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lisa-andreani-blog · 7 years
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ATPdiary - Nick Mauss. Illuminated Window [EN]
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Nick Mauss. Illuminated Window 
at La Triennale di Milano curated by Milovan Farronato with the artistic direction of Edoardo Bonaspetti
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lisa-andreani-blog · 7 years
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ATPdiary
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Lorenzo Scotto di Luzio Yogin, 2017; Time machine, 2017; Poliziotto, 2017 Kunst Meran Merano Arte Foto: Ivo Corrà Courtesy the artist and T293, Roma
In bocca a te ogni cosa muore
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lisa-andreani-blog · 7 years
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OPERAVIVA
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Luca Vitone, L'ultimo viaggio (2005) - Collezione Nomas, Roma, Fotografia Christian Mosar / Casino Luxembourg - Forum d’Art Contemporain.
CARTOGRAFIE POLITICHE
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lisa-andreani-blog · 7 years
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ATPdiary
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Nairy Baghramian, Beliebte Stellen / Privileged Points © Skulpture ProJectkte 2017, photo: Henning Rogge
Skulptur projekte: una riflessione sul tempo
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lisa-andreani-blog · 7 years
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ASSORBIRE E TRANSITARE - EGNATIA17 [ITA]
Thessaloniki-Kavala, 282 km di passi e strade, 282 km per costruire un’architettura sincera di se stessi e del proprio intorno. Tutto si è toccato entrando in collisione con i luoghi e le persone che ci circondavano. Il meccanismo innescato è risultato impossibile da domare, ha seguito leggi proprie, ha condotto ad un adattamento in continua trasformazione plasmato sulle situazioni. Godendo di preziosi silenzi e della musica degli alberi. A tratti il paesaggio così molteplice era talmente coinvolgente da non riuscire a bloccare l’irrefrenabile voglia di afferrare e trattenere le immagini. Se dovessi con due semplici termini circoscrivere i tratti fondamentali di questo percorso mi permetterei di ripetere quelli utilizzati nel titolo qui sopra. Nell’arco del nostro camminare, affiancati da biologi, storici, architetti, pianificatori ed esperti del settore, sono riuscita a tratteggiare questi due movimenti e a raccoglierli nella forma di un vanishing point. Il termine inglese si riferisce a un punto che si accende e si spegne, che ci appare e poi scompare. E che cos’era allora questa antica via Egnatia che nei nostri nuovi percorsi compariva in una forma di originale assente per poi confondersi in nuovi tracciati? E cos’eravamo noi walker nell’attraversamento di innumerevoli ambienti caratterizzati da biodiversità? Di certo non intrusi. Era, eravamo, come quella luce che i marinai dal ponte delle proprie navi scorgevano durante la navigazione, come quel puntino bianco eravamo destinati ad affievolirci per un semplice secondo per, nell’immediato, ritornare. Transitavamo, transitava il passato storico di una via alla quale abbiamo dato nuovo spirito, transitavano i paesaggi. In quelle aree ecotonali predisposte alla possibilità più neutra, spazi di passaggio aperti all’ambiente successivo si dischiudeva un principio fondamentale che ci veniva fornito dalla botanica: l’ideale della tolleranza di diversità. E mentre il paesaggio naturale avanzava fornendoci spunti per un comportamento umano migliore, il paesaggio culturale si rivelava nel suo sincretismo, nelle tradizioni e nelle tracce di popoli diversi che aderendo l’uno all’altro, entrando in contatto sfiorandosi, recuperavano un piccolo aspetto, atteggiamento e credenza. Negli scavi archeologici di Philippi, strati di teatri greci sovrastati da strati di teatri romani, santuari orientati al fine di rispettare ciò che stava sotto. La vita che nell’albero esiste e si rinnova nello spazio tra le radici e le foglie, in un medio apparentemente indefinibile, potrebbe allora essere metafora del nostro vivere. La vera forza di scambio si situa nel limbo tra uno spazio e l’altro, nell’avanzare o nell’indietreggiare di un passo, nell’assorbire da chi è accanto a noi. Ci riveliamo nell’istante in cui non siamo e al tempo stesso siamo l’altro, siamo fuori di noi, nel luogo ancora ignoto del come, di ciò che succederà. Nel momento in cui con discrezione non presumiamo di essere qualcuno ma in cui ci offriamo. Nel momento in cui la luce sta per spegnersi per poi riaccendersi, pronta per apparire più luminosa del primo sguardo. 
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lisa-andreani-blog · 7 years
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EGNATIA17
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HI GUYS! 
I am ready for holiday! 
Ok, was a joke. Today I’m leaving Italy for two weeks because I’ll start a 200km walking route along Greece. Via Egnatia is an Ancient Roman way where, with a group of forty people, we will realize a project of an urban, ecological and archeological redevelopment. 
Moreover, with Marta Fassina I desire to use this opportunity in order to create a new situation for #Ormeggi, our stateless, floating and flash break that has already worked on the topic of walking as an aesthetic form.
Actually, right now our attention focuses on the not found city in the Wide World Web. We will see with this first step what we are going to find and discover.
So, stay tuned.
