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Jenner64
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Scrivo storie di persone che incontro e di cose che mi succedono. -Alessandro Ceschi
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jenner64-blog · 10 years ago
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Cene romantiche fra pizze e bucato
"Ma stai mettendo a posto la camera?" "Sì, sì. Metto a posto la camera." "Metto a posto la camera" è un eufemismo. Sto rovesciando divani, muovendo letti, e alzando armadi. Trovando polvere in angoli finora inesplorati. Unendo calzini rimasti separati per mesi. E non posso criticare il mio coinquilino per essere sorpreso - in tre mesi di convivenza, è la prima volta che mi vede così impegnato in un'impresa di pulizia totale. "Il ragù ha un profumo buonissimo, comunque. Sono invidioso." "Grazie. Ne dovrebbe rimanere un po' per domani." "Vuoi che mi faccia un giro stasera? Vi lascio da soli?" "Voglio dire, non voglio cacciarti di casa..." "Mi posso fare un giro con i russi. Non è un problema. Capisco com'è." "Ok. Perfetto, allora. Apprezzo." La ragione che mi fa girare per la stanza cercando di darle un aspetto decente è che sto aspettando Annie a cena. E quando apri la tua stanza a un'altra persona, ti accorgi che è pieno di cose di cui è meglio liberarsi - il bucato steso ad asciugare sulla mia bicicletta? Già la nozione di una bici parcheggiata in camera non è universalmente accettata, ma farci il bucato è senza dubbio spingersi troppo in là. (Ed è questa la crescita personale che riesco ad ottenere da una relazione con una ragazza? Capire che devo andare al Carrefour e comprare uno stendino? Beh, è qualcosa, in ogni caso). Comunque i panni sono asciutti, per fortuna, quindi rimuovo subito ogni prova dell'accaduto. Mentre mi distruggo la schiena alzando il divano, mi sorgono una serie di domande con implicazioni piuttosto negative - che forza di volontà ho, se ho bisogno di ospitare qualcuno a cena per avere una camera presentabile? Che tipo di persona può attrarre, qualcuno che fa il bucato sulla bici? Imparerò la lezione e comprerò uno stendino, o da domani siamo a punto e a capo fino alla prossima cena? Non sono sicuro di volere sapere la risposta a tutte queste domande. "Quando il ragù avrà ripreso il bollore, unite anche il concentrato di pomodoro (11)," dice la ricetta di GialloZafferano. "Amalgamatelo al ragù, salate (12) e pepate (13) a piacere e fate cuocere tutto a fuoco basso per circa 3 ore." La parte che non sopporto di come sono scritte le ricette è che omettono informazioni. Non ti dicono cose. Danno per scontato che lo sai, che in quelle "circa 3 ore" devi essere in cucina a mescolare il ragù, non in camera a scrivere un articolo - proprio quello che finisco a fare, pensando che per tre ore il ragù non avrà bisogno di assistenza e si cucinerà da solo. Il ragù si cucina da solo, in effetti, ma si brucia anche. Ho quasi finito l'articolo, una cosa per lavoro, quando penso di fare un salto in cucina a controllare il progresso del ragù - il cronometro sul mio telefono segna "2h 16min," e andare a vedere come va mi sembra una buona idea. Prendo un'altra pentola, dove sposto tutto il ragù che non si è bruciato. È abbastanza per me e Annie stasera, ma non ce ne sarà per il mio coinquilino domani. Nell'operazione di cambio pentola, del ragù mi schizza sui pantaloni grigio chiaro. Intervengo subito con una spugna, che sembra fare il suo dovere. Spengo il fuoco e lascio il ragù in una pentola coperta. Mi verso un bicchiere del vino che stavo usando per cucinare, mentre torno in camera a finire l'articolo e aspettare che la macchia si asciughi - sono le sette e un quarto, ho un'ora. La tavola è già pronta. Non nel modo più liscio possibile, ma le cose stanno funzionando. Sono le 20:43. Annie è in ritardo, ma aspetto senza dire niente. Accettiamo i ritardi, qui in Via Jenner. Mi arriva un messaggio. "Ugghh il mio lettoooo non voglio muovermi. Porta il cibo qui!" Accettiamo i ritardi, qui in Via Jenner, ma non rivoltiamo la casa e prepariamo un ragù per metterlo in una vaschetta di alluminio e andare a prendere il tram. "Sicura? Ho tutto pronto. Qui, intendo." Sottolineiamo: qui. "Ahhh non voglio tirarti pacco, mi dispiace, ma non voglio fare nulla di troppo folle stasera." E quello che ho fatto io questo pomeriggio? Il ragù e il divano e pensare di comprare uno stendino? Quello non era folle? Ok, lo stendino magari no, ma preparare ragù e spostare divani sono attività in qualche modo fuori dalla norma, che meritano un riconoscimento. Non un pacco all'ultimo minuto. "Mi sento un po' così e non voglio spingermi. Però arrivo, dai." Ok, così va meglio. Le mie indicazioni da guida turistica ("tram 8 verso Casaletto, fermata Piazza San Giovanni di Dio, sinistra in Via Jenner fino al 64") non funzionano, perché Annie è una ragazza americana a Roma da due mesi che non si è mai spinta oltre ai sacri confini della Stazione Trastevere. Quindi decidiamo di incontrarci alla Stazione Trastevere. Arrivo, aspetto dieci minuti, e vedo Annie sul tram che si sta fermando. Le faccio cenno di rimanere a bordo, salgo, e andiamo a casa. Lei mi racconta la sua giornata (letto, serie tv, cibo); io annuisco, e rispondo che anch'io ho avuto una giornata tranquilla. "E questa è la camera," dico, andando verso la porta e suonando un po' come un agente immobiliare che cerca di affittare un appartamento. Entro in camera, accendo la luce, e indico qualcosa - non so bene cosa, forse l'ordine in generale. "Ma è bellissima," dice Annie. "È grande, e perfetta." "Cerco di tenerla a posto," dico sobriamente. Andiamocene da qui, prima che mi tradisca in qualche modo. Butto la pasta, mentre il ragù aspetta lì vicino, e facciamo un aperitivo - vino rosso, prosciutto crudo, mozzarella. "Un po' di cartoni di pizza, eh?" dice Annie. I cartoni di pizza. Lo sapevo. Sapevo che avevo dimenticato qualcosa nel mio piano di riqualificazione dell'area domestica. I cartoni di pizza sono sopra agli scompartimenti del cibo, accumulati in due pile di uguale altezza, e se il soffitto fosse appena più basso forse lo raggiungerebbero. I cartoni di pizza sono parte dell'arredamento di Via Jenner: è ovvio che non li avevo notati. "Eh eh," dico, senza sapere bene dove sto andando con la mia risata incerta. "Dei cartoni di pizza in cucina sono sempre meglio di un bucato su una bici in camera," penso, e sarebbe una battuta perfetta se solo Annie sapesse a cosa si riferisce. Ma non lo sa, e va bene così, e sacrificherò un rischioso momento di ironia per una comoda frase di circostanza. "Ho dimenticato di portarli fuori, i cartoni, sì." La battuta la userò più avanti.
