Produzioni video, cinema e videomaking: istruzioni sull'uso
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CRONACA DI UN SET
Il 21 Settembre 2015 sono partito per fare l’aiuto regia al nuovo film di Fabrizio Cattani “Cronaca di una passione”. Per l’occasione il portale darumaview.it mi ha chiesto di redigere un diario di produzione, cosa che sono riuscito a fare fino a metà, prima di essere travolto dagli impegni del set. Il post che segue è la cronaca completa delle mie cinque settimane in Toscana.

PARTE 1: PENULTIMA SETTIMANA DI PRE-PRODUZIONE Roma, lunedì 21 Settembre, ore 9:30. Arrivo non poco trafelato alla stazione Termini. Il maledetto autobus 310 era pieno zeppo di gente e sono stato costretto a prendere la metro. Guardo l’orologio e mi complimento con me stesso (dicono che ogni tanto fa bene darsi qualche iniezione di autostima): mancano ancora 10 minuti alla partenza dell’intercity 9138 diretto a Torino: sono in perfetto orario. Prendo un caffè al volo. Inveisco contro la cassiera lenta. Mi trascino verso il binario 21 e salgo sulla mia carrozza. L’intercity in questione è piuttosto vecchio, puzza di umido ed è di quei treni che hanno gli scompartimenti da 6, per cui sei costretto a condividere una cabina con perfetti sconosciuti. Sarà la condivisione coatta della cabina, sarà il cattivo sistema di ricambio dell’aria, sarà il materiale con cui sono realizzati i poggiatesta (di quelli un po’ spugnosi che sembrano fatti apposta per incamerare sporco e sudore), sarà per un insieme di motivi ma questi tipi di treno mi danno sempre una strana sensazione di disagio. Entro all’interno del mio scompartimento e subito penso di stare al circo o in un film di Tim Burton: vicino al finestrino ci sono due giapponesine di quelle che sembrano uscite da un manga, mentre di fronte a me sono seduti due fratelli gemelli con evidenti problemi di altezza. Passo la prima mezz’ora a trovare le differenze tra i due, come in uno di quei giochetti sulla settimana enigmistica: uno ha la bocca più larga, l’altro ha un orecchino, uno è più muscoloso, l’altro ha il pizzetto. Tuttavia la cosa più inquietante è che uno dei due ha una strana voce rauca alla Nicola di Gioia e quando parla sembra strozzarsi. Il treno parte in orario. Mi stupisco e mi accomodo. Guardo il mio biglietto in cui c’è scritto “Arrivo Massa Centro: 13,28”. Mi chiedo come sarà la permanenza in Toscana, dove alloggerò e come mi troverò con la troupe del film. Infatti il motivo per cui sono sull’Intercity è che sono stato chiamato per fare l’aiuto regia al nuovo film di Fabrizio Cattani che si girerà nella provincia di Massa Carrara. E’ stata una cosa improvvisa ma sono contento di questa nuova avventura. Fabrizio, dopo essersi misurato con il tema dell’acqua ne “Il Rabdomante” e con le mamme infanticide in “Maternity Blues” (presentato fuori concorso al Festival di Venezia del 2011), sceglie di continuare a battere la strada del sociale scrivendo una sceneggiatura di grande attualità, tratta da una storia vera, che denuncia i perversi meccanismi della burocrazia italiana in contrasto con il buon senso comune. Il nuovo film si chiamerà “Cronaca di una passione” e racconta le disavventura di una coppia di sessantenni alle prese con Equitalia e tutte le tragedie ad essa collegata… Il titolo fin da subito stimola la mia curiosità con quell’implicito richiamo, forse religioso, di ben altra passione. Mi addormento coadiuvato dal dondolio del treno. Mi sveglio di soprassalto: il gemello con la voce rauca inizia a chiamare il fratello che a sua volta sta dormendo e, nel farlo, alza la sua voce rauca a dismisura. Il fratello addormentato si alza e l’altro gli racconta che una loro certa amica si è tipo lasciata. Una tipa giapponese è sparita. L’altra legge roba con caratteri giapponesi. Passano tre ore in cui i gemelli non riescono a stare zitti. Arrivo a Massa centro con un mal di testa non indifferente e con una fame non da meno. Esco dalla stazione cercando qualcuno o qualcosa. So che verrà a prendermi l’organizzatore generale del film ma di lui conosco giusto il nome, ovvero Luigi, e mi sembra improbabile mettermi a urlare il suo nome in stazione. Ma la stazione non è di certo grande come quella di Termini, e lo trovo subito. Insieme a Luigi, c’è anche la segretaria di produzione Giulia e il regista Fabrizio insieme alla sua immancabile cagnolina Lilli. Conosco finalmente parte della troupe con cui condividerò una mese della mia vita. Li vedo tutti per la prima volta e subito mi sento a mio agio. Luigi con la sua calata romana mi riporta immediatamente a Roma, Giulia inizia a raccontarmi le sue avventure in giro per il mondo e i vari significati dei suoi tatuaggi, mentre Fabrizio, il regista, appare disponibile e con la situazione sotto controllo (a parte quando se la deve vedere con i dispetti della sua Lilli). L’atmosfera è positiva, ma è pur vero non c’è ancora la frenesia da set visto che le successive due settimane che seguiranno saranno di pre-produzione. Qualcuno mi informa che si va subito a mangiare. Io esulto interiormente. Nel tragitto stazione-ristorante scopro tante cose, di quelle che generano traumi. Prima di tutto scopro che Massa Carrara non è un’unica città, bensì due, ovvero che esiste il comune di Massa e il comune di Carrara. Poi scopro che noi alloggeremo niente di meno che a Colonnata, la patria del celeberrimo Lardo, posto che insieme a Domodossola pensavo esistesse solo nella fantasia. Inoltre vengo a conoscenza che Luigi è a Colonnata dal 30 Agosto, cosa che mi porta alla successiva scoperta, ovvero che da giovedì io rimarrò solo soletto, visto che Fabrizio e Luigi devono tornare nel week-end nella capitale. Ma finalmente arriva il pranzo. Mangio di gusto. Si chiacchiera del film che gireremo e ci si domanda se le formiche della prima scena è meglio prenderle dal vivo o realizzarle in post. Dopo aver attentamente disquisito sul comportamento delle formiche si opta per la seconda opzione. Fabrizio ogni tanto mette in riga Lilli. Si prende il caffè e si esce. Giungiamo agli studi di produzione che scopro essere delle casette di legno in mezzo a un giardino pieno di piante e alberi da frutto: in pratica l’ufficio dei miei sogni. Vedendo l’albero di cachi gonfio di frutti capisco di cosa mi nutrirò nei prossimi giorni. Inizio così il mio lavoro da aiuto regia. Mi guardo attorno e penso di essere contento di essere finito qui. E’ sera e saliamo a Colonnata. Rimango subito impressionato dalla mole delle cave di marmo, dall’esistenza di così tante “larderie” (non conoscevo l’esistenza in lingua italiana di tale termine) e della presenza costante del ricordo degli anarchici.

Tre aspetti che racchiudono il cuore di questa zona di Italia e che si riassumono alla perfezione in due sculture di marmo di Carrara, presenti nella piazza centrale del paese: la prima raffigura un fiero e pasciuto maiale su un piedistallo, mentre la seconda si tratta di una targa in memoria dei compagni anarchici uccisi, con scolpita la celebre “A” di Anarchia. Scopro infatti che in questa area le idee Bakuniane sono penetrate in profondità e che, ancora oggi, sono molti a ritenersi anarchici, soprattutto chi lavora nelle cave di marmo. Queste ultime sono realmente impressionanti e, ancora più impressionante è notare come tutta l’economia del posto ruoti intorno ad esse. Il lardo invece è una caratteristica tipicamente di Colonnata. Vengo a sapere da Daniela, proprietaria della larderia “Mafalda” nonché sorella del regista, che non solo il lardo non è così grasso come sembra ma che, grazie al micro clima di Colonnata e a un processo di idrolisi, esso contiene delle proprietà organolettiche che fanno addirittura bene. Forse prendo il tutto alla lettera visto che inizio a mangiarne in quantità industriali. La pre-produzione fila tutto sommato liscia, tra la ricerca delle ultime comparse (ne servono 150) e l’arrivo del nuovo materiale per la scenografia, senza farci mancare le tipiche scene delle produzioni low budget, tra cui spingere a mano un vecchio furgone Fiat per liberare un garage che si userà come magazzino. Il bel cinema artigiano di una volta, in cui ci si sporcava le mani per davvero! Continuo a mangiare lardo e cachi e a conoscere nuovi componenti della troupe. Penso in maniera kafkiana che un giorno mi sveglierò e avrò le fattezze di un suino. Lilli ogni tanto ci ricorda che esiste, abbaiando a qualche gatto. Fabrizio prontamente la richiama. Si iniziano a fare scommesse se Lilli sarà presente o meno durante le riprese. La sera si va a mangiare alla trattoria di Carrara “La capinera”, dove tra deliziosi ossobuchi e vino della casa si muovono personaggi della Carrara autentica, che non fanno rimpiangere gli anarchici che circa 70 anni fa frequentavano il locale. Non è raro imbattersi in qualche discussione animata, di cui si perde quasi immediatamente il filo. Da sottolineare la presenza del cameriere Liviu, rumeno trapiantato in Toscana, che possiede guizzi comici notevoli; e della scultrice locale Francesca, abituè della trattoria, che per presenza e temperamento non passa di certo inosservata. E’ giovedì. Fabrizio e Luigi tornano a Roma ed io resto con Giulia a gestire i preparativi, fino al loro rientro che sarà di Lunedì, quando inizierà l’ultima settimana di pre-produzione e si conoscerà la restante parte del cast tecnico e artistico. Tra qualche provino per ruoli mancanti e la ricerca di un trans (ebbene si) si conclude questa prima parte dell’avventura. La sera torno da solo a “La Capinera” ma mi sento già a casa e vengo additato da molti come “quello del film”. Penso che la Toscana è fantastica e che i suoi abitanti lo sono ancor di più; penso che sarà un mese duro ma piacevole; penso che nel week-end farò un’escursione per vedere le cave dall’alto; e penso che tutto sommato sono fortunato a fare un’attività che mi permette di conoscere così tanta gente e così tanti posti nuovi. In trattoria siamo rimasti solo io e Francesca a parlare con i proprietari, che ci narrano del celebre passato anarchico del loro locale. Liviu si mette a cucinare un piatto rumeno spadellando non si sa cosa. Si dice che da Martedì ci trasferiamo a Massa. Questo potrebbe essere l’ultimo week-end a Colonnata! Immagino il mio futuro senza più lardo. Così, ora che posso, ne approfitto per mangiarne un altro po’…

Il mio nuovo ufficio
PARTE 2: ULTIMA SETTIMANA DI PRE-PRODUZIONE- Inizia per me la seconda settimana in quel di Colonnata, ovvero gli ultimi 7 giorni di preparazione per “Cronaca di una passione”. 7 giorni: Il tutto ha un sapore biblico. Lunedì 5 Ottobre si batterà il primo ciak e la tensione inizia a crescere, tra imprevisti che non possono mancare e imprevisti più o meno calcolati. E non riusciamo ancora a trovare il trans. La settimana inizia con un brusco calo della temperatura e con una vertiginosa escursione termica durante le ore centrali della giornata (sono cresciuto a pane a Migliacci…), roba che esci di casa alle 8 del mattino imbacuccato come un eschimese e ti ritrovi a pranzare in maglietta e occhiali da sole e metteteci pure il fatto che alloggiando a Colonnata, in mezzo ai monti e alle cave, la situazione viene amplificata in maniera esponenziale. La casa in cui io e Luigi viviamo (si vocifera che non ci trasferiamo più il martedì, bensì il sabato mattina… Avrò un’altra settimana di dieta al lardo, sigh) è una di quelle case belle e accoglienti ma grande e vuota, quelle con le pareti fredde, che ci si mettono ore per riscaldarsi. Durante la notte la temperatura scende così tanto che se si lascia per qualche ora parte del letto vuota, quando ci si gira per cambiare posizione, si rischia l’ipotermia. Tuttavia quando la sera rincasiamo, dopo le innumerevoli tribolazioni giornaliere, siamo talmente stanchi che quello del freddo diventa l’ultimo dei nostri problemi. Ore 8,30, Colonnata. Caffè e Brioche. Saliamo in macchina di Fabrizio. Da Colonnata ci dirigiamo a Massa. Lilli si piazza sulle mie ginocchia: abbaia a ogni essere canino e a ogni ciclista che vede fuori dal finestrino e ogni tanto, forse per lo sforzo dell’abbaiare, emana silenziosi ma micidiali peti. Apro il finestrino della Subaru e cerco di respirare. Luigi sta già lavorando dalla macchina. Io ancora dormo. L’albero di cachi è sempre più gonfio di frutti e ogni mattina (ahimè) ne sgrulla un bel po’ a terra, il che significa un tappeto scivoloso e zuccherino sul pavimento. Altro che buccia di banana! Un po’ di cachi maciullato mi si attacca alla mia scarpa e penso che sia un vero peccato non avere una scala per raccogliere quelli maturi più in alto. Infatti dall’ufficio, a cadenza irregolare, si riescono a sentire i sordi plof dei cachi che, come kamikaze, si frantumano al suolo esplodendo in tutta la loro succosità. Mi domando come mai lo abbiano chiamato “cachi” e scopro che si tratta di una di quelle parole in cui singolare e plurale coincidono, (forse per evitare le facili battute?)…