Also on this website: http://ormeggitemporarystop.tumblr.com/
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lisa-andreani-blog · 7 years
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I sette messaggeri - Marsèlleria, Milan (ITA)
curated by CURA
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Radunati attorno al fuoco di un falò, i sette messaggeri di Dino Buzzati tessono una narrazione che conduce a una terra dai nuovi confini, instabili e sfuocati. Da lontano il coro di voci di sette artisti italiani (Francesco Arena, Paolo Canevari, Patrizio Di Massimo, Daniele Milvio, Andrea Sala, Francesco Simeti, Nico Vascellari) offre allo spettatore uno spazio intellegibile, apparentemente inerte, di quella leggerezza che si fa carico della pesantezza di un falso quieto vivere. Sul fondo di una dimensione a tratti esotica e a tratti inospitale Curtain di Francesco Simeti, pronta in ogni momento ad aprirsi e chiudersi, dirige il sipario dello spettacolo mentre la terra raccolta da Francesco Arena e distribuita nello spazio espositivo di Marsèlleria ci restituisce l’immagine di un’isola deserta, anche se la sua provenienza, Lampedusa, ne evoca il contrario. Si costruisce allora il dubbio, l’incertezza nell’attesa di un messaggio rivelatorio che le pagine nere dei sette libri di Paolo Canevari non sembrano fornirci. Ecco allora il limite, quello che a detta di Foucault in Le Parole e le cose è dato dal fascino esotico di un altro pensiero, quello di nuovi orizzonti. Nell’esitante muoversi dentro lo spazio siamo spettatori o intrusi? L’assenza di presenze umane fa di questo luogo costellato dai lasciti di una memoria quali sono le opere presenti un campo kafkiano, asciutto ed essenziale, psicologico e ambiguo. Così, Quando vedi il mare frena ci dice l’opera di Daniele Milvio: fermati per un istante in uno stato emozionale per conoscere te stesso prima di lasciarti andare all’incessante rumore delle onde.
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lisa-andreani-blog · 7 years
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The Revolution of the Gaze _ Gianluca e Massimiliano De Serio_ Residency at Fondazione Pistoletto
Al termine di una settimana di residenza presso la Fondazione Pistoletto credo di non poter rinunciare alla possibilità di lasciare aperti i pensieri che hanno preso forma all’interno della mia testa o forse, per meglio dire, a lasciare aperto lo sguardo che nella dinamicità dell’esperienza si è mosso in cornici differenti.
I meccanismi e la realizzazione pratica di un film o un documentario sono molto lontani da ciò che solitamente sono solita fare ma, con Gianluca e Massimiliano De Serio (erano loro i nostri mentori), ho potuto comprendere quello che in questi giorni successivi è affiorato dopo avere ripreso tra le mani un libro letto anni fa. Potrà anche sembrare un riferimento banale ma le parole che Italo Calvino utilizza nella lecture dedicata alla visibilità nelle sue Lezioni americane sanciscono per me quello che è il sottile e solido filo che connette lo sguardo di uno scrittore a quello di un regista (che alla fin fine nelle sue operazioni pratica anche quella dello scrivere).
Innanzitutto tutto ruota intorno all’immagine o per meglio dire alla relazione con il reale (with reality abbiamo scritto un giorno alla lavagna che avevamo nel nostro atelier di idee). Il che mi porta ad evidenziare che non si tratta appunto dell’uso della particella di o su ma di un rapporto con.
La relazione di cui parlo potrebbe sembrare un gesto che ognuno di noi ha la possibilità di esperire durante ogni singola giornata ma credo fermamente che ad essa non si arrivi così facilmente come si potrebbe invece credere. In un mondo-immagine come quello in cui viviamo e dal quale non è possibile sottrarsi, le immagini stanno ovunque e le finestre sul mondo sembrano già tutte aperte. Il fatto è che quello che attuiamo nella quotidianità della nostra vita, minuto per minuto, attimo dopo attimo, è un semplice esercizio (se cosi si può chiamarlo) di lettura. Leggiamo qualsiasi scena ci si presenti davanti agli occhi su qualsiasi medium essa si situi ma, come ci tengo a precisare citando le parole di Federico Ferrari, vedere non è leggere. L’altra azione che possiamo praticare con il nostro sguardo sul reale, ma che non è così facile da mettere in atto, è quello che Calvino definisce come il fare del “cinema mentale”. Ognuno di noi può esserne capace in quanto si tratta semplicemente di proiettare le immagini del mondo là fuori sulla nostra vista interiore. Il motivo per cui questo non ci viene così immediato è che, nella sua performatività, implica un entrare nella scena. Da un momento all’altro giunge una spinta che ci trasforma da osservatori/registi (o scrittori) in attori. Nell’agire al fine di creare una conversazione, un dialogo che si nutra di ciò che sta sotto il primo strato di superficie delle cose e delle situazioni, uno strumento si denota per essere il produttore di conoscenza per eccellenza: l’immaginazione. Essa è la forza propulsiva, ciò che spinge alla nascita di un progetto, di un libro o di un film, e alla sua formulazione.
“L’immaginazione come repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò che non è né è stato né forse sarà ma che avrebbe potuto essere.” (Italo Calvino, Lezioni americane, p. 92)
L’altra bellezza che ho potuto appurare è che nell’escursione lo sguardo, con il suo statuto di mobilità non solo fisico ma anche fatto di molteplici punti di vista, si fa avvolgere da un’aura di ambiguità dettata dal suo non essere governabile, libero e in costante cambiamento. L’ambiguità a questo punto assume un valore positivo poiché ad essa si affianca il concetto di debito che ognuno di noi dovrebbe essere consapevole di avere in un mondo dove appunto dall’eccessiva presenza dell’immagini prende forma una normalizzazione dello sguardo e un’impossibilità di realizzare un vera esperienza di contatto con quello che ci sta attorno.
