non era il suo territorio. Oran abitava più su dove il fiume faceva un’ansa e la vegetazione era folta. Rino abbassò il capo e il suo corno avrebbe infilzato Oran che stava sbattendo i pugni sul torace. Rino attaccò e fu una sforbiciata del corno aguzzo a procurare il taglio al braccio di Oran che si rimise sulle quattro zampe e scappò. Era un nero grande e grosso quello che s’era avvicinato alla ragazza. “Guai in vista,” pensò Rino, “o quello non sa, il che appare improbabile, oppure sa e allora è peggio.” Si avvicinò, scostando la ragazza. «Che fai qui negro? Sei un po’ lontano da casa tua.» disse. «Vaffanculo, bianco di merda.» rispose il nero, non era una risposta gradita, ma Rino non si scompose e come per magia fece apparire la lama del serramanico tra le mani. Il nero fece un passo avanti e si beccò uno squarcio sul braccio. Gli bastò e volò via a zampe levate.
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codelpho · 6 years ago
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PRIMAVERE PERDUTE
«Quell’anno i fiori non fiorirono, fu una primavera spoglia anche di verdi foglie. I rami degli alberi parevano tante croci di nodi che si stendevano nella luce opaca del cielo. Nei prati l’erba nuova non era nata, lasciando distese di terra bruna a seccarsi al caldo di quelle torride giornate. Quello fu il primo segno, ma io ero un bambino, non capivo e l’acqua saliva su per il monte dove stavamo noi. Io, che il mare non l’avevo mai visto, ero meravigliato e il nonno diceva: “Domani andiamo a fare il bagno” e il mare era lì e si andava a camminare fin giù alla pozza, dove la terra trovava l’acqua e noi ci si bagnava i piedi e si faceva il bagno. Poi arrivarono in tanti, ‘gli sfollati’, li chiamavamo. Venivano dalla costa. Dove stavamo noi, al castello, c’erano le mura e il nonno aveva proibito di aprire il portone. “Quelli ci mangiano tutto.” Diceva il nonno e papà li mandava via. Noi, dentro, si stava bene finché non arrivò la polvere e la mamma andò via e anche il nonno, dopo e per sempre. Il babbo e io rimanemmo soli al castello, poi anche lui andò via, per sempre. Ieri era primavera, ho visto un fiore e steli di erba giovane. Ho tolto la maschera contro la polvere e ho aperto la porta del castello e sono entrati. Neri, bianchi e gialli. “Gli altri sono tutti morti”, hanno detto. Ma non è stata colpa mia, io ero solo un bambino.
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codelpho · 7 years ago
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L’ALBERO DEL DESERTO
Era confortante pensare che i vivi si sarebbero presi cura del suo corpo. L’avrebbero spogliato e poi rivestito con l’abito. Quale? Questo sarebbe stato l’ultimo dei problemi, prima bisognava morire e prima ancora decidere come e quando e le tante altre cose che aveva lasciato lì pendenti e che gli dondolavano nella mente cercando un posto fermo dove riposare. Anton Grieg, settant’anni, vecchio, ricco e solo, combinazione favorevole. Magnate re del legno, era uno che di decisioni ne aveva prese tante durante la sua vita, giuste o sbagliate che fossero, ma quest’ultima gli procurava ansia. Prima di tutto il testamento, in fondo pensava fosse la cosa più facile. Si recò di mattina presto dal notaio e non fu così facile. Jorge, il suo amico notaio, lo pungolava con continui interrogativi, domande anche giuste, per carità, a cui lui s’era risolto di rispondere semplicemente con un sì o un no. Ma che ricordi e fantasie gli suscitavano quelle domande! Per le proprietà fecero presto. Unico erede lui stesso, finché era in vita nessuno avrebbe potuto avallare diritti e da morto neanche. Aveva già deciso per il grosso della sua ricchezza: un po’ qui un po’ là, ma gli mancava da definire e abbellire il quadro completo della sua vita, erano semplici ritocchi ma essenziali per renderla degna d’essere stata vissuta da lui che aveva deciso di morire ed era questo che forse gli dava ansia: il ritocco. Si reputava artista e pittore e quando dipingeva albe pensava ai tramonti e se dipingeva volti di uomini o donne tristi pensava ai loro sorrisi. Nella sua mente scorrevano le immagini che aveva amato e per ognuna lasciò denaro. Quando rivide la foresta e gli alberi, quasi si commosse. Doveva tutto agli alberi, era grazie al legno che aveva fondato il suo impero perché Anton Grieg tagliava alberi. “Che ne facciamo delle foreste? A chi le lasciamo?” Chiese il notaio. “Lasciale a loro”, rispose. “A chi? Non agli alberi.” Anton stava irritandosi e disse “A quelli che ci abitano, ma nessuno potrà mai più tagliare un albero nella mia proprietà!” Se ne stava già andando quando si voltò e disse: “Fai così come ho detto e mandamelo a casa da firmare.” Dopo due giorni firmò il testamento e ne fu sollevato. Pilota esperto, volò col suo Cessna fino a Madeira, Amazzonia e poi giù lungo il fiume fino ai confini della civiltà, al nuovo insediamento dove il cielo azzurro si poteva vedere per un vasto tratto disboscato. Più avanti alberi morenti aspettavano in agonia d’essere tagliati dopo essere stati avvelenati. La loro morte era lenta, i piccoli e i vecchi se ne cadevano da soli ma quelli alti e robusti ci mettevano di più e dovevano essere tagliati. Il veleno lo iniettavano con due o tre siringate nel buco profondo che il trapano aveva scavato, fino alle radici. Il problema del come era risolto, sarebbe stato doloroso ma anche eroico per lui, abituato com’era alle tre dosi giornaliere di eroina. Si fece dare una tanichetta di veleno e ripartì col suo Cessna. Sarebbe atterrato fra un’ora all’aeroporto di L.A. Volava basso e la tempesta di sabbia intasò i motori del Cessna, precipitò nel deserto di California. I suoi resti non furono trovati ma l’anno seguente all’incidente un alberello fiorì nel deserto.