Il lunedì ci accoglie con una di quelle notizie che fanno tremare. Per via di un cambio della sceneggiatura che ha causato l’allungamento di alcune scene Fabrizio ci dice che il piano di lavorazione del film (PDL) deve essere rivisto. Momento di panico. Tutti ci guardiamo in silenzio. Mille domande sorgono in noi e riesco a vedere l’esatto momento in cui il cuore di Luigi (l’organizzatore generale) si spezza: gli occhi gli si sgranano e i capillari si iniettano di sangue. Apro una piccola parentesi. Chi non si intende di produzione cinematografica deve sapere che il PDL per un organizzatore generale è un po’ come il progetto di una casa per un architetto, il bisturi per un chirurgo, il gelato per un gelataio: una conditio sine qua non, senza la quale non è possibile procedere al lavoro di organizzazione del film. Il PDL è una sorta di calendario in cui si decide quali scene vengono girate in quale giorno; è fatto da tante piccole caselle colorate che corrispondono alle suddette scene e la compilazione è simile a una partita a Tetris. Tutto avviene tramite incastri ben precisi. Infatti un film non è quasi mai girato in ordine cronologico (dalla scena 1 alla scena 99 per dire), ma si cerca di ottimizzare i tempi i maniera spesso maniacale, cercando di far corrispondere a ogni giorno un numero limitato di location (meglio se 1), in modo da evitare spostamenti e una serie di infinite perdite di tempo… Questo si riassume nel celebre effetto “butterfly”, che si traduce nella celeberrima immagine in cui il battito di una farfalla a New York può generare un terremoto a Tokio, o nell’altrettanto conosciuto “effetto Domino”, ovvero in una serie di incontrollabili reazioni a catena. Cambiare un singolo tassello del PDL significa incastrarlo in un altro giorno facendo saltare qualcos’altro che a sua volta fa saltare altro… Il fatto è che una determinata scena si gira in una determinata location che necessita di permessi e accordi precisi per utilizzarla (soprattutto quando è un luogo pubblico), con determinati attori che a loro volta hanno le loro esigenze, i loro orari e la loro disponibilità… Capirete come la questione sia piuttosto complessa: un singolo spostamento equivale a decine e decine di chiamate ed mail… uno scenario a dir poco apocalittico. Ma non demordiamo e iniziamo l’infinito gioco degli incastri. Giulia esulta a ogni nuova comparsa trovata. Noi impazziamo dietro al PDL. Il telefono squilla ogni 15 secondi. Chi è? Non lo so… Cosa vuole? Non lo so… La frenesia continua senza sosta. Ci ritagliamo una pausa pranzo dall’insalateria King of Salad, in cui puoi comporre la tua insalata toccando gli ingredienti su un tecnologico monitor touch screen. Sono le 13,30 e il sole picchia duro. Si ricomincia con il tram tram. Chiudiamo il PDL con successo. Stremati ci afflosciamo sulle sedie. Plof, un cachi cade. Bau Bau, Lilli abbaia al caco che cade (così, per sport). Prendiamo la macchina e andiamo da Tuttogare per ritirare i badge, cosa molto figa che conferisce al tutto un’aura di maggiore serietà e professionalità. Mi metto a guardare il mio badge ed eccitato lo indosso (concedetemi queste frivolezze)… Da Tuttogare conosciamo Ennio, il proprietario della società, un personaggio decisamente sopra le righe con un carisma e un ciuffo alla Fonzie. Ennio possiede una società che si occupa di tutto quello che ha a che fare con le gare, dalle casacche ai camion di 150 metri quadrati con tanto di balcone che può contenere un intero studio televisivo, e si occupa di eventi sportivi di portata nazionale come Il giro d’Italia. Ci mostra il suo capannone, una sorta di magazzino, zeppo di centinaia di cose e materiale che aspetta solo di essere riutilizzato e riportato in auge, tra cui una fighissima Citroen Maserati… Le giornate iniziano a farsi più confuse. La stanchezza raggiunge picchi da allucinazioni mistiche collettive. Tutto inizia a rassomigliarsi in maniera preoccupante e lo spazio-tempo inizia a fondersi senza soluzioni di continuità. Colazione, Colonnata-Massa, cachi, lavoro, PDL, chiamate, ODG, chiamate, Pranzo, lardo, insalata, Lilli, bau bau, vino… E ogni tanto qualche problema nuovo, con tanto di imprecazione annessa. Ma questo trans? Ancora non si trova. Facciamo ricerche a riguardo sul web con risultati più o meno improbabili, che chiunque di voi potrà immaginare. E’ mercoledì sera. Io e Luigi ci rintaniamo a casa e decidiamo di cucinarci da soli, troppo stanchi per scendere giù a Carrara per cena e con il fegato decisamente affaticato dai salumi made in Colonnata. Nel gelo delle nostre mura (che poi in realtà si potrebbe accendere il riscaldamento ma, vuoi per pigrizia, vuoi per incompetenza, non lo accendiamo) cuciniamo qualcosa di improbabile che ha tra gli ingredienti le lasagne, il pesto e due pomodori freschi e ci ficchiamo a letto alle 22:00. Il giorno successivo conosciamo il nuovo attrezzista, Guglielmo, un personaggio che potrebbe essere uscito da uno di quei film anni ’70 con i motociclisti cazzuti, che indossano giubbotti di pelle con impresse scritte cattive. Tuttavia il suo aspetto entra in contrasto col suo sorriso bonario, cosa che lo rende una perfetta fusione tra il nonno di Heidi e un motorbiker stile Harley Davidson. Rimango affascinato da questa mitica figura, con la sua barba bianca fluente, il viso perennemente paonazzo che arriva cavalcando la su motocicletta arancione e con dei Ray-Ban troppo belli, di quelli che coprono pure i lati e che forse sono usciti dal commercio nel 15/18. Guglielmo tratta con Fabrizio per il suo contratto da attrezzista e, una volta accordatosi, esordisce con una sonora bestemmia e una solida stretta di mano. Alessandra la scenografa inizia a impartire le prime nozioni a Guglielmo e, tra mille incomprensioni, il tutto inizia ad assumere sfumature grottesche: potrei stare due giorni a osservarlo… Ma non c’è tempo. Qua si macina lavoro. Arrivano ben 3.000 bottigliette d’acqua da stivare e, ovviamente, anche tutto il reparto regia e produzione offre il suo contributo nello stoccaggio. Quando il cinema è mano d’opera e sudore, quando prevale ancora l’analogico dei muscoli e delle schiene doloranti… Mentre mi accollo diverse tonnellate d’acqua penso che forse sta proprio in questo il fascino delle produzioni a basso budget: in un cameratismo che non esiste nelle grandi produzioni iper settorializzare, in una propensione a vedere il set come un’ottica realmente di gruppo, in cui la tipica aura piramidale spesso decade e si assiste al regista che tira cavi o solleva pancali. Nel bene o nel male è un tipo di fare cinema diverso, più artigianale e forse (permettetelo di dirlo) più vero…

Nello stoccare le bottigliette d’acqua incappiamo più volte nella viscida melmaglia dei cachi. Adolfo, il secondo organizzatore generale nonché conoscitore di mezza Massa e Carrara e proprietario degli uffici, decide di porre fine a tutto questo e insieme a Luigi iniziano a spazzolare i cachi defunti con acqua e scopa, creando un turbine di fanghiglia arancia che cola via lungo il viale… Wow… Resto un po’ così, tipo inebetito. La temperatura si è stabilizzata diventando fredda e basta. La sera si fa l’aperitivo da Gigi (non fatemi domande) e incontriamo l’ennesimo personaggio degno di un film di Tarantino, un sorta di versione sarda di Budd in Kill Bill, che chiameremo B perché non mi ricordo il nome. Capelli tirati, coda, maglietta nera aderente, pantaloni attillati, risata rombante, stile tamarro. Dice che ha uno sfasciacarrozze e ci può aiutare con i furgoni. Beviamo uno spritz, stuzzichiamo due patatine. Gigi ci porta pure i salumi. Adolfo fa cadere lo spritz. Gigi pulisce e porta un altro spritz. B se ne esce fuori che in passato faceva il secondino in un carcere di massima sicurezza e che ha conosciuto di persona Enzo Tortora. Si resta una buona mezz’ora a parlare di Tortora e ad ascoltare gli aneddoti di B che si vanta che i detenuti avevano paura di lui… Il tutto è molto interessante ma si perde il punto dell’incontro, ovvero il furgone…Ma la serata va così: B fugge e noi rimaniamo lì da Gigi, con il tavolo ancora bagnato per lo spritz. A volte fare produzione significa anche questo: parlare senza concludere molto. In gergo si dice fare PR, pubbliche relazioni. E’ venerdì sera e la settimana sembra volata. L’ODG per Lunedì è preparato e inviato. Si comincerà con la scena più lunga e tosta. Ho raggiunto il record di tre cachi mangiati in soli 20 minuti. C’è stato qualche imprevisto per una location ma tutto sembra essersi risolto… Come dice Alessandra la scenografa a volte le cose si risolvono da sole, nel tempo. Succede così anche nelle più grandi produzioni: che magicamente tutto va al suo posto.… Si aspetta il furgone di fotografia che sembra non arrivare mai, il che vuol dire restare in ufficio fino alle 21 per poi, belli freschi, prepararsi per un nuovo scarico. Io sto qui che finisco di scrivere queste righe. Domani si lavora ancora e Domenica avremo la troupe al completo. Mi chiedo quanto mi farà strano vedere l’ufficio colmo di gente, visto che per due settimane è aleggiata una relativa pace… Il ciak è pronto e vi ho già scritto i dati per la prima scena. Fuori è buio e dal computer di Luigi vibra una canzone di non so chi, che però mi piace. In tutto ciò ancora non ci siamo trasferiti a Massa e non si sa quando lo faremo. Sto quasi iniziando ad affezionarmi, anche se questa settimana ho mangiato decisamente meno lardo. Ci si sente tra una settimana, quando saremo già a un terzo delle riprese di “Cronaca di una passione”. Almeno spero. E sempre se avrò il tempo di scrivere. Plof: l’ennesimo caco è caduto. Ops, cachi volevo dire… Venerdì 2 Ottobre, Massa.

PARTE 3: IL SET E OLTRE IL SET Forte dei Marmi, sabato 24 Ottobre, ore 20:00 circa. Dunque. Sembriamoci soldati reduci dal Vietnam. Proprio quelli sporchi e sudaticci che si vedono nei blockbusteroni americani, quelli spesso monchi e pieni di fasciature, che corrono a ralenty stringendo nella mano destra la targhetta militare di riconoscimento di un loro amico morto sicuramente in condizioni tragiche. Tuttavia siamo solo all'ultima inquadratura del film “Cronaca di una passione”, dopo tre lunghe settimane di riprese. Il riferimento al Vietnam potrebbe suonare esagerato e pretestuoso ai più, ma non a coloro che sanno cosa vuol dire girare un film a basso budget di 5 settimane in quasi la metà del tempo. L'attenzione è ormai calata ai minimi storici. In continuazione si sente la battuta trita e ritrita provenire da qualcuno come un eco "Ehi ragazzi, cos'è quest'aria da fine film?". Ma la verità è che nel giro di pochi minuti tutto finirà: le alzatacce all'alba, le 6 ore di sonno a notte, le cene in comune, i cestini del pranzo raffreddati, il loop continuo di pronti-motore-partito-azione-stop, gli scarichi e i carichi nei furgoni, l'ossessione degli ODG, gli incastri del PDL (tranquilli non sono partiti politici), la stanchezza post-set, le sigarette fuori dal ristorante, gli scazzi e i tormentoni che ogni set puntualmente ha. Mi sono quasi scordato di avere una mamma e di possedere una mia vita, perché dopo tre settimane ininterrotte di riprese la propria concezione del mondo cambia drasticamente e sembra che esista altro mondo fuori dal set. Mentre Diego, l’operatore, cammina a precedere gli attori con la stedycam in mano, ripenso a quando tutto è iniziato, a Lunedì 5 Ottobre precisamente...

Primo giorno di riprese, atmosfera tesa. Nessuno che si conosce con gli altri. Ci si studia per bene. La location è ostile: il ristorante "La Casetta", in cui si mangia da Dio ma si trova arroccato su un colle del Diavolo, che rende impresa da Fast and Furious sia arrivarci con i furgoni che soprattutto parcheggiarli. Il tempo non è dalla nostra parte e promette acqua a go go. Io, da bravo aiuto regista, dovrei tipo gestire un sacco di gente o quanto meno garantirmi che tutte le persone sul set facciano quello che devono fare, ma faccio ancora fatica a capire molte persone che ruolo abbiano. Il primo giorno ci accoglie subito con un ritardo immane. Come è passato questo tempo? Siamo già in ritardo di un ora! Lorenzo perché siamo in ritardo di un’ora? Qualcuno urla che non può lui sistemare i cornetti, qualcuno dice che non c'è la prolunga per la macchinetta del caffè, io dico che la posso rimediare ma non spetterebbe a me. Così vado da Diego, l’operatore, e gli chiedo se mi può prestare la prolunga ma lui mi guarda e serio serio mi fa di no. Vabbè, capisco il tipo e sto al gioco. Rimedio la prolunga. E' tardi. Dove sono gli attori? Dov'è la postazione trucco? Gli elettricisti stanno allestendo il set? Gli scenografi hanno montato tutto? Sono stanco ancora prima di iniziare. Si batte il primo ciak con tanto di ritardo. Mi dico che è normale, è solo il primo giorno; mi dicono che è normale, va sempre così. Un calabrone entra all'interno del set. C'è chi urla. C’è chi decide di fare l'Eroe senza molti risultati. Poi il gestore del locale tira fuori uno spray e inizia a rincorrere la bestia. Stoooooop!!! Ora arrivano le mosche. Sono tante e sembra un’invasione. Guglielmo bestemmia per qualche motivo. Cazzo, sta iniziando a piovere. Altri ciak, altre scene, altri cambi luci e, come in un sogno, arrivano le 20,30. E ci mancano ancora due scene. Si va a cena, si torna a casa, tempo di una doccia e si va a letto a mezzanotte e mezza. Ore 5,30. Buongiorno a questo giorno che si sveglia oggi con me, buongiorno al latte ed al caffè, buongiorno a chi non c'è... Un Luciano Pavarotti in stato di grazia irrompe nei miei sogni. E' la sveglia di Luigi. Max bestemmia e domanda "Luì ma che ore so’?". Si ritorna nella medesima location di ieri. Nonostante gli evidenti problemi la situazione appare migliorata: il gruppo sembra più solido e più veloce, le scene mancanti vengono recuperate e il tempo sembra più clemente. Certo, qualche altro calabrone irrompe all'interno del set (ci sarà un nido?) e le mosche sono talmente tante che sembra che ci stiamo decomponendo tutti e il caldo all’interno della location raggiunge picchi da sauna finlandese ed io inizio ad avere il classico mal di gola da set e per l’occasione assumo la prima di una lunga serie di bustine Oki, ma quello è il meno. Grazie a un colpo di coda non da poco, riusciamo anche a trovare il famoso trans per la scena che si terrà tra due giorni. Dice che si chiama Eva. Come a volte capita in questi casi le cose si mettono bene senza un motivo apparente. La stanchezza inizia a farsi sentire. Solita routine: cena, doccia, letto, sveglia, Pavarotti… Terzo giorno di riprese: tutto fila liscio, recuperiamo le scene mancanti e terminiamo la lavorazione all’interno dei locali de “La casetta”. Per il giorno successivo tutti pregano di poter girare in un luogo con una strada migliore e un parcheggio più agevole. Se qualcuno di noi viene accontentato, qualcun altro di certo non lo è: la seconda location infatti è una Casa Famiglia che si trova proprio adiacente a una super strada, roba che quando passano i camion e i tir le finestre iniziano a tremare e mi verrebbe voglia di urlare ARRIVANO I TREMORS! Andrea, il fonico, è attonito. Ma questo passa il convento. La prima giornata nella nuova location inizia a portare anche i primi nervosismi. Il reparto fotografia lavora a ritmi forsennati e, quando io arrivo per controllare i tempi, mi fanno 15 minuti che poi puntualmente sono 45. Max continua a tirare roba fuori dal furgone e all'ennesimo richiesta di uno stativo sbotta dicendo che ne ha tirati fuori ben 14 "Quanti altri cazzo di stativi volete?". E' un continuo chiamare Luca e Gianluca, rispettivamente capo elettricista ed elettricista, che al loro nome si fiondano come fedeli segugi da Leo, il direttore della fotografia, tanto che iniziano ad avere allucinazioni uditive essendo delle volte convinti che qualcuno li abbia chiamati quando in realtà nessuno lo ha fatto (sarebbe bastato un walkie talkie per risolvere il problema, se solo il budget lo avesse permesso). Vittorio e Valeria, gli attori protagonisti del film, intrattengono lunghe chiacchierate