Lo scrittore e il regista (mi riferisco a queste due figure ma si posso chiamare in causa anche artisti, filosofi e pensatori) allora si allineano nell’abilità che hanno entrambi di mettere a fuoco ad occhi chiusi, nel far scaturire dal pensare per immagini (Aristotele stesso affermava l’impossibilità di pensare senza immagini, l’impossibilità di esistenza di una memoria senza immagini), forme e colori che si trovano contenute in un insieme di righe fatte di caratteri neri su bianco ma anche scene, sequenze e composizioni che troveranno nella camera il suo supporto. in questa loro abilità riescono pertanto a sfiorare e far affiorare la pelle del reale.
The revolution of the gaze era il topic della nostra residenza, una rivoluzione sulla quale abbiamo ragionato, costruito e prodotto immagini e piccoli corti, anche se credo che sia stato lo statuto di una nuova umanità nei confronti di ciò che abbiamo attorno, delle immagini appunto, ad aver inciso la traccia più interessante e importante.
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TRE, il shortfilm che ho avuto il piacere di realizzare con Giacomo Pederiva e Stefan Milosavljevic
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lisa-andreani-blog · 7 years
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Some pics from the Estonian Pavilion, Venice. Katja Novitskova - "If only you could see what I've seen with your eyes"
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lisa-andreani-blog · 7 years
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Emptiness is not always a lack of critical visions [ENG]
Two weeks ago I bought a new bibliography branded Sternberg Press. Here I want only to point out one of the protagonist of the book “Tell them I said no” so as to raise up some reflections. The author, Martin Herbert, collects ten essays related to various artists who adopted an antagonistic position toward the art world and its mechanisms. My desire to underline one of these artists, the not so famous Christopher D’Arcangelo, is connected to this shared need to diverge and go far away from the trajectories of the society. I think that most important thing to highlight of this figure is his ability to formulate the right questions and, in addiction, the real paradox is that he used the void, the blank space as the only one answer. A blank that has something in common with this power of discretion that I’m working on. Reach the aim of a dematerialization of art was a travel that D’Arcangelo started in a condition of overlapping contexts (the 60′s and 70′s) where the zeitgeist played its role. Few are the documents about him, few were the institutional actions that he made during his short career, only from 1975 to 1979 when he decided to suicide. Surely the main credo of the artist could once again stress this power an empty space.
“When I state that I am an anarchist, I must also state that I am not an anarchist, to be in keeping with the (….) idea of anarchism. Long live anarchism.“
Later, since the action that he made in the Louvre in 1978, the absence started to be the establishment of his presence. Thus, when he decided to lift Thomas Gainsborough’s Conversation in a Park (1745) off the wall, he left a open question and got away. No traces of him there, only an empty space where was pinned the following question:
“When you look at painting, where do you look at that painting? What is the difference between a painting on the wall and a painting on the floor?”
The concept of a blank space changed shapes when he transformed it in something that belonged to reader and spectator. His intervention in the Los Angeles Institute of Contemporary Art’s journal was a sort of void page gift with which anyone could do everything, also installed it in anyplace in the viewing space of LAICA. A gift that was also a transfer of control from the institution to the viewer. The same open opportunity was presented in another action when D’Arcangelo brought a large quantity of flyers at the Metropolitan Museum for a proposal of an Open Museum where for seven consecutive days any one wishing to install an artwork or an object or to performing could do that. The upsetting actions of D’Arcangelo left forever an empty space for an answer which maybe will never be completed. Just because the creation of a new society and approach in the art world but not only is not so easy to realize, today in particular, but the ability to construct a conversation where point out good and critical questions is perhaps a start.
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lisa-andreani-blog · 7 years
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RIDDLES - Marguerite Humeau at Schinkel Pavillon [ENG]
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Reanimating a mythical figure Marguerite Humeau uses the past to reread the present or at any rate to introduce a riddle. For her first institutional solo exhibition at the Schinkel Pavillion (Berlin) the artist conceived a new work developed specifically for the octagon’s transparent architecture. As part of a bigger work complex with the same name, that at first glance appears as an elegant installation of metal tubes and glass eyes after a while disturbs and disorientates us with a large quantity of shrill sounds and motion sensors. In a second the figure of a sphinx, a hybrid creature and guard, is transferred in the technology era so as to show itself as a metaphor of the modern surveillance. Thus we are introduced in a labyrinth of noises which underlines a list of terms that denies the concept of freedom (but somehow highlights the idea of “safety”) : protecting, following up, monitoring, archiving and scanning. But as subjects of an inspection, at the end will we really feel free and safe? Marguerite Humeau leaves us to solve the riddle.
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lisa-andreani-blog · 7 years
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KABUL magazine
Autonomy: self-design or self-deconstruction?
David Firth, Cream, short film, 2017, courtesy the artist
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lisa-andreani-blog · 7 years
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la mutazione è in atto [ITA]
From the catalogue of our exhibition
MUTATIS MUTANDIS?
