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Recensione Lazzaro Felice di Alice Rohrwacher

Esiste un borgo, l’Inviolata, giù tra i monti del Lazio , circondato dai lupi che divorano il bestiame dei contadini.
I contadini sono tenuti nell’ ignoranza e in completa schiavitù dalla Marchesa De Luna(Nicoletta Braschi), la “signora delle sigarette”, una cinquantina di persone in tre appartamentini ignara dei diritti dei lavoratori e del valore del proprio lavoro.
Lazzaro è uno di loro, ingenuo e giovane contadino che stringerà amicizia col marchesino De Luna, figlio della donna, della marchesa-Padrona.
Senza tempo e senza spazio si svolge la narrazione fiabesca della Rohrwacher, un film allegorico potremmo definirlo, laddove personaggi e storia risultano funzionali a una sotto narrazione che prende il sopravvento, il dispiegarsi del rapporto tra autorità e lavoro.
Lazzaro, bravo lavoratore, non teme le fatiche della campagna , che conosce e coltiva, raccoglie, trasforma, l’agnello del borgo, l’idiot savant che prova a risolvere la situazione narrativa.
Il resto è storia contemporanea, coloro che negano la dignità del lavoro, la necessità di riscattarsi da una condizione di sudditanza anche psicologica. E il pericolo è non riuscire a vedere coi propri occhi la necessità che pure ci detta le istruzioni per sopravvivere.
Lazzaro, fedele alle sue convinzioni, non spodesta nessuna autorità, amicale, padronale esistenziale eppure agisce in virtù di valori suoi personali.
Nessun senso di collettività sottende la comunità dell’Inviolata, piuttosto una forza selvaggia che li spinge a cercare altro … da sé.
L’urbano, carico di rifiuti e treni che scorazzano sui binari delle stazioni ai bordi dei quali trovano una sorta di dimora i sopravvissuti del Grande Inganno dell’Inviolata, è un’altra selvaggia solitudine dalla quale il lupo e l’agnello partiranno, irreparabilmente.
Lazzaro Felice
Alice Rohrwacher
Italia, 2018, 125’
Sceneggiatura:
Alice Rohrwacher
Fotografia:
Hélène Louvart
Montaggio:
Nelly Quettier
Musica:
Piero Crucitti
Cast:
Nicoletta Braschi, Natalino Balasso, Luca Chikovani, Alba Rohrwacher, Agnese Graziani, Adriano Tardioli, Sergi Lopez, Tommaso Ragno
Produzione:
tempesta / Carlo Cresto-Dina con Rai Cinema
Emiliana Chiarolanza
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Recensione Lazzaro Felice di Alice Rohrwacher

Esiste un borgo, l’Inviolata, giù tra i monti del Lazio , circondato dai lupi che divorano il bestiame dei contadini.
I contadini sono tenuti nell’ ignoranza e in completa schiavitù dalla Marchesa De Luna(Nicoletta Braschi), la “signora delle sigarette”, una cinquantina di persone in tre appartamentini ignara dei diritti dei lavoratori e del valore del proprio lavoro.
Lazzaro è uno di loro, ingenuo e giovane contadino che stringerà amicizia col marchesino De Luna, figlio della donna, della marchesa-Padrona.
Senza tempo e senza spazio si svolge la narrazione fiabesca della Rohrwacher, un film allegorico potremmo definirlo, laddove personaggi e storia risultano funzionali a una sotto narrazione che prende il sopravvento, il dispiegarsi del rapporto tra autorità e lavoro.
Lazzaro, bravo lavoratore, non teme le fatiche della campagna , che conosce e coltiva, raccoglie, trasforma, l’agnello del borgo, l’idiot savant che prova a risolvere la situazione narrativa.
Il resto è storia contemporanea, coloro che negano la dignità del lavoro, la necessità di riscattarsi da una condizione di sudditanza anche psicologica. E il pericolo è non riuscire a vedere coi propri occhi la necessità che pure ci detta le istruzioni per sopravvivere.
Lazzaro, fedele alle sue convinzioni, non spodesta nessuna autorità, amicale, padronale esistenziale eppure agisce in virtù di valori suoi personali.
Nessun senso di collettività sottende la comunità dell’Inviolata, piuttosto una forza selvaggia che li spinge a cercare altro … da sé.
L’urbano, carico di rifiuti e treni che scorazzano sui binari delle stazioni ai bordi dei quali trovano una sorta di dimora i sopravvissuti del Grande Inganno dell’Inviolata, è un’altra selvaggia solitudine dalla quale il lupo e l’agnello partiranno, irreparabilmente.
Lazzaro Felice
Alice Rohrwacher
Italia, 2018, 125'
Sceneggiatura:
Alice Rohrwacher
Fotografia:
Hélène Louvart
Montaggio:
Nelly Quettier
Musica:
Piero Crucitti
Cast:
Nicoletta Braschi, Natalino Balasso, Luca Chikovani, Alba Rohrwacher, Agnese Graziani, Adriano Tardioli, Sergi Lopez, Tommaso Ragno
Produzione:
tempesta / Carlo Cresto-Dina con Rai Cinema
Emiliana Chiarolanza
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Appunti di cinema, L a Terra dell’abbastanza.