in sala trucco e parrucco e, quando posso, mi fermo anche io ad ascoltarli. Io continuo ad assumere Oki in una maniera tanto sfacciata che sarebbe la volta buona che mi prendo un ulcera. Guglielmo dice che si è stancato di caricarsi ogni volta l’easy-up e che forse gli sta venendo la febbre e spara un bestemmione dei suoi. Fabrizio avverte tutti che dobbiamo sbrigarci perché si sta perdendo troppo tempo. Andrea, il fonico, all’ennesimo tir comincia ad avere i sintomi dell’esaurimento nervoso. Per cercare di velocizzare i tempi ogni tanto mi butto nella mischia pure io. Così mi fanno "Lore, portaci due stativi, un cubo e la stoccia". Scendo dalle scale, vado ma Max e gli faccio "Max, due stativi, un cubo e la stoccia". Max mi guarda con lo sguardo della mucca che guarda il treno che passa e mi fa "Ma che cazzo è la stoccia?". Mi si accende una lampadina e corro nuovamente su, dove trovo mezzo reparto fotografia a ridere come pazzi. Bello scherzo di merda. E stiamo pure con l’acqua alla gola… Ma il set è anche un po’ questo. Una macchina lenta e pesante che si muove a ritmi propri, capace di offrire tanti calci in culo e tante risate, un universo cameratesco, rigidamente suddiviso in scompartimenti stagni comunicanti tra loro grazie a un codice ben definito. E come ogni gruppo anche ogni set, a poco a poco, inizia ad avere un suo saluto, un suo linguaggio, un suo tormentone, un suo leit motitiv. Ecco, il tormentone del nostro set era questa sorta di scherzo/presa in giro – a dire il vero abbastanza puerile e autoreferenziale, oltre a risultare parecchio ridondante col passare dei giorni - che prima o poi toccava a tutti e che a chi gli toccava non si doveva ingrugnà, come si dice a Roma, e in pratica consisteva nel domandare oggetti inesistenti a persone che non potevano conoscerne la loro inesistenza. Per chi non fosse del settore sarebbe bene sottolineare che ogni reparto di un set cinematografico ha un vocabolario proprio che spesso le persone appartenenti a un altro reparto non conoscono; ed è proprio per questo motivo che risulta facile usare nomi improbabili a fini ludici senza essere scoperti facilmente. Tanto per dirne una se qualcuno vi chiede una vipera non vi sta prendendo in giro, ma vi domanda un certo tipo di prolunga per la corrente e così via… E insomma l’oggetto più usato per il gioco era il già citato stoccia - che a un certo punto si è scoperto avere un significato osceno in qualche dialetto del sud - dopo il quale sono seguiti la mezza lanterna, il faro da 50.000, gli sbrilluccichi, le verzelle e molti altri. Chi subiva lo scherzo superava una sorta di rito di iniziazione e tacitamente accettava di appoggiare gli scherzi agli iniziati successivi. Uno dei momenti più riusciti del gioco è stato quando, durante la seconda settimana di riprese, è arrivato sul set Tommaso, da tutti detto - con grande fantasia - Tommy, autoctono teen-ager aspirante pilota e appassionato di cinema, che si era improvvisato assistente elettricista per l’occasione. Sarà stato probabilmente a causa della sua mancata preparazione in campo tecnico, o forse per via della sua aria bonaria e della sua giovane età che lo avevano reso la mascotte del gruppo, o per il fatto che ormai tutti sul set ci erano cascati almeno una volta e conoscevano il trucchetto alla perfezione, sarà stato per uno di questi motivi insomma, ma fatto sta che Tommaso nel tempo non solo era diventato la vittima prediletta per scherzo ma anche colui il cui scherzo veniva reiterato in continuazione e portato fino alle estreme conseguenze. Memorabile fu il giorno in cui chiedemmo a Tommaso di correre a prendere delle fantomatiche verzelle, essenziali per l’illuminazione di una suddetta scena, e di come per circa tre quarti d’ora egli si dileguò nel nulla, roba che ci eravamo persino scordati dello scherzo ed eravamo pronti a battere il primo ciak. Quando finalmente Tommaso ritornò si presentò con una stecca di legno lunga circa mezzo metro su cui erano attaccate delle pinze di ferro arrugginite ed esclamò “ecco le verzelle!”. Tutti allora ci guardammo perplessi non sapendo se ridere o meno… Solo dopo scoprimmo che il povero Tommaso era stato rimbalzato da un reparto all’altro per una buona mezz’ora e che, anzi, ogni persona conscia dello scherzo, si era divertita nell’ingarbugliare la vicenda inventandosi chissà quali diavolerie sulle mitiche verzelle, in un gioco che poteva durare quasi all’infinito se non fosse stato per un eccesso di pietà da parte di Max, l’addetto allo scarico, che vedendo il ragazzo sballottato come una pallina di ping pong e non sentendosela di dirgli che lo stavamo prendendo per il culo, aveva rimediato un pezzo di legno e due molloni spacciandoli per verzelle. Persino io non ebbi il coraggio di svelargli lo scherzo e gli risposi che aveva fatto un buon lavoro ma che ormai non servivano più, tanto che lui posò i molloni arrugginiti a terrà e borbottò che lo mandavamo sempre in giro a prendere cose che poi non servivano… Ma torniamo alla casa famiglia. C’è il sole e mi sto prendendo una delle innumerevoli pause a base di Oki e caffè. Da dietro un angolo appare un omone con i capelli lunghi che dice di chiamarsi Eva che, se tanto mi da tanto, deve essere il celebre trans in carne (molta) ed ossa (decisamente poche). Fabrizio mi manda a ripassare la parte con lei e io inizio a provare una strana sensazione di inadeguatezza, non tanto per la sua ambiguità sessuale, ma più che altro per dover appellare al femminile una persona che è palesemente un uomo e che di femminile ha solo i capelli e lo Chanel n.5 spruzzato addosso. E’ un po’ come chiamare con nomignoli femminili un tuo amico per deriderlo, solo che in questo caso il tutto ha un alone di estrema serietà, sentendomi di prendere in giro un perfetto sconosciuto. “Dunque Eva, tutto chiaro?”. Ci impuntiamo più volte sulla parola “zighinì” che Eva non riesce in nessun modo a ricordare e su “Addis Abeba” che invece la nostra amica non è in grado proprio di pronunciare. Tuttavia la sua scena – che sulla carta era l’ultima e la più complessa, dovendo rappresentare una cena in una casa famiglia con tutta una serie di casi umani, dal trans, al marocchino (che con nostro stupore si chiama Marcello Nassi) fino al tisico Titino – si rivela andare liscia in maniera del tutto inaspettata. Ormai il week-end è dietro l’angolo, ma per tutti noi non significa riposo e la possibilità di dormire qualche ora in più, ma solo altro lavoro. Come già deciso da PDL avremo avuto il nostro meritato riposo solo al 15° giorno di riprese. Così per 14 giorni di fila sbattiamo ciak come se non ci fosse un domani, trucchiamo attori, giriamo scene, facciamo cose, ci insultiamo a caso, dormiamo poco, ridiamo tanto, mangiamo cornetti in quantità industriali e inanelliamo tutta una serie di ritardi che siamo costretti a recuperare con corse degne di Mennea. E così dopo la decima giornata di lavoro iniziamo ad avere turbamenti psicologici e visioni a sfondo religioso di fantozziana memoria… Si ricomincia ogni mattina come nel giorno della marmotta. Sveglia, colazione, set, motore, ciak, azione, stop, pausa pranzo, fine pausa pranzo, silenzio, motore, ciak, azione, fine set e così via… Forse molti si staranno chiedendo che fine ha fatto in tutto questo tempo Lilli, la cagnolina del regista, dopo le due settimane di pre-produzione nelle quali è stata una delle protagoniste indiscusse… Con nostra sorpresa Lilli è rimasta sul set ma, a dispetto di tutti i nostri sospetti, quasi non si è fatta sentire. Le uniche eccezioni sono quando, solitamente nei momenti più inopportuni, si insinua tra i macchinisti sgattaiolando tra le luci e dirigendosi da un Fabrizio iroso e agitato per via uno dei tanti ritardi di routine. Fabrizio appena la vede fa fermare puntualmente tutto e tutti, prendendosi del tempo per coccolarla. Inizia così ad emettere versettini e suoni di varia natura – Fabrizio non Lilli – trasformandosi per quei 30-40 secondi in una persona calma e rappacificata col mondo, che ha problemi ben più importanti che finire le riprese di un film. Abbiamo indubbiamente sottovalutato il potere benefico che Lilli ha su Fabrizio, cosa che avremmo potuto sfruttare decisamente in maniera più massiccia. Immancabile inoltre è stato il cammeo hitchcockiano della cagnetta nel film, in una scena che è stata ripetuta numerose volte perché una volta Lilli si girava dalla parte sbagliata, una volta arrivava in anticipo e una volta in ritardo. Tutto sotto lo sguardo perplesso e divertito di Vittorio che in quella stessa scena doveva raggiungere un picco di drammaticità non indifferente. Arriva finalmente il meritato riposo: domenica 18 e lunedì 19 si ozia. Ormai sono così abituato a dormire poco che mi ritrovo la domenica mattina già sveglio alle 9 in punto. Mi sento incartapecorito e penso che devo fare il bucato e non mi va. Scendo sul lungo mare e mi metto a correre con le note di Of monsters and men sparate a palla dal lettore mp3. Mi sento di essere ritornato in Scozia. La silhuette di Marina di Massa si staglia dinnanzi a me: a sinistra un mare vagamente mosso, a destra le pre-alpi fanno capolino dietro alle colline e alle cave di marmo su cui riesco a intravedere la mia cara Colonnata. Torno a casa con una strana sensazione di disagio, come se dovessi fare qualcosa ma non sapessi cosa. Il pranzo a casa dalle ragazze dura tanto, forse troppo (piccolo inciso: a livello di alloggi siamo organizzati con due case, una in cui dormono le componenti femminili e una in cui risiedono i componenti maschili. Potete ben immaginare che le condizioni della casa femminile sia migliore di quella maschile). Siamo tutti intorpiditi e impigriti, tanto che inizio a temere che il giorno in cui riprenderemo a girare sarà dura ricominciare. I miei sospetti sono più che reali. All’alba della terza e ultima settimana, nonostante o forse proprio a causa della pausa, tutto appare più pesante e lento. La sensazione è quella di avere costantemente uno zaino di piombo sulle spalle e dei pesi avvinghiati strettamente ai polpacci. Il set però inizia ad andare quasi da solo. Non c’è quasi più bisogno che mi fiondi da una parte all’altra sbracciandomi e urlando alla gente che si deve sbrigare (lo so, il ruolo dell’aiuto regia è veramente bastardo), ma sembra che i ritmi, seppure più rilassati, siano entrati dentro e diventati naturali. Si cambia location. Dopo il ristorante e la casa famiglia, si continua con il tribunale, alcuni esterni, la caserma, la temuta alba, un autobus, un ristorante di lusso in riva al mare e dulcis in fundo Forte Dei Marmi. Stessa storia e stessa routine che lascio alla vostra immaginazione… A questo punto potrebbe essere il momento di tirare le somme, di raccontare cosa è successo subito dopo la fine dell’ultimo ciak, di dilungarsi in riflessioni commoventi, di snocciolare qualche simpatico aneddoto che ogni set immancabilmente ha, come quando Fabrizio si era impuntato di voler girare un’altra inquadratura dello stappo di una bottiglia di spumante Verdicchio, senza considerare che le suddette bottiglie di spumante Verdicchio erano finite tanto che, in un momento di nervosismo e concitazione, mezza troupe è dovuta andata in giro per Massa alla ricerca di altre bottiglie di Verdicchio, cosa che ha causato ritardi immani e urla a diverse gradazioni di decibel, insomma di trovare una chiusura adeguata, magari divertente o magari pregna di significati, a questa lunga lista di parole, alla cronaca di questo set. Tuttavia un film non finisce con la fine del set. Il bello di questo lavoro è che si crea qualcosa di fisso e di imperituro, un prodotto concreto nella suo stato effimero di fotogrammi al secondo, una storia che sarà impressa in un supporto solo dopo una lunga fase di post-produzione. Il set è solo uno stadio di un processo complesso proprio come quello che porta una larva a diventare farfalla, una parte imprescindibile che tuttavia non rappresenta il tutto, un qualcosa che ha a che fare con i rapporti umani, con le sere a fumare sigari e a parlare, con le alzate alle 5 del mattino, con lo stappo dello champagne dopo l’euforia dell’ultima scena, col sentirsi parte di una squadra, con la gioia di aver portato a termine un progetto, con i soliti saluti di circostanza corredati dai classici ci vediamo, ci becchiamo, ci teniamo in contatto - quando tanto si sa che non ci si vedrà e non ci si terrà in contatto, ma che al massimo ci si incontrerà su un altro set dove ci si abbraccerà e si rimembreranno i momenti divertenti del set passato, di quando Lilli aveva lasciato la sgommata di merda sui pantaloni del direttore della fotografia, dell’aiuto regista e pure dell’organizzatore generale, di quanto Fabrizio si era incazzato nero per la bottiglia di Verdicchio, di quando c’erano talmente tante mosche che sembrava ci fosse un cadavere in decomposizione, di quando Tommaso era stato 40 minuti a cercare i verzelli, di quando Guglielmo bestemmiava come un turco e si addormentava dove poteva e aveva quasi distrutto il furgone di scenografia, di quando Adolfo Drago era in forma e sfornava certi scherzi telefonici da farti crepare dal ridere, di quando Luigi si ubriacava e diceva che la testa gli si sprofondava nel cuscino, di quando Gianluca iniziava a parlare ed era impossibile arrestarlo, di quando non si dormiva mai e si era stanchi morti. Quello che certamente va ricordato è la cena finale, un buffet da far invidia a un matrimonio, perché di chi fa cinema si può dire di tutto ma non che non sappia bere e mangiare come si deve. Tra un piatto e l’altro si parla di cosa si farà una volta tornati a Roma e dei progetti futuri che ognuno ha. Stiamo svegli quasi tutta la notte, beviamo e balliamo in un posto che sembra un centro sociale ma che forse non lo è e, alla fine, un po’ ubriachi e un po’ stanchi ci salutiamo. C’è quasi una componente nostalgica e anche apparentemente sadica in tutto questo: creare contatti, stringere legami, vivere intensamente come una grande famiglia per poi sciogliere tutto in un momento solo. Ma a ben guardare fa parte del nostro lavoro, del lavoro di chi racconta storie usando la pesantezza delle cose per narrare la leggerezza delle emozioni, zingari peripatetici che vanno sempre a rincorrere un nuovo set, una nuova famiglia, una nuova avventura… Vamos che domani abbiamo il treno. Anzi, tra poche ore abbiamo il treno! Dai ci si vede. Ci si becca. Birra sti giorni? Grande tutti. E’ stato bello. Si ragazzi, è stato bello! E ora? Ora cosa? Cornetto?