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jenner64-blog · 10 years ago
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Quasi tango alla festa di primavera
Giacca e cravatta. Un sacco di prosecco. Conversazioni veloci con gente che conosci poco. Tante foto. Posto elegante, fuori città. Cibo disposto con cura e preso d'assalto senza dignità. Sono stato ai diciottesimi. So come si fa. Sì, penso di sì. Penso di poter andare alla festa di primavera della mia università. A parte che non ho una giacca, né i pantaloni giusti, o una cravatta. Non mi era venuto in mente, quando facevo la valigia per Roma, che avrei mai avuto bisogno di vestiti per andare ad "eventi" con un "dress code." Ancora meno immaginavo dress code pretenziosi come "Cocktail - Dress to Impress" - il caso di stasera. Rimedio un completo - giacca e pantaloni - dal mio coinquilino Slavik ("La cosa più preziosa che ho, trattalo bene"). Sotto alla giacca nera, una camicia bianca che non ha mai provato il lusso di un ferro da stiro. Le pieghe? Vintage. La cravatta. Ho dimenticato la cravatta. È troppo tardi, ora. I negozi sono chiusi. Una sciarpa da designer coprirà la mia mancanza. "Bella quella sciarpa," mi dice qualcuno che evidentemente conosco, anche se non ricordo bene chi sia. "Grazie, è divertente perché..." Ma se n'è già andato, perché era solo un commento al volo, e chiaramente nessuno alla festa è interessato ai retroscena del tuo abbigliamento. Errore da principiante. Devo ritrovare la via. Vado a prendere un prosecco. Esco in terrazza, a contemplare la vista. Lo Zodiaco, il ristorante, è a Monte Mario. Essere su un colle a Roma è sempre una buona notizia per gli occhi. Finisco a parlare con una ragazza olandese che ho visto un po' di volte. "Vorrei aprire un istituto per promuovere le arti visive in Medio Oriente," mi dice la ragazza. "Per dare uno spazio creativo a chi non ce l'ha. Soprattutto ai disabili." Wow. Queste cose non le sentivo ai diciottesimi. È parte della cultura dei ritrovi internazionali a Roma, parlare casualmente di progetti umanitari che devono salvare il mondo, e poi passare al prossimo drink. La cosa interessante di una festa organizzata da un'università americana è che devi firmare una carta dove ti assumi le responsabilità per quello che farai da ubriaco. Ti "impegni a mantere un decoro adeguato," e liberi l'università da una serie di oneri legali e finanziari per danni o problemi che potrai avere o causare. Ci sono almeno due o tre storie di americani e alcol a Roma che giustificano queste precauzioni. Una ragazza cinese al mio tavolo tira fuori una "macchina fotografica per selfie," una sorta di telefono arrivato dalla Cina con una fotocamera che "ti rende la faccia pulita." Ci facciamo tutti un selfie con la faccia pulita. "Sai ballare il tango?" mi chiede una ragazza che conosco dal mio corso di Shakespeare, texana di origini messicane. Ma mi perdo la prima parte della domanda, e lei dice "tango" con un accento troppo texano che suona qualcosa come "teeingo," e ci aggiungi la musica e il prosecco e finisco per credere che mi abbia chiesto se sono single. Dico di sì, e cominciamo a ballare - ironicamente, le due domande erano diverse, ma portavano allo stesso risultato. In ogni caso, è più difficile ballare il tango che essere single. Un'altra ragazza del corso di Shakespeare mi vede, mi saluta, e ride con una sua amica. C'è qualcosa di adulti che si divertono, in tutto questo - persone che di solito senti fare commenti ragionati sul ruolo di Falstaff in Enrico IV, di colpo stanno provando passi di tango e prendendo birre di sconosciuti dal tavolo. Dovrebbe essere una festa americana, ma presto arrivano i classici italiani - mi ritrovo a tradurre il testo di "Ma il cielo è sempre più blu" a una ragazza israeliana che, inspiegabilmente, si rivela un'appassionata di Domenico Modugno e canta "Meraviglioso" con tutta l'energia che ha. Il dj, un classico quarantenne pelato da diciottesimi, fa partire "Piccola Stella Senza Cielo" di Ligabue. Un gruppo di ragazzi italiani si accumula davanti e si sporge verso la console, dove uno schermo fa scorrere il testo delle canzone, in stile karaoke. Mi unisco a loro, nella creazione di un'ambasciata di cultura pop italiana in una serata americana. Cominciamo a cantare, e subito ricordo come si fa. Ai diciottesimi, sfruttavo la mia esperienza in curva sud a San Siro per riunire persone e farle cantare insieme. Devi dimenticarti ogni tipo di intonazione, e urlare le parole della canzone saltando e abbracciando quelli vicino a te. Ed è quello che facciamo. Mentre insceniamo la versione da stadio di "Piccola Stella Senza Cielo," vedo in fondo alla pista la ragazza texana di origini messicane. È ragionevolmente perplessa dal nostro entusiasmo, ma spiegare sarebbe inutile.
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jenner64-blog · 10 years ago
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Fra ragazze e cialde di caffè
"Allora, come va? Con Juliet?" "Ah, più niente. Scomparsa." "Come scomparsa?" "Scomparsa. Ieri mattina non rispondeva, poi il pomeriggio passavo vicino a casa sua e le ho chiesto se voleva prendere un caffè." "E?" "Non voleva." A meno che, penso, non rispondere a un messaggio sia un modo velato di dire che vuoi andare a prendere un caffè. Possibilità che non smetto di considerare. "Te tutto bene?" "Io sì, tutto bene. Mi dispiace comunque. Come ti senti?" "Va bene, va bene. Juliet non era una bella persona in ogni caso." "Ma come? E il suo programma radio e le sue foto ai concerti? Non era la persona più interessante al mondo?" "Sì, ma il fatto è, sembrano tutte così, all'inizio. La prima volta, e la seconda, e la terza. È come sfogliare quei cataloghi di cialde della Nespresso, con tutti i vari tipi di caffè. Dharkan, Volluto, Colombiano." "Aspetta, perché le ragazze sono come cialde Nespresso?" "Perché appena le scopri rimani affascinato dalle poche informazioni esotiche che hai su di loro. Senti qua, sono sul sito della Nespresso: 'Pura Arabica del Sud America, Volluto rivela note dolci, biscottate e leggermente fruttate, rafforzate da una leggera acidità e da una nota fruttata.' Tutte chiacchere per farti comprare le cialde." "Continuo a non vedere il collegamento fra Juliet di Boston e il Volluto della Nespresso." "Tutto quello che mi ha detto Juliet la prima sera, la rubrica musicale per la radio e le foto ai concerti per la rivista, funziona tutto come la pubblicità di una cialda di Volluto. Ti convince subito, ma poi..." "Poi ti stufa." "Poi col tempo la provi e la riprovi e scopri com'è davvero. E può piacerti o no, ma capisci che quelle poche informazioni iniziali non erano per niente rappresentative di tutto il prodotto. Ecco, questo." "E in quale tempo l'avresti capito, scusa? Di Juliet, dico. Mi sembrava una delle tue classiche relazioni con una durata massima di 72 ore." "Ieri sera, ad Almalu a Trastevere. Stavo bevendo un gin tonic con Annie. Juliet è passata, ha preso Annie da parte, e le ha detto che se voleva poteva andare avanti tranquilla con me perché ero libero." "Che stronza." "E queste cose non le vedi all'inizio, perché sei accecato dalla radio a Boston e tutto il resto. Ma la radio a Boston dopo la prima sera non conta più." "Quindi cosa vuoi fare? Smetti di comprare cialde di caffè perché ti fregano sempre?" "Smetto di rincorrere le pubblicità, perché non vogliono dire niente. E sono stufo di continuare a saltare da una cialda all'altra. Mi sembra di essere alla fine del catalogo, e non mi è rimasto molto in mano." "Niente, direi." "Giusto. Grazie." "Altri paragoni? Ragazze che assomigliano a scatolette di tonno o a pacchi di cereali?" "A posto così, per oggi."
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jenner64-blog · 10 years ago
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Cene russe
È diventata un'abitudine, in qualche modo. Martedì a pranzo mi ritrovo con tre o quattro compagni di università esteuropei a mangiare da qualche parte a Trastevere. Un trancio di pizza alla Boccaccia mentre gente di Mosca dice che vuole andare a Minsk e gente di Baku dice che vuole andare a Vilnius. Passano minuti in cui si parla russo e non capisco nulla. Poi una ragazza dell'Azerbaigian mi chiede con chi gioca la Roma giovedì. La Fiorentina, in Europa League. Questo pezzo di vita quotidiana non ha alcun senso, se non dire che un sacco di gente parla russo in un'università americana a Roma - russi per cui è la lingua madre, o ucraini e bielorussi e azeri per cui è la seconda lingua. In ogni caso, si capiscono fra loro. E, forse più importante, questi martedì esteuropei dicono che per qualche motivo questo microcosmo mi affascina - un centinaio di persone che parla la stessa lingua in una piccola università di una grande capitale (le uniche lingue più parlate sono italiano e inglese). Quindi giovedì scorso mi sono unito a loro. Ho accettato l'invito del mio amico Kenan, e sono andato a fare l'unica persona che non parla russo alla "Russian Dinner," il ritrovo settimanale dei russi che studiano a Roma. "Lo sai che stasera non c'è cibo, vero?" mi dice Anatoliy mentre camminiamo verso il Tiber Cafe, il bar al piano interrato della John Cabot University nella sua sede sul Lungotevere. "Niente cibo?" dico, aspettando la seconda parte della battuta. "Solo vodka," dice Anatolyi." È vero che scherza. È vero che ha delle bottigliette d'acqua piene di vodka nello zaino. Le cene russe non sono un monumento al femminismo. È una cena per cinquanta persone preparata a casa dalle donne. Una ragazza al microfono chiede a "chi non ha cucinato" di passare da lei e portarle cinque euro come contributo. Tutti gli uomini al tavolo si alzano tirando fuori i soldi, mentre cinque o sei donne coi tacchi camminano nella sala portando dei vassoi di cibo. Chiedo a Kenan se ha preparato qualcosa, anche se mi sembra una domanda retorica. "Io ho scaricato la musica," dice Kenan. Tutti sono felici, però, quindi forse non è un problema di maschilismo - o di alcun altro tipo. E magari è proprio sentire parlare dell'oppressione del sesso femminile ogni giorno che mi costringe a vedere un problema anche in una pacifica situazione conviviale dove uomini e donne si divertono. Forse giornali e professori e chissà cos'altro mi hanno creato un filtro per cui ora vedo una realtà totalmente distorta. Forse dovremmo lasciare che la gente si diverta e non romperle i coglioni. Prima di cominciare con l'insalata russa, facciamo aperitivo con un pinot grigio. "Niente vino russo?" chiedo un po' deluso. Mi rispondono che è meglio il nostro. Una ragazza viene verso di me - bassa, capelli biondi e lunghi, e credo il suo iPhone infilato nella sua scollatura. Tanya è di Kiev. Mi chiede se sono italiano, e che cosa faccio in mezzo ai russi, e mi dice che ha vissuto qualche anno a Napoli. Le chiedo se le è piaciuta Napoli. "Assai," dice Tanya, e annuisce con più serietà di quanta ne riesca ad associare a una ragazza con un iPhone rosa nella scollatura. Mangiamo russo - la famosa insalata, che a quanto pare si chiama Olivier in onore del cuoco francese che l'ha inventata a Mosca. Poi dei ravioli russi di cui continuo a chiedere e dimenticare il nome, forse per colpa del vino italiano. "Vareniki, Sasha," mi dice Kenan. "Vareniki." Vareniki sono i ravioli in russo. Sasha sono io in russo. La musica russa di Kenan è dance, e pop, e molta gente canta ridendo e abbracciando chi è seduto vicino a loro. Dev'essere come attraversare la Siberia in una macchina di cinque italiani cantando "Gli anni d'oro del grande Real" coi finestrini abbassati, anche se forse farebbe freddo - lo stesso richiamo collettivo della tua terra, con una canzone, mentre sei molto lontano. La musica sa riportarti a casa nel giro di pochi secondi e qualche nota, anche se "casa" vuol dire migliaia di chilometri di distanza. Kenan non avrà preparato da mangiare, ma questo lo sapeva.