La terra dell’abbastanza
Sinossi
Manolo-Andrea Carpenzano e Mirko- Matteo Olivetti sono due amici, o come si definiscono fratelli, che studiano insieme all’istituto alberghiero , pochi soldi, tante risate.
La spensieratezza dei loro diciotto anni viene turbata da un incidente stradale in cui i due investono un capo clan pentito. Il padre di Manolo- Max Tortora, sostiene il figlio a svoltare, a unirsi al clan servendosi del merito di aver fatto fuori un pezzo grosso. I due allora si affiliano al clan come giovani sicari e papponi.
La Terra dell’abbastanza non è un film sull’ innocenza ma parla della perdita della giovinezza, non è un film sulla Malavita, ma è evidentemente coinvolto in un processo morale che riflette sulla realtà criminale italiana e infine non è un film sui sentimenti nonostante i chiari richiami ai legami emozionali che naturalmente sussistono tra le persone.
Un film promettente, ha scritto qualcuno, un film girato non senza fissazioni giovanili, i fratelli d’Innocenzo hanno appena trent’anni ma segnano il bersaglio al centro.
Ricco di riflessioni sulla società come contenitore essenziale e essenzialmente vacante di etica e incapace di produrre aspirazioni da poter realizzare tra le nuove generazioni, c’è chi sogna il reality, chi di fare molti soldi, e notevole lo sforzo di riprodurre la scena di due diciottenni alle prese con la vita da grandi.
I soldi. Quale valore per quali persone.
Personaggio positivo Milena Mancini nei panni della mamma di Mirko, che si insinua come rapporto etico con gli altri in nome di una fedeltà a sé stessi e non perché essa paghi in termini economici.
Il film incuriosisce perché non solo descrive il degrado morale come inadempienza del Sé, come mancata realizzazione in termini vitali e psicologici, ma indaga nei rapporti amicali come motore e ricerca di sé stessi.
La svolta arriverà per entrambi, catapultati nel deserto emozionale, loro che ridevano per una gomma da masticare al sapore di cicoria e che volevano lavorare come barman. Amaro e incalzante fino al termine della narrazione, i gemelli D’Innocenzo calano il sipario sulla periferia, simbolicamente i margini, non raccontano, in effetti, la periferia, e ci lasciano lì con una grande voglia di pioggia che non arriverà nel deserto urbano che essi hanno rappresentato.
Emiliana Chiarolanza
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La casa sul mare, un film di Robert Guédiguian