Il cast al completo
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C’è sempre un filo che unisce
Credo che le opere d'Arte siano tali quando lentamente lavorano dentro, quando lanciano semi da cui nascono nuove immagini e nuove storie. Quando riescono ad essere fertili e non solo sterili provocazioni. E alle volte queste opere si possono trovare per caso in assolati mercatini domenicali, tra una bancarella di DVD a tre euro e una di modernariato, appoggiate al tronco di un vecchio platano malconcio e senza neanche il cartellino del prezzo. Ringrazio l'autrice di quest'opera, della quale purtroppo non so il nome, per avermi fatto fantasticare... Perché da quel filo che pende oltre il quadro, oltre la cornice, oggi è nato qualcosa. Forse una storia.

- C'è sempre un filo che unisce...
- Cosa? - chiesi io incuriosito, cercando la conclusione di una frase apparentemente aperta.
- Cosa? - mi fece eco lei.
- Che unisce... cosa? - le risposi io, chiarendo la mia domanda con un'altra domanda...
Ma lei non disse nulla. Assolutamente nulla. Mi sorrise fortissimo, si avvolse nel bianco lenzuolo e mi baciò.
Non ero pronto a quello. Non ero preparato a tutto quello.
Ma quello cosa?
Ed eravamo di nuovo là. Ognuno immerso nel proprio mondo, a condividere universi e a scopare. Scopare a lungo, scopare tanto. Perché scopare leniva le ferite e ci rendeva un'unica cosa, che era al di là dell'Amore e al di quà del Mondo. Lo stesso Mondo che giurava di unirci, ma che alla fine non faceva altro che separarci e rigettarci in quella tempesta, in cui il vento ulula e si è così soli da starci male.
Ed ecco la tua guancia cosparsa di lentiggini, così come una torta di mele spolverata di zucchero a velo. Soffiavi i petali di un soffione proprio in mezzo a quel prato color piombo e i tuoi occhi erano dello stesso colore della mia voglia di accarezzarti. Avevi le labbra possenti e la schiena sinuosa come quella di una sirena e con la sirena condividevi l'angoscia di appartenere a un mondo non tuo, di essere un ibrido forse, di essere costretta a nuotare quando in realtà in te era insito il volo. Bello, liberatorio. fine a se stesso.
E poi per cosa? Mi dicevi. mi dicevi sono stanca, ma stanca tanto di tutto questo.
Ma noi due iniziavamo ad amarci. Ad amarci tanto, scoprendo la bellezza sotto le pieghe di tutti i nostri difetti.
E poi per cosa? Mi ripetevi. Mi ripetevi che tanto sarebbe finita prima o poi, che prima o poi tutto finiva. Eppure io non ti capivo. Forse non ti ho mai capita.
Dieci anni da allora, stampati su una cartolina e mai vissuti.
Scappammo subito insieme e ci insediammo nel nostro Castello. Un seminterrato buio e scarno riempito dei nostri sogni e degli oggetti buffi che tu trovavi per strada e che mi dicevi ti parlavano e ti facevano ricordare quanto il mondo potesse essere buffo.
Eravamo belli, ma belli davvero, che quando camminavamo la gente ci fermava a guardarci esclamando ma che bella coppia.
E poi le liti, le notti insonni, il lavoro che non c'era, la tua fragilità dentro la mia, la tua angoscia fuori da me, il gelato alle 4 di mattina, i tuoi post-it che invadevano casa, i piatti rotti, il parmigiano nella zuccheriera, le notti in cui volevi morire, le mattine in cui facevamo l'amore, l'odio, la passione e un cammino di montagna impervio, i viaggi in autostop e il tuo mondo che diventava così piccolo e stretto che faceva a cazzotti col mio.
Cos'era successo dopo?
Era arrivata lei. Dicevi che ti faceva stare bene. Dicevi che ti ricordava quando tutto era bello e c'era la mamma con Katia, Gaetano e Roberto. Dicevi che la tua vita non apparteneva a me. Dicevi che non dovevo romperti il cazzo. E intanto tu, piccola eroina, ti arrendevi a quella sostanza che entrava nelle tue vene colorando di illusioni le tue ansie e le tue paure.
Invece con te è tutta una merda, dicevi.
Quante case cambiai dopo? Non le ho contate, ma per ogni casa che lasciavo ne rubavo un pezzetto. Un pezzetto di tappeto, di tenda, di tegola, di piastrella, di intonaco, di cornice, di aria... Portavo tutti quei pezzetti con me, nel luogo in cui di te era rimasto solo un’immagine sbiadita, forse sfocata, un'eco che suonava come un disco rotto.La tua assenza iniziava ad divenire ricordo e sogno - te che i sogni proprio non li facevi, te che piccola e fragile dormivi raggomitolata perché così ti sentivi più protetta.
Ma quella sera pioveva ed era un lunedì sera e fu allora, proprio mentre pioveva,che tu bussasti ad una delle mie case e io ti ripresi senza fare domande. Tremavi come un pulcino e solo Dio sa cosa ti fosse successo. Ti feci il bagno e accarezzai le tue braccia martoriate dall'ago. Piansi, tanto e a lungo. Decisi che ti avrei amata in maniera incondizionata, che ti avrei fatto smettere.
E allora le urla, i pianti, il dolore, le sere passate a vederci serie tv sul divano, la colazione a letto la mattina, la passione, le bollette, le notti a tenerti incatenata sul letto, i tuoi pianti disperati, le tue risa, le figurine degli animali, il pandoro con la crema pasticcera, Jovanotti nell'aria, Lei che ti chiamava. Ed era tutto tremendo. Ed era tutto un incubo.
Tutti che mi dicevano perché te la sei ripresa, ma che non lo vedi che ci stai sotto, quella ti distrugge, è solo una tossica, oltretutto è pure stronza.
Poi quella sera che ti vidi fare un pompino a quel poveraccio, quello spacciatore a cui mancavano i denti. E glielo facesti solo per un ora di felicità, che io non potevo in alcun modo garantirti.
Quella, della mia vita, fu la sera più nera. E non fu il tradimento a convincermi a lasciarti, perché lo sapevi che ti avrei perdonata. Tu eri sotto l'acqua che battevi i pugni sulla porta senza più un filo di voce e sapevi che io ero lì, con la schiena appoggiata alla porta cercando tutto il coraggio che avevo per non caderci ancora. Non seppi mai se quel ti amo fosse stato pronunciato dalle tue labbra, perché ormai della donna che avevo amato era rimasto forse una carcassa. Quando ti aprii, lo feci solo per dirti addio. Tu facesti per entrare ma io non te lo permisi. Le urla, le suppliche, i tuoi occhi attaccati ai miei. Ti presi di forza e di gettai fuori come un cane randagio, come un vestito vecchio e malconcio. Fuori dalla mia vita. Fuori da ogni speranza. Fuori e basta.
Non seppi più nulla di te. In Scozia mi feci una nuova vita. O qualcosa del genere. Edinburgo, Inverness e poi Wick che mi accolse tra le sue fredde strade, tra la sua baie spettrali e terse, tra le sue rocce infrante da un mare blu profondo. Un lavoro niente male, un guadagno mensile e una vita che si andava facendo, sperduto nel nord della Terra a pitturare barche. E quel tale, quel pescatore che un giorno venne da me e mi raccontò la sua storia, una storia che non capii fino in fondo e che parlava di un uomo che non voleva mai più mettere i piedi sulla terra ferma per paura o per amore, per mancanza o per vergogna. Per la consapevolezza di una scelta sofferta, ma sapientemente ponderata. Sotto quella barba, sotto quelle rughe, sotto quegli occhi color iceberg c'era troppa sofferenza e tanta tristezza.
Una donna di nome Alice mi sorrise un giorno in una biblioteca e nove mesi dopo ero papà. Alice aveva occhi piccoli ma cuore grande, aveva una determinazione invidiabile e una dolcezza rara e remota. Eppure nei suoi baci c'era un bisogno che io non riuscivo a colmare, ed era qualcosa che aveva a che fare con la Vita stessa e che lei cercava di succhiarmi ad ogni bacio. Perché io avevo vissuto e lei no, perché io avevo tante esperienze e lei no, perché io potevo insegnarle ad amare e lei no. Povera Alice, povera madre del mio unico figlio: con quel bambino voleva inchiodarmi in un posto solo, voleva darmi un'ancora da gettare in un porto sicuro, voleva placare un disagio che bolliva sotto la mia pelle.
Eppure quella mattina quando mio figlio mi disse "perchè la gente è cattiva", fu l'ultima volta che lo vidi. Lo avevano massacrato. Alice divenne una maschera di se stessa e capii che il mio posto non era lì con lei ad esser parte di un dramma annunciato, a lenire le ferite di una donna distrutta da un dolore difficilmente rimarginabile. Non accettavo di essere ridotto a un leone in gabbia.
Le foglie diventavano gialle quando io rimisi piede a Roma ed una sensazione tremenda mi colpì dentro lo stomaco, in fondo, da qualche parte nelle viscere.
Ed ecco altri giri di case. E intanto tu dove stavi?
Di te nessuna traccia. Gianni mi chiese di lavorare con lui. Gianni mi disse che eri andata via da Roma, che forse ti eri sposata, che era successo tempo addietro e che non ne sapeva molto. La mia vita divenne afflitta da una monotonia logorante ma tuttavia rassicurante. Le notti le passavo in piedi senza chiudere occhio cercando forse nel cielo un segnale per partire ancora. Per ricominciare. Presi a costruire dei modellini di barche e navi, utilizzando soltanto fiammiferi e colla, senza un vero motivo, mosso da uno sbiadito ricordo infantile. Ma presto mi arresi a un mondo che non riconoscevo più, a quella difficoltà sciocca e pretestuosa che tuttavia mi turbò, perché trovare i fiammiferi diventava sempre più difficile. Come difficile era mantenere un’immagine nitida di quello che tu rappresentavi per me: il volo, l’eleganza, il valzer, il sogno ancora da dischiudersi.
Eppure la notte del 10 Agosto, tra stelle, speranze e desideri ti rividi. Eri sopra quel ponte. Stringevi in mano un filo di lana rosso. Quando mi vedesti mi dicesti che quella sarebbe stata l'ultima sera della tua vita. Perchè il tuo mondo non aveva più senso, perchè quel filo rosso ti aveva fatto troppo male, perchè erano passati dieci anni e dieci anni non sono pochi... Eri inerme più che mai, eri piccola come uno scricciolo. Ti presi di peso e ti abbracciai.
Passammo due notti intere ad abbracciarci soltanto. Ognuno spaventato a morte. Ognuno terrorizzato come non mai. Mi dicesti che eri diventata mamma, che la piccola l’avevi chiamata Marianna, e che i suoi occhi si chiusero per sempre a soli sei mesi dalla nascita. Mi confessasti che volevi gettarti dal ponte, che avevi iniziato a bere il caffè amaro e che avevi ricominciato a farti.
Iniziammo un cammino, o qualcosa che sembrava un cammino, ma lo iniziammo insieme con ferrea volontà. Mi promettesti che avresti smesso solo per me e io giurai che ti avrei dato tutta la forza di cui avresti avuto bisogno. Non ero stato capace di accollarmi il dolore della morte di mio figlio, ma ero pronto a caricarmi del tuo dolore senza neanche bisogno di pensarci. Che cosa strana. Eppure fu così naturale e fu bellissimo.
Ti amai follemente e disperatamente e mi ritrovai a piangere di felicità. Tu sempre con quel filo di lana rossa appartenuta a tua figlia, al collo come una reliquia. Io sempre con la tua fragilità custodita come un dono all'interno delle mie mani, chiuse ma mai serrate.
E fu allora che me lo dicesti. Proprio mentre osservavi la mia collezioni di pezzi di case che negli anni era cresciuta sempre più...
- C'è sempre un filo che unisce...
- Cosa? - chiesi io incuriosito.
- Cosa? - mi fece eco lei.
- Che unisce... cosa? - le risposi io chiarendo la mia domanda, con un'altra domanda...
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Giornata di merda!
Roma ha una superficie di 1.287,36 km² che si articola in 12.600 strade municipali, ognuna delle quali ha una infinità di crocicchi, incroci e deviazioni . Gli abitanti censiti sono 2.864.047 per una densità di 2.224,74 cittadini per chilometro quadrato.
Ogni giorno più di un milione tra pendolari, residenti, lavoratori e turisti occupano le strade della Capitale per raggiungere il posto di lavoro, per visitare la città, per fare la spesa, per andare all’università. Traffico, clacson, code, urla, parcheggi selvaggi: dalle ore 7:00 am alle 10:00 am Roma sprofonda in una sorta di anarchia urbana, in cui l’unica legge è sopravvivere. Il fatto che un lavoratore qualunque ogni mattina si sveglia alle 6:00 am in punto, si lava i denti, si fa la barba, fa colazione, prende la macchina, si incastra nel traffico cittadino insieme alle altre 999.000 persone che in quel momento sono in strada con lui, percorre alcune delle 12.600 strade di Roma, accelera, frena, si ferma al semaforo, attraversa incroci, giunge a lavoro, trova parcheggio, timbra il cartellino e saluta i suoi colleghi totalmente incolume, senza incidenti, imprevisti o intoppi di alcun tipo, si può spiegare con una sola parola: è Destino.
Ci sono più incidenti in macchina ogni anno di quanto ce ne sono stati in tutti gli aerei del mondo da quando è iniziato il trasposto via cielo. Secondo l’Associazione Internazionale di Trasporto Aereo (IATA) , un passeggero dovrebbe effettuare una media di circa 5,3 milioni di voli commerciali prima di imbattersi in un incidente. Eppure tutti pensano all'evenienza di potersi schiantare in un viaggio aereo, festeggiando ogni atterraggio con un caloroso e sentito applauso, ma nessuno batte le mani quando la sera parcheggia la propria autovettura sotto casa sano e salvo. Durante uno spostamento in macchina le variabili possibili sono infinite, e spetta solo a noi compiere determinate scelte - a volte nell'arco solamente di poche frazioni di secondo -, che a loro volta innescheranno inevitabili reazioni a catena che in nessun modo si potranno controllare o prevedere. Queste scelte sono quelle che ci faranno arrivare puntuali in ufficio - avendo optato per una strada più scorrevole o per un orario meno trafficato - oppure in ritardo - non avendo avuto abbastanza accortezza nel cogliere le possibili criticità di un semaforo. Oppure non arrivare affatto.
Il 30 Dicembre 2015 è un lunedì e come tutti i lunedì la sveglia mi suona alle 6:15 am. Mi alzo, mi lavo i denti, mi faccio la barba, mi taglio con la lametta, bestemmio, non faccio in tempo a fare colazione, mi metto i pedalini di due colori diversi - non bestemmio, ci sono abituato -, salgo in macchina, mi incastro nel traffico cittadino insieme alle altre 999.000 persone tra pendolari, lavoratori e turisti. Mi imbatto nei lavori in corso.