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codelpho · 7 years ago
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LA BELLEZZA DELLE DONNE
Avete mai visto quanto sono brutti gli uomini e quanto sono belle le donne? Non tutti certo, ma nessun uomo si avvicinava mai alla delizia che gli procurava la vista di una donna, non tutte, certo. Gli uomini sembravano marziani con quelle grandi orecchie o insetti pelosi e pericolosi come ragni, non tutti, certo. La repulsione che provava verso gli uomini era analoga e opposta insieme alla sua ammirazione per le donne. Era un esteta, partigiano di bellezza femminile e il suo ideale classico erano le Cariatidi del tempietto dell’Eretteo, all’acropoli di Atene, che avevano sempre impressionato la sua fantasia e quel giorno salì fin su a toccarne il piede di una delle statue e sarebbe salito ancora fino a baciarla ma il guardiano lo bloccò e multò. Le donne le amava davvero lui e si invaghì di Mata Hari e poi di Marlene Dietrich che cantava Lilly e della Valentina di Crepax, della Bergman di Casablanca e tante altre… le amò tutte. Vecchio, si prese in casa una badante e se ne innamorò quando la vide sollevare un vaso di fiori sopra la testa come una cariatide o quando le chiese: “Perché?” Lei rispose che era un segreto, come Mata Hari. Vide le sue nudità come quelle di Valentina e se ne invaghì, la sentì cantare come Marlene e la applaudì o fissarlo sognante negli occhi come Ingrid e le chiese: “Mi aiuterai?” “Sì”, rispose e lui vide Maria, gli angeli e la Pietà di Michelangelo.
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codelpho · 7 years ago
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Musiche che parlano
Carlos Santana-Samba Pa Ti https://youtu.be/j5AUm_xaE9A
Cominciò sussurrando. Non la sentivo, immerso nei miei pensieri e solo quando colsi la parola, amore, le prestai più attenzione. -Ti ho tanto amato, ma tanto - Tutta me stessa ti ho dato - E tu non capivi, non hai mai capito - E se mai avessi capito, non mi rispondevi - Mai una parola, un cenno - Bastava un sorriso, anche ironico, alle mie parole d’amore - Dove vivi? Che cosa fai? - Cosa pensi, immerso nei tuoi pensieri su quelle carte - Io sono qui, non mi vedi? - Ti amo
Creedence Clearwater Revival-Have you ever seen the rain? https://youtu.be/Gu2pVPWGYMQ
- No aspetta, non andare via. Fuori piove - Hai mai visto cadere la pioggia in un giorno di sole? - Lo so, è stato così per tutto il tempo - Guarda, è tornato il sole - Hai mai visto la pioggia cadere in un giorno di sole? - Ti amo, non andare via
Eagles-Hotel California https://youtu.be/EqPtz5qN7HM
- Ti prego, resta qui almeno per questa notte - Ti devi fermare sei stanca, siediti - Siamo tutti prigionieri del nostro destino - Qui, con me, ti prometto che starai bene - Calmati, potrai lasciarmi tutte le volte che vorrai - Ma non potrai mai abbandonarmi
Aretha Franklin-I say a little prayer https://youtu.be/KtBbyglq37E
- E ti amerò, per sempre - E dirò una preghiera per te - Per sempre sarai nel mio cuore - E ti amerò, e non ci lasceremo mai - Mia cara, credimi. Sono innamorato di te - Per favore, amami anche tu - Dirò una piccola preghiera per te
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codelpho · 7 years ago
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LEGGERE STEVENSON, LONDON E CONRAD A SETTANT’ANNI
Avevo bisogno di avventura e quell’inverno era stato così tiepido, privo di avvenimenti climatici e personali, che mi rifugiai nella lettura di qualche libro. Rilessi alcuni classici: Dostoevskij, Joyce, Fitzgerald, Camus e altri che già ora ho dimenticato. Sono vecchio ormai, settanta anni, e poco mi procura l’attenzione dovuta. Nello sgabuzzino pieno di libri e ricordi ho trovato, dimenticati su una mensola, alcuni libri. La copertina di uno raffigurava dei pirati con un titolo arabescato: L’ISOLA DEL TESORO. Proprio quello che cercavo, un tuffo d’avventura nei Caraibi e mi sarebbe anche piaciuto andarci ai Caraibi ma mi accontentai del libro. Long John e capitan Flint e tutti gli altri… erano affascinanti. Vedevo pirati e uomini rudi ovunque, io stesso lo ero diventato, ed era ormai mezzanotte quando finii di leggere il libro.