La casa sul mare, La Villa di Robert Guédiguian è un film intimo e collettivo, utopista e contemporaneo, fraterno e irreale.Colpito improvvisamente da un ictus il padre di famiglia, Maurice-Fred Ulysse ecco che tutti i figli tornano alla calanque di Mejan vicino Marsiglia per ricomporsi non senza difficoltà in un dialogo a più voci, spezzate dai fatti della vita.Dolori profondi attraversano la famiglia marsigliese, proprietaria di un ristorante a basso costo, perché tutti vi possano accedere.La figlia Angele- Ariane Ascaride , affermata attrice di teatro, il giovane pescatore-Robinso Stevenin suo amico, l’altro figlio maschio Joseph- Jean-Pierre Darroussin , ex operaio adesso docente universatirio che arriva con la giovanissima fidanzata sua ex studentessa e infine l’ultimo figlio Armand –Gerard Meylan. Come le pennellate di un dipinto così ogni personaggio rende viva una parte di un ritratto di famiglia che sa essere corale, che parla di una generazione e di una società che termina con la paura di non riuscire a lasciare niente in eredità… morale, etica, politica.Come un’utopia così la calanque marsigliese prende vita e corpo di passo in passo tra il porto e la villa, tra gli scogli i granchi e il peschereccio.Ma niente è andato perduto, l’umanità come collettività condivisa, come ricerca solidale di intenti esistenziali è lì, con il gravoso compito di continuare a costruire una società che dà secondo i bisogni.Il senso del film può essere ricercato non solo nei fatti che lo attraversano ma alle argomentazioni cui rimandano, la politica come azione collettiva, le idee come fattualità.E poi l’annosa immigrazione, Utopia combatte il luogo comune, segue il susseguirsi degli eventi come parte di un tutto laddove non si pensa che esista un diritto alla ricchezza per pochi ma un diritto alla felicità per tutti.La calanque di Marsiglia sotto l’occhio di una fotografia incantevole, è teatro di vita in quella sua astrusa geografica posizione avulsa da tutto.
Emiliana Chiarolanza
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“Loro"recensione.

Spiegare come Loro possano arrivare alla politica non è ciò di cui ci parla Paolo Sorrentino nella prima parte del dittico Loro.
La narrazione di Sorrentino, visionaria e simbolica attraversa gli anni duemila nella disomogeneità di intenti politici che li hanno attraversati e emblematicamente sceglie una crisi, la crisi coniugale di casa Berlusconi. Tanto trucco, trapianto ai capelli, tacchi alle scarpe e via si entra nello show dello showman che ha governato per un solido ventennio. Ma chi sono Loro.
Loro, i vari Tarantino- nel film Sergio Morra-interpretato da Scamarcio, che anche in questo caso è un nome tra tanti, sono e sono stati la classe arrivista, affarista, cocainomane, faccendieri di basso rango che hanno effettuato una scalata sociale offrendo prostitute al Cavaliere in cambio di un posto in società.
Patetico e poco incline al confronto dialogico, chiuso in un silenzio a tratti scevro da ogni serietà, e qui l’ironia del regista che ben rappresenta quell’aspetto del Berlusconi, l’uomo politico che si intravede non si occupa di politica nella vita ma di soldi.
I soldi di Berlusconi sembrano rappresentare pienamente il giro d’affari che la politica è diventata e d è stata nella cosiddetta seconda repubblica che nasceva dalle macerie della prima in un suo evidente continuum.
Berlusconi appare poco nel primo episodio girato e scritto da Sorrentino che si affida a un affresco morale di decadenza per descrivere ciò che accade intorno a LUI, così come è chiamato il Berlusca per tutto il film. Tony Servillo-Berlusconi offre la carica di un volto mascherato, incline a una maschera cui il paese ha dato la propria fiducia e allo stesso tempo rianima in una proiezione esistenziale inconcludente, vana di un uomo vanesio che cerca però di riconquistare la moglie-Veronica Lario-Elena Sofia Ricci-i o anche in questo caso di non perdere ciò che ha, che possiede, che gli appartiene.
Le critiche si dividono sul film, io lo trovo interessante per una serie di qualità scrittoriali, immaginifiche e visionarie che lo rendono un onirico pamphlet sul quale divagare e divagare e astrarre. Poco incline al sezionamento filmico seguo un discorso globale che trovo irriverente e sognante proprio dei grandi artisti.
Emiliana Chiarolanza
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Periferia