Riflettendo sul presente le immagini del video Six Easy Pieces (2010) di Reynold Reynolds rimandano con un’associazione sottile al contesto attuale. La visione nasce spontanea in relazione alla “macchinosità”, la quasi artificialità, che colpisce i soggetti attori al suo interno che, con scatti quasi robotici, appaiono azionati da una carica a molla. Il loro essere tremendamente “macchina” rinvia al nostro oggi, pieno di rumori e vibrazioni interne che siamo incapaci di vedere. Questa scossa, quella dell’ora, colpisce fulminea in un istante e non sempre si mostra percettibile alla vista. Questo movimento, l’essere del nostro tempo, fermenta nell’arte e nelle opere di giovani artisti contemporanei, le quali si presentano sempre più come device, reti multiple, spazi per operazioni di ricezione ed estroversione. L’esperienza delle immagini oggi è sempre più frenetica. Come nostro oggetto sessuale per eccellenza, ci ossessionano e contaminano. Ciò che cerchiamo in esse non è più una certa ricchezza immaginaria (in  n dei conti siamo ben consci che immaginare risulta difficile quando ogni scenario e con ne è stato valicato), bensì quell’intimità tecnica. Ci avviciniamo per osservare da vicino l’immagine, ma in essa non c’è niente, è la grana della sua pelle, la sua superficie, a restituirci l’ampio panorama del reale. In questo più che mai la nona edizione della Biennale di Berlino 2016 è stata un monito, l’avvertimento che una modifica sta giungendo a compimento. Lo spostamento reale si manifesta nel saper vedere e nel saper leggere il “contenuto” quale ostacolo. Le nostre immagini sui media si sono trasformate nel nostro contenuto? È il contenuto intrinseco dell’arte ancora funzionale a generare una riflessione? La necessità di determinare e analizzare “ciò che sta al suo interno” si sostituisce alla presentazione immediata. Non perché si debba smettere di fare critica ma perché, al contrario, è mostrando un atteggiamento acritico che si enfatizza il paradosso della contemporaneità. Il contenuto sta nell’azione, azione che si pratica con umorismo, quello stesso umorismo deleuziano che mette in luce un’accettazione che, nel fare la stessa cosa ancora di più, ne evidenzia l’assurdità.
L’arte allora è fast, immediata, è uno strumento tecnologico che si svela in super cie, è touch come lo schermo di uno smartphone. Nel suo darsi in maniera tempestiva è teatro di attualità dalle quali non possiamo essere più fuori. Il presente è incerto, sottomesso a un continuo cambiamento, a una continua accelerazione di cui non siamo, o forse si, così consapevoli. La lettura frontale dell’opera quale processo di esplorazione determina la sua de nizione di spazio di segni linguistici che si connettono con avvenimenti attuali, futuri e precedenti in una linea che apre. Un ritmo è accolto al suo interno, esso dirige la forma, ne nutre la loro oscurità. L’arte non può prescindere dalla sua enigmaticità, essendo in primo luogo esperienza dell’umano.
L’opera è testo e il meccanismo di analisi critica che la investe si manifesta quale sentire speciale che prende forma dalla lettura da parte di un visionario, il cui occhio cade sul non visto. Il visibile si riformula attraverso l’azione investita di etica che questa figura permette di vedere con una certa trasparenza. [cfr. Ferrari F., 2016 ] Per questo motivo forse oggi l’apertura non è così immediata (pochi sono i visionari) e allo stesso tempo la chiusura non è formula negativa. Nel chiuso ci ingloba e ci trasporta, si fa specchio infallibile. Oggi crediamo di vivere in una posizione di perfetta sovranità, crediamo di governare il mondo quando tutto ciò è effettivamente iperreale, uno spazio di assoluta simulazione. L’agire con umorismo menzionato poco sopra si attiva, per esempio, nel momento in cui viviamo all’interno del juice bar MINT, installazione dell’artista Debora Delmar Corp presente alla Biennale di Berlino 2016: beviamo il nostro eco-bio-green succo, rilassandoci, mentre mettiamo in scena proprio quello che l’opera ci vuole dire, mostrandoci nel lusso di consumare e mangiare. La superficie del reale appare in maniera immediata, ma nel movimento ubiquo delle immagini nulla ha luogo, eppure siamo saturati. La fascinazione e stupefazione dello sguardo sono rivolti a scene vuote. Nel prefigurare il nostro futuro vediamo un’esistenza sottovuoto, la stessa esistenza, che per ora vivono solo i batteri e le particelle nei laboratori scienti ci, sarà posta alla stregua di una stessa linea. “E quale seduzione è più violenta di quella di cambiare specie, di trasfigurarsi nell’animale, nel vegetale o addirittura nel minerale e nell’inanimato?”. [Baudrillard J., 1987, p.35] Nel processo di fluidità l’individuo umano scompare e diventiamo tutti dei mutanti potenziali, quasi alieni. Sorge spontaneo a questo punto un nesso con il progetto Reinassance di Adrián Villar Rojas presentato presso la Fondazione Sandretto Re Baudengo nel 2015. In uno scenario post- end, in cui una dialettica continua tra storia e scienza, passato e futuro si inserisce, crollano le gerarchie condivise per convenzione dagli uomini: la macchina equivale all’animale, un robot a un bambino, gli indiani agli antichi romani. Tutto è materia, tutto è miscuglio mentre rievoca l’Emporio celeste dei conoscimenti benevoli, antica enciclopedia cinese borgesiana citata da Foucault nella sua opera Le parole e le cose (1966) per sottolineare quanto “il fascino esotico di un altro pensiero suggerisce il limite del nostro”. [Foucault M., 1998, p. 5] Il pianeta terra e la cultura umana vista con gli occhi di un extraterrestre mancano di pregiudizi, l’orizzontalità è assoluta, l’interpretazione e la percezione delle nostre strutture decade. La metamorfosi è in atto. Attuale e virtuale più che mai. Le forme sono fluide, di sostituzione di volti, ruoli e maschere. Scomparendo in realtà ci perdiamo nelle apparenze, lobotomizzati dall’impazzire dei circuiti.