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jenner64-blog · 10 years ago
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Primi caffè e colloqui di lavoro
Vedo un sacco di somiglianze fra un primo caffè con una ragazza e un primo colloquio per un lavoro, e magari un giorno ne parlerò più in dettaglio, ma per ora dirò solo questo: in entrambe le situazioni, primi caffè e primi colloqui, vieni valutato seriamente con domande su "dove ti vedi fra dieci anni." (Ok, mi è stato chiesto da una studentessa della Bocconi, la cui popolazione femminile è addestrata a valutare in cinque minuti le tue possibilità di successo finanziario e sociale nella vita. Ma comunque, primi caffè e primi colloqui condividono questa caratteristica - domande pseudo esistenziali buttate lì su un tavolo a uno sconosciuto con una certa incoscienza. Più ci penso, più mi spaventa l'idea dei prossimi caffè e colloqui.) Ma fatemi arrivare al punto, perché un mio ex prof parlava sempre di come quando scrivi puoi lasciare le cose in sospeso, ma solo se rispetti un certo limite, e ho la sensazione di essere vicino a quel limite. Il punto è, se dieci anni fa qualcuno mi avesse chiesto dove mi vedevo fra dieci anni, avrei indovinato? No, ma non avrei indovinato nemmeno se mi avessero chiesto, diciamo, tre o quattro mesi fa, dove mi sarei visto tre o quattro mesi dopo. (E questo misero fallimento delle domande sul futuro dovrebbe spingere i loro autori a smettere di farle e passare a qualcosa di nuovo, no? Ma non è un mondo pieno di innovatori, quello dei primi caffè e dei primi colloqui.) Non avrei mai indovinato, per esempio, dove sono ora. È un mercoledì sera da Garbo, un piccolo bar a Trastevere. Sono su uno sgabello al centro della sala, ho il telefono in mano, e una ventina di americani sorseggiano whiskey e cola e aspettano in silenzio che inizi a leggere un pezzo di Jenner64 - la storia di quando ho bevuto un litro di tequila e mi sono svegliato nell'ospedale sull'Isola Tiberina. La cosa bella, a mio parere, è che non sto facendo nulla di eccezionale - delle persone hanno già letto le loro storie, altre persone leggeranno le loro storie. Da Garbo funziona così: ogni mercoledì puoi andare e leggere quello che vuoi, cose che hai scritto o che ti piacciono. E ci sono cuochi texani, e scrittori di New York, e attrici teatrali inglesi in tournée europea che ti ascoltano e sorridono e alla fine ci parli normalmente, come se non avessi appena illustrato pubblicamente i tuoi eccessi alcolici. Non succede nulla di particolare, quando leggo la storia (divertente, però, come il mio ex prof di cui parlavo prima sia nel pubblico, e se la rida mentre scopre il mio lato alcolico dopo aver conosciuto quello accademico). Il rituale va a buon fine seguendo le proprie regole - leggi, la gente applaude, torni a sederti e avanti il prossimo. Niente di speciale, ed è proprio questo il punto. Ti puoi alzare davanti a tutti, fare il tuo spettacolo, tornare a casa. Non mi sento di chiedere molto di più. Le storie finiscono, la gente si alza, e c'è un po' di musica. Incontro Eliza, l'attrice teatrale inglese in tournée europea. Eliza mi chiede che cosa studio, e dico Comunicazione, e lei mi chiede "dove ti porta." Lo ricordo come un modo poetico di suggerire che studi qualcosa senza un'apparente utilità nel mondo reale. "Non sono sicuro. Giornalismo, credo." "Sì? È a fare quello che ti vedi, tipo, fra dieci anni?" Pure te, Eliza. Pure te.
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jenner64-blog · 10 years ago
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Cinque minuti spirituali
Ho incontrato diverse persone che sostengono o lasciano intendere di essere "spirituali." Queste persone, di solito giovani donne che amano recitare, ti chiedono di che segno sei. Parlano per dirti che le parole non servono; iniziano frasi che non possono finire perché "non rendono l'idea"; raccontano emozioni che "devi vivere per apprezzare." Uno si chiede se a un certo punto arriveranno i sottotitoli e capirai di cosa si sta parlando. Spesso si parla di "illusione del tempo," soprattutto se sei con persone che si identificano come zen - devi "vivere nel momento," non pensare al futuro, perché il tempo non esiste. Se pensi a quello che succede dopo, infatti, sei fregato. Ieri mi sono svegliato alle sei. Dovevo finire un articolo per le otto, studiare per un'esame fino alle nove, andare a lezione alle dieci, fare l'esame alle undici e mezza. È qui che vorrei un piccolo zen sulla spalla a dirmi che il tempo non esiste. Finisco l'articolo (un pezzo per il corso di giornalismo, su come prendere l'autobus senza biglietto a Roma sia parte della cultura locale), leggo un saggio sulla nascita di internet per l'esame, vado alla lezione di giornalismo. Tutto secondo tabella di marcia - ovviamente sempre pensando a cosa dovrò fare dopo, perché è così che funzionano le tabelle di marcia. In classe leggiamo il terzo capitolo di un libro che ha scritto la mia prof. Ironicamente, il contenuto del libro è qualcosa di molto spirituale: storie di persone che sono resuscitate. Chiedo per quanto tempo, al massimo, qualcuno è stato morto prima di tornare in vita. Circa tre ore. Sembra poco, per tutte le cose che queste persone dicono di aver fatto da morte - sono state "immerse in questa luce tipo blu e bianca," hanno visto i raggi del sole penetrare nell'acqua cristallina, hanno provato "amore assoluto." Non tornano i conti. In tre ore puoi scrivere un articolo e andare a lezione, non vedere l'universo. "Succede qualcosa alla loro percezione," dice la prof. "Il tempo o va più veloce o va più lento." Finalmente. Questa è la spiegazione ragionevole, quadrata di una mente occidentale che aspettavo. Non zen e "cose che non si possono spiegare a parole." Il tempo accelera o rallenta. Semplice. Però, è possibile che stia succedendo anche a me? Perché non so che ore siano. E credo manchi qualcosa come tre quarti d'ora al mio esame, ma davvero per cinque minuti buoni ho smesso di pensarci, all'esame e a tutto il resto che succederà oggi. Il tempo non esisteva. E la domanda che ho fatto, quella sulla durata massima di una di quelle morti temporanee, non volevo veramente farla. Stavo ascoltando, e a un certo punto mi sono ritrovato a parlare. Ma era una di quelle cose impulsive che una persona spirituale farebbe, senza pensare, vivendo nel momento. Mi sto trasformando in uno zen? Mi basta poco, per capire che non mi sono trasformato in uno zen - finisce la lezione, realizzo che manca un quarto d'ora all'esame, vado in classe. I cavalli del tempo tornano a galoppare alle mie spalle alzando polvere e facendo pressione. Ecco, questo è il resoconto dei miei cinque minuti da persona spirituale: non sai che ora è, fai domande senza saperlo. Forse sono un profano che interpreta un testo sacro, e spero che i miei amici zen non stiano leggendo. Ma un tentativo di capire è sempre più nobile di un rifiuto di spiegare.