Dopo il fumo della città, con le sue luci e i suoi bagliori veniamo noi.
Ai bordi ci muoviamo nella periferia, scaltra, umida, afosa e tremendamente camminiamo.
Il silenzio si dipana come corda stirata sulla bocca e nelle voci sommesse che tiriamo fuori tra il vociare dei più, mi accorgo dei dettagli, delle cartacce ai bordi delle scuole, dei lampioni oscurati, dei migranti intenti ad arrostire carciofi ai lembi della strada.
Mi rappresento in un qualche modo al di fuori di qui, sotto le cascate di voci di estranei si rappresenta la periferia dei sentimenti… perso il letto del fiume si aspetta una foce per navigare gli sconfinamenti del mare.
Ma non c’è un mare nella periferia e quel brusio continuo di ossa e cappotti che si strofinano all’aria mi accoglie in una desertica zona di me.
Che facciamo
Dico
Andiamo al cine
Va bene
In un concisa e esatta armonia di intenti proseguiamo
Lo stronzo di turno mi taglia la strada
Le adolescenti nigeriane si scaldano e intorno il fumo del fuoco succedono cose, che non rappresentano altro se non una serie di segni indelebili, nella memoria mia che è il tuo adesso.
Il succinto abito alla vita descrive un corpo infantile poi sbirci nella macchina dove siedo io e ci eludiamo l’una all’altra la possibilità di vivere, ti tolgo qualcosa, mi togli qualcosa.
Ogni semplice rapporto nasce da un bisogno, mi dico
Ogni sorriso nasce dal suo appagamento, penso.
Torniamo presto
Dico
Sei stanca
Nei miei giorni, sovraccarichi di esperienze, denudo lo sguardo dalla forza dei ricordi perché l’oggi accada con la stessa facilità.
Cosa vuoi dire, dico tra me
Voglio spiegare che è difficile dare un senso al degrado che mi ostino a descrivere senza che ne sia parte
Partire ancora
Rimanere nella contraddizione
Chiudo una sigaretta.
La strada lieve riprende il suo corso. E’ tardi. L’oscurità della via spezzata dai fari che proseguono verso la tua casa.
Il sapore del tabacco e l’ordine nuovo da dare alla parte di mondo, alla periferia che attraverso con te.
Emiliana Chiarolanza
immagine D. Arbus
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Ready player one

Columbus, Ohio, 2045. Oasis è l’universo virtuale dove vivere perché il resto del mondo lì fuori è un catastrofico paesaggio da dove rifugiarsi il più possibile. In una sorta di gioco prospettico temporale, in cui ciascuno dei personaggi traccia una sua ipotetica esistenza realmente fuori, ecco che accade l’impossibile.
Lo scontro nel tempo virtuale nidifica e batte la realtà come soltanto alcuni supereoi sanno fare. Ma non è una trama da supereoi soltanto la potenzialità del gioco come estensione della vita seria e come elaborazione irrazionale della prospettiva vivente realistica. Giocare per Spielberg rappresenta in realtà proiettarsi in una dimensione del pieno Sé, come aspirazione o semplicemente come sogno. “La nuova resistenza” che si anima di una serie di icone pop anni 80 che pullulano nella distopia creata da Spielberg, sulla traccia dell’omonimo romanzo di Ernst Cline (ed. DeA Planeta Libri) descrivono il passato come storia. E la storia del suo creatore James Halliday (Mark Rylance), indicherà la via per salvare il mondo di Oasis e le storie che ad esso si legano.
Il protagonista, colui che agisce e regola il ritmo dell’azione, è l’ adolescente Wade Watts (Tye Sheridan) che nel gioco si trasforma nel suo avatar, Parzival. È la dimensione dell’avatar che esalta l’idea del gioco virtuale come proiezione positiva del Sé, come elaborazione potenziata della propria personalità che non lascia spazio alla delusione, l’Essere inteso come un insieme d possibilità esistenziali, trova una regione espressiva e una sua saturazione. Allora il gioco è sostanzialmente vivere con gli altri per …
Le città reali e non, rappresentano per Spielberg oasi di solitudine laddove non c’è posto per il vortice sentimentale e amoroso.
La chiave di lettura di una rinascita esistenziale, deriva dalla possibilità di essere con l’altro, l’amore come percorso di soddisfacimento personale e sociale.
Emiliana Chiarolanza
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Frammenti identitari della natura

