Pastrufazio si trova a Milano. Vista con gli occhi del Gadda della Cognizione del dolore. L’unico sguardo possibile per la mia città, “una brutta e mal combinata città”. Ma pur sempre l’unica, in questa scempia nazione, in cui a qualcuno può venire in testa di “tradurre il caos in sistemi”.
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L’uso e l’abuso della memoria
Chi in questi decenni ha abusato del ricorso alla memoria come strumento per giudicare il presente e la sua precarietà, il suo essere, in fondo, la ripetizione degli stessi errori e orrori della storia, denuncia, senza volerlo, la propria dipendenza dal desiderio di oblio. Chi ha sempre più retoricamente caricato la memoria del compito salvifico di impedire il ripetersi della stessa storia sa che questo non è assolutamente vero e che il ritorno della violenza indiscriminata è del tutto staccato dalla presenza della memoria. Per quanti crimini siano stati commessi nella storia, e la storia è quasi solo storia di crimini, la memoria, anche universale di questi non ne impedisce il ripetersi. Anzi, per certi versi mantiene sempre aperta la porta da cui può irrompere nuovamente la furia cieca della violenza. La violenza della storia si nutre anch'essa della memoria, così come un tumore si nutre dello stesso sangue che dà la vita al nostro corpo.
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La legge della terra
Un bimbo scoppia in lacrime leggendo della distruzione di Milano da parte di Federico Barbarossa. Quando diventa grande, non sa più se ciò sia accaduto realmente nella storia, ma il ricordo di quelle pagine di un libro per bambini è così vivo che incide sulle sue decisioni. Nella sua mente il male si identifica con la forza bruta che trionfa a dispetto dei desideri del nostro cuore, e quando scopre che questa è la legge della terra, odia la legge della terra.
[Czesław Milosz, Il cagnolino lungo la strada, trad. di A. Ceccherelli, Adelphi, Milano 2002, p. 169]
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La famosa invasione degli scoiattoli a Pastrufazio
Non molti anni fa Pastrufazio dava ancora da mangiare, meglio delle mense dei poveri cristi, a torme fameliche di piccioni disgustosi, dalle zampette cancerose ridotte a moncherini che imitavano i reduci di guerra. Tuttora stazionano e si riproducono, sfidando le ignobili cornacchie, che vanno a due a due come carabinieri e si insinuano negli spazi più lubrici della città come se fossero rapaci controllori dei volatili rimasti.
I piccioni becchettano; le cornacchie stridono, sono le unghie sui vetri dell’ipocrisia meneghina incarnata in forma bestiale. Da qualche anno la feroce competizione che popola lo spazio urbano si è arricchita di una nuova specie: lo scoiattolo. È dappertutto. In ogni lacerto verde della città zampetta veloce, si arrampica lesto e nervoso su muri e balconi nelle vicinanze dei parchi e ormai anche lontano. Raccatta bacche e frutti donati da cittadini ambientalisti.
Tanto il fetido piccione raccoglieva l’attenzione del derelitto abitante delle case popolari; il vecchio in ciabatte o scarpe da tennis sfondate; la solitudine olfattiva della vecchina orribilmente attratta dal colore verdastro delle sue deiezioni… tanto la rapina industriosa dello scoiattolo è fatta per attirare il gusto per la pulizia, asettico ma altrettanto degradato, del residente abbiente. Lo scoiattolo è il simbolo della gentrificazione di Pastrufazio, un altro passo verso il nulla e la dissoluzione.
Il ceto solvibile è in preda alla fascinazione del suo presunto nitore; alla convinzione che le soperchierie attraverso le quali ha acquisito la spendibilità della sua carta moneta siano come i gusci che lo scoiattolo infogna nei posti più impensati, dopo averli portati nelle sue elastiche fauci.
Lo scoiattolo è avido, ingrassa, accumula tanto; si concede all’umano alzandosi dritto e proteso con quelle sue zampe adunche, fa tanta tenerezza a tutto quel ciarpame ambientalista. Che pensa: toh, un’animale che finalmente mi chiede ciò che posso dargli senza perdere nulla, una nocciola, una ghianda, un’arachide, una noce… che bella bestia! I topi sono scomparsi da quando ci sono gli scoiattoli. Così si illude. Convivono, invece, in serena armonia. Sono entrambi roditori di ciò che rimane di Pastrufazio.