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jenner64-blog · 10 years ago
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Quello che succede in montagna
Nel mondo felice delle università americane a Roma, i lavori occasionali che ti vengono offerti sono questi: assistenza ai figli della prof di inglese sul volo per New York (se, per caso, ti capitasse di andare a New York nello stesso periodo), "produzione testi" per il sito di una startup, traduzioni dall'italiano per riviste online di carte dei tarocchi. Mi sembra normale, quindi, che non so cosa fare davanti a una macchina bloccata nella neve in un paese di montagna in provincia di Belluno. Non è il contesto per cui vengo preparato. Non ho cultura da applicare a un Freelander fermo in un giardino a Falcade. Non posso nemmeno cercare un tutorial su YouTube, perché il telefono non prende. Quello che faccio è questo: sto in piedi, fermo, su un marciapiede a cinque metri dalla macchina che prova senza successo a uscire dal fango e dalla neve. Ho in mano un fumetto di Zerocalcare che volevo leggere nel viaggio di ritorno che stavamo per iniziare - io, le mie sorelle Cate e Marta, gli amici Cecco e Pippo. Per come è cambiata la situazione, però, un fumetto di Zerocalcare è diventato di colpo una cosa inutile da avere in mano. Quasi incomprensibile. Un pezzo di cultura urbana che non aiuta in circostanze naturali avverse. (Delle ruote bloccate nella neve sono "circostanze naturali avverse"? Credo di sì, se nel nostro mondo felice la maggiore tragedia possibile è una connessione internet rotta - e non sappiamo fare molto nemmeno per quella, senza un tecnico). Pippo sta mettendo dei rami sotto alle ruote posteriori. "Per fare attrito." Rimetto Zerocalcare in macchina, e vado anch'io a raccogliere rami da mettere sotto alle ruote. Procedere per imitazione è la scommessa più sicura in un mondo che non conosci. Sono le 18 di sabato, e fra 24 ore dovrei essere a Roma, ma dalla neve di Falcade alla mia stanza a Monteverde mi sembra ci siano in mezzo diversi anni luce. Di sicuro non una distanza che puoi percorre in un giorno. I rami non funzionano, e nemmeno i pezzi di legno o i tappetini d'ingresso delle case davanti. Aspettiamo Gigi, un signore che dovrebbe arrivare con una Jeep e trainarci fuori dalla neve e sull'erba. Gigi viene mandato da qualcuno che Cecco conosce, e che chiama, e a cui chiede aiuto perché siamo bloccati nella neve e non sappiamo cosa fare. Gigi non chiederà soldi, ci viene detto, "ma dategli qualcosa" perché è una brava persona e "poi la prossima volta vi porto tre salami dei miei." Credo di perdermi qualche collegamento fra noi che diamo soldi a Gigi e l'uomo al telefono che porta salami a noi, ma non sono pronto a discutere i meccanismi di mercato in un paese di montagna. Gigi è alto, sulla sessantina, giacca verde e camminata paziente. Non è scocciato: sorride. Con lui c'è Andrea, un signore più basso e più giovane con i capelli brizzolati. La coppia si avvicina alla macchina. "Intanto togliamo 'sta roba che non serve a niente," dice Andrea indicando i rami sotto alle ruote. Mentre i due studiano la situazione, dai nostri si alza una voce per rompere il ghiaccio - anche se magari non serve, perché i due sembrano molto sereni, e forse dovrei rivedere la metafora del ghiaccio quando sono bloccato nella neve. "Questi che si prendono il Freelander e poi vanno a fare gli scemi," dice Pippo scherzando. "Ma no, dai, abbiamo fatto tutti cazzate," dice seriamente Andrea, che sembra non aver colto l'ironia dell'affermazione precedente. (E in ogni caso, è questo l'unico dettaglio che riesco a notare? Due persone escono di casa per aiutare degli sconosciuti e penso al loro scarso senso dell'ironia? Forse dovremmo stare in città, e farci battute fra noi che guardiamo serie tv moderne e commedie intelligenti, e lasciare in pace chi sta in montagna.) Una corda lega il retro del Freelander a quello della Jeep, che ci libera senza troppa fatica. Il nodo sulla corda dalla parte del Freelander non si riesce a sciogliere, e Gigi e Andrea ci chiedono un coltello. Non abbiamo un coltello. Abbiamo caricatori da auto per iPhone comprati su Amazon, non coltelli. "Fa niente," dice Gigi, che dà istruzioni di portare avanti il Freelander - la ragione di questa strategia non mi è del tutto chiara, ma mi fido. Il Freelander avanza tre metri, Gigi si avvicina, prende la corda e scioglie il nodo. Gli chiedo cos'è successo, come ha fatto, cos'è cambiato. "Noi in montagna," dice lui ridendo, "noi in montagna sappiamo fare tutto." Ringrazio Gigi. Ripartiamo, e penso. Se si blocca la macchina in città chiami il carro attrezzi e spendi un sacco di soldi e la fai portare via. Se si blocca la macchina in montagna chiami Gigi e gli dai dieci euro pregandolo di prenderli e torni a casa. Mi metto a leggere Zerocalcare, perché uno può pensare a certe cose solo fino a un certo punto, se vuole rimanere sano. È una delle regole del nostro mondo felice.
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jenner64-blog · 10 years ago
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Immaginando il padre di Guiz
Sto andando a comprare una moto per il mio coinquilino Slavik. Una Yamaha FZ6N, se siete il tipo di persone a cui ho sempre annuito fingendo di sapere di cosa state parlando quando gettate casualmente il nome di una moto nella conversazione. Per tutti gli altri, è una moto nera, abbastanza grande, e tipo da corsa però la vedi anche in città. Vi dà l'idea, in ogni caso. Vado a comprarla io perché Slavik è a lezione, e anche se non fosse a lezione comunque sta aspettando la residenza italiana e quindi per ora non può essere il proprietario di una moto. È questo il motivo per cui io, che non ho mai guidato un veicolo motorizzato a due ruote in vita mia, sto per diventare il fiero proprietario di una Yamaha con 600 cavalli o qualcosa del genere. Forse dovrei dire qualcosa su perché non ho mai guidato un veicolo motorizzato a due ruote in vita mia. A cinque anni ho fatto la fiancata alla Ford Escort dei miei. Eravamo in macchina e stavamo per uscire dal garage, io e mia madre, e lei ha lasciato il posto di guida per rispondere al telefono di casa. Allora ho premuto qualche pedale, e a quanto pare girato un po' il volante perché la macchina è andata avanti e tutta a sinistra, e ha sbattuto su un muro del garage. L'episodio non ha colpito i miei per le mie doti di guida, e deve avere qualcosa a che fare con il fatto di essere l'unico di tre figli a non avere avuto una moto. Credo che uno possa capirli, in fondo. Ora sono le tre di pomeriggio, e mi appoggio al muro fra il portone di casa e il Tabacchi mentre aspetto un tipo di Ostia a cui devo dare le quaranta banconote da cinquanta euro che ho in tasca. Mi è sempre stato detto come non so nascondere nulla, che la mia espressione rivela sempre qualsiasi malumore, qualsiasi cosa voglia nascondere. Spero intensamente di non essere capace anche di un'espressione che riveli il contenuto attuale del mio portafoglio. Un uomo parcheggia una moto nera sul lato opposto della strada, e mi fa un cenno con la mano. È lui. "Piacere, Guiz," mi dice. Guiz sembra Marco Di Vaio, per il beneficio di chi ricorda il glorioso attaccante del Bologna. Per gli altri, è basso e pelato e ha lo sguardo che sembra sempre concentrato su qualcosa ma non sai bene su cosa. "Mio padre ci aspetta in macchina," dice Guiz. Dobbiamo andare all'ACI, un posto dove si paga il bollo e si fanno i passaggi di proprietà e tutte quelle cose per chi guida auto e moto. "Sono del Belgio," dice Guiz mentre lasciamo la moto davanti a casa, e camminiamo verso l'auto del padre. "Te di dove sei?" Guiz mi dice che è disoccupato, e che sta mandando curriculum in Indonesia e a Roma e in Africa, e in ogni tipo di posto nel mondo. Lavorava "in campo internazionale," e il padre lavorava all'ONU, ma ora non si lavora più. Guiz dice frasi da titoli di Studio Aperto come "la crisi non risparmia nessuno." Però, se ascolti, non ha poi così torto. "C'è gente che parla quattro lingue, e che rimane a casa." Il padre di Guiz sembra il Nonno di Heidi, se ve lo ricordate, ma con un cappello da pastore in più. E più ci penso e più mi sembra che anche il Nonno di Heidi avrebbe dovuto portare un cappello da pastore - stava in montagna, mica a Wall Street - il che rende la somiglianza fra il padre di Guiz e il Nonno di Heidi solo più forte. "Parli inglese?"chiede Guiz, girandosi dal posto del passeggero e verso di me. "Oui," dico. "Cioè, sì." Stavo pensando al Belgio, per quello ho risposto in francese. Guiz mi guarda e non dice nulla, e posso capire la sua confusione - chiedi a uno se parla inglese, questo ti risponde in due lingue diverse. Nei tre minuti per arrivare all'ACI, Guiz e il padre parlano fra di loro in inglese. "Stavo cercando parcheggio ma non si trovava," dice il padre. Niente di troppo importante. Ma perché in inglese? Perché non in francese? Non sono entrambi del Belgio? Forse il padre di Guiz non è suo padre. Magari è un immigrato dell'Est Europa che si guadagna cinquanta euro portando uno sconosciuto da qualche parte. Potrebbe aver saputo dell'affare moto, ed avere una pistola che tirerà fuori al prossimo semaforo chiedendomi tutti i duemila euro. "Perché parlavi inglese, con tuo..." "Padre." "Padre. Certo. Perché parlavi inglese con tuo padre?" chiedo a Guiz quando siamo scesi dalla macchina davanti all'ACI, e il "padre" è andato a parcheggiare. "Perché non nella vostra lingua?" "Così capivi anche te." Era questo, il mistero che mi aveva portato a speculare su una rapina a mano armata - un padre e un figlio che volevano farmi capire di cosa stavano parlando. Comprare una moto, nella mia idea, ha queste conseguenze: vieni fatto entrare in uno studio con poltrone in pelle nera al ventottesimo piano di un grattacielo, vista su qualche strada di New York, e firmi le carte mentre ti viene offerto un bicchiere di scotch. Non vedo il senso di spendere quei soldi se non mi viene data, per qualche minuto, la sensazione di essere Harvey Specter in un episodio di Suits. Comprare una moto, nella realtà, ha queste caratteristiche: entro in un ufficio dove sono tutti in piedi e sgomito per stabilire contatto visivo con un'impiegata, e fuori piove sulle buche di Roma che sono pozzanghere su cui passerò in bici domattina, e una suora dietro di me rimprovera una signora perché non capisce il napoletano. I soldi non sono miei, e comprare una moto non è una cosa che farei io, ed è proprio quello il punto. Come per quasi ogni elemento delle vite degli altri, ci vedevo un sacco di cose affascinanti che scompaiono alla prova della realtà. Non mi offrono nemmeno un caffè. Tanto vale andare in bici. La coda sembra infinita. "Hai da fare?" chiede Guiz. "Non particolarmente. Te?" "La cosa quando non hai lavoro, è che hai un sacco di tempo." Quindi facciamo tutto con calma, ma alla fine non ci mettiamo neanche troppo. "Ti portiamo a casa," dice il padre di Guiz, sorridendo e aprendomi la portiera destra dei sedili dietro. Mi dice che è stato a Padova, alloggiato tre notti alla Casa del Pellegrino, un posto "economico e comodo." Venezia era "troppo affollata," e lascia andare una risata come se la tanta gente a Venezia fosse qualcosa di cui si è accorto lì e che non si aspettava, e se l'avesse saputo prima non ci sarebbe mai andato. È una persona buona, il padre di Guiz. Non un rapinatore macedone. Ogni tanto è bene che la realtà non raggiunga la mia immaginazione.