Cazzo faccio?
Torno indietro e imbocco una scorciatoia. Mi fermo al semaforo: è rosso. Cambio distrattamente la stazione radiofonica, mentre fischietto un pezzo che mi è rimasto in testa.
Tatatà tatatà tatatà...
Con la mano sinistra tamburello il volante e, leggermente innervosito, mi sporgo in avanti per controllare se la luce verde del semaforo sia scattata. E proprio in quel momento la vedo, fugace e improvvisa come un'apparizione, ma concreta e tangibile come solo una donna in tacchi e rossetto sa essere. Eccola attraversare con passo fermo e sicuro le strisce bianche esattamente di fronte a me. Eccola sistemarsi una ciocca dei sui capelli dietro le orecchie. Eccola sorridente, emozionata, triste, disperata, rammaricata e accorta. Eccola qui, troppi anni fa, che mi bacia e che mi dice che a Natale andremo a Vienna perché Vienna è piena di luci e di mercatini e di tutte quelle cose che rendono il natale Natale, che mi fa il broncio e non mi risponde per giorni perché io sono immaturo e devo capire che certe cose non si fanno, che mi dice ok quando le domando se le va di uscire con me una sera di quelle e poi sorride ma cerca di non farmelo vedere perché sarebbe un modo di scoprirsi troppo. Ed era una mattina come questa, ed era non troppo lontano da qui, ed era tanto ma tanto tempo fa. Un vita fa.
La fisso dal mio abitacolo, così vicino ma così distante, e mi perdo nei suoi occhi che non sanno di essere guardati dai miei, e mi chiedo quale maledetto caso l'abbia portata quella mattina proprio lì: se fossi uscito di casa un minuto prima, se avessi fatto colazione, se non ci fossero stati i lavori in corso forse...
Scatta il verde ma non me ne accorgo.
Un pazzo si attacca al clacson. Come destato da un sogno ingrano la prima e accelero. Non faccio in tempo a raggiungere il centro della strada che una morsa di lamiere e vetro mi raggiunge in pieno viso come un gancio ben piazzato. L'airbag si gonfia violentemente. Il volante mi si incastra in mezzo a qualche costola. Le ruote le percepisco già troppo lontane, così come il mio corpo.
All'interno di una Fiat Panda un'anziana ingobbita si stava dirigendo dall'ottico per andare a ritirare i suoi nuovi occhiali. Qualche mese prima il medico le aveva consigliato di ordinare delle nuove lenti. Aveva tergiversato per qualche settimana - i regali per i nipotini avevano certamente la precedenza, così come il concime per le sue piante di ficus - finché alla fine, racimolati i soldi della pensione, si era decisa di ordinare gli occhiali. Quella mattina si era alzata con un leggero dolore articolare e aveva pensato che, forse, era meglio che stesse a casa. Tuttavia il frigorifero era vuoto e doveva pure fare la spesa. Pensò di prendere i mezzi pubblici, ma il negozio era troppo distante e un viaggio in piedi sull'autobus stracolmo non avrebbe giovato alla sua schiena. Così aveva deciso di salire sulla sua vecchia Fiat Panda. La strada era trafficata ma non troppo.
Il semaforo là in fondo sembra verde, ora arancione. Ma sì, con l'arancione si può passare, pensò la vecchia spingendo sull'acceleratore e scegliendo tra le 12.600 strade di Roma, proprio quella strada per violare il codice stradale e schiantarsi esattamente contro di me.
Il botto è di quelli violenti e tremendi. Di quelli che non lasciano scampo. A pochi metri dall'incidente una ragazza con i boccoli d'oro si ferma e si gira raggelata a guardare quel maledetto incidente. Uno dei 20.589 incidenti stradali che ogni anno avvengono nel Lazio. I medici dicono di operare di urgenza. I medici dicono che la situazione è grave. I medici dicono cazzo. I medici dicono c'è un'altra emergenza. I medici dicono ora andiamo questa è la Vita. I colleghi dicono Lorenzo fa sempre ritardo. I colleghi dicono Lorenzo si è dato malato. I colleghi dicono a Lorenzo piace fare il furbo. E intanto Lorenzo non solo è in ritardo, ma è anche un po' morto.
E se invece... Se invece per ogni evento negativo ce ne fosse uno positivo, per ogni scelta errata ce ne fosse una giusta, per ogni problema ci fosse una soluzione, per ogni fallimento una vittoria, per ogni sconfitta una rivalsa, se per ogni realtà in cui moriamo ne esistesse un'altra in cui viviamo, se quell'incidente non fosse mai venuto, se i vetri sparsi a terra sì ricomponessero a formare un finestrino, se il mio viso spalmato sull'airbag non avesse sentito il sapore della lamiera, se la mia macchina fosse ancora ferma ancorata a quella linea proprio dietro al semaforo e se in quell'istante passasse quella stessa ragazza che anni prima mi aveva reso l'uomo più felice della terra, se proprio in quell'istante mi perdessi a guardare con i miei occhi i suoi occhi che non sanno di essere osservati dai miei, e se esattamente un attimo dopo scattasse il verde e un pazzo invasato iniziasse a suonarmi il clacson che manco la domenica allo stadio, se succedesse esattamente questo e se io fossi pronto a ripartire ma capitasse un imprevisto che mi facesse perdere due secondi e mi facesse evitare la Fiat Panda della vecchia ingobbita... Il vetro si riempie di schiuma e di acqua. Un lavavetri del cazzo mi ha piazzato la sua spugna sudicia sul parabrezza. Gli bestemmio in faccia. Dietro intanto c'è il concerto di clacson. - Ma porca troia, che cazzo fai?!? Levati dal cazzo...un attimo che parto, un attimo solo e riparto! Non cacate il cazzo! E levate!! Ti ho detto che devi levarti! Sto negro di merda! Arrivo in ufficio in orario e timbro il cartellino con il morale sotto le scarpe. Saluto un collega che mi fa: - come va? E io rispondo: -lascia stare, una merda! Ecco...Se capitasse tutto questo noi ci renderemmo conto di quanto siamo stati fortunati? -Anche oggi sani e salvi a lavoro!
- E' già qualcosa...

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Dallo stornello al rap - il resoconto
Il 20 Novembre mi hanno mandato a vedere l’evento finale del progetto “Dallo stornello al rap”. Questo è il resoconto di quella sera.
"Dallo stornello al Rap - la nuova e giovane canzone romana di tendenza". Leggo incuriosito uno dei tanti manifesti attaccati per Roma che pubblicizza il progetto voluto da Elena Bonelli (se come me, molti si chiedono chi sia Wikipedia ci ricorderà che si tratta di una cantante e attrice romana...). Una sorta di vero e proprio slogan, un manifesto musicale e culturale che vuole porre nobili basi al rap romano, o forse creare un fil rouge tra due generi apparentemente tanto diversi. Io che di rap ne so quanto di ippica conosco poche ed essenziali informazioni a riguardo, che però mi bastano per sapere che la tradizione di tale genere è legata a un discorso di strada americana, di sfide a colpi di rime, di neri che si sparano pallottole per mostrare quanto sono fighi, di donne in vesti succinte che muovono le loro grazie in video dal dubbio gusto, di bande rivali e di catene d'oro. Insomma di quella street life nata negli anni '60 nelle periferie a stelle e strisce e, solo successivamente, importata nel nostro bel paese. inoltre andando ad analizzare il sottotitolo ci sarebbero tutta un'altra serie di concetti da approfondire che, su due piedi, danno l'idea di qualcosa di ibrido: canzone romana, nuova e giovane, tendenza... Quindi si parla di stornello, di rap, di canzone romana, di musica di tendenza o di tutto questo insieme? Tuttavia il manifesto promette ospiti interessanti tra cui i Flamimio Maphia e, soprattutto, la band dell'Orchestraccia.
Venerdì 20 Novembre arrivo all'Auditorium Parco della musica per la serata conclusiva "Dallo stornello al Rap" con circa una mezz'ora di anticipo che, nella mia testa, sarebbe servita per mangiarmi un panino prima dell'inizio dell'evento. Tuttavia come nelle migliori tradizioni italiane vengo sballottato da una parte all'altra dell'Auditorium alla ricerca del mio fantomatico accredito. La signorina alla biglietteria mi manda a una seconda biglietteria, la seconda signora alla biglietteria mi manda a un banchetto, il tipo del banchetto mi manda al guardaroba e la ragazza del guardaroba chiama un collega che mi dice che non c'è nessun accredito ma che non mi devo preoccupare. E chi si preoccupa, tanto io devo solo mangiare. Insieme a me è venuta anche una mia amica, che qui chiamerò M, la quale avevo convinto a farmi compagnia con la promessa di un evento gratuito e privo di attesa, in quanto possessore dell'accredito stampa. La mia credibilità scende drasticamente ai minimi storici. Mentre aspettiamo mi chiede cosa precisamente andiamo a vedere e io le dico che sarebbe molto interessante saperlo ma che, tuttavia, è qualcosa che riguarda lo stornello, il rap e la canzone di tendenza. Lei fa un cenno con la testa. Io sorrido. Il tipo dell'accredito si scusa per l'attesa e mi porge due biglietti senza alcuno straccio di cartella stampa. Facciamo giusto in tempo a prenderci un tramezzino. Entriamo in sala Sinopoli e leggiamo il numero dei posti sui biglietti: due posti laterali, di quelli che alla fine della serata esci con i dolori al collo. Ma la sala non è molto piena e riusciamo a occupare due posizioni più centrali. Mi guardo attorno e il tutto ha un'aria di strana istituzionalità. Si parla di stornello e di rap ma la situazione - dall'arredamento fiero della sala Sinopoli, all'abbigliamento degli invitati - mi porta più a pensare a un concerto di musica classica. C'è qualcosa che stride. Inizia lo spettacolo. Un occhio di bue al lato del palco e l'aria di un vecchio stornello romano. A cantare è il quasi novantenne Giorgio Onorato, la celebre "voce di Roma" che, per energia e vigore potrebbe fare le scarpe a tanti trentenni. A fargli da contrappunto c'è G Max, storico componente del gruppo dei Flaminio Maphia. Si passano una metaforica palla canora da una parte all'altra, passando effettivamente dallo stornello al rap. Mi piace: è interessante e l'effetto è accattivante. Finisce la performance e la sala ringrazia gli ospiti con un caloroso applauso. Dopo il bell'inizio Elena Bonelli attacca a parlare, presentando la serata e sciogliendo alcuni dei nodi. miei crucci fin dall'inizio. Con questo progetto - iniziato da circa un anno con conferenze, incontri e quant'altro - la Bonelli vuole trovare un punto di unione tra la vecchia tradizione canora romana e la nuova generazione di cantanti della Capitale. Non cerca pertanto un collegamento generativo tra i due generi musicali bensì più una "parentela" socio-culturale. Infatti entrambe le forme nascono proprio dalla strada, sia per raccontare i fatti che avvengono nella quotidianità, che soprattutto per denunciare i malfunzionamenti della città, i problemi delle giovani generazioni e la corruzione dei potenti. Inoltre entrambe si basano sull'improvvisazione e su un sistema di sfide a colpi di rima, che si chiamava <em>sfida a stornellare</em> nella Roma dell'800 e <em>freestyle</em> tra i rapper odierni. Insomma in poche parole sia lo stornello che il rap rappresentano quella musica che viene dal basso, spinta dalla necessità di raccontare e di denunciare e da un bisogno quasi incoscio di esprimersi attraverso le rime. "Il fine - dice la Bonelli - è quello di infondere nuova linfa vitale nella Canzone popolare Romana. Rimasta confinata entro le mura capitoline, a differenza di quella partenopea, la Canzone Romana affonda le sue radici a molti secoli fa e arriva a oggi attraverso forme espressive e comunicative basate su un nuovo linguaggio e su nuove strutture compositive, fra le quali il Rap rappresenta un forte link con lo stornello di ieri". Insomma finalmente è tutto chiaro. Ma ora come procede la serata? E dove sta l'orchestraccia? Le cose iniziano a farsi preoccupanti. La Bonelli infatti parla di concorrenti, di giuria, di premi e vincitori. Comincio a capire la direzione che prenderà la serata e la cosa non mi piace affatto. Tutto il progetto "Dallo stornello al rap" non è altro che un concorso musicale. Iniziano a salire sul palco, uno ad uno, una rosa finalisti che cantano i loro inediti per aggiudicarsi il primo premio di 3.000 euro (che poi avrebbe senso se i cantanti fossero tutti dei rapper, ma invece no: la serata va avanti con un fritto misto spaziando dall'hip-pop al neo-melodico. Non è tutto un po' fuori tema? La mia amica M mi guarda come per dire "che stiamo vedendo?"). Tra gli artisti che si esibiscono sul palco ce ne sono alcuni molto bravi e interessanti, tuttavia l'atmosfera cambia e si ha la percezione di non assistere a uno spettacolo ma solo a una sfilata di concorrenti, un mix tra il festival di Sanremo in salsa romana, e X-factor senza giudici, scenografie, luci e tutte quelle cose fighe che rendono X-factor figo. Osservando il pubblico si intuisce che la maggioranza di esso non è composta di persone interessate all'evento in sé e per sé, bensì dai parenti e dagli amici dei concorrenti. Ciò lo dimostra il fatto che, ogni volta che uno di loro sale sul palco, una parte della platea si accende, ricordandomi una roba alla Amici di Maria di Filippi. Ma le competizioni canore hanno sempre in questo il loro più grande limite, facendo prevalere la competizione sullo show. Gli intenti della serata si fanno ancora più confusi quando insieme agli autori musicali vengono inseriti in gara dei video-maker. Cosa? Si, video-maker che proiettano video musicali realizzati da loro per delle band romane, dove a competere però non è la band del video ma il video-maker stesso. Finchè si tratta di generi musicali diversi va bene la competizione, ma come si può giudicare se sia più "bella" una canzone e un video? Quindi per fare un riassunto mi ritrovo a vedere una gara audio-visiva tra rapper, musicisti non rapper e video-maker e tutti competono per lo stesso premio. Arrivano gli ospiti, ovvero i Flaminio Maphia al completo (ma l'orchestraccia?) che, con un paio di pezzi, movimentano la serata. Sul palco i due rapper ballano, saltano con grande energia. In platea la gente è seduta sulle loro poltronice di velluto rosso e, al massimo, va a tempo di musica battendo le mani. La location stride in maniera netta con l'evento, un po' come quando sul palco dell'Ariston arrivano certi ospiti che portano musica ritmata, ma ad ascoltarli c'è un pubblico di mascheroni mummificati sulle loro poltroncine. Ma finalmente c'è il verdetto della giuria. I tre vincitori, dal primo al terzo, sono Cranio Randagio, Emilio Stella e il video-maker Ludovico Boccianti. Tutti e tre premiati in maniera poco poetica ma molto concreta direttamente con un bell'assegno firmato, roba che almeno potevano fargli una targhetta per ricordo. La canzone di Cranio Randagio, al secolo Vittorio Andrei, effettivamente è una spanna sopra a tutte le altre e lo stesso artista è un bel personaggio, di quelli che potrebbero avere seguito (dovrebbe essere stato pure a X-Factor). Il suo pezzo "Mamma Roma, Addio" (per ascoltarla: <a href="https://www.youtube.com/watch?v=VZ1_JKfvRYw">"Mamma Roma, addio" di Cranio Randagio</a>) inizia inoltre con un voice over di Remo Remotti che, con la sua voce roca e gracchiante, dice più o meno questo:
<em>Adesso vi spiego in tre parole perché sono andato via da Roma nel '51. Me ne andavo da quella roma addormentata, da quella Roma dove le domande erano sempre già chiuse e ci voleva la raccomandazione. Me ne andavo da quella Roma che ci invidiano tutti, la Romacaput mundi, del Colosseo, dei Fori Imperiali, di Piazza Venezia, dell'Altare della Patria, dell'Università di Roma, quella Roma sempre con il sole - estate e inverno - quella Roma che è meglio di Milano... Me ne andavo da quella Roma dove la gente pisciava per le strade, quella Roma fetente, impiegatizia, dei mezzi litri, della coda alla vaccinara, quella Roma dei ricchi bottegai: quella Roma dei Gucci, dei Ianetti, dei Ventrella, dei Bulgari, dei Schostal, delle Sorelle Adamoli, di Carmignani, di Avenia, quella Roma dove non c'è lavoro, dove non c'è una lira, quella Roma del "core de Roma"... Me ne andavo da quella Roma del Monte di Pietà, della Banca Commerciale Italiana, di Campo de' Fiori, di piazza Navona, di piazza Farnese, quella Roma dei "che c'hai una sigaretta?", "imprestami cento lire", quella Roma del Coni, del Concorso Ippico, quella Roma del Foro che portava e porta ancora il nome di Mussolini, Me ne andavo da quella Roma dimmerda! Mamma Roma: Addio!</em>
E così me ne esco dalla Sala Sinopoli, con la mia amica mezza addormentata e con i testa le parole di Remotti. La Bonelli ha salutato tutti al prossimo anno. La mia speranza è che riesca a colmare certe lacune dell'evento e a dare una direzione più netta e precisa a un progetto che su carta ha delle potenzialità interessanti. Ma poi, dove stava l'Orchestraccia?