F. Ferrari, Visioni. Scritti sull’arte, Lanfranchi Editore, Milano, 2016 J. Baudrillard, L’altro visto da sé, costa&nolan edizioni, Genova, 1987, p.35     M. Foucault, Le parole e le cose, BUR Edizioni, Milano, 1998, p.5
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lisa-andreani-blog · 7 years
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immagine-cosa come immagine-individuante [ITA]
Riflessioni dal convegno “Immagine-cosa” - Teatrino di Palazzo Grassi, Venezia
Interventi di Andrea Cavalletti, Emanuele Coccia, Elie During, Bertrand Prévost, Chiara Vecchiarelli, Frédéric Worms, Dork Zabunyan
Proiezioni di opere di Pierre Huyghe, Mark Lewis, Jonas Mekas, Peter Snowdon
A cura di Chiara Vecchiarelli. In collaborazione con Università Iuav di Venezia, École normale supérieure de Paris, Institut français Italia
Un cortometraggio che non è immagine in movimento, ma un susseguirsi di fotografie  fisse, è un prodotto cinematografico al quale viene concessa l’opportunità di autodichiarare il proprio statuto di “photo-roman”, mentre una voce narrante fuori campo racconta la storia di una futura era che segue a una tragedia, quella di una Terza Guerra Mondiale. Questo breve incipit descrive alcune delle peculiarità principali dell’opera “La jetée” del regista francese Chris Marker (1921-2012), prodotta nel 1962. In un futuro apocalittico, di una Parigi completamente rasa al suolo, la vita resta possibile solo nei sotterranei della città dove, tra i pochi superstiti, alcuni scienziati, attraverso la realizzazione di alcuni esperimenti, cercano di recuperare le possibilità di una sopravvivenza del genere umano prendendo in considerazione la dimensione temporale come unica soluzione possibile. Con l’uso di specifici macchinari introducono le loro cavie in viaggi temporali, dove la gerarchia di passato, presente e futuro vede il cedere della propria struttura. 
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All’aeroporto di Orly, nella prima sequenza di immagini, un bambino con i genitori osserva gli aerei atterrare mentre un uomo viene assassinato. Il piccolo in questione è l’oggetto delle sperimentazioni che permettono il riaffiorare di queste immagini, tra le quali appare, inoltre, il volto di una donna che tanto era rimasta impressa nella sua memoria durante questo episodio. Le immagini, montate in successione, portano alla luce un incontro; l’uomo e la donna trovano l’occasione per avvicinarsi e stando l’uno accanto all’altro creano una confidenza pura anche se priva di parole, in un tempo che è coesistenza di due temporalità diverse o l’annullamento dello stesso. L’ottenimento da parte degli scienziati della soluzione  finale per rimettere in marcia l’industria umana, al  ne di un futuro più floreo, sancisce un ritorno all’origine del cortometraggio. Siamo di nuovo ad Orly e l’immagine della donna è ancora lì, nitida. La scena è sempre la stessa: un uomo le corre incontro prima di venire ucciso. Il susseguirsi delle immagini precedenti rende leggibile, anche se non ce lo mostra, il suo volto. È quel bambino, è l’uomo sottoposto alle attrezzature rudimentali di quegli “uomini di scienza” che vede, nel ritorno di questi frame, la sua morte. Con il suo carattere commisto di genere fantascientifico e favola psicologica l’opera del regista francese si o re, alla pari del suo protagonista, come “cavia” per una riflessione sull’immagine, non tanto nella sua valenza estetica ma in quanto cosa che si o re come “campione di vita”, come funzione vitale del vivente. Continui intrecci temporali mettono in scena una relatività del tutto einsteniana che si affianca a un rifiuto di un criterio scientifico in rapporto con un presente mobile, estensivo. La complessa macchina temporale è teatro della coscienza, luogo che cede agli atti della stessa la possibilità di essere  li di connessione tra la realtà del pensiero e la realtà del mondo esterno. Le immagini appaiono nel montaggio come confessioni, dichiarazioni intime di un qualcosa che soggiorna nell’interiorità ma che si rende disponibile ad entrare in una dinamica relazione con l’esterno. 