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jenner64-blog · 10 years ago
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Confronti a posteriori
Sono in Piazza Trilussa e sto aspettando Julia, una ragazza coreana che ho conosciuto e visto per l'ultima volta circa due anni fa in America. Ieri sera ci siamo accorti di vivere nella stessa città da cinque mesi, via Facebook, e abbiamo deciso di vederci. Ritrovare a Roma nel 2015 qualcuno che hai conosciuto in California nel 2012 non è molto diverso da rileggere un messaggio che hai scritto qualche anno fa - ti rende consapevole del tuo passato, ti ricorda che una volta eri un'altra persona, con idee e modi di parlare e "prospettive" diverse. Nel 2012 in California ero un giovane pseudoribelle che si ispirava a Christopher McCandless, il vagabondo di Into the Wild - ero uscito dalle superiori con la convinzione che tutto nella società fosse sbagliato, e che tutto nella natura fosse giusto. Nel mio blog di viaggio scrivevo post come "Fra arte e spirito nel tempio delle rocce rosse," titoli per cui non mi dovrebbe più essere permesso di pubblicare qualcosa. È domenica sera, e ci troviamo alle otto e mezza perché Julia domattina lavora - uno stage alla FAO, l'Organizzazione per il Cibo e l'Agricoltura dell'ONU. Mentre andiamo verso il mio bar di fiducia, Julia dice che è stata a Trastevere solo due volte. "Il mio supervisore ha l'appartamento in una piazza qui vicino," dice. Si capisce che Julia è a Roma per lavoro. Prendiamo due birre, e ci sediamo in un tavolino nell'angolo vicino all'ingresso. La posizione ci garantisce un flusso costante di pakistani che provano a venderci rose. Stiamo parlando in inglese, ma le continue offerte permettono a Julia di allenare il suo italiano da vocabolario turistico. "No, grazie," dice ogni volta, sorridendo. Sono abbastanza certo che rifiutare gentilmente delle rose da un pakistano sia una delle prime convenzioni sociali che una ragazza straniera impara nel nostro paese. Il lavoro di Julia è qualcosa che probabilmente non farò mai, eppure mi affascina - raccogliere dati sulle regole che proteggono gli squali nel mondo, e passare l'informazione a governi, organizzazioni, e chi vuole o deve sapere qualcosa sugli squali nel mondo. Non mi interessano particolarmente gli squali, ma c'è un senso di concretezza e progresso e utilità che vedrei nel sedermi in un ufficio dietro al Circo Massimo e difendere gli squali negli oceani. "È bello, perché unisce le leggi e i regolamenti alla scienza," dice lei. Credo sia difficile capire questa frase pensando a un lavoro in termini di "mi piace" o "non mi piace." Julia magari non ama mettere insieme una tabella Excel per qualche governo di lunedì mattina, ma è felice di farlo per gli squali. Non è se ti piace o no quello che fai, ma se sei contento o meno di perché lo fai - c'è qualcosa di altruista in questo, una mentalità di sacrificio per gli altri sul lungo termine contro l'immediata soddisfazione personale. Julia, in effetti, non dice una parola sul lavoro nella vita di tutti i giorni, su come possa essere pesante o noioso. Lei è in secondo piano. Quello che conta sono gli squali. Un uomo sulla trentina, con una maglia che potrebbe essere del Torino degli anni '80, viene verso il nostro tavolo. "Che capelli cotonati che ho stasera," dice pensoso mentre si specchia sul vetro alla mia sinistra, e si passa una mano sulla testa. Poi va da Julia, e alza la mano destra in attesa di una risposta, come per darle il cinque. Lei risponde, ma lui fa quella cosa dove fingi di dare il cinque e ti passi la mano sulla testa. Si mettono a ridere entrambi, e io penso a come mi sentirei a parti invertite - in un bar di Seul, preso in giro da un idiota con la maglia di una mediocre squadra coreana. Ammiro, in questa situazione, la serenità di Julia. "È stato un punto di svolta," dice Julia di quando è stata in America. "Ho trovato la sicurezza per affrontare culture diverse. In Corea siamo un po' isolati." Dopo l'America, Julia ha studiato in Galles, è arrivata in Italia a ottobre, e ora vuole fare un master in Germania. "Mi piace l'Europa," dice, "perché è tutto vicino. Puoi andare velocemente in altri paesi con altre culture. Il prossimo fine settimana vado a Londra con degli amici." Julia dice di essere diventata "avventurosa," e ride mentre lo dice, perché è piccola e mora e bassa e penseresti tutto tranne che fosse una persona avventurosa. Però è così. "Sei molto cambiato," mi dice Julia quando stiamo per salutarci, alla fermata del tram. Pensavo di essere sfuggito ai confronti fra come eravamo e come siamo che arrivano puntuali in ogni ritrovo, ogni "rimpatriata." "Cambiato come?" chiedo, incuriosito. "Più cresciuto." Non so bene cosa significhi, ma in qualche modo esco vivo dalla prova del passato che mette in luce il tuo presente. Non sto ancora salvando squali, ma per ora mi accontento di non scrivere più di arte e spirito nel tempio delle rocce rosse.
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jenner64-blog · 10 years ago
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In scooter dietro al muro
Una perdita d'acqua sotto al lavandino da aggiustare, la bici da andare a prendere dal meccanico, due esami da passare e novantasei saggi da leggere - a volte il muro di cose da fare che si alza davanti a te è semplicemente troppo alto e massiccio. Ti rende difficile qualsiasi rapporto con il mondo al di là del muro. Ti rende una persona poco piacevole nei confronti del prossimo. Ti rende un prigioniero del muro. -- Sono fermo al semaforo di Viale Trastevere fra il ristorante cinese e Piazza Ippolito Nievo. Un uomo su uno scooter accosta vicino alla mia bici. "Siete pericolosi," dice. Non ci presto molta attenzione, e continuo a guardare la luce rossa del semaforo. Dev'essere uno di quei samurai del multitasking che mentre guida parla al telefono con l'iPhone fra orecchio e casco, e con una mano fuma una sigaretta e con l'altra magari trova qualcos'altro da fare. "Siete pericolosi!" dice l'uomo. Comincio a preoccuparmi per chi sta dall'altra parte della conversazione. "Siete pericolosi, tutti voi," dice. L'idea di essere io, quello dall'altra parte della conversazione, inizia a sfiorarmi. E ha tutta l'aria di essere un'idea corretta. "Scusa?" chiedo. "Voi in bici. Passate col rosso, prendete i contromano. Siete pericolosi." Guardo l'uomo, un esemplare da ufficio sulla trentina - scooter da città, giacca e cravatta, senso di superiorità su ogni altro essere umano di questo pianeta. "Perché vi leggo su internet. Sui vostri siti, sempre a lamentarvi degli altri e di come siete delle vittime. Ma siete pericolosi." Ho davvero la sensazione di essere davanti a un pazzo. Legge su internet chi? Sui nostri siti? E perché lo dice a me? Non riesco davvero a rispondere, e giro il mio sguardo perplesso verso le vetrine del ristorante cinese alla mia destra. Prima o poi diventerà verde. Dopo qualche secondo decido di riprendere la discussione, ed è incredibile come non venga fuori nulla. Non è chiaro perché io - una persona ferma a un semaforo rosso, su una bicicletta con luci accese e campanello funzionante - sia stato scelto come rappresentante della categoria dei ciclisti per lo sfogo di qualcuno che ha letto qualcosa su internet. Quando chiedo spiegazioni, questo qualcuno non riesce a fare molto più di ripetere i "nostri" peccati e la "nostra" pericolosità. "Va beh," dico, e torno a guardare il ristorante cinese. Mentre sfreccia davanti al semaforo verde, l'uomo si gira verso di me. "Pericolosi," mi ripete, in caso mi fosse sfuggito qualcosa delle ultime sei o sette formulazioni del concetto. "Siete pericolosi." -- Sopravvivere dietro al muro è faticoso. Pensi che non vedi l'ora di finire tutte le cose che devi fare, ed essere finalmente libero, lì fuori con gli altri. Pensi che sia quello il punto - non essere dei completi idioti frustrati con chi ti passa davanti oggi, sapendo che sarai di un umore migliore domani. Non pensi che qualcuno possa dimenticarsi di essere dietro al muro, e girarci in scooter tranquillamente.