A un certo punto della passeggiata mi chiesi cosa dovessi in effetti aspettare… che il fiato riprendesse il suo ritmo e allora distendermi sul prato tra le margherite oppure continuare fino a farmi venire il fiatone.
La vista era occlusa da un salice nei pressi del lago, e allora si capirà che si tratta di una porzione abbastanza importante della vista, allora presi la mia decisione e proseguii lungo la strada fino alla vetta della collina.
Camminavo da sola e senza rimpiangere di non aver chiamato nessuno ripensavo al mattino precedente.
Il lavoro di divulgare e di educare e un insulso scarafaggio nero che proseguiva con me lungo i corridoi della mente.
La ricerca di una poetica definitiva e trovarla in certi angoli dei paesaggi insieme e poi non trovare la forza di stabilirne le geometrie, lasciando tutto al caso e al caos del gioco del mondo dell’uomo.
Rimanere esasperati e esasperarsi per i giochi dei sentimenti, sempre pudichi, sempre supremi… come se si giocasse all’adolescenza che rimane attorcigliata ai lacci delle scarpette.
Non la mia certo e neppure la tua.
L’ideologia sull’esistere, come un inganno che ritrovi però ai margini della strada, di chi sceglie le stelle e la spazzatura, la panchina e l’aiuola piuttosto che un pasto caldo e un lavoro sicuro.
Necessario è capirne il linguaggio, siccome si parla tanto vale intenderci.
Emiliana Chiarolanza
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Recensioni possibili… Bande à part Jean-Luc Godard

La creazione estetica di bande à part è un lavoro complesso ..la presenza della voce narrante e i fatti narrati offrono una sorta ..ridotta ..di multiprospettivismo ovvero una narrazione vista da angolature differenti… un altro punto di vista.
Nessuna forma di perfezione stilistica, nessun ellittismo ma una narrazione temporale fluida, coerente.
In questa sospensione e una volontà di esibire l’esuberanza, si esprime un’idea di cinema che non è sintesi ma conflitto nel quale si muove la protagonista.
La femminilità che crea il suo doppio, casalingo e non, mondano e intimo in una ambiguità sostanziale che deruba e che uccide. In questo vuoto in cui si muovono i tre personaggi si sottrae il tempo del pathos .. alla vicinanza emotiva, alla sofferenza e maggiormente si delinea come distacco, formale.
La non esistenza e una certa volontà di creare una comunicazione in un mondo che non ci appartiene.
Non hanno memoria i personaggi di Godard… non hanno radici storiche.. nell’attuare il loro contemporaneo affermano un’esigenza intima di capovolgimento senza però che ci sia e avvenga una presa di coscienza.
Il film nasce come un insieme di immagini che affollano, un agglomerato di eventi che tutto deve stabilire. Spaziosi corridoi e tenere campagne fanno da sfondo a un omicidio e una rapina, alla brutalità alla ferocia; mai narrata, sempre sfiorata, nessuna fierezza ma soltanto uno scapestrato approccio col mondo dalle conseguenze nefaste.
Jean Luc Godard dà voce all’immediato in una incessante oscillazione tra possibile e non.
Citando Foucault l’impensato è sempre abitato.
Emiliana Chiarolanza
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L’iperreale sta alla fantasia come lo smartphone alla comunicazione
L’iperreale sta alla fantasia come lo smartphone alla comunicazione… si tratta di una distorsione oppure rappresenta una semplice espansione del concetto… con questo quesito mi dedico alla razionalizzazione dei concetti di politica e realtà….
Una campagna elettorale vuota di contenuti…. un’ondata di nullificazione partitica in vista di una catena di alleanze prevedibili, possibili, determinanti per il funzionamento della macchina statale.
In una realtà politica odiosamente qualunquista, conforme alla paure dei più, si celebra la primavera verde della lega, la nuova e sempre uguale a se stessa destra xenofoba e razzista…. Esistono personaggi in vista che dichiarano l’irrisorietà della cultura dell’odio a meno che non si infranga la legge in nome di quest’odio.
Il razzismo è sempre un’approssimazione, una mancata analisi, una paura recondita ma senza disturbare la psicologia potremmo dire che è un’idiozia.
Rileggevo Vattimo, Della realtà, in la dissoluzione etica della realtà …bisogna preferire il dialogo al conflitto… eppure la capacità critica-dialettica-essa passa per il conflitto dice il filosofo..
Ermeneutica a parte, questo l’argomento di Vattimo, ci sarebbe da chiederci se questa canzone da organetto cui si è ridotta la campagna elettorale non sia una distorsione iperrealistica. I fascisti non esistono e gli antifascisti sono pazzi, non odiamo i neri sono loro che puzzano… che poi.. antifascisti dovrebbero essere tutti gli italiani che costituzionalmente aderiscono a una democrazia che non è teatrino dei cretini di turno ma un sistema di governo in grado di garantire la pace e il benessere alla popolazione.
Emiliana Chiarolnza
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Il treno a vapore.... filastrocca