L’immagine, come operatore indipendente dotato di realtà, assume la posizione intermedia che gli spetta, diviene lo strumento per far riemergere dei sintomi, delle sensazioni che paiono appartenere a diversi individui dell’uomo oggetto di sperimentazioni. L’immagine che viene spinta a uscire da sé, nella sua “funzione realizzante”, si annuncia come mero oggetto di un’altra temporalità che investe il protagonista, in quel momento un nuovo e diverso individuo, al quale viene presentato un momento altro della sua memoria. Recuperando gli scritti bergsoniani e in particolare il saggio “Materia e memoria” (1896), se l’immagine è l’oggetto che ci introduce alla percezione, azione estremamente legata alla memoria, essa è anche l’oggetto che genera una temporalità che modula anima e corpo sulla base di una solidarietà dove passato e presente sono posti sullo stesso piano in modo da orientare il corpo all’azione, quell’azione che porta il protagonista a ritornare al primo momento in cui incontra quella donna. Se nelle ultime scene si ha modo di scoprire, senza vederlo davvero, il volto dell’uomo ucciso nelle prime immagini del cortometraggio, accade anche un’imprevisto, il generarsi di un cortocircuito di temporalità e individui. Il susseguirsi di ritorni e di avanza- menti nel tempo, dovuti ai macchinari scienti ci, rompe la nostra lucidità che è portata a concepire sotto la stregua di una linea l’ontogenesi dell’individuo. L’essere, l’uomo, introducendo a questo punto anche le riflessioni di Gilbert Simondon (1924-1989) presenti in “L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e d’informazione” (1958), è una realtà “relativa”, sempre potenziale, la cui individuazione si inserisce in un processo continuo mai determinato, a causa della carica dei potenziali preindividuali non esauriti mai al suo interno. Uno di quei potenziali in questo caso ci appare quando il protagonista afferra di essere lui stesso l’uomo assassinato. La carica preindividuale si esaurisce nel momento della presa di coscienza della morte. L’azione individualizzante del “venire in essere” del protagonista si mostra scindibile, quindi, in quattro situazioni diverse, come in un ciclo di vita che però non avanza in senso orario ma che vede degli stacchi. Così, gli individui del suo “essere” sono il bambino, l’uomo sottoposto ai ferri di una classe medica che riecheggia in parte le  figure di scienziati nazisti (sono chiari i riferimenti al mondo concentrazionario della Seconda Guerra Mondiale), l’uomo che in un ipotetico futuro incontra la donna delle sue memorie e infine l’uomo che comprende da lì a poco di essere l’oggetto dell’assassinio dei suoi ricordi passati. L’individuo non è una realtà assoluta, la temporalità non soggiace all’avanzare di una linea diacronica e l’immagine, quindi, è una sorgente perpetua che introduce una molteplicità, un continuo generarsi di forme e di vite.
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lisa-andreani-blog · 7 years
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KABUL magazine
Visioni orizzontali: posthuman e spinozismo goethiano
G. Caravaggio, Il mistero nascosto da una nuvola, 2012, marmo nero del Belgio, zucchero a velo
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lisa-andreani-blog · 7 years
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come una foresta di mangrovie
come una foresta di mangrovie. 2017. analogue photography. lightjet print. series of 11.
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Caro lettore, intessiamo, volenti o nolenti, una storia con il paesaggio, la città e i luoghi che ci circondano. Questa scrittura, intima e nascosta, può apparire come indecifrabile, danneggiata e caratterizzata da eventi di non facile comprensione. Questo non significa che non si stia scrivendo, che non si stia collezionando e disponendo dei fotogrammi in una sequenza. Ti ricordo che una grandissima componente della nostra esistenza sono gli oggetti portatori di memorie, fanno essi parte del nostro rapporto con ciò che ci avvolge. Anche le immagini sono oggetti per quanto spesso non lo ricordiamo. Lo sviluppo di una cecità nei confronti di questi minimi e poco percepibili movimenti, oggetti e immagini si relaziona all’incapacità di essere dei bravi archeologi. Non scaviamo più a fondo, non percepiamo più i dettagli. Ma la città, il paesaggio, nel contesto attuale, ci richiedono di essere più attenti, accorti per percepire una metamorfosi in atto. Le piante di mangrovie si caratterizzano , oltre che per le radici tradizionali, anche di grandi radici aeree e a trampolo. La vita prende forma nello “spazio tra”, tra di esse ma anche nel luogo intermedio delle immagini. Mi chiedo se tu possa riscoprire un enigma aperto, nell’avanzare dei fenomeni, da un montaggio poco chiaro e incerto. Mi chiedo se sia più efficace di qualsiasi presentazione degli stadi di cambiamento. Forse proprio perché può restare aperto. Il silenzio è presente ed anche il tuo in quell’attento guardare. E’ la storia di una città, frammentaria e aperta al dialogo. la nostra storia si conclude qui, o meglio termina ne suo non avere fine/fini alcuni. Vedi lettore, ci dicono cosi tante cose sul cambiamento del paesaggio oggi. Ma esso non sta forse mutando già dalla sua stessa origine? E per di più, esso non nasce e si muove da sempre nell’immagine che appartiene alle persone?
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Dear reader, we build, conscious or unconscious, a story with landscape, cities and different spaces that are all around of us. This writing, intimate and hide, looks like something indecipherable, damaged and characterize by events not so easy to understand. This doesn’t mean that we are writing in a bad way or we are not thoughtful and precise collectors of a sequence of frames. I am here so as to remember you which large and important role frames play in our life like objects bearer of memories. Frames and objects, or both together, are within this relation that we create with the spaces and places. Nowadays a form of blindness touches us more frequently then we could think of while a sort of indifference towards movements, objects and images, which represent a tracks in our life, is related to an inability to be good archeologist. We are not so interested to seek something hidden in the depth of things, we don’t perceive the details anymore. Bu the city and the landscape, in this particular time, ask to us to be more careful when we confront ourself to the metamorphosis and the process which are in action. Mangrove plants are characterize by a particular type of roots which, unlike the traditional under the ground, comes down from the sky as a stilt. The life appears in the space “between”, between the two different types of roots as well as in the intermediate place of the images. Reader, I may ask you if you want to discover an open mystery which, in the middle of the phenomenons, is revealed by an uncertain montage. I think that a good question could be, in this context, if this story is really strong and efficient more then any other presentation of the transformations of the landscape. It is open and is made for that. The silence is here and it is also yours when you pay attention in the movement of the gaze. This is the story of a city, fragmented and open to the dialogue and this story ends here in its particular necessity to not give a real conclusion. Reader, we live in a world full of information about the change of the landscape but is it perhaps in a sort of mutation since its origins? And moreover, doesn’t the landscape move constantly and since ever in the images which belong to people?