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A volte la Storia nasconde tra le proprie pieghe storie tragiche e drammaticamente belle. A volte è giusto sedersi di fronte a un anziano per ascoltarlo veramente e per scoprire queste storie dimenticate. Ecco il frutto del nostro lavoro. Il trailer di GEMMA DI MAGGIO è finalmente on-line. E ora si fa sul serio, perché là fuori è una cazzo di guerra!
Scheda: Trailer del cortometraggio "Gemma di Maggio" scritto e diretto da Lorenzo Giovenga e Giuliano Giacomelli, con Lorenzo Lazzarini, Noemi Guglietta e Franco Nero.
#gemma di maggio#giovenga#giacomelli#franco nero#lorenzo lazzarini#cortometraggio#marocchinate#seconda guerra mon
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IELTS - resoconto di un esame
Sono pronto.
Dopo cinque settimane di corso di preparazione svolto in quel di Londra, dopo innumerevoli e puntuali simulazioni, e dopo ben due e-mail inviatemi da parte del British Council - da due persone distinte - atte a rimembrarmi, nel caso mi fossi scordato, la mia prenotazione on-line e a fornirmi tutta una serie di informazioni vitali (lo giuro, sulla mail c'è scritto "vital information") e di meticolosi allegati - tra cui un documento in PDF con tanto di indirizzo e mappa dettagliata a prova di scimmia del college in cui la prova si terrà, e persino un link esterno in cui è possibile controllare il percorso per giungere a destinazione (cosa che non capisco ancora se prenderla come una forma di cortesia oppure come atto di sfiducia nelle mie capacità cognitive) -, finalmente sono pronto per svolgere l'IELTS CERTIFICATION EXAM.
Ore 6.30am. Suona la sveglia. Mi rigiro nel letto. Mi alzo ma è già tardi. Niente colazione, la farò per strada. Il mignolo sbatte sullo stipite della porta. Imprecazione mattutina. Due respiri profondi. Si parte.
Lo stomaco brontola, segno inequivocabile che i succhi gastrici, durante la notte, hanno digerito il fish ‘n’ chips di ieri sera. Con la speranza di un buon muffin con pepite di cioccolato fondente, mi dirigo di buona lena alla stazione della metropolitana di Willesden Green. Ieri – grazie alla già menzionata mail esplicativa – avevo controllato esattamente il percorso per raggiungere l'Hammersmith e Acton College dove si terrà la prova, ma solo ora mi rendo conto che la fermata di Acton Town alla quale devo scendere, si trova in zona tre. Scatta la seconda imprecazione mattutina. E non ho ancora fatto colazione. Avendo l'abbonamento per la zona 1 e 2 ciò di traduce in un supplemento da pagare, che sarà scalato direttamente dalla mia Oyster Card. Il mio primo pensiero è che tra le informazioni vitali questa cosa l'avrebbero certamente dovuta scrivere...
Willesden Green – Green Park. Cambio linea. Green Park – Acton Town. E’ sabato mattina e sulla metro vi è una strana e surreale calma. C’è odore di cane bagnato nell’aria: cosa strana, in quanto ieri non ha piovuto. Arrivo a destinazione. Pago il supplemento. 2 pound e qualcosa nebulizzati. Stretta al cuore (è così che alla gente viene l’infarto) e mi incammino verso il college.
Sono le 8,15. Mi guardo furtivamente attorno alla ricerca di un caffè dove fare colazione, ma incontrando solo un postribolo gestito da persone dal dubbio gusto estetico (riferito allo squallore del locale e non dei gestori - anche se, a essere onesto, i suddetti gestori non sembrano brillare di grazia-) decido di avvicinarmi al college con la sicurezza di trovare altri caffè.
Spoiler: scelta pessima.
Arrivo nei pressi dell'Hammersmith College: una struttura periferica, apparentemente nuova e, di primo acchito, non tenuta troppo bene. La mia attenzione viene rapita da un groviglio di carne umana davanti all’ingresso dell’edificio e il solo pensiero di ammassarmi la in mezzo mi mette i brividi. Un po’ come il sabato pomeriggio al centro commerciale. Tuttavia ai meticolosi inglesi nulla sfugge dal loro controllo e, proprio sulle porte, hanno affisso delle liste di smistamento in cui la gente viene divisa in base al cognome e reindirizzata in lunghe ma ordinate file. Trovo il mio cognome sulla lista e raggiungo la mia fila, senza neanche avere il tempo di cercare un caffè. Inizia a suonarmi il primo campanello di allarme, ma sono fiducioso: penso che all’interno ci sarà di sicuro un posto dove gli studenti dell’Hammersmith College usano fare colazione la mattina.
Secondo spoiler: sono un povero illuso. (Dove diavolo la fanno la colazione quei dannati studenti?)
Sono in fila da diversi minuti e la lentezza con cui si muove è snervane. Mi chiedo se ci sia qualcuno che ogni tanto si intromette a metà della coda, non facendola progredire. Ma non siamo in Italia: qui tutti stanno in fila per uno – anche a costo di fare mirabolanti e improbabili curve a gomito - e ti chiedono sempre chi sia l’ultimo. Mi guardo intorno e mi accorgo di una insolita maggioranza araba e orientale, cosa che mi fa subito venire alla mente la situazione all'interno degli uffici della prefettura di Roma, in cui schiere di stranieri in mucchi disordinati passano le giornate in attesa di ritirare il permesso di soggiorno (se non l’avete mai fatto è un’esperienza da provare). Con questo vago senso di empatia nei confronti degli immigrati e con il costante pallino del muffin e caffè arriva finalmente il mio turno: una signora sorridente e precisa mi chiede il passaporto e controlla minuziosamente le informazioni. Scruta la foto attentamente e mi chiede di togliermi gli occhiali. Io obbedisco e lei, ancora un po' scettica sulla mia somiglianza rispetto foto del passaporto, mi fa cenno che va bene.
Posso passare. Penso allora di aver esaurito le formalità burocratiche. Guardo l’orologio. 8,35am. In testa ho un unico costante pensiero. Con questo pensiero varco le soglie del college ma, come ho già spoilerato anticipatamente, all'interno dell’edificio non c'è traccia di un qualsiasi posto che possa vendere caffè, cibarie o simili. Tuttavia, la cosa più agghiacciante, è che non ho neanche il tempo di dirigermi a una distributore automatico per comprarmi almeno una barretta di qualche schifezza preconfezionata, poiché ciò che io credo terminate, ovvero le procedure burocratiche, in realtà non sono neppure cominciate: con mia somma sorpresa scopro che i sistemi di sicurezza e le misure di controllo praticate dall'organizzazione dell'IELTS sono tali da far impallidire quelle di qualsiasi aeroporto internazionale sulla faccia dell’emisfero settentrionale e degne del più temuto penitenziario di massima sicurezza nord Coreano.
Superato il primo step vengo letteralmente trascinato all'interno di una stanza in cui una signorina lievemente isterica intimorisce gli esaminandi di depositare ogni oggetto in loro possesso - dal cellulare al portafogli, dagli zaini agli zainetti, dalle borse alle borsette - e di portare con sé solo ed esclusivamente matita e penna. All'uscita dell'aula la signorina in questione controlla ogni rigonfiamento nelle tasche degli esaminandi con certosina attenzione. Quando nota qualcosa di sospetto dirige una temibile occhiata all’esaminando, chiedendogli cosa nasconde all'interno del suddetto dubbio rigonfiamento. Tranquilli, non sto descrivendo l’incipit di un film porno.
Io giungo davanti all’isterica con un astuccio in mano e vengo prontamente cazziato, perché solo ed esclusivamente matita e penna sono concessi all'interno dell'aula dell’esame. Torno indietro a posare l'astuccio da cui estraggo il materiale consentito. Mi accorgo che la penna non ha il tappo e penso che fortunato come sono mi macchierò di sicuro.
Muffin e caffè, dove siete?
Ma il grottesco è sempre dietro l'angolo: l’isterica casellante ha da ridire pure sulla mia bottiglietta dell'acqua.
Volete che mi disidrati?
Dopo qualche incomprensione capisco che il problema non risiede nell’acqua in sé e per sé, bensì nell'etichetta della bottiglia che la tipa isterica mi invita gentilmente a rimuovere: la guardo spaventato e strappo l'etichetta pensando a tutte le possibili e infinite motivazioni di quella richiesta (dopo averne vagliate a decine ritengo che la più probabile, e in verità anche la più logica, è che l’organizzazione abbia paura che un candidato possa scrivere sopra alla targhetta qualche informazione, magari con uno di quegli inchiostri simpatici. In ogni modo nulla mi vieta di pensare che mi trovavo all'interno di un reality inglese alla Truman Show un cui ogni brand è ovviamente e tassativamente vietato).
Aspetto che mi chiede “Un fiorino!”. Non lo fa. Finalmente ho il lasciapassare. Esco dalla stanza. Dinnanzi a me in lontananza, quasi sfocato come un miraggio, vedo l'ennesimo ostacolo e, come l’eroe di un brutto film fantasy, mi avvio a superare la nuova temibile prova. Mi avvicino e la figura sfocata si fa a poco a poco più chiara. Un omino latino-americano, paffutello (di quelli con il petto all'infuori) e vagamente sorridente, mi incita ad alzare le braccia e inizia a perquisirmi passandomi attorno al corpo un affare che presumo sia un metal detector. Dopo pochi secondi l’affare suona. L'ometto mi chiede cosa ho in tasca e io, controllando, mi rendo conto di avere le chiavi di casa (che non provocavano un rigonfiamento tale affinché destassero sospetto alla casellante). Senza un evidente motivo logico (passi l’etichetta dell’acqua, ma le chiavi?) l'ometto mi rispedisce dalla casellante per posare le chiavi. In maniera scettica obbedisco. Poso le chiavi e torno dall'ometto. Metal detector. Drin.
E ora?
C’è un momento di evidente imbarazzo visto che le mie tasche sono lapalissianamente vuote. Scopriamo che il metal detector ha rilevato il mio orologio da polso, un vecchio Casio che a mala pena ha la funzione cronometro. Guardo supplicante l'ometto e lui guarda me: nello spazio che intercorre tra i nostri sguardi sento un feeling particolare, qualcosa di simile a quello che si istaura tra la vittima e il carnefice. Penso che esiste una sindrome specifica per questo genere di cose, ma non mi sovviene il nome. Penso che non mi manderà nuovamente indietro a posare un vecchio e malandato orologio. Penso che la sua unica colpa sia il fatto che sia di metallo. Penso che ok, va bene: il mio Casio del ‘99 può sempre essere un gadget alla 007 collegato a un micro auricolare nascosto nel mio orecchio, dove qualche esterno può spifferarmi le risposte. Ma quante sono le possibilità? Seppur minime, il buon ometto decide di non correre rischi e mi rimanda dalla casellante. Io mi sento tanto al centro di un torello, con giocatori un sacco bravi tutti attorno a me che non mi fanno toccare palla. Mi convinco che va bene, che è tutto lecito: d'altronde è stato proprio un inglese a creare James Bond... Poso l'orologio cercando di enfatizzare il mio fare stizzito e il mio disappunto. Ma la casellante non mi calcola proprio.
Ripasso dalla casellante. Attraverso il corridoio. Sorrido all'ometto. L’ometto sorride a me. Metal detector. Drin.
Ok, impacchetto le palle e me ne vado.
Rassegnato guardo il tipo che alza le spalle come a volermi dire "ehi amigo, non è colpa mia". Scopriamo che a suonare è la fibbia della mia cintura. Sono già pronto a fare l’esame in mutande quando, per qualche ragione divina, vengo graziato e ammesso al terzo livello. Non so se baciare in bocca l'ometto, abbracciarlo o semplicemente fuggire prima che ci ripensi. Opto per la terza opzione.
Salgo le scale verso il secondo piano e i rantoli della fame iniziano a far capolino in maniera più costante... Non faccio in tempo a imprecare per la mancata colazione che mi ritrovo in un'altra bizzarra situazione. Una fila lunga e ordinata parte di fronte a un tavolino dove una tipa è seduta davanti al pc. Cerco di capire il motivo di quell'ennesimo immotivato controllo, ma ci rinuncio e mi metto in fila, attendendo il mio turno con rassegnazione come un condannato nel braccio della morte.
Next, please!
Finalmente sono il prossimo.
Next, please!
La tipa mi fa un cenno. Mi accomodo sulla sedia. Mi controlla nuovamente il passaporto. Mi fa togliere gli occhiali ancora una volta. E poi vengo coinvolto in una di quelle situazione che credevo esistessero solo in film di ambientazione carceraria: foto e scansione delle impronte digitali.
Un momento: siamo sicuri sia legale?
Il mio primo pensiero è che se in Italia succedessero cose del genere qualche sindacato o qualche pseudo associazione per i diritti del cittadino, sarebbe insorta con veemenza e indignazione a condannare codesta pratica come violazione della privacy o di qualche inalienabile diritto costituzionale. Ma non siamo in Italia.