C’era una volta il treno a vapore
che non era elettrico ma andava a carbone
sulla punta c’avea una campana
che avvertiva del fumo che spandeva per l’aria.
Per ogni vagone più d’una poltrona
dove qualcuno leggeva
e qualcun altro dorme ancora,
la locomotiva,
così si chiamava,
d’ origine inglese e mondiale di fama.
I treni a vapore
non sono scomparsi,
sui binari però fan pochi passi,
tragitti alberati e pochi vagoni,
lo chiamano il treno dei sognatori.
Ma ora svelti tutti in carrozza
che il treno a vapore comincia la corsa,
suona la campana, fischia la stazione,
si parte per andare, prima destinazione.
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La ragazza senza nome...film

Dopo Due giorni una notte, i fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne, i registi belgi che, con la loro cinematografia cercano e riescono ad attivare domande e riflessioni sulla società contemporanea, portano in sala La ragazza senza nome con Adele Haenel, Jérémie Renier, Olivier Gourmet, Fabrizio Rongione.
Ad un’ora dalla chiusura dell’ambulatorio medico della giovane Jenny (Adèle Haenel) una donna suona al citofono senza che la giovane medico risponda.
La narrazione registica ben calibrata e col supporto di una fotografia puntuale e realistica, si concentra sui sensi di colpa di Jenny alla scoperta della morte della donna alla quale non ha prestato soccorso. Inizia un pericoloso peregrinare della donna alla ricerca dell’identità della sconosciuta. Forte e persistente per tutta la durata del lungometraggio, un’idea di indifferenza che sottende ogni attimo del film. L’indifferenza di cui forse essa stessa si sente patologicamente affetta, nessuno escluso insomma in una penetrante metafora di un’Europa dove individualità e il benessere personale sembrano condurre naturalmente all’ostlità e al conflitto, culturale e generazionale.
Se con Due giorni e una notte, i fratelli Dardenne avevano concentrato sulla figura sempre femminile, Marion Cotillard, le ansie della società lavorativa e le problematiche relative alla perturbazione psicologica della protagonista, stavolta il film si fa lunga metafora espressa in incontri e dialoghi con sconosciuti ma rimanendo fedele ad una sorta di stabilità interiore dalla quale nasce una sorta di sentimento d’amore più che di solidarietà che riempie la narrazione di intima etica e profonda volontà di conoscere.
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Appunti per una recensione.... Il filo nascosto