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lisa-andreani-blog · 7 years
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Il vento che conduce al sollevamento [ITA]
Riflessioni dal ciclo di conferenze “Sollevamenti” - Visiting professor Georges Didi-Huberman. 
Il seminario è promosso da: Dipartimento di Culture del progetto Iuav, Scuola di dottorato Iuav, Unità di ricerca LABIM - Laboratorio di teoria delle immagini, Corso di Semiotica e teoria delle immagini, Palazzo Grassi – Punta della Dogana.
L’atto di sollevamento dilata il mondo attorno a noi. Per giungere ad esso servono gesti, desideri, profondità. Prendiamo il gesto di denuncia, come forza in movimento esso si solleva contro l’ingiustizia, contro una mancanza, una perdita di un qualche stato che non è più presente. Sgomberare il campo attuale per sollevarsi non significa dimenticare il passato, al contrario questa cancellazione si materializza a seguito di una chiamata a non sottomettersi che viene trasmessa in uno spazio pubblico per coinvolgere una pluralità di persone. Leggendo le diverse voci relative all’etimologia del termine sollevare riscontriamo come sua definizione il togliere da uno stato materiale o morale di inferiorità. Non è forse questo che tende a realizzare una rivolta? Con la sua spinta verso la libertà quest’azione genera un’immagine dialettica pregna di futuro. Questo gesto incline al superamento ci possiede, si trasmette e sopravvive. Nel suo stato di emergenza solleva un popolo da una situazione di impotere. Tra i gesti che nel corso della storia fanno appello alla rivolta troviamo la distribuzione di scritti politici sovversivi in forma di volantini, che, per quanto fragili e leggeri, possono essere pericolosi alla pari di un’arma da fuoco. Questi opuscoli evocano le farfalle, in francese papillon, che si innalzano verso le nuvole senza essere coscienti della loro stessa potenza di espansione. Hanno qualcosa a che vedere con il non concesso, ma questo solo per fare appello a una vita libera e all’aria aperta. Il volantino, indice di un desiderio che vola, persiste e resiste nonostante tutto, non conosce il suo destinatario o chi riceverà il suo messaggio di sollevamento. Le parole di questa farfalla prendono il volo, svolazzano maldestramente spinte dal vento, passano vicino con la loro bellezza ed energia. Passate le frontiere smettiamo di conoscere il loro destino, queste parole potrebbero ritornare indietro o viaggia- re ancora, toccare menti e corpi o restare loro indifferenti. La loro potenza come principio di cambiamento però permane, visibile e immutabile.
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Prendiamo come esempio l’evento avvenuto il 18 febbraio 1943 all’interno dell’Università Ludwig Maximilian di Monaco di Baviera. Die Weiße Rose (la Rosa Bianca), gruppo composto da cinque studenti cristiani dell’università sopra citata, si oppose in modo non violento al regime della Germania nazista di Hitler rigettando la sua violenza. Il movimento, attivo dal 1942 al 1943, credeva in un’Europa federale basata su principi di tolleranza e giustizia e considerava come spunti fondamentali per le proprie riflessioni passi quali quelli della Bibbia, di Sant’Agostino e Aristotele ma anche tesi del movimento cattolico Quickborn (Sorgente di vita). La resistenza passiva della Rosa Bianca veniva attuata dai suoi componenti attraverso la distribuzione di volantini in luoghi pubblici con l’intento di, attraverso il loro contenuto, colpire e risvegliare il popolo tedesco da quello stato di sottomissione alla politica nazista. Il numero di opuscoli che il movimento andò a realizzare fu sei e l’ultimo di questi fu appunto distribuito nella data sopra riportata. In coincidenza con la fine delle lezioni, Sophie Scholl, uno dei membri del gruppo, prese la decisione di salire in cima alle scale dell’atrio centrale dell’edificio e gettare da lì i papillon sugli studenti sottostanti. Spinti da una forza viva quale quella del vento, dell’aria, i volantini si sono posati, hanno toccato i pensieri e hanno viaggiato passando di mano in mano, stimolando gesti e azioni. Sollevandosi hanno fatto insorgere e hanno nutrito una necessità di cambiamento che nei confronti di quello stato politico si dimostrava evidente. Questo vento che innalza i papillon verso il cielo e verso le menti ricorda il vento pieno di grazia su cui si sofferma Alighiero Boetti in un colloquio avvenuto e registrato a Roma nel 1986. 