‘Quindici uomini sulla cassa del morto Yo-ho-ho, e una fiasca di rum!’
Ma questa prima avventura non mi arrestò, anzi, inebriato d’esperienza senile, cercai e scovai, tra le macerie di libri nello sgabuzzino, un’altra avventura: MARTIN EDEN e mi aspettavo, dalla copertina che raffigurava un veliero, un altro brivido nei mari del Sud invece era un romanzo d’amore talmente bello che lo lessi d’un fiato per tutta la notte. E la luce dell’alba filtrava dagli scuri della finestra e ancora sognavo ad occhi aperti le visioni dei racconti che avevo letto. Andai in cucina a farmi il caffè ma subito abbandonai la caffettiera sul fuoco per andare di nuovo nello sgabuzzino a cercare un altro romanzo che trovai sulla mensola dove erano stati gli altri due: LORD JIM. Mi misi a leggerlo, sorseggiando il caffè, dimentico oramai della realtà che mi circondava. Già la mezza, dovevo scappare a fare la spesa al vicino supermercato. In fretta mi lavai e vestii e con il libro sottobraccio mi avviai. Avevo dormito solo due o tre ore ma ero pieno di energia e le figure dei personaggi dei romanzi che avevo letto si fondevano nella mia mente, non stavo andando al supermercato ma, sulla tolda di un vascello, stavo solcando il mare dei Caraibi in cerca dell’isola del tesoro dove avrei incontrato una bellissima donna di cui mi sarei perdutamente innamorato. La mia vita era diventata tutta un’avventura mentre lei appariva e scompariva tra i corridoi degli scaffali del super. 
‘Era una creatura eterea, pallida, aureolata di capelli d’oro, dai grandi occhi immateriali. Non vide com’era vestita; vide soltanto che la sua veste era meravigliosa come lei. E la paragonò a un fiore d’oro pallido, su uno stelo fragile. No! Era uno spirito, una divinità, un idolo!. Una bellezza tanto sublime non era di questa terra.’ 
Non esageriamo Martin, la tua Ruth sarà stata anche bella ma la mia è una donna vera di quelle fatte di carne con i muscoli dei polpacci che si gonfiano ad ogni passo su quei tacchi fini e sta avvolta in un tailleur blu, con una coda di capelli neri che le sobbalza sulla schiena. È una donna massiccia e forte, come piacciono a me. Come avvicinarla? Cosa potevo dirle? Ecco, le avrei detto: “Scelga questo, signora, è di ottima qualità”, e le avrei sorriso, proprio io che non sorrido mai. L’impresa sarebbe stata ardua, mi avvicinai e proprio quando lei stava per prendere una scatoletta “Ora o mai più”, mi dissi e lei si voltò a fissarmi.
‘«Che cicatrice ha sul collo, signor Eden!», esclamò la giovane. «Come se l’è fatta? Certamente in seguito a un’avventura!». «È stato un messicano col suo coltello, signorina!», rispose.’
Fissava la cicatrice sulla mia fronte che m’ero fatto da piccolo. Mi venne un groppo in gola, non respiravo. E se mi chiede dei miei amori passati, come ha fatto Ruth, che le dico? Lascia perdere, quella non fa per te, avrà almeno trent’anni di meno. Vuoi finire come Martin? 
‘Quando i piedi ebbero toccato l’acqua, si lasciò andare. gli parve di scivolare lungo una china infinita, e in fondo in fondo sprofondò nel buio. Solo questo seppe. Sprofondava nel buio. E nel momento stesso in cui lo seppe, cessò di saperlo.’
 Ebbi il coraggio di risalire dalla profondità del mare e mi avviai alla cassa. Un cerbero donna stava contando dei soldi. Posai la mia spesa sul banco scorrevole su cui lei s’avventò. Infine disse: “Ventinove e ottantacinque.” Li avevo già preparati e glieli consegnai.