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jenner64-blog · 10 years ago
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Il mondo fuori dal Rec 23
"E poi ho questa rubrica musicale per la stazione radio della mia università a Boston. Dura un'ora, faccio sentire circa dieci canzoni di donne giovani che mi sono piaciute la settimana prima, e ne parlo un po'. Alla fine saluto mia madre che mi segue dal salotto di casa." "È fantastico." Mi piace ascoltare le persone. A volte però ascolto troppo e dimentico di esserci anch'io, che ho una parte nel dialogo da portare avanti, e che non posso solo fare delle domande e capire le risposte senza aggiungerci nulla di mio. "Avevo iniziato a fare foto ai concerti per divertirmi, poi una rivista mi ha chiamato, e adesso mi mandano a seguire concerti per loro. Mi pagano e mi danno i biglietti, ma lo farei anche gratis. Mi diverto." "Chiaro. Bellissimo." Però mi succede quasi sempre con persone interessanti. "Ah, questo è il posto che mi ha consigliato la mia amica Rachel. 'Otto millimetri.' Andiamo dentro?" "Sì, certo. Andiamo." Il problema è che mi succede nelle situazioni sbagliate. Quando esci la prima volta con una ragazza ti è richiesta una certa consapevolezza di te stesso. Devi comunicare informazioni su di te. Dire chi sei. Non puoi scomparire come individuo, ed essenzialmente diventare un pirla in adorazione perché lei è interessante. "Cosa beviamo?" mi chiede Juliet. "Questo?", dico indicando qualcosa sul menu. "Va bene quello che vuoi. Sei te l'esperto." Non è un'esagerazione, dire che avere scelto un Montepulciano d'Abruzzo è stata la mia più articolata espressione d'individualità nell'ultima ora. "Hai fame? Chiedo delle patatine o qualcosa da mangiare?" dico, uscendo non so come dal mio stato di scarsa coscienza. "Sì, volentieri." "Eccoti una medaglia per il valore e l'intraprendenza dimostrati proponendo di far arrivare del cibo al nostro tavolo," una parte senza vergogna di me crede di meritarsi di sentire da Juliet. Ma cosa dovrei dire, poi? Qualsiasi mio contributo alla conversazione sarebbe meno interessante delle passioni di Juliet. "Avevo una sorta di blog con alcuni vecchi amici del liceo, e parlavamo... Boh. Un po' di tutto davvero. Una volta ho fatto un pezzo sul calcio gaelico. Ci sono diverse squadre in Italia, sai?" Ho l'impressione che il calcio gaelico mi lascerebbe qualche gradino sotto ai concerti e alla radio e alle foto di Juliet. Quindi ascolto. La mattina dopo trovo il mio coinquilino Slavik in cucina. Mi chiede com'è andata ieri sera. Gli dico che è andata bene, e che Juliet è brillante e intelligente e interessante. Parlo di tutto quello che fa, e con le informazioni che ho, realizzo, potrei scriverci un profilo per una rivista, di quelli che raccontano la vita di una persona famosa e citano il vino che c'era durante l'intervista e chiudono con i suoi sogni per il futuro. Sarebbe una storia di copertina. Se dovesse scrivere un articolo su di me, temo che Juliet avrebbe difficoltà a superare il secondo paragrafo. Ma è proprio quello il punto, no? A volte sei fortunato e ti trovi con persone più interessanti di te, e non dura tanto, e allora puoi solo goderti quel tempo che scorre rapido come il rosso dalla bottiglia di Montepulciano al calice di Juliet. Lasci andare, non aggiungi nulla. Non parli, ascolti. Perché nessuno vuole bere un vino annacquato.
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jenner64-blog · 10 years ago
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Il Montepulciano di Juliet
"E poi ho questa rubrica musicale per la stazione radio della mia università a Boston. Dura un'ora, faccio sentire circa dieci canzoni di donne giovani che mi sono piaciute la settimana prima, e ne parlo un po'. Alla fine saluto mia madre che mi segue dal salotto di casa." "È fantastico." Mi piace ascoltare le persone. A volte però ascolto troppo e dimentico di esserci anch'io, che ho una parte nel dialogo da portare avanti, e che non posso solo fare delle domande e capire le risposte senza aggiungerci nulla di mio. "Avevo iniziato a fare foto ai concerti per divertirmi, poi una rivista mi ha chiamato, e adesso mi mandano a seguire concerti per loro. Mi pagano e mi danno i biglietti, ma lo farei anche gratis. Mi diverto." "Chiaro. Bellissimo." Però mi succede quasi sempre con persone interessanti. "Ah, questo è il posto che mi ha consigliato la mia amica Rachel. 'Otto millimetri.' Andiamo dentro?" "Sì, certo. Andiamo." Il problema è che mi succede nelle situazioni sbagliate. Quando esci la prima volta con una ragazza ti è richiesta una certa consapevolezza di te stesso. Devi comunicare informazioni su di te. Dire chi sei. Non puoi scomparire come individuo, ed essenzialmente diventare un pirla in adorazione perché lei è interessante. "Cosa beviamo?" mi chiede Juliet. "Questo?", dico indicando qualcosa sul menu. "Va bene quello che vuoi. Sei te l'esperto." Non è un'esagerazione, dire che avere scelto un Montepulciano d'Abruzzo è stata la mia più articolata espressione d'individualità nell'ultima ora. "Hai fame? Chiedo delle patatine o qualcosa da mangiare?" dico, uscendo non so come dal mio stato di scarsa coscienza. "Sì, volentieri." "Eccoti una medaglia per il valore e l'intraprendenza dimostrati proponendo di far arrivare del cibo al nostro tavolo," una parte senza vergogna di me crede di meritarsi di sentire da Juliet. Ma cosa dovrei dire, poi? Qualsiasi mio contributo alla conversazione sarebbe meno interessante delle passioni di Juliet. "Avevo una sorta di blog con alcuni vecchi amici del liceo, e parlavamo... Boh. Un po' di tutto davvero. Una volta ho fatto un pezzo sul calcio gaelico. Ci sono diverse squadre in Italia, sai?" Ho l'impressione che il calcio gaelico mi lascerebbe qualche gradino sotto ai concerti e alla radio e alle foto di Juliet. Quindi ascolto. La mattina dopo trovo il mio coinquilino Slavik in cucina. Mi chiede com'è andata ieri sera. Gli dico che è andata bene, e che Juliet è brillante e intelligente e interessante. Parlo di tutto quello che fa, e con le informazioni che ho, realizzo, potrei scriverci un profilo per una rivista, di quelli che raccontano la vita di una persona famosa e citano il vino che c'era durante l'intervista e chiudono con i suoi sogni per il futuro. Sarebbe una storia di copertina. Se dovesse scrivere un articolo su di me, temo che Juliet avrebbe difficoltà a superare il secondo paragrafo. Ma è proprio quello il punto, no? A volte sei fortunato e ti trovi con persone più interessanti di te, e non dura tanto, e allora puoi solo goderti quel tempo che scorre rapido come il rosso dalla bottiglia di Montepulciano al calice di Juliet. Lasci andare, non aggiungi nulla. Non parli, ascolti. Perché nessuno vuole bere un vino annacquato.