Il linguaggio ha più a che fare con l’estetica che con la pratica….
Con questa ermetica citazione della scrittrice belga Amèlie Nothomb apro il sipario sulla narrazione cinematografica di Paul Thomas Anderson con il suo “Il filo nascosto” in proiezione nelle sale.
Perché citare la Nothomb? Perché impariamo a sussurrare un linguaggio mai praticato ma carico dell’eleganza dei sensi che mai ostentano e mai risultano informali, spontanei, ma sempre costruiti su una ragionevole volontà di apparire ciò che si è, ma nel miglior modo possibile.
Daniel Day Lewis implacabilmente elegante traccia il filo di un abito da indossare perché sia sempre la festa degli altri
Reynolds Woodcock - Lewis è un noto e stimato sarto nella Londra degli anni 50… dedito al lavoro si intende già dalle prime battute che sia difficile per un uomo come lui riuscire a realizzare un amore, una dedizione, un desiderio con una donna.
Vive con la sorella ( Lesley Manville ) , una donna che sa vivere con lui e le sue relazioni… instabili, eteree, inconcludenti.
Ecco allora che arriva Alma( Vicky Krieps) sulla scena, ne farà la musa, la modella, la dea…
In un intreccio di amore, cura, passione e distruzione, i due personaggi descriveranno una scena sontuosamente drammatica fino ad arrivare al limite, di Reynolds Woodcock e di Alma.
Non è la storia antica di Eros e Thanatos eppure ci porta lì, all’aria di una morte velenosa di una relazione che cela dietro tanta bellezza, una voce macabra e terribile. Perché negare eros e thanatos? Soltanto perché la morte in realtà non determina alcunchè se non la sua comparsa … l’idea , l’ombra come ultimo limite , come ultima voce.
Chiedersi chi si è prima del passo definitivo…. E allora si cammina nella potenzialità dell’esistenza come un inesauribile divenire, come scenario di progressivo abbandono alla vita. E allora la vita e l’esistenza non rappresentano un sinonimo grammaticale ma una spossatezza visiva, non senza ironia si presuppone.
Post-porre la vita eccelsa all’esistenza misera e miserabile ma venerabile perché irriducibile ..l’esperienza dell’amore allora rappresenta una totalità emozionale raramente sostituibile. In questo trionfo di una gioia quasi terribile ci si dimentica finalmente della vanità e si ricomincia da lì.
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The shape of water... appunti per una recensione

L’acqua e la forma della vita in una equazione onirica.
Nella Baltimora del 1962, durante la guerra fredda, gli interessi dei due blocchi politici opposti convergono su una creatura anfibia venuta dalle acque.
C’è un’altra creatura venuta dall’ acqua che vaga sulla terraferma, la deliziosa e senza voce donnina delle pulizie. Ritrovata in fasce, abbandonata sull’acqua.
Il filo del silenzio dell’acqua, le parole soffocate e immerse nelle onde, ci conducono in un universo di amicizie e solitudini sul grande parapetto di una strada del centro a partecipare in qualche modo.
La solitudine e la coesione si intrecciano in un giro di valzer subacqueo, marino, lieve, muto che ammutolisce.
In un disegno scientifico sbagliato si muove la donnina che cercherà di restituire all’anfibio la dignità di un addio prima di diventare la protagonista del desiderio, il suo e il loro
un pezzo di deserto ci viene restituito perché si sistemi tutto.
Il discorso di Del Toro, sulla dignità, sull’amore, sulla verità del Bene, convince perché assomiglia a una di quelle torte al lime che servono in città, aspre e pannose, e in questo contrasto di desiderio e bisogno si muove una narrazione sotto il livello del mare, senza il peso della terra, senza il contrasto del corpo che si muove contro il vento e che impara a liberarsi nella tempesta del tempo di un amore.
The shape of water
Regia Guillermo Del Toro
ATTORI: Sally Hawkins, Octavia Spencer, Michael Shannon, Richard Jenkins, Doug Jones, Michael Stuhlbarg, David Hewlett, Nigel Bennett, Nick Searcy, Martin Roach, Lauren Lee Smith, Allegra Fulton, John Kapelos, Morgan Kelly, Marvin Kaye, Wendy Lyon
Il film ha vinto il Leone d'Oro al Festival di Venezia 2017 ed è candidato a 13 Premi Oscar 2018.
Emiliana Chiarolanza
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Monologo di una narcolettica