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Recensione non richiesta
Tra tanto parlare, tra altrettanto ricordare, rimemorare, molto si perde e ben poco si aggiunge alla cognizione che potremmo farci dell’infinito dolore che ha attraversato il Novecento europeo. Varlam Šalamov non permette inganni di sorta.
La descrizione di cosa è stato il Gulag, esteso per tutta la Siberia, fino all’estremità orientale della Kolyma, per i milioni di persone che l’hanno popolato con la loro sofferenza e morte, non si fa stemperare e addolcire da qualche giorno di lettura o da qualche fremito emozionale su schermo, come è stato fatto, purtroppo, con la Shoah. No. Non si può. Non lo permette la scrittura di Šalamov che il lettore italiano, attento, ma non sempre e non per tutto ciò per il quale val la pena essere attenti, dovrebbe conoscere per i libri pubblicati da Adelphi e da Einaudi. Due le versioni dei Racconti della Kolyma, nel 1995 quella della casa editrice di Calasso; nel 1999 quella einaudiana di ben 1300 pagine. Adelphi ha proseguito pubblicando altri suoi testi: La quarta Vologda e Višera, per arrivare a questa raccolta di testi scritti, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, dal titolo Tra le bestie la più feroce è l’uomo. Libro che testimonia la grandezza letteraria di Šalamov, se ce ne fosse stato bisogno, e il suo incardinarsi nella grande, grandissima tradizione dei narratori/poeti russi, ma soprattutto a superarla, a percorrere una strada nuova.
Oltre l’appagante sortilegio di Adorno, quando afferma che dopo Auschwitz non è più possibile fare poesia, ci sono i racconti della Kolyma che dicono il contrario perché «Kolyma, Auschwitz e Hiroshima non si possono comprendere restando dentro la struttura psichica dell’auro secolo XIX», come scrive Irina P. Sirotinskaja curatrice del libro.
Šalamov non è un memorialista, o meglio, lo è nell’unico modo consentito da chi ha attraversato l’orrore. Il danno maggiore, e voluto dal sistema staliniano, del Gulag poteva essere stato quello di sottrarre alla cultura russa ed europea un poeta per consegnarci un testimone, al quale si può sempre rimproverare la sua inattendibilità, la sua immaginazione. Ma la radice poetica di questa testimonianza, e quindi la sua verità – perché la poesia è in rapporto essenziale con la verità – è riemersa, forse, con ancora più forza e determinazione. Basterebbe leggere le intense e straordinarie pagine dedicate a Boris Leonidovič Pasternak e ai suoi ultimi anni per accorgersi di cosa il terrore rivoluzionario ha comportato per la cultura russa, quali valori ha scardinato, quali potenzialità ha sopito e quali ha scatenato. È un ritratto commosso quello dell’autore del Dottor Zivago, ma privo di qualsiasi compiacimento. La stessa contiguità di molti intellettuali con il terrore è affrontata sine ira, come dato naturale dell’umano procedere nella Storia, a contrastare il quale non potrà essere l’astratta enunciazione di principi e programmi politici, sociali ma solo la consapevolezza che «il fondo dell’animo umano è sfondato, c’è sempre qualcosa di più brutto, un’abiezione ancora peggiore di quelle che già conoscevi, che avevi visto e compreso».
«Quand’è che si perde l’ultima parvenza umana? Come si scrive tutto questo?». Šalamov si è domandato a più riprese. Ed è per tentare di rispondere a questa domanda che ha scritto: «la differenza fra il carcere e il lager» è che il primo «rinforza il carattere», il secondo «fa marcire l’animo umano». La bellezza di Šalamov sta in una scrittura che non rivela soltanto la natura tremenda del lager ma riesce a trascenderla senza per questo rendere la scrittura una sorta di blasfema sublimazione. Il peggio sarebbe comprendere il tremendo del lager, nazista o staliniano poco importa, per restituircelo come un concetto astratto, un semplice dettaglio nella e della Storia. In fondo l’insensatezza senza requie e confini, senza tregua, da cui è nato e prodotto è stata anch’essa un’astrazione, un programma, un’idea.
«Una volta chiesi a Varlam Tichonovič Šalamov: “Come vivere?”. Mi rispose: “Con i dieci comandamenti. Lì è detto tutto”».