“ Vorrei parlare del vento: questa forza che rende le cose leggere, che movimenta e trasporta, che rende leggere anche le cose pesanti.” [Lombardi, 1988, p.21] 
Non è forse lo stesso vento che solleva quei messaggi dal peso così fisicamente inconsistente ma pregni di una “pesantezza” politicamente valoriale molto più vasta? L’artista italiano con la sua arte, che appare come praxis fortemente intellettuale, mostra un potente istinto verso la ricerca di libertà, verso il bisogno di comprensione delle cose e di superamento delle separazioni di cui la cultura e la storia, ma anche la geografia, si caratterizzano. Le guerre, le diverse quotidianità, le catastrofi lacerano il mondo in maniera profonda e bruta generando un sempre un nuovo diverso disordine. Boetti, allora, “torna in continuazione scoprendo sempre nuove prospettive, cioè nuove interferenze, instabili equilibri di combinazioni, incontri fortuiti e relazioni circolari”. [Boetti, 1984, p.187] Con il suo spirito nomade realizza viaggi metaforici in diversi ambiti del sapere e della cultura quali matematica, scienze umane e storia ma al tempo stesso anche viaggi autenticamente geografici che mirano a un’apertura che si dirige oltre ogni frontiera. Analizza i processi di trasformazione del mondo, i cambiamenti di equilibri geopolitici accettando l’identità di un io plurale che ci appartiene. Questa pluralità si manifesta, per esempio, nelle sue Mappe dove una florida confluenza di culture diviene evidente, ma dove anche una molteplicità di persone si impegna nella realizzazione del lavoro artistico stesso. L’opera diviene un’opera partecipata. E se l’arte per Alighiero Boetti si rivela come risposta a una mancanza, allora il costante coinvolgimento di altre persone come punto nevralgico del suo lavoro pare essere accostabile a quel tentativo di partecipazione che quei volantini rivoluzionari mirano a costruire in vista di una assenza di considerazione di un popolo e di considerazione dei valori etici e morali in un apparato politico-governativo. Non è forse vero che nella rivolta la nostra singolarità si unisce alle altre personalità presenti con lo scopo di sollevarsi da uno stato inadeguato? Essa si solleva e si ampli ca, ingloba chi come lei si innalza verso l’alto, chi come lei crede in uno stato possibile di leggerezza e libertà.
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Uno dei lavori dell’artista, realizzato nel 1967, mostra un’evidente connessione con il gesto del sollevarsi e con quel vento che sembra permettere quest’innalzamento. I Viaggi postali, venticinque percorsi per venti- cinque destinatari/viaggiatori tra cui amici, collezionisti e artisti, si presentano come buste affrancate e timbrate di misure variabili (busta più piccola 11x22 cm; busta più grande 26x40 cm; alcune di esse sono andate smarrite) che hanno percorso 181 tappe in totale. Le lettere non hanno mai raggiunto i destinatari a cui esse erano state rivolte, in quanto essi non erano rintracciabili agli indirizzi prescelti, e una volta ritornate al mittente venivano chiuse in buste di formato sempre maggiore per raggiungere la tappe successive previste (l’itinerario completo è chiuso nella prima busta). Le xerocopie delle buste, eseguite su fronte e retro ogni volta prima di rispedire la lettera, sono raccolte in un Dossier postale, curato da Alighiero Boetti insieme a Clinio Trini Castelli e parte integrante dell’opera, che costituisce la testimonianza di ogni viaggio. Questo work in progress durato un anno mette in luce un contatto tra due immagini, che contigue e addossate producono l’apertura di un pensiero. L’elemento intermedio che permette di individuare questa possibile connessione tra i volantini rivoluzionari e le lettere di Boetti è questo vento immaginario che li solleva e che permette loro di superare barriere, confini e frontiere. L’aria come elemento attivo e carico di forza cela al suo interno una spiritualità molto potente. Come il sollevamento ci coglie inaspettato e ci spinge verso un superamento, anche il vento non può essere trattenuto. Recuperando il suo valore spirituale esso mostra una valenza purificatrice. Nel Vangelo secondo Giovanni (G 3,8) troviamo chiaramente questa sua accezione: “Il vento so a dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito”. Ciò che ci coglie impreparati e ci conduce in una aleatoria avventura è proprio questo so o potente nell’aria. Esso ci permette di superare barriere, frontiere ma anche diversità, scava nel profondo,  no al cuore delle questioni, per purificarci e generare un dialogo, dei collegamenti. Come un sintomo questa purificazione, questo sollevamento pulsa di una necessità molto forte. E’ impossibile non avvertirlo. La connessione tra l’evento e l’opera presa in considerazione non sta tanto nel loro contenuto ma nel loro mezzo di trasmissione e nella loro azione di superare una linea di demarcazione netta. Entrambi questi scritti sono destinati a non restare, a prendere il volo, a passare di mano in mano, siano esse quelle dei semplici postini sia quelle di giovani rivoluzionari. Due gesti li accomunano, il volare o viaggiare e il passaggio, la circolarità della condivisione. Entrambi questi oggetti sono in grado di innalzare un pensiero profondo capace di aprire uno spazio e alzarlo in aria. Questo spazio di pensiero si dimostra quindi essere sia quello della decisione di una rivolta collettiva in nome del superamento di un con ne troppo rigido relativo a una struttura sociale e politica, sia quello di un’oltrepassare, attraverso il viaggio, confini geografici che si traducono nell’immediato anche in confini culturali.
Bibliografia
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Negrelli G., L’età contemporanea, Palumbo, Palermo, 1992                       
Lombardi S. (a cura di), Alighiero e Boetti. Dall’oggi al domani, L’obliquo, Brescia, 1988                                                                                                       
Riout D., L’arte del ventesimo secolo: protagonisti, temi, correnti, Einaudi, Torino, 2012
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