Un faro centrale s’accende con rumore di scatto fotografico.
Interno. Squilli di telefono da lontano. Entra il soggetto in tuta nera.
In sottofondo Radicalfashion / Photo Dynasmo.
(Assonnata) Fu la prima volta che mi persi.
Pausa
Come la pagina squarciata dai colori però, in una sordità colorata che si espandeva sbalordita sopra me stessa. Un cielo prossimo alla camera fino al tempo in cui ti chiedi se sei sveglia. Allo stesso modo le parole del sonno prendevano forma di nuvole mentre rimanevo col fiato sospeso tra la strada, uno schermo del cinema il mio viso tra altri visi conosciuti che pian piano mi fiancheggiavano per poi sparire.
Si accende uno schermo cinematografico alle spalle con rumore di scatto fotografico
(Euforica) Mi piace Pasolini, concepisco però un rifiuto di svelarne i contenuti. Guardavo Salò, secondo me è durato tutta la notte, prima che mi rivestissi per andare all’Università. E dicevo che mi ero persa. Mi trovavo in un corteo, una manifestazione, ero per strada.
Un viale di luci incastonate in terra si accende in scena
Mi piace la mia casa. (Incrocia le mani e si sposta di spalle, guardando lo schermo). Dico che era una manifestazione per il diritto alla casa, un diritto universale, ma come se stesse per succedermi qualcosa, avevo perso ogni barlume di consapevolezza.
Una mia abitudine eccentrica mi spingeva a bere un caffè, idealizzare una vagabonda su un foglio di carta e nello stesso tempo ostentarne la stabilità esistenziale.
Rimango ancorata al mio comodino ancora qualche po’ di tempo… sono passate 14 ore e penso al mio armadio, manifestare per la casa ha un senso aulico come un trattato di filosofia.
Entra un uomo con un libro tra le mani che si accende una lampada accanto.
Ritorna a guardare la sala, rumore di scatto fotografico
Ma vorrei organizzare un discorso con gli altri ma non li trovo.
(Tono acuto, frettolosa) Sbircio tra la folla ma vedo un fiume che scorre da lontano, così barcollando in questa letto di persone, mi accatasto come un libro in un percorso diritto. In questa piattaforma riesco a tenermi sotto controllo le ansie perché non conosco questa città ed ho paura di non saper tornare indietro. Tra questi volti riconosco quello del dott. Di Resti. Fino a che non arrivo alla visita medica in ritardo mentre la marcia precipitosamente si avvia alla fine del viale dove ho perso tutti e sento solo il fragorio dell’acqua del fiume sul letto.
Entra in scena un uomo che attacca alla parete il quadro dello Tsunami di Kanagawa
(Tono arrendevole) Già il letto, il letto dello studio medico mi fa increspare le labbra. Tutto quel bianco che scintilla dalle pareti e sui mobili. Mi piacerebbe costruire una memoria alternativa che sappia rendere meno debole questo ambiente che mi si accascia addosso. Ma sono mie supposizioni, certo.
L’uomo con un libro tra le mani si accinge ad indossare un camicie bianco da medico e la invita a stendersi su un lettino da visita.
Sto bene, dormo spesso durante il giorno dottore, si ne sono consapevole, devo curare la mia narcolessia. (Buio)
Emiliana Chiarolanza
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FILASTROCCA Di CARNEVALE

Carnevale è un signore elegante
Che gira in carrozza con ronzino e fante
E sparge per strada tra maschere sgargianti
molti coriandoli e stelle filanti
Carnevale arriva in febbraio
Con un mantello foderato di vaio
In casa si preparan, grostoli, e bugie, cenci chiacchiere
E via via frittelle con zucchero a volontà
che nessuno rinuncia a questo leccornia qua.
Per quest’anno mi travesto da quel che più mi diverte
Da pirata, da fantasma da qualcosa che ho inventato
purchè sia festosamente carnevale mascherato...
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