Varlam Šalamov, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, Adelphi, pp. 468, € 24,00
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I letti
I muri del mio appartamento lasciano passare ogni sospiro di quello di fianco. E accanto abita una famiglia di immigrati da un qualche paese dell’Africa. Sono in tanti per pochi metri quadrati. La sera tirano giù i letti di non so quale mobile. Rumoreggiano. Mi danno un fastidio enorme. Mi ricordano quando da piccolo anche in casa mia si tiravamo giù i letti. In due stanze più servizi, io e due sorelline non potevamo fare diversamente. I divani letti cigolavano e il mio simil-maggiolino anche. Non mi piaceva, così come non mi piace il rumore che fa la famigliola accanto. Non piace a me e non piace a loro. Piace soltanto agli stronzi che costringevano la mia famiglia a vivere in quarantadue metri quadri e alla famigliola africana ad abitare in altrettanti. Questa è la vera staffetta che si corre a Pastrufazio. Il resto è solo infamia.
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La tristezza che promana dalle manifestazioni del sociale, qualsiasi forma esse assumano, muove dall’illusione che esse trovino un qualche riscontro nella trasformazione di una qualche struttura sociale – e qualcuno ancora si avventura nell’affermare di tutta quanta la compagine sociale. Si tratta, per chi le promuove, di affermare la corrispondenza tra queste manifestazioni e una ipotetica trasformazione/mutamento della condizione umana. Anzi e di più, costoro postulano ormai la necessità di abbandonare l’idea illusoria che ci sia qualcosa come una condizione umana, qualsiasi natura essa rivesta. Per questo che si presentano come dei veri e propri girotondi sul nulla. Sono l’incombenza e la vittoria del nulla sull’essere. Non più l’essere e il nulla, ma il nulla dell’essere.
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«Per il “mondo” vale la stessa legge che per l’erotismo: impossibile prevedere sino a quali perversioni possa giungere [...] le passioni politiche sono come le altre: non durano. Sopravvengono nuove generazioni, che non le capiscono più. La stessa generazione che le ha vissute cambia, s’infiamma per nuove passioni politiche che, non essendo modellate sulle precedenti, la inducono a riabilitare una parte degli esclusi, essendo mutata la causa dell’esclusione [...] Se domani dovesse scoppiare una guerra, il patriottismo prenderebbe un’altra forma, e non ci chiederemmo più, a proposito di uno scrittore patriota, se sia stato dreyfusista.»
È il Marcel Proust della Prigioniera, nella trad. di Paolo Serini, Einaudi, p. 246. Non ne ricostruisco il contesto, va letto. Il presente è così. Il caleidoscopio politico si struttura esattamente come un salotto, ai tempi di Proust, oggi in tv o in qualsiasi altro mezzo, social compresi. L’unica possibilità per conservare la propria decenza è fuggire, sottrarsi, smettere di rappresentare qualcuno o qualcosa, fosse pure un’idea o la distruzione dell’idea stessa. Non è più data alcuna possibilità di discorso sensato. Non può porsi neppure la questione di chi vince e di chi perde. Non c’è più alcun discorso pubblico. Non c’è alcun vento di guerra, la guerra c’è già. E non ci saranno morti, perché il motivo per il quale si muore è lo stesso per il quale ci si crede ancora vivi, e gli uni e gli altri sono ormai indistinguibili. Non ci sono forze che muovono alla guerra è la guerra che muove le cose che amerebbero riposare in sé stesse e che il conflitto rimette in gioco. La guerra è puro movimento che si identifica totalmente con l’unica cosa che oggi può muoversi e corre nelle vene degli uomini: il denaro. Di fronte al quale c’è solo da dire “lascia che gli dèi perdonino quel che h[a] costruito” (Ezra Pound, frammento).
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Ieri su “Avvenire” la recensione di un bel libro su Walter Benjamin. Di Paolo Pagani per Neri Pozza, In cammino con Walter Benjamin.
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Quarto Oggiaro Story - Gianfranco Manfredi RIP. Grande e discutibile il suo L’amore e gli amori in J.J. Rousseau... con la prefezione di Mario Dal Pra, ma avercene oggi di discutibili come lui. E comunque Quarto Oggiaro Story è meglio ancora del Rousseau! Pietra tombale sulla Rivoluzione di quegli anni. Oggi cenere mortuaria. I potoppini che viaggiano con la zia è un omaggio al Graham Greene di In viaggio con la zia. Mi dispiace.
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Ieri su “Avvenire”, la mia breve recensione del libro di Moshe Idel sul “femminile” nella letteratura qabbalistica. Uno studio capace di dipanare i fili di una matassa teologico mistica di incredibile complessità superando i facili schemi delle declinazioni gender.