Pervaso da uno strano e inconscio senso di colpa, posiziono il mio dito sullo scanner per ben quattro volte (?!?). Poi vengo immortalato dall’obiettivo di una Canon 7D, con tanto di sfondo bianco come nelle migliori tradizioni di foto segnaletiche. Tuttavia qualcosa va storto: la ragazza mi dice che deve rifarmi la foto per una seconda volta.
Click.
Il suo viso è visibilmente a disagio e mi spiega, spinta dalla sua innata gentilezza e aplomb inglese, che il problema è della fotocamera e non mio. Ma in realtà so benissimo che in quelle circostanze io non riesco mai a mettermi in posa apparendo, Il più delle volte, con improbabili espressioni al limite dell'autismo e con gli occhi irrimediabilmente chiusi o da pesce lesso.
Click.
La tipa sorride timidamente e dice che va bene, ma sono sicuro che sta mentendo e inorridisco nel pensare a quale mia oscenità sia impressa sul pc e di, di conseguenza, negli archivi del BRITISH COUNCIL per sempre.
Mi dice che posso alzarmi e mi dirigo in un lungo corridoio dove mi aspetta, tanto per cambiare, un'altra bella e ordinata fila (la terza o la quarta?). Senza fare domande mi metto in coda. Non avendo più orologio e cellulare e non potendo controllare il tempo passato, la sensazione è quella di trovarsi in uno strano limbo atemporale, tipo la stanza dello Spirito e del Tempo di Dragon Ball. Scopro che quello che sto facendo è un ennesimo controllo passaporti, prima di poter entrare finalmente nell'aula dell'esame. Mentre sono fila, in uno strano stadio psicotropo, alle mie orecchie giungono le note di "Knocking on Heaven doors" di Bob Dylan e mi chiedo se la mancata colazione mi stia provocato allucinazioni uditive.
Sì, anche io vorrei bussare alle porte del cielo!
Così mi sporgo dalla fila per scrutare all'interno dell'aula da dove mi sembra giunga la musica. Tuttavia il mio spostamento manda in crisi la direzione della riga, che si defila dal muro formando un'orribile e inaccettabile curva, che fa impallidire la signora del controllo passaporti e che subito si premura di avvisarci che dobbiamo restare attaccati al muro! Dopo che il pericolo è scongiurato e la fila è tornata all'ordine originario la signora si risiede e chiama il prossimo.
Next, please!
Passaporto. Togli gli occhiali.
Ci sono. Finalmente entro nel santa sanctorum dell'IELTS, nel cuore pulsante dell'organizzazione, ovvero la sede dove si svolgeranno le prima tre prove: listening, reading e writing. Scopro che i posti sono già assegnati, e che ogni banco ha la sua targhetta con tanto di nome e cognome per ogni candidato.
Mentre vengo scortato al mio posto - un tavolo di legno quadrato di quelli da scolaretti - noto con piacere che l'atmosfera, per via probabilmente della musica diffusa nell'etere, appare piuttosto rilassata. Mi chiedo se dietro a quelle canzoni vi sia magari uno studio scientifico che ne dimostra il potere benefico e rilassante. Immagino questi ricercatori con le cuffie posizionate alle orecchie manco giocassero a Sarabanda, mentre completano la loro playlist e decretano se un pezzo possa o non possa rientrare nella lista relax.
A- “Somebody to love?”
B- “Mmm… No, troppo equivoca…”
Le mie fantasie si frantumano appena finito un pezzo dei Maroon 5, quando una voce squillante pubblicizza la morbidezza formidabile di una certa marca di carta igienica inglese, che non solo è delicata sulla pelle ma che, per giunta, profuma di rose e fiori selvatici. Capisco che quella trasmessa è una comunissima radio, la stessa che si può sentire al supermercato. Rimane tuttavia il lodevole gesto degli organizzatori IELTS nel cercare di rendere l'atmosfera più rilassata. Così mentre attendiamo che tutti i candidati vengano portati nelle proprie postazioni e mentre scruto con interesse il testo stampato sulla mia targhetta - su cui vi è scritto nome e cognome, numero identificativo e tutta un'altra serie di apparenti inutili dettagli - mi sollazzo ascoltando la musica, se non fosse che qualche altro candidato, non pensandola esattamente come me, convince una delle assistenti a silenziare gli altoparlanti.
Maledetta guastafeste! Sono sicuro che deve essere un'indiana: di solito gli indiani hanno poco senso dell'umorismo e tendono a prendere le cose troppo seriamente. Silenzio assoluto. Ora riesco a sentire il suono della tensione fatto di riprovevoli deglutimenti, del rumore legnoso delle matite fatte ticchettare nervosamente sul tavolo, di sospiri profondi e di costanti e irregolari schiarimenti di voce con tanto di "ehm" e poi di “umh, umh”. Odio quella fottuta indiana.
Passano 10 minuti di cacofonica sinfonia. Ora siamo tutti sistemati. Una voce ci dice che per le prossime tre ore non potremmo lasciare la stanza (se non per una serie di motivi così complicati che in generale conviene non lasciare la stanza e farsela sotto in caso di impellenze fisiologiche), cosa che rinforza sempre più la mia sensazione di essere finito in una puntata di Orange is the new Black. Le porte si chiudono e di fronte a noi si stagliano tre figure che ci accompagneranno in quelle tre ore di esame. Vorrei ora utilizzare alcune righe per parlare di queste tre figure, cosa che mi ha causato e mi continua a causare numerose perplessità.
La referente principale, ovvero la tizia che ha il compito di introdurre ogni prova e di spiegare le numerose regole, è una sorta di nanetta-con-tacco-15-e-tailleur-forse-indiana - da ora in poi chiameremo Mrs. K- che ha lo spirito di una che ha appena scoperto di soffrire di emorroidi. Ma a inquietarmi maggiormente sono le due assistenti, ovvero due enormi donnone di colore (di quelle nere nere) con un seno che definire gigantesco è un eufemismo, vestite (soprattutto una delle due) con quei vestiti tipicamente africani con tanto di fantasie di elefantini e animali variopinti, talmente tanto stereotipati da risultare violentemente razzisti. Le due non fanno altro che stare in completo silenzio e fare quelle cose di carattere pratico, come distribuire i fogli dell'esame o elargire pezzi di cancelleria utili allo svolgimento della prova. E mentre compiono queste attività pratiche la mia tentazione è quella di alzarmi e di urlare a gran voce che la schiavitù è stata abolita, che gli inglesi devono smetterla di fare i colonialisti! Non lo faccio perché non so come si dice la parola colonialisti in inglese. Mi chiedo se c'è un significato per tutto questo, ma non lo trovo. In realtà neanche mi sforzo più di tanto.
Ma torniamo a noi. Ormai è quasi fatta: Mrs. K spiega in maniera meticolosa e noiosa gli innumerevoli motivi per cui il nostro compito potrebbe essere annullato, mentre le due galoppine passano tra i banchi a dare penne e matite a chi ancora non le ha. Finita la filippica Mrs. K chiede (ordina) a tutti di lasciare sul banco solo la matita e il documento identificativo che, a suo dire, potrà essere controllato durante la prova (vi giuro che è successo per ben 2 volte (?!?)) e di mettere ogni altra cosa per terra. Come automi tutti noi compiamo questo gesto decisamente - posso dirlo? - stupido e immotivato, ma ormai sono conscio che la nostra coscienza e la nostre psiche sono state manipolate per agire in modo acritico. Mi chiedo se qualcuno in aula si ribellasse qualora la tipa indiana ci chiedesse di metterci in mutande. Io no di certo.
Tuttavia all'apice del climax del discorso di Mrs. K qualcosa va storto. L'orologio al muro - l'unica cosa che ci tenga in contatto con la realtà e con lo scorrere del tempo - dietro alle spalle di Mrs. K cade a terra, non colpendola in testa per veramente poco. Panico improvviso. Qualcosa nell'organizzazione perfetta e nell'ordine iper-patologico si è spezzato. Sento il pavimento tremare.
Cosa cazzo è? Il terremoto? L'apocalisse? Dio si è ribellato a tutto quel giocare a fare dio?
No, sono solo le due Assistenti che dal fondo dell'aula, come un branco di ippopotami in corsa, si dirigono verso Mrs. K per cercare di risolvere l’infausto problema. C'è una sorta di riunione a tre. Non so cosa succede. Bisbigli intorno all’orologio. Silenzio. Ancora bisbigli. E ancora silenzio. Mrs. K si gira e ci dice che la prova è ufficialmente cominciata.
Cosa? Tre ore di preliminari e poi tutto comincia così?
Si inizia con il listening. Il cd parte. Una voce femminile in perfetto accento british esce dagli altoparlanti e spiega la prova. Dopo circa una mezz'ora è tutto finito.
Mani in alto! Matita giù! (Ogni riferimento a film polizieschi in cui la matita è metafora di una pistola è da ritenersi puramente casuale).
Le assistenti, come segugi famelici, iniziano a vagare per la stanza cercando qualche candidato che sta ancora cercando di scrivere l'ultima risposta, per braccarlo e probabilmente cannibalizzarlo seduta stante.
Una volta che i fogli del listening sono ritirati le assistenti consegnano quelli del reading, la seconda prova. Ma qualcosa non va. Il problema dell'orologio, prima prontamente snobbato, ora è vivo come un tizzone di brace ardente. L'orologio serve infatti a noi candidati a capire il tempo necessario per suddividerci i tre testi del reading. Una della assistenti, quella più popputa, inizia ad andare in giro per la stanza alla ricerca di qualche sorta di pseudo gancio dove attaccare l'arnese, ora anche un po’ ammaccato. Trova forse un chiodo in fondo alla stanza e si fa addirittura aiutare da una candidata più alta per provare ad attaccare l'orologio. Ma l'operazione fallisce miseramente. Allora vedo l'altra assistente cercare alla rinfusa cose in un cassetto della cattedra, senza però evidente successo. Alla fine Mrs. K prende in mano la situazione e, con la giusta cattiveria, prende l'orologio e lo appiccica al muro. Letteralmente. Intendo che lo fissa alla parete con del comunissimo nastro adesivo. Osservo l'orologio impanato nello scotch e penso a quanto sia ironico che, in tutta quella organizzazione impeccabile, ci si debba poi ridurre a scocciare un orologio al muro e, soprattutto, al fatto che con i miei 150 pound di iscrizione avrebbero almeno potuto comprare un chiodo e un martello.
Ma non c'è più tempo per pensare. L’orologio è scocciato a dovere. Il tempo stringe. Parte la seconda prova!
Leggo in maniera “skim”, proprio come ci hanno insegnato al corso. Apprendo il metodo di fusione del bronzo per ottenere le monete greche. Sogno un muffin gigante con pepite di cioccolato fondente. I persiani utilizzavano le monete dei greci e solo successivamente hanno introdotto la propria valuta. Oppure sarebbe meglio ai mirtilli e cioccolato bianco? Le scimmie sono più intelligenti di un bambino di tre anni, almeno così dice il terzo testo.
Mani in alto! Pistola a terra!
Sollievo. E’ tutto finito.
Passa poco tempo ed è già ora della terza prova, ovvero il writing.
3,2,1, go!
Grafici contenenti i dati degli australiani che vivono in campagna e in città tra il 1990 e il 2015. Il drammatico problema della povertà nei paesi del terzo mondo e i tentativi di aiuto dei paesi ricchi (come diavolo si dice in inglese “sfruttamento” e “aiuti umanitari”?). Sogni culinari che slittano dal muffin all'cheeseburger gigante con bacon croccante (ormai l'ora della colazione ha lasciato il posto a quello di pranzo).
5 minutes, please!
[Cazzo, un sinonimo di “rich countries”? Ho utilizzato “rich countries” 16 volte! E quante parole sono? Contiamo le righe e moltiplichiamo il risultato ottenuto per il numero medio di parole per ogni riga, proprio come ci hanno insegnato al corso! Dunque: 30x6=180. Cazzo, è poco! Devo scrivere almeno 250 parole! Scriviamo un paragrafo in cui diamo la colpa alle multinazionali per lo sfruttamento delle risorse naturali nei paesi sottosviluppati! Ma se l’esaminatore che legge il compito viene da un paese che io chiamo “sottosviluppato”? Magari si offende! Chiamiamolo paese “non ricco”. Coglione, abbiamo utilizzato 16 volte la parola “rich”! E non pensare al cheeseburger!]
Stop!
E’ tutto finito. Sono le 13 e forse siamo liberi. Sto per alzarmi ma Mrs. K con un pronto gesto demiurgico, molto simile a quelli che usano i direttori d’orchestra per indurre un certo strumento a smettere di suonare, ferma tutti: si potranno alzare solamente i candidati della prima fila di banchi e, solo che dopo tutti gli appartenenti alla prima fila saranno usciti, potranno alzarsi i candidati della seconda fila e così via. Io sono alla penultima fila. La cosa si fa ancora più ridicola e vagamente inquietante poiché ogni candidato rispetta perfettamente il comando, manco avessero paura di una tremenda punizione corporale.
10 minuti dopo sono fuori. Controllo su delle tabelle affisse l'orario per sostenere l’ultima prova, ovvero lo speaking, che scopro essere alle 14,40. Guardo l'ora: 13,15. Sorrido e penso che ho tutto il tempo per mangiare. Ma una postilla scritta in corsivo mi salta all'occhio: i candidati sono tenuti a presentarsi almeno un'ora prima. Perché?! Che senso ha scrivere degli orari precisi al minuto, se poi devi far aspettare per un’ora la gente? La domanda ora rimbomba in me e crea echi inaspettati infrangendosi nell'atroce dubbio: mangiare ora di fretta o mangiare dopo con calma.
Col cazzo! Sta volta mica mi fregano!
Caracollo fuori dall’Hammersmith college, famelico e pronto ad uccidere.
Un panino per il mio regno!!
Un Tesco davanti a me promette sandwich confezionati. Fanculo i sandwich. Io voglio il panino ignorante. Con l'acquolina a 100 e la glicemia a zero mi fiondo in un pseudo kebabbaro e indico al commesso la foto di un panino sugnoso. Gli dico "That". Quello mi chiede se prendo solo il panino o tutto il menù. Io guardo l'ora: 13,30. E dico sprezzante "menù, please!". Quando mi arriva il mostro ho circa 10 minuti per finirlo. Parte una sfida senza esclusione di colpi. A rimetterci, in ordine di gravità, sono prima di tutto la mia lingua e le mie gengive, a causa delle patatine e della carne rovente, poi ovviamente il mio apparato digerente costretto a ingerire una mole disumana di cibo in soli pochi minuti. Ma vinco. Bevo l’ultimo sorso rimanente nella lattina di Tango Orange e alle 14,50 mi dirigo nuovamente all'interno del college. Penso che ora il difficile sia fare l'esame senza ruttare in faccia alla esaminatrice e senza alitarle addosso essenze di cipolla grigliata o provola affumicata. Tuttavia nei quasi 20 minuti di attesa ho il tempo per digerire - quanto meno la provola.