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jenner64-blog · 10 years ago
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Poker di coerenza
"Per me nun c'hai 'n cazzo." "Al flop ha puntato forte però, Danie'." "Ma al turn ha checkato. Ha raisato al river." "L'asso nun ce l'ha." "Aspettava la scala a incastro ma è rimasto a quattro quinti, lo stronzo." "Voleva fa' colore? C'ha du' picche in mano, sta a vede'." La mia incoerenza gioca a mio sfavore la maggior parte delle volte. È il motivo dei "malintesi," delle "incomprensioni," dei "non me l'aspettavo da te, Alessandro." È l'incapacità di pensare una cosa e agire di conseguenza, di essere una persona quadrata e razionale, di avere una morale perfettamente logica. La mia incoerenza sembra essere utile solo quando sto giocando a poker in un appartamento al secondo piano di un condominio sulla Tuscolana. Capisci che Daniele è un giocatore di poker perché non va in bagno ma si mette "in sit-out." Non punta 10 e 20 ma 7 e 23, e sembra credere fermamente nell'importanza di quelle somme insolite, poco tonde. Le conferma dicendole ad alta voce mentre porta le sue fiches a centro tavolo. Parla di come ieri ha "scoppiato un pischello di Torino a un freeroll di Sisal" con 4-8 contro Asso-Asso. Come ogni esperto di qualcosa, Daniele ha l'illusione di capire anche tutto il resto del mondo. Me compreso. "Se foldo me fai vede' le carte?" Scopro una coppia di 9. Mentre prendo le fiches della mano vinta, Daniele dice che l'avrei battuto. "Hai sbagliato a farmi vede' le carte." "Perché?" "Perché mo' te conosco. So che me posso aspetta' da te. France', fai le carte. Luca, fai un filtro." Non è vero, ovviamente. Daniele non mi conosce. La ragione per cui ho "puntato forte," la ragione di tutte le mie mosse in questa mano non è comprensibile nei termini del gioco, in percentuali, in coppie e tris e scale. La ragione per cui ho puntato forte non la so nemmeno io. "Non è tanto il fatto che stai a vince' che mi sta sul cazzo," mi dice Daniele dopo mezz'ora e diverse mani che gli hanno fatto cambiare idea su di me. "È che non capisco come giochi. Non so che me posso aspetta' da te." La novità è che "sta sul cazzo" pure a me, non capire come gioco. Non sapere mai cosa aspettarmi - iniziare ogni mano da zero senza una chiara idea di come giocarla, trovando un nuovo modo ogni volta, e prepararsi a rifarlo ancora e ancora e ancora. Dopo un po' stanca, a un certo punto vuoi capire chi sei. Trovare un filo logico che parte dalla tua idea di gioco e arriva fino alle tue puntate. Sapere già come comportarti con un quattro quinti di scala a incastro al flop. Non fare incazzare Daniele. Diventare coerente. 3 di picche e 5 di quadri in mano. 4 di cuori, 7 di quadri, K di fiori sul tavolo. Quattro quinti di scala a incastro al flop. All-in. Daniele ci sta.
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jenner64-blog · 10 years ago
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Come fare parte di Roma
Mi sento all’estero, a Roma. In un paese dove d’estate ti svegli alle tre di notte per bere acqua, perché fuori è troppo secco, e dove sei cresciuto è umido. Dove il panettiere di Via Ronzoni riesce a farti tre battute in dieci secondi mentre ordini due pagnotte alle sette di mattina, e non gli stai decisamente dietro. Inizi a pensare che in questo paese tutti fanno battte tutto il giorno e non sai come fanno a capire quando esseri seri e quando no.
I romani non mi fanno sentire a casa. Quando mi conoscono sono confusi - un oggetto misterioso sfuggito alle leggi fisiche dell’immigrazione nazionale, andato da nord a sud, anziché il contrario. Sono spesso curiosi, mai del tutto convinti di questo mio tratto eccentrico.
Forse il mio carattere non aiuta. Un tassista romano mi ha insultato perché gli avevo chiesto quando finivano i lavori per la nuova linea metro. “Voi del nord fate sempre domande del cazzo,” aveva detto. Chiediamo i nomi delle vie, delle piazze, a quanto pare. Conversazioni politicamente corrette che mettiamo in valigia come bagaglio sociale, insieme ai maglioni troppo pesanti, quando scendiamo oltre Bologna. “Chiedimi ‘ndo stanno le pischelle, no?”
Mi trovo più a mio agio a fare aperitivo con una ragazza di San Pietroburgo che a prendere un caffè con una pischella dell’EUR. Due persone in una città straniera - abbiamo più da condividere. E ti eviti tutte quelle domande su perché sei sceso in Centro Italia e su perché vai in bicicletta. Ci ho messo dieci minuti per far capire a una pischella dell’EUR che non volevo una macchina, e che stavo bene in bicicletta. Per questo i miei amici e le mie relazioni quotidane sono quasi tutte con stranieri.
Il locale è vuoto quando entro ad ora di pranzo da mangiamò, una paninoteca a Trastevere. Studio la lista dei panini dietro al bancone, quando uno dei due ragazzi che lavora nel posto mi saluta.
Il ragazzo di mangiamò mi dice che stava girando su Facebook ed è finito a leggere alcune cose che ho scritto. Il pezzo su quando su vado in bici, e quello dove guido una macchina Enjoy - in particolare. Mi dice che sono “begli articoli.” Lo ringrazio.
Mi chiede di ricordargli il nome della pagina dove pubblico le storie, gli dico Jenner64, e parliamo un po’ di Monteverde e del Casaletto e di cosa c’è dopo il capolinea del tram. Intanto mi prepara un panino alla porchetta.
E per la prima volta mi sento a casa, oltre la barriera di domande sulle ragioni del mio trasloco e sui miei mezzi di trasporto, e dentro al terreno delle discussioni sulle cose di tutti i giorni che condividi vivendo in un posto. Per la prima volta non sento perplessità, e vedo comprensione.
Scrivere una storia dove ti lamenti delle buche sulla Gianicolense - bastava questo per essere accolto nella magica comunità romana. Il panino alla porchetta fa il resto.
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jenner64-blog · 10 years ago
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Una ragazza espressiva
Una ragazza bassa, mora parla al telefono in inglese alla fermata dell'N8, un autobus notturno che passa per Trastevere. Non è americana. Ha l'inglese affrettato degli spagnoli, o qualcosa del genere. "Sei l'amico di Damiano?" mi chiede, staccando il telefono dall'orecchio per un attimo, ma evidentemente ancora nel mezzo della telefonata. Dico che no, non credo di essere l'amico di Damiano. Lei non dice niente, e torna al telefono. "Sicuro?" chiede, facendo un passo verso di me. "Abbastanza sicuro, sì." "Non sei l'amico di Damiano allora." "Non sono l'amico di Damiano." "Va bene," dice, e si allontana. Quando ha finito la telefonata, torna. "Ehi scusa," dice. "Sembravi l'amico di Damiano." Potrebbe passare del tempo, prima che l'autobus arrivi, e penso sarebbe bello non restare bloccati all'argomento Damiano - interessante, ma non sembra andare da nessuna parte. Mi presento a Sophia, e le chiedo di dov'è. "Sono della Grecia." "Atene? Una ragazza che conosco va ad Atene questo fine settimana." "No, vicino Salonicco. La ragazza è americana?" "Sì." "Tutti americani mi dicono voglio andare in Grecia, a febbraio. Non c'è nessuno a febbraio. Ma se vuoi andare, vai," e fa il gesto di andare, e sorride divertita, con più sarcasmo di quanto meriterebbe qualcuno che ha commesso l'unico peccato di pensare a un weekend in una capitale europea. Se fosse il personaggio di un fumetto, i critici letterari scriverebbero come l'umorismo pungente di Sophia richiami una sensibilità tipicamente mediterranea, e come i suoi grandi occhi neri attingano a piene mani dalla mitologia classica. Vive a Roma da qualche mese, dice Sophia. Prima studiava a New York, ma si è trasferita qui pensando che l'Italia fosse fantastica, e in effetti la trova fantastica. Rimane seria, Sophia, parlando di New York. Sorride un sacco pensando a Mamma Grecia, e sembra felice di Roma. Prova a spiegarsi anche a parole, ma non sono così efficaci come le sue espressioni. L'autobus arriva. Saliamo, e stiamo in piedi nella parte davanti. Gli altri passeggeri sono quelli che ti aspetti su un mezzo pubblico in una grande città alle tre di notte, e non quelli con cui una giovane, bella ragazza straniera sarebbe felice di passare del tempo insieme. Sophia guarda, ride, e dice che per fortuna mi ha trovato alla fermata. Sta andando da Damiano, per la cronaca. Era a una festa con un'amica, dice Sophia, poi l'amica ha detto che andava via un secondo, e non è tornata più. "Sono così le americane. Me lo dice sempre mia mamma, 'Stai solo con i greci.'" Uno si chiede cosa ci faccia lontano da casa, una ragazza che continua a lamentarsi degli americani che viaggiano quando gli pare, e che ti lasciano da sola alle feste. Non è l'attitudine giusta, direbbero gli americani. Uno si chiede perché non torni dalle parti di Salonicco. "Non posso tornare a casa," dice Sophia. "Lì tutti sanno chi sono. Vado nei posti e sanno il mio cognome," e fa un'espressione per spiegare come essere con troppa gente che sa il suo cognome le dia una particolare ansia esistenziale - qualcosa che rappresenta come non sei veramente libero di fare quello che vuoi se tutti sanno chi sei. È un sacco di roba da dire con un'espressione, ma potrei anche essermi perso qualcosa. Sophia non è forte con le parole, ma con le espressioni ci sa decisamente fare. Ti senti soffocare a casa, ma sei spaesato fuori - è per questo, forse, che finisci a Roma a parlare con uno sconosciuto su un autobus notturno. Per raccontare cosa pensi, fare qualcosa di tuo, ricordarti chi sei. Fare una pausa fra l'amica che ti lascia sola a una festa e Damiano che ti aspetta alla Stazione Trastevere, e reclamare la tua identità. Giuro che con un paio di espressioni Sophia ha detto tutto questo.