‘E cominciò a contare l'ammontare che le doveva il capitano, trasferendo il denaro dalla borsa da marinaio a quella che avevo in mano.’
“Mancano dieci centesimi”, disse. Cercai furiosamente nelle tasche. “Ci sbrighiamo!” Una voce irosa era uscita dal fondo della fila. Stavo rischiando la vita.
‘«L'ho visto morto con questi miei occhi», disse Morgan. «Billy mi portò dentro e lui stava lì disteso con delle monetine sugli occhi, Pew era morto, morto stecchito».’
Consegnai al cerbero i venti euro stropicciati che avevo ritrovato nella tasca. Lei mi ridiede il resto ed io rimasi lì imbambolato. I pirati non restituiscono mai nulla, i pirati rubano!
‘«Prendi le ghinee, Pew, e non startene lì a sbraitare».’
Con la fronte madida di sudore freddo presi i soldi e mi avviai all’uscita. Il tempo non era cambiato, un sole pallido svaniva tra nuvole grigie di pioggia. Dovevo resistere anche se sapevo che la bufera sarebbe arrivata e il libro mi cascò di mano. Il cielo si fece plumbeo, gli aliti di vento divennero soffi, il veliero si mosse. Saltai d’un balzo sul pennone di gabbia e liberai la scotta. La vela si spiegò, ma poi il vento calò di nuovo e una nuvola di nebbia mi avvolse e il vascello fu di nuovo fermo. La campana suonava a tempo in quella bonaccia. A tratti mi sembrava di scorgere un’ombra tra i buchi grigi della nebbia e poi lo vidi Jim, Lord Jim. Lo riconobbi subito. 
‘Il suo aspetto era impeccabile: vestito sempre di un bianco immacolato, dal cappello alle scarpe, era molto popolare nei vari porti d’Oriente in cui si guadagnava da vivere come procacciatore d’affari.’
“Jim”, sussurrai. “Signore, signore si sente male?” “No, no sto bene, grazie”, risposi. Accanto a Lord Jim c’era Gioiello una ragazza dagli occhi esotici, il suo amore.
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codelpho · 7 years ago
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BANGA E LA RAPINA IN BANCA
Un colpo al cuore e cadde morto stecchito. “Rapina alla banca del Passetto! A tutte le auto, rapina alla banca del Passetto!” Strillava la voce femminile dell’autoradio. “Vaffanculo”, sussurrò il commissario. Fece inversione, mise sul tetto la sirena e prese dal cassetto la calibro 9 che infilò nella tasca della giacca. Era una piccola succursale di periferia e alla porta della banca c’era un piantone che lui sorpassò a passo svelto, dirigendosi verso il graduato. “Feriti?” Chiese. “No, commissario… tutti salvi.” Ebbe un attimo di distensione sul viso. 
“Quanto?” Richiese.
“Trecentomila o più, tutti i depositi della settimana.”
‘Cazzo!’ pensò il commissario e fece il muso duro. “Dov’è il direttore?” L’agente gli fece segno col braccio teso “Lá, nell’ufficio, c’è anche Cut…” Non lo lasciò finire, già stava avviandosi alla porta che aprì senza bussare. Il sergente Cutolo si mise sull’attenti e fece quasi un saluto militare. “Buongiorno, direttore. Voglio tutti i nomi di quelli che hanno fatto depositi oggi”, disse il commissario. Seduto alla scrivania, il direttore ebbe solo il tempo di dire “Si certo, devo solo telefonare in sede”, che la porta si spalancò. “Commissario!” Gridò l’agente quasi urlando, poi sussurrò “Hanno ucciso il Guercio, in via Passeri.” ‘Cazzo, tutte oggi?’ Pensò il commissario. “Nessuno esce, tutti in commissariato”, disse avviandosi alla porta. Montò nuovamente in macchina, ripose il ferro nel cassetto e staccò l’allarme acustico. ‘Niente sirena per i morti, hanno bisogno di pace, i morti’, pensò ma non credeva alle coincidenze. ‘Un morto e una rapina proprio qui, in questo paesotto, dove non succede quasi mai niente, porca miseria!’ Dieci anni di vita quasi tranquilla e fra un anno sarebbe andato in pensione, non vedeva l’ora e si svegliavano proprio adesso a rovinargli la festa! Sognava i mari del Sud, il commissario. Via Passeri stava a due isolati, ci si poteva andare anche a piedi e c’era già un bel movimento davanti al numero 9 con la pantera lampeggiante e capannelli di gente sfaccendata a curiosare. Una casa a tre piani, sei appartamenti, niente ascensore. Salì le scale, la porta di destra, al secondo, era socchiusa e il morto era lì steso sul pavimento a due passi dall’entrata. Morto cadavere, supino. “Non l’abbiamo toccato, aspettiamo il medico e la scientifica, commissario”, disse Giansanti porgendogli guanti e galosce azzurre. “Gian, fa’ sgombrare quella gente di sotto”, gli disse il commissario, infilando i guanti e le galosce e avviandosi verso quella che era la cucina. Seduta su una sedia con i gomiti sul tavolo e le mani fra la testa, Banga stava lì ad aspettare. Dieci anni che era in Italia ma la pensione era ancora lontana per lei. Si alzò in piedi quando lui entrò, cicciotta, bassetta, spalle larghe e braccia grosse, occhi neri mandorlati, sui trenta o meno, ‘difficile dire con questi orientali’, pensò il commissario. Il suo viso non esprimeva sentimenti giovani o vecchi, era fermo, da statua. Il nome Banga, diminutivo di Bangladesh, glielo avevano appioppato poco dopo il suo arrivo in Italia ed era difficile toglierselo anche se lei non veniva dal Bangladesh. Il suo nome era Nishimura Sakura e veniva dal Giappone ma non aveva mai protestato e s’era tenuta Banga. “Parla italiano?” Chiese il commissario. “Si”, rispose. Era la concubina di quello che stava lì all’ingresso, il morto, e faceva l’estetista in un centro di bellezza con qualche massaggio extra, quando capitava. “Dottore, c’è il medico”, disse Giansanti sull’uscio. Il commissario si alzò e si diresse verso il morto dove stava il medico in ginocchio a tastarlo. “È ancora molle”, disse, “almeno cinque ore, che sia stato ucciso non saprei, un colpo direi, un infartino forse. Vedremo l’autopsia.” Disse il medico. “Grazie, dot”, rispose il commissario che stava già tornando in cucina. 
“Ha telefonato lei al 113? ” 
“Sì.”
“Chi l’ha ucciso?” Lei non mosse ciglio, una statua.
“Come faceva a sapere che era stato ucciso?”
“Da noi quando uno muore, muore ammazzato”, rispose Banga. 
‘Non aveva torto, anche da noi…’ Pensò il commissario.
 “Portala in commissariato”, disse rivolto a Giansanti.
Il commissario sapeva fare il suo mestiere e la torchiò per bene. L’interrogatorio durò dieci ore con la lampada, il fumo e tutto il resto, come nei film. A lei, accanita fumatrice, il fumo non dava fastidio, solo qualche lacrimuccia. Quello che la infastidiva era la faccia del commissario che non le credeva e quelle domande sempre uguali. Tentava, a volte, di sorridere ma il commissario non ci cascava perché sapeva che nei mari mari del Sud le bugie non erano ammesse e con lui i sorrisi delle puttane non funzionavano. Dovette rilasciarla, aveva alibi di ferro. Era stata al Centro tutto il giorno a far massaggi e forse qualche marchetta, l’avevano vista in tanti.
“Aveva un cappello nero, no un baschetto marrone… scuro.” “Biondo, alto.” “Era un vecchio, pelato ma grosso, grosso, aveva i baffi.” “Aveva una tuta e spingeva un carrello.” 
Queste furono le dettagliate descrizioni dei banditi della rapina alla banca. ‘Questi sono matti’, pensò il commissario, ma in casa della concubina trovarono maschere, rossetto e rimmel e una 45. ‘Morte naturale per infarto del miocardio’, così stava scritto sul referto autoptico. Caso risolto: era stato il Guercio, ma stavolta gli era andata male. I soldi della rapina non furono mai ritrovati. 
S’erano conosciuti al Centro, Banga e il Biondo, così lo chiamavano perché era biondo, e il Centro e la massaggiatrice glieli aveva consigliati proprio il Guercio. Guercio per via di un occhio solo ma che ci vedeva per due. Quel giorno Banga fece al Biondo uno di quei massaggi che solo lei sapeva fare e lui se ne invaghì. Tutti amanti e amici i tre: Banga, il Biondo e il Guercio. Lei massaggiava molto, loro lavoravano di testa e progettavano la rapina alla banca del Passetto. Facile, sono solo in due. Il direttore e il cassiere. Niente detector, solo una porta blindata che si apre se suoni il campanello. Basta entrarci e uscire coi soldi, è facile.
 L’appuntamento
Ore 6. Suona la sveglia, il Guercio le dà una manata. Si alza, va in cucina, fa il caffè e lo beve, l’ultimo.
Ore 7. Suona il campanello. Il Guercio va ad aprire. Colpo secco al cuore, cade con botto e sveglia Banga che corre alla porta. Il Biondo bussa, Banga apre e lo abbraccia.
Ore 8. Banga va al lavoro, il Biondo alla banca.