Qualcuno mi chiama. Mi dirigo alla stanza 331 e comincia nuovamente la tiratela di passaporto, metal detector e file infinite. Mi ritrovo in un corridoio lungo e tetro dove in un banchetto è seduta l’ennesima tipa anonima insieme alla ormai nota Mrs. K. La tipa mi fa mettere l'indice sullo scanner, al che il computer emette un bip e appare la mia scheda completa con tanto di foto che, finalmente, riesco a vedere e che conferma i miei dubbi: ho inequivocabilmente gli occhi da pesce lesso. Me ne faccio una ragione.
Mrs. K mi indica una fila di sedie dove sedermi. Mi siedo su una di queste ma vengo prontamente ammonito: la sedia in cui mi devo sedere è quella di fianco. Guardo la sedia di fianco, identica in tutto e per tutto a quella in cui sto, ma Mrs. K mi fa notare che sopra di essa vi è scritto il numero dell’aula in cui io dovrò entrare. (per essere il più chiaro possibile: lungo il corridoio ci sono diverse stanze con diversi esaminatori. Ogni candidato è assegnato a un esaminatore e, pertanto, a un numero di stanza. Le sedie per attesa non sono pertanto tutte uguali, ma ognuna è marchiata col numero di una stanza stanza). Evitando ogni sorta discussione mi muovo, senza neanche alzarmi, di pochi centimetri cambiando la seduta e aspettando che la esaminatrice mi chiami all'interno dell'aula. Nell'attesa butto un occhio sul corridoio e mi accorgo dell'ordine maniacale in cui sono sistemati ogni singolo candidato accanto alle porte di ogni esaminatore in modo tale che, non appena questi apre la porta, si ritrovi un nuovo candidato pronto e sorridente. Una macchina perfetta! Mrs. K sa il fatto suo e sento che una delle organizzatrici si compiace con lei per l'idea delle sedie numerate e di tutto il resto.
Una sistema che - siamo sinceri! - non porta un vantaggio effettivo né agli esaminatori, né ai candidati e né tantomeno agli organizzatori e che, anzi, implica uno sforzo di risorse non da poco, non facendo risparmiare in maniera assoluta del tempo. voglio dire: se i candidati fossero in fila e, di volta in volta, quando l'esaminatore si liberasse, il primo della fila fosse chiamato, proprio come in farmacia o al macellaio, non cambierebbe assolutamente nulla e si risparmierebbero molti macchinosi e laboriosi passaggi. Tuttavia questa modalità organizzativa, messa in pratica dall’IELTS ORGANIZATION, travalica il mero funzionamento pratico: è qualcosa che tende più al bello che all’utile, che fa dell'ordine e della chiarezza assoluta e maniacale la propria cifra stilistica autoreferenziale (l’ordine per l’ordine e non per una finalità altra). L’ordine inglese si differenzia, per esempio da quello svizzero o tedesco, proprio per questa sua tendenza compulsiva a voler dare un senso al caos; per questa lotta costante e instancabile contro l'entropia dell'Universo che nessuno, mai e poi mai, potrà fermare o anche solo sospendere, ma che gli inglesi si prefiggono di fare come obiettivo utopico e altissimo, nel modo più elegante e bello possibile. Tutta questa giornata credo che abbia dimostrato fortemente questo concetto e questa tendenza british a voler giocare a fare i demiurgi, piuttosto che a garantire lo svolgimento logico e coerente di una prova di esame. L’idea della praticità che vince a mani basse sulla praticità stessa. L’intarsio imperfetto di meccanismi complicati che da l’impressione di un funzionamento limpido e asettico, ma che nasconde orridi inqualificabili e inimmaginabili.
L'ennesima riprova avviene quando un ragazzo, scosso dalla tensione, decide di alzarsi per sgranchirsi le gambe. Vedo con i miei occhi il terrore di Mrs. K che si fionda con l'agilità di un velociraptor verso il ragazzo costringendolo a sedersi. Vane sono le giustificazioni del ragazzo: la donna è irremovibile, lui deve stare seduto. Io non riesco a non ghignare sotto i baffi mentre osservo gli occhi rassegnati di quel poverello che non trova una giustificazione logica al fatto di dover restare seduto su una sedia numerata, come un pacco postale, lungo un tetro corridoio deserto e in cui, il fatto stesso di stare in piedi, non provoca e non avrebbe provocato alcuna conseguenza negativa o alcun tipo di criticità.
Finalmente mi chiamano. La prova scorre liscia, senza particolari azioni rilevanti ( a parte la mia incertezza sull'espressione "keep in fit") e riesco persino a non emettere rumori sordi dal mio stomaco pasciuto. Esco dalla stanza e vedo che il ragazzo che poco prima si era alzato in piedi ha il viso rivolto a terra e gronda tensione da ogni poro. Io invece ho finito: in realtà non sono mai stato troppo nervoso, poiché ho svolto la prova senza il bisogno spasmodico di un dato punteggio ( per chi non conosce l'IELTS lo spiego brevemente: l'IELTS, International English Language Testing System, è un esame il cui obiettivo è certificare il livello linguistico di ogni candidato, con un punteggio che va da 1 a 9. Non chiedetemi perché non 10. Quindi male che va si prende un punteggio basso, ma non si può mai essere bocciati. Tuttavia per molte persone - tra cui grazie a Dio non io - prendere un certo punteggio è una questione di vita o di morte, senza il quale non si potrà accedere al master o al dottorato della propria vita in Inghilterra, in America o nei restanti paesi anglofoni. Da qui potete forse intuire il motivo della ferrea organizzazione e la tensione palpitante in molti candidati).
Saluto Mrs. K, ripasso l'indice sullo scanner che conferma che il dito appartiene a Lorenzo Giovenga e che Lorenzo Giovenga, 25 anni, residente a Roma, Italia ha appena sostenuto la quarta e ultima prova dell'esame IELTS, saluto anche il tipo del metal detector, ed esco dall'edificio senza parlare con nessun altro (una delle innumerevoli restrizioni dell’IELTS è il divieto per chi ha sostenuto la prova dello speaking di parlare con gli altri candidati).
Mi risale improvvisamente un pezzo di cipolla e penso che voglio andare a dormire. Mi incammino verso la stazione della metropolitana di Acton Town.
Restano tuttavia in me alcune questioni irrisolte. Mi chiedo se tutta questa baracconata, del ferreo controllo a mo’ di Braccio della Morte, sia effettivamente utile o se non sia solo uno sfoggio di tecniche e magniloquenza per intimorire i candidati già intimoriti di loro, e per mostrare la potenza dell’apparato organizzativo. Voglio dire: parliamo di un popolo che ogni anno spende una tonnellata di sterline per mantenere un’istituzione assolutamente inutile, ma di facciata, come la Corona, e che ogni giorno paga dei soldati per vestirsi con dei pennacchi neri in testa e fare un balletto davanti a centinaia di turisti, conosciuto come “cambio della guardia”. Apparenza su apparenza, simboli su simboli, facciata sfacciata senza un reale motivo. Di certo il senso dell’umorismo a loro non manca. E parlo dell’umorismo vero: quello serio, perché come diceva Alberto Sordi ridere è una faccenda molto seria.
Così prendo la metro e non riesco a non immaginarmi Mrs. K ridere di gusto insieme al tipo-latino-americano-col-metal-detector, mentre spettegolano sulle facce perplesse dei candidati costretti a quella trafila carceraria e mentre si contorcono le budella pensando a quel poveretto che è stato costretto a sedersi nel corridoio e alla sempre riuscita boutade dell’orologio che cade e viene scocciato al muro. Che teatrino perfetto! Poi entra un sicario russo e infila del piombo rovente dentro i corpi, ancora pieni di riso come supplì, dei due organizzatori IELTS.
Ma questa è un'altra storia che forse un giorno scriverò.
#ielts#ielts test#ielts exam#ielts writing#resoconto#esame#british council#londra#writing#speaking#listening#reading
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Sono lieto di annunciare che il cortometraggio “Gemma di Maggio” è in fase di post-produzione. Sul set abbiamo avuto l’onore di avere anche Franco Nero! Coming Soon!
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Gemma di Maggio: primi dettagli
E' in fase di pre-produzione il progetto "Gemma di Maggio", cortometraggio ambientato durante la seconda guerra mondiale, scritto dal sottoscritto e da Giuliano Giacomelli, che ha ricevuto i finanziamenti dalla regione Lazio.
Il corto sarà girato nel comune di Lenola (FR) a metà Marzo e racconterà una tragica pagina di quei luoghi, le cosi dette "Marocchinate" avvenute nel Maggio del 1944, che hanno portato stupri, razzie e suprusi.
A breve altri dettagli!
La pagina facebook del progetto: https://www.facebook.com/pages/Gemma-di-Maggio/1428824657330885?sk=info&tab=page_info
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Il mangiatore professionista
[…]
- E mi dica, lei di che si occupa?
- Sono un libero professionista del settore culinario…
- Quindi è un… Cuoco?
- No, per carità! Non sopporterei l’odore di frittura e di cipolla sulle mie mani tutti i giorni…
- Un fornitore?
- No, Io mi occupo di mangiare
- Come scusi?
- Come scusi, cosa?
- Non capisco cosa voglia dire che lei si occupa di mangiare…
- Sono un mangiatore professionista
- Esiste un mestiere del genere?
- Ovvio che esiste!
- E quindi in pratica la pagano per…
- Per mangiare!
- E perché mai qualcuno dovrebbe pagarla per mangiare?
- Buon Dio figliolo… Lei quanti anni ha? Dalla calvizie accentuata ma dalla pelle ancora piuttosto sebacea immagino che si situi tra i 26 e i 30 anni… Erro?
- 28 per la precisione
- Ecco, lei… Posso darle del tu immagino… Devi sapere che non tutti sanno mangiare. Mangiare è un arte: occorre saperlo fare.
- Si, ma in termini lavorativi per quale motivo qualcuno dovrebbe pagarla per mangiare?
- Innanzitutto perché do soddisfazione ma soprattutto perché offro un’emozione… E poi io mangio di tutto, ho la certificazione della ASL di mangiatore non incline ad intolleranze e allergie… Guardi, è pure firmata in calce…
- Interessante… E chi sono i suoi clienti?
- Sono molteplici e variegati: dallo chef incompreso che necessita di un barlume di autostima, alla massaia annoiata che si ritrova un marito che non coglierebbe la differenza tra sterco di vacca e profitterol.
- …
- Che c’è? Ancora non riesci a capire?
- No, al contrario! Trovo molto interessante il suo lavoro… E’ solo che mi fa strano…
- Figliolo, secondo te perché la gente è disposta a pagare fior di quattrini uno chef rinomato, un profumo di marca, un paio di scarpe, un cellulare alla moda o una professionista del sesso?
- Pagano per avere in cambio qualcosa… Una pietanza, un profumo, un paio di carpe, un cellulare, un pompino probabilmente…
- E’ qua che cadi in fallo. La gente paga per avere in cambio un’emozione, vivere un’esperienza… Mi chiamano non perché io mangi, ma perché io mangi bene… Senza false modestie sono il migliore sulla piazza…
- Interessante… A proposito non le ho offerto nulla… Vuole un tè con dei biscotti?
- …
- …
- Non per fare il puntiglioso… Ma ti ricordo che questo lo faccio per lavoro!
- Come scusi?
- Dico mangiare… Lo faccio per lavoro, non è mica un gioco… Non tutti si possono improvvisare mangiatori. Così mi stai offendendo!
- No… E’ che… Io dicevo se le andava qualcosa, anche da bere…
- Ti ripeto, che la gente mi paga per offrirmi qualcosa da mangiare o da bere. Se iniziassi a mangiare gratis, ad accettare tutte le offerte di cibo non lavorerei più…
- No, mi scusi ha ragione…
- Ma vedo che te sei affamato… Su, non indugiare: serviti, mangia qualcosa…
- E’ che mangiare da solo mentre conversiamo mi pare poco gentile…
- E allora ingaggiami
- Come scusi?
- La gente mi paga per non mangiare da sola…
- E quanto...?
- Cos’era? Tè e biscotti? Sono 50 euro più iva… E incluso nel prezzo posso anche offrirti di mangiare una fetta di torta, ma solo perchè è la tua prima volta!
- Posso pagare in contanti?
- Fino a 1.000 euro
- Ok allora… Vado a prendere il portafogli…
- A proposito ma non ti ho chiesto cosa fai nella vita
- Io beh, ho cambiato tanti lavori… Ora sto nell’industria del sapere, sono un curiosante professionista… Tra l’altro le potrebbe arrivare via mail un modulo di soddisfazione per la mia prestazione e per la dose di curiosità che le ho dimostrato. Se può compilarlo mi farebbe un piacere…
- Ma senz’altro!
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COMING SOON....Anséra - Trace the future
The film narrates the story of Mrs. Tullia Silvia Andreini (Bergamo, 1927), whose life stands for many others', and it is set in the small town of Bergamo. Here all her memories - intimate and private - become traces of the historical and cultural changes of the whole nation. The project is entirely set on the 13th of December 2014, on Saint Lucy's day, which plays a fundamental role in the construction of the social identity of the local community, between past and present generations. The festivity is the keystone, from which the story will spring and flow. In particular, the narration is organized around four main thematic keys: that of food, work, sexuality and the dichotomy home/family. The project is written, directed and produced by Valentina Signorelli (Bergamo, 1989) and Lorenzo Giovenga (Rome, 1989). Produced, written and directed by Valentina Signorelli and Lorenzo Giovenga with Tullia Silvia Andreini and Valentina Signorelli Cameraman #1 - Lorenzo Giovenga Cameraman #2 - Luca Giazzi Video editing - Lorenzo Giovenga Audio - Luca Giazzi Assistant production - Ludovica de Cobelli, Marina Todisco and Silvia Angeli Press office and communication Ludovica de Cobelli - coordinator and London area Marina Todisco - Bergamo area Luca Baldazzi - Rome area Artistic consultant - Gualtiero Titta Year: 2015 Genre: Docu-film Languages: Bergamasco and Italian Subtitles: English and Italian Expected length: 70-75 minutes * * * Il film ripercorre una vita come tante, la storia vera della signora Tullia Silvia Andreini (Bergamo, 1927), calata nel contesto della provincia di Bergamo, in cui gli episodi individuali, intimi e privati, diventano tracce del cambiamento storico e culturale di un’intera nazione. Il progetto è interamente ambientato durante la giornata del 13 dicembre 2014, festa di Santa Lucia e di grande rilevanza identitaria per la comunità bergamasca di oggi e del passato. La festa funziona da chiave di volta per far scaturire e incalzare il racconto, il quale si organizza attraverso quattro principali chiavi tematiche: il cibo, il lavoro, la sessualità, e la dicotomia casa/famiglia. Il progetto è scritto, diretto e prodotto da Valentina Signorelli (Bergamo, 1989) e Lorenzo Giovenga (Roma, 1989).
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La mia filosofia
Il negativo vede il bicchiere mezzo vuoto, il positivo mezzo pieno, mentre il creativo tutto pieno: metà di acqua e metà di aria.
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