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jenner64-blog · 10 years ago
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"Not enjoying, cazzo"
Scelgo di prendere una delle Enjoy, le Fiat 500 rosse a noleggo di Eni, per andare a fare la spesa al Carrefour. Uso l'applicazione e prenoto una macchina in Via Fieschi, che pagherò con una carta Intesa collegata al mio profilo. Petrolio, automobili, grande distribuzione, servizi bancari - questo paragrafo si è inchinato a buona parte dell'economia mondiale.
È la mia prima volta con Enjoy. La prima volta che guido a Roma, se conta qualcosa.
Passo la rotonda di Piazza Scotti, scendo per Via Monteverde, mi fermo al rosso dei Colli Portuensi. Si accende il verde, giro a sinistra per Piazzale Morelli. Sono compiaciuto da come tutto funzioni perfettamente - nella mia testa, non sto guidando una 500 a Roma in una giornata di sole. Sono pilotando un Boeing 777 dall'altra parte dell'Atlantico in mezzo a una tempesta notturna. Uno ha bisogno di motivazioni per fare strada, e l'immaginazione aiuta.
I finestrini non scendono. Metto il freno a mano, lascio la macchina su una rampa in salita, prendo il biglietto del parcheggio. La sbarra d'ingresso si alza lentamente. Non il processo più scorrevole al mondo, ma comunque sono dentro.
Parcheggio, spengo la macchina, premo il pulsante "Termina noleggio" sullo schermo del computer di bordo. Una voce elettronica rumorosa mi informa che non posso parcheggiare qui perché devo rientrare nella zona di copertura. Non sapevo nulla di alcuna zona di copertura, e comincio a pensare che sia una questione di cui dovevo sapere almeno qualcosa.
Esco dal parcheggio, che è gratis se mostri uno scontrino del supermercato. Un signore, una sorta di Nonno Vigile per età avanzata e casacca fluorescente, non sembra avere un problema con la mia mancanza di scontrino. Sono fuori.
Risalgo la corrente di Via Colli Portuensi. Non vedo parcheggi da nessuna parte, anche se il resto del mondo sembra vedere parcheggi ovunque, perché tutti scendono da una macchina e camminano da qualche parte. Continuo ad andare.
Cerco parcheggio in alcune vie laterali - sempre più lontane dal supermercato, ma quando la partita si mette male, il punto non è più vincere ma tornare a casa senza troppi danni. C'è sempre una prossima giornata per rifarsi.
Trovo tre parcheggi - tre manovre seguite dalla solita voce elettronica che mi dice di riprovare, che magari un giorno uscirò dalle praterie temperate nordamericane in cui mi sono perso, e tornerò in una zona civilizzata coperta dal servizio Enjoy. Vado verso il punto dove avevo preso la macchina, che mi sembra una scomessa ridicola, ma sicura.
Lascio la macchina in Via di Val Tellina, a due passi da Via Fieschi, dopo 41 minuti di navigazione incerta. Non esattamente un successo.
Inizio a camminare verso il META, che è più piccolo e e più vicino a casa del Carrefour. Intanto parlo al telefono con una signora del servizio clienti Enjoy. Mi lamento di qualcosa e chiedo un rimborso non so bene perché. La signora mi spiega come avrei dovuto controllare che la mia destinazione fosse coperta da Enjoy. Non posso darle torto. Le do torto.
Prendo dei petti di pollo, e dell'insalata e dei pomodori e del latte, e un po' di altre cose. Butto tutto sulla cassa, e do la mia carta alla cassiera, che probabilmente ha avuto una giornata più frustrante della mia ma in ogni caso sorride.
Arrivo a casa. Mentre sistemo la spesa in frigo e armadi, suona il campanello.
"Signor Ceschi, sono Pierpaolo. Per il portafoglio." Pierpaolo è un assicuratore romano. Ho trovato il suo portafoglio per strada, davanti a una banca sulla Gianicolense, mentre tornavo a casa in bici poche ore fa. Ora è passato a riprenderselo.
Pierpaolo mi ringrazia, e mi regala un orologio da scrivania, e mi dà due biglietti da visita della sua compagnia assicurativa. Ci salutiamo.
E non ovvio? Vado in bici e trovo portafogli per strada, e li rido alle persone che dovrebbero averli. Vado in macchina e non trovo parcheggio, e scarico la mia frustrazione su operatori telefonici che non c'entrano.
Forse ognuno dovrebbe trovare quello che gli viene facile, e farlo, e lasciare stare il resto. Saremmo tutti più in pace, e urleremmo meno dietro alla gente, e tutto andrebbe bene.
Racconto la fallimentare esperienza Enjoy al mio coinquilino americano, che sta imparando l'italiano. Mi risponde con tre parole, un riassunto perfetto di cosa succede quando fai una cosa che dovresti lasciare stare, e ti accorgi che dovresti fare qualcos'altro. "Not enjoying, cazzo."
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jenner64-blog · 10 years ago
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In bici a Roma
A Roma la bici te la vendono pure - a un mercato dell’usato, di solito rubato, a Porta Portese. È che poi non sai dove metterla.
In via Numerio 16, un condominio di otto piani e la mia prima casa qui, nessuno usa la bici ogni giorno per andare al lavoro o all’università. Se vuoi essere il primo, ti arrangi.
”Ti arrangi,” nel mio caso, equivale a caricarsi la bici in spalla, salire sette piani a piedi in un pomeriggio di luglio, e parcheggiare in camera.
Riprendo energia e scendo al piano terra.”Proprio non c’è un posto?” chiedo a un signore all’ingresso del condominio.”No. Attento a nun striscia’ il vetro della porta quando esci.”
Ecco, quei sette piani con la bici in spalla, e questa conversazione poco utile sono un riassunto perfetto di cos’è andare in bici a Roma - sei da solo, in un posto non adatto a te, e devi combattere ogni giorno per il tuo spazio vitale. Andare in bici a Roma rappresenta l’unico potenziale per dell’avventura in città, l’ultima possibilità di sentirsi Into the Wild vivendo fra l’Appia e la Tuscolana.
Prima regola della giungla: impara il linguaggio.
Lunedì mattina, 9:30. Scendo sulla Gianicolense, intravedo il San Camillo. Sto a destra, sulla corsia di sinistra. Un pensionato su una Punto rossa decide di cambiare corsia e portarmi come gadget sulla fiancata. Freno e faccio in modo che riesca solo nel primo dei suoi piani.
Ci troviamo al semaforo. Lui ha il rosso. Mi ritrovo girato verso il signore, urlandogli in faccia un “ahò” prolungato tipo Totti all’arbitro Moreno ai Mondiali di Corea e Giappone. Non so da dove mi esca. Non l’avevo mai fatto, pensato, o preparato. È l’istinto di sopravvivenza che entra in gioco. E funziona.
Seconda regola: non sempre puoi scegliere.
Continuo la mia discesa, e passo veloce al semaforo della Stazione Trastevere. Arrivo sul Viale, e scalo di una marcia quando vedo una buca a un metro. Per evitarla e non far cadere la catena, finisci o su una fermata dell’autobus a destra o su una Smart bianca a sinistra. Non hai scelta. Prendi la buca, cade la catena, e vai sul marciapiede a rimetterla su.
”Catch-22: Una situazione in cui il risultato o la soluzione sperati sono impossibili da ottenere per un insieme di regole o condizioni intrinsecamente contraddittorie.” Puoi impararlo leggendo il libro di Joseph Heller, o andando in bici su Viale Trastevere.
Terza regola: anche nella giungla, hai bisogno di un amico.
Esco da lezione, apro il lucchetto, salgo in bici. Gomme a terra. Terza volta in una settimana.
Inizio a camminare verso Porta Portese per trovare il ragazzo del Bangladesh che mi ha venduto la bici. Box 37, in fondo a sinistra. L’amico mi ha promesso assistenza illimitata a prezzi ragionevoli. Comprare una bici a Porta Portese non è una transazione economica. È un patto di sangue fra uomini valorosi. Se al Box 36 ti offrono uno sconto su una riparazione, te ne freghi, e vai al Box 37.
”Ancora qui amigo?” mi chiede l’amico. “Caduta gomma di nuovo?” Caduta gomma di nuovo. “Lascia qua, torna domani pranzo.” Vado a prendere il tram, e torno domani pranzo.
L’amico risolve il mistero. Qualcosa graffiava il copertone, e continuava a bucare la gomma. Si scusa per non averlo capito prima, mi ridà la bici senza chiedere soldi, e sono pronto ad andare.
”Ora vai scuola amigo?”
“Sì, torno a scuola.”
“Ciao amigo.”
“A presto. Grazie.”
Non è mai facile abbandonare la giungla, e i suoi valori, e tornare nel mondo reale. Ma sai che in fondo è la scelta giusta.
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