 La Rapina
Il Biondo suona il campanello, la porta blindata si apre e lui entra. È un bel signore, elegante quello che posa la valigetta sul banco dello sportello e la apre: dieci mazzette da cento ci sono. Dice che vuole fare un deposito e l’impiegato lo prega di aspettare che va a chiamare il direttore che arriva e si trova una 38 sul naso. La cassaforte che il Biondo si fa aprire è nella stanza del direttore. Prende i soldi e li ripone nella valigetta, dopo avere buttato quelli falsi. Richiude la porta della stanza, poi la riapre ora è un uomo con i capelli neri con e senza baffi, e ora è un biondino, infine è un uomo grasso e pelato. 
Apre e richiude la porta tre o quattro volte con la 38 sempre puntata. Infine se ne va. 
 Epilogo
Dopo un anno il commissario andò in pensione, finalmente nei mari del Sud. Tutto incluso, con una parte della liquidazione. Una sera andò a spassarsela in uno di quei locali per turisti sulla spiaggia. Rullavano i tamburi, le ballerine ballavano la Hula. Lei gli sorrise da due tavoli lontano. Non la riconobbe, o forse sì. Banga se ne andò, avvinghiata al suo amore, un bell’uomo alto e biondo.
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codelpho · 7 years ago
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Il FIORELLINO D’INVERNO
 Inverno. La piantina nel vaso sulla finestra aveva fatto un fiorellino tutto giallo. «Cantami, o fiore, delle antiche gesta che videro qui il tuo fiorire» (Ero ispirato quella mattina). «Da lontano il vento mi portò su questi lidi, sfiorisco e rifiorisco», rispose. Quel rigido inverno aveva portato neve in abbondanza, la piantina sul davanzale era diventata tutta bianca, ricoperta di zucchero e il fiorellino stava nascosto al freddo. Soffiai su quel velo bianco e riposi il vasetto in casa, mica per carità, solo per passione o per non dargliela vinta a quell’inverno di freddo atroce. A primavera la piantina stava un po’ meglio ma sempre con le foglie cascanti e il fiorellino era sparito. «Come va, piantina?» chiesi quella mattina di primavera, tanto per fare quattro chiacchiere. «Bene, ho fame», rispose. Comprai una bustina di fertilizzante e gliene diedi un poco, mica tutto, poteva causarle una indigestione mortale a lei che non era abituata a mangiare e anche con l’acqua ci andavo cauto, ne avevo visti troppi di morti affogati, specialmente in quell’estate di tanti anni fa, quando facevo il medico legale, e sul banco d’acciaio ne arrivavano a frotte. Certo, ai morti c’ero abituato ormai con quel lavoro, ma i morti affogati erano un’altra questione. Non era un bel cadavere fresco che il bisturi poteva tagliare come fosse carne viva. Si sfaldava tutta quella carne molliccia e anche la faccia non si riconosceva più. I morti, quelli fatti da poco, li riconoscevi anche se sembravano statue immobili e anche dopo, quando erano polvere, li riconoscevi dalla fotografia sulla tomba, ma quelli no, non li conoscerà nessuno, fantasmi senza nome. Per questo sto attento con la mia piantina che ora ho piantato in giardino, vicino al muro ma ancora mi chiedo dove fosse nato quel fiore.
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codelpho · 7 years ago
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TI RACCONTO UNA STORIA? Quando tutti noi si era ormai in quella fase precomatosa che precede la perdita della coscienza, lui cominciava e noi si era troppo imbriachi per rispondergli. Aveva la sbornia chiacchierina, perché quanto a bere si beveva ma lui ci batteva tutti, forse solo il Ridarola gli stava dietro, ma poi rideva. Aveva la sbornia allegra. Il Piagno. invece piangeva lacrimoni: sbornia triste. Era una bella compagnia, ognuno per sé, tutti per uno. Come quella volta che il Toro si beccò un pugno in faccia e anche noi ne abbiamo prese tante, date poche. Si era ragazzini in quella città che era la tua e qualche volta le botte ci stavano, anche tra noi, poi si faceva pace. Ma quando lui, il Gino, cominciava con: «La sapete questa?» e noi si era lì a far finta di ascoltare, cotti imbriachi, incapaci di dire solo «Sììì, la conosciamo!» perché la storia era sempre la stessa con qualche variante, a volte. La storia era questa, anche se io non so raccontarla come faceva lui. È un po’ come le barzellette che quando le ascolti ti fanno ridere e poi quando le racconti tu… così, così. «C’era una volta», cominciava sempre, «un ragasso che amava i Beatles e i Rolling Stone e voleva fare la revolusiion», e già da lì si capiva che era ciucco, ma poi buttava giù un altro bicchiere e ricominciava. «Quel ragasso, come noi», diceva e lui non era un ragazzo come noi, aveva almeno dieci anni di più. «Quel ragasso la rivolusion non l’ha fatta», e giù un altro sorso. «Neanche la guera in Vietnam, scartato, ‘na fortuna!» così raccontava, «Perché stava all’ospidale che s’era tutto sbucciato ’na mattina col motorino c’andava stort e anche lui camminava stort…o,  chel tirava a sinistra». E qui si commuoveva, il Gino, ma poi si riprendeva e continuava. «’Na malatia breve, de quelle che passano subito ‘ma sta atent che può ricapitare’, ciavevano detto, e lui s’era mess a viaggiare. L’ha vist il mondo chel ragass: la Cina, l’America, El Giapun!» S’accasciava poi con la testa sul tavolo, pur continuando a raccontarcela, sussurrandola al legno. «L’ha girat il mondo e lu de la roba se n’intendeva: l’opio a Hong Kong, roba bona. Un bicier de vin e se a post», e giù un altro. «E po’ l’ospidal, le punture, el mal de testa, un zop l’era diventat, caminava con la destra a tirar la sinistra, un sop!» Qui finiva fatalmente il suo racconto, se n’andava nel mondo dei sogni. Noi, non si dava peso alle balle che raccontava. Si capiva che erano tutti sproloqui di ubriaco. L’ho rivisto il Gino, credo, anni dopo a Malibù, California. Non sono sicuro fosse proprio lui perché stava su una carrozzella coi capelli tutti bianchi e un ghigno sadico per la bocca stirata sulla destra e l’occhio semichiuso dalla palpebra che gli cascava giù. «Gino! Che ci fai qui?» gli dico. «Ti racconto una storia?» m’ha risposto, biascicando. Il cinese che spingeva la carrozzella ha detto:  «Plego, signole, non distulbale».
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codelpho · 7 years ago
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LE AVVENTURE DA GIOVANE
— Cos, ci andiamo?
― Dove?
― A Petra
― Ah sì, e dov’è?
― In Siria o Giordania, credo
― Cocco, ma dove sei? Non ti vedo
Cocco Bill, lo chiamavamo così, il mio amico Cocco perché fischiava molto bene come il famoso Cocco Bill dei fumetti degli anni sessanta.
Partiamo risoluti quella mattina di Giugno dopo aver fatto tutti i rifornimenti alimentari alla Upim. La 500 FIAT è carica con dietro, sul panchetto, tutte le provviste alimentari; davanti, nel micro baule sotto il cofano, abbiamo piazzato la canadese. Trieste, Iugoslavia, Grecia. Istanbul, la porta dell’Oriente, e poi ancora Aleppo, Damasco, Amman e giù per il deserto a fermarci alle stazioni di pompaggio per fare il pieno di benzina e d’acqua. Alt! Una notte ci fermano, soldati. Uno monta con Cocco Bill e io son fatto salire su una polverosa CADILLAC con sei arabi coi loro kefiah che nascondono il viso. Cocco è dietro di noi e dietro ancora c’è una jeep dell’esercito, la macchina fotografica sequestrata.
Quel viaggetto dura mezz’ora ma a me sembra eterno. Nella notte, lontano si vedono lampi. Temporale in arrivo? No, Cocco mi dice poi che sono salve di artiglieria. La guerra dei sei giorni è finita da qualche anno ma ogni tanto sparano ancora. Ci si accampa un po’ più in là del margine delle stretta strada e il margine non si distingue più, per la sabbia del deserto che invade l’asfalto. Una mattina, fuori dalla tenda, sentiamo rumori e voci. Ci affacciamo: c’è un arabo che saltella e impreca, poi raccoglie una cosa nera, uno scorpione grosso, morto e attorno ce ne sono altri, vivi. Ringraziamo l’arabo con le mani giunte e un inchino e gli regaliamo un pacco di biscotti della Upim e scappiamo.
― Alt! Avrà avuto dieci anni: un bambino col mitra puntato ci sbarra la strada. Cocco frena e abbassa il finestrino: ― Give me money for Al Fatah! Cocco si fruga in tasca e gli dà una monetina, l’equivalente di dieci lire. Ci lascia passare ma dopo ci tirano i sassi. Petra 50 Km indica il polveroso cartello.
― Dai Cocco, ci siamo!
Però quella stradina non finisce più: dritta, lunga, sempre più stretta, circondata da pietre e sabbia. Nonostante la voglia di arrivare non è che si può far di più alla folle velocità di 30 Km all’ora.
Finalmente arriviamo a un casottino di legno col tetto in lamiera bruciato dal sole. Dentro c’è un arabo che, col suo inglese arabizzato, ci chiede soldi in cambio di due ronzini che ci portano giù nella gola per uno stretto, ombroso passaggio scavato fra altissime pareti di rossa pietra. A tratti il sentiero si apre così come si spalancano i miei occhi e la bocca che non può trattenere l’esclamazione di meraviglia per la improvvisa visione del tempio scolpito nella roccia. Devo alzare lo sguardo ben in alto per vedere i capitelli di quelle maestose colonne giganti.
― Cocco aspetta… Cocc aspett… Co asp… ― gli grido e, per gioco, grido il mio nome: Cos… Co… C… le mie parole rimbalzano sulle pareti di pietra procurandone l’eco. Che sortilegio! Ma Cocco non si ferma e allora scendo dal cavallo per addentrarmi nel tempio. Passato il ciclopico portale mi inoltro in un’oscurità quasi totale, una fredda tenebra di buio. Si può anche non credere a niente ma ci sono dei momenti nella vita in cui si prega il dio del primo tempio che trovi ed io prego quel dio di farmi uscire dalla tenebra.
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codelpho · 7 years ago
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INCONTRO CON L’ARTISTA
Eravamo nella stessa pensioncina e, dopo cena, me ne stavo a un tavolo vicino al fuoco del camino, assorto a contemplarne le fiamme, sbirciando ogni tanto la bella cameriera che serviva ai tavoli. “Stè a smiccià la Gianna, eh? Na bela budela ma l’è come la gallina de la Checca, tutti la vojono e nissun la becca”. A parlare era stato il mio vicino di tavolo: un tizio che portava un basco verde sulle ventitré. Era pelato, due folti basettoni bianchi gli ornavano la faccia animata da un gran nasone rosso e gli occhi erano nascosti da cespugliose sopracciglia bianche. Un muccio di sigaro, spento tra i denti, gli pendeva dal labbro. Lo guardai ma non dissi nulla, feci solo un sorriso, lui avvicinò la sedia e anche il naso.
“Straniero?” chiese. “No, no… sono italiano”, risposi. “Ah, intendevo non di queste parti, non l’ho mai vista in giro” “Abito qui attorno, sulle colline, ma con questa nevicata mi son trasferito qui per un po”, risposi. “Tanto piacere Giovanni Dossena, pittore”, disse allungandomi la mano che strinsi. “Piacere mio”, risposi. “Allora, beviamo un bicchiere?” “Ah, sì certo”, gli risposi, per compiacenza. “Gianna! Una caraffa!” gridò. Io sono sempre stato un tipo taciturno, preferisco ascoltare. Giovanni Dossena apparteneva all’altra categoria di quelli che parlano. “Ah, che magnifico incontro! Le piace la pittura?” “Oh, sì certo”, risposi. Iniziò con la Pop–Art: Warhol e la sua Marylin, Mao, le tinte forti, le ripetizioni del soggetto, lo stacco, un pugno in un occhio, il Che, la Coca Cola…“Sì, grandi,” continuò “ma li considero più dei designer. L’arte! Ah, la vera arte!” disse e ricominciò con il Realismo della passera di Courbet, il Futurismo di Marinetti, il Cubismo, Picasso, il Dadaismo, gli Impressionisti, Monet, le puttane di Cezanne e Renoir e quelle fighette ballerine di Degas. Ero impressionato dal suo sapere, incantato, stordito dal vino e dalle sue parole che accompagnava con gesti di pittore come se stesse dipingendo i quadri che raccontava. “Gianna!” gridò, indicando la caraffa ormai vuota. Stava ricominciando quando la Gianna ci portò una nuova caraffa e versò il vino nei bicchieri vuoti. “Gianna, le caraffe segnale a me”, dissi. La Gianna mi fece un gran sorriso. “A me non lo fai un surisu?” disse Giovanni. Allora la Gianna gli si avvicinò sussurandogli qualcosa all’orecchio, procurando un fragore di risata da parte di Giovanni. “A dev’provrà”, disse. Sorrisi anch’io, senza capire, poi, versandogli un po’ di vino nel bicchiere, gli chiesi che cosa la Gianna gli avesse detto. Il fuoco del vino gli accese le vene del naso. “M’ha det che son vecchio, che non mi tira più”, mi rispose con un sorriso bonario. “Ma lei che lavoro fa?” mi chiese poi. “Facevo il medico”, risposi. “Ah, Rembrandt, la Lezione di Anatomia! Che realismo! Lo sapeva che il cadavere che stavano tagliuzzando era di un assassino impiccato?” Continuò col Caravaggio, le ombre, la luce, i chiaroscuri, la prospettiva, e poi giù, giù fino al Tintoretto, al Brunelleschi, Leonardo, la Gioconda, l’elicottero, Michelangelo, la Sistina, Botticelli, la Primavera, la Nascita di Venere… A Paolo Uccello lo fermai, alzandomi, traballante. “Scusi Giovanni ma devo proprio andare a letto domani dovrò alzarmi presto, è stato un piacere”. Gli allungai la mano per salutarlo e lui si alzò e mi strinse con una mano la spalla e con l’altra strizzò, con ardore, la mia. “ Le devo far vedere i miei quadri!” “Sì, certo, arrivederci Giovanni”.
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