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Ma davvero potrebbe essere così, come il Golem XIV di Lem prefigura agli umani che lo hanno creato? Scrive:
la gradualità delle trasformazioni le priva di quel senso monumentalmente tragico, allo stesso tempo ripugnante e minaccioso [...] Accadrà in un modo molto più ordinario... e in qualche misura già sta succedendo, intere aree della tradizione muoiono, si squamano, si atrofizzano ed è proprio questo ciò che causa tale confusione; dunque se saprete moderarvi (cosa che non è una vostra virtù) la favola si avvererà in modo tale che il lutto per voi stessi non sarà troppo pesante.
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La sorte, che a volte a Pastrufazio è ben più maligna degli uomini, ancora permette a un vecchio pappone di giovani carni di raggiungere la porta della sua limousine tenuta aperta dallo chauffeur. Evita, senza misericordia alcuna, di dargli il colpo di grazia.
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Il meccanismo del coinvolgimento euro-atlantico nella guerra è sempre più simile al “giro di vite” di Henry James. Fino alla rivelazione finale della diabolicità del meccanismo stesso. Non è all’opera solo un modello letterario. È un archetipo, un’antropologia che conduce alla rivelazione del Male per avvicinamenti successivi e irreversibili. Lo scontro è inevitabile, ma deve essere procrastinato a un punto tale per cui ciò che era inevitabile solo a coloro che l’hanno programmato lo diventi anche per coloro che lo dovranno subire. Nella logica dello scontro totale una volta definito il nemico assoluto occorre che diventi assoluto anche chi vi si oppone e quindi deve presentarsi come privo di resti e dissidenze possibili. Questa contrapposizione non può realizzarsi tutta in una volta, deve essere costruita, deve avere una forma. Ci vuole del tempo ed è lo stesso tempo del “giro di vite”. Che lascia senza fiato.
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Marzo a Pastrufazio sa di nulla. La luce percorre strade troppo lineari per trattenere quel che di fuggevole possiede la primavera incipiente. Le percorri sapendo che ti rimarrà poco tra gli occhi. Qualche albero in fioritura, ma ancora spoglio di foglie. Un angolo che svolta in piazza Piemonte con i fregi di un’edilizia remota. Gli occhi attenti comprendono i trucchi scenografici di questa città. Sanno come formulano l’inganno e il suo alfabeto. Le stagioni a Pastrufazio sono solo quinte teatrali e ci troviamo a scoprire la verità di un verso di Adonis: abbiamo costruito le nostre case con un solo scopo: imprigionarvi il vento che le arruffa.
“Il a bâti sa maison dans un seul but: y emprisonner le vent qui l’empoigne”.
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Quello che sconvolge di questi tempi è la sordida commistione di danaro, viltà e ideali che i politici europei proclamano a gran voce. Da qualsiasi parte queste urla provengano. Gli ideali, lo sentono anche i ciechi, ormai valgono solo per coloro che si apprestano a diventare carne da cannone. Se poi gli ideali si fregiano di essere “democratici” la repulsione morale non dovrebbe trovare limiti. Per tutti gli altri sono lo smalto alle unghie dei loro affari. L’Europa, che di questa mescola infruttuosa, e luttuosa, è la principale artefice nel tempo lungo della storia moderna, ha ripreso a macinare la stessa morchia con cui si soffocò nella Grande Guerra e in quella immediatamente successiva, in un crescendo di sangue che non ha riscontro con nessuna civiltà precedente. Volete mettere una genuina tribù del Borneo cannibale? L’Europa pesca in basso, davvero in basso, in questa morchia.
È stupefacente il richiamo alle armi di Macron, una pagliacciata che non ha nulla a che fare con le caratteristiche di quelle persone alle quali Bergson attribuiva la “capacità di essere più di sé stesse, più che persone”. Il filosofo francese lo scriveva tra il gennaio e il maggio del 1917, quando era negli Stati Uniti a perorare l’entrata in guerra a fianco delle potenze dell’Intesa della potenza occidentale par excellence. C’era da convincere Wilson che l’impresa valesse la spesa. Lo stesso Wilson che Freud, in una biografia che non compare tra i suoi scritti perché l’autore figura essere William C. Bullitt, un bizzarro diplomatico statunitense, definì un malato psicotico, manipolabile e disprezzabile con però molto ascendente sulle folle (Thomas Woodrow Wilson, Twenty-eight President of the United States. A Psychological Study, pubblicato nel 2014 in Italia da Cronopio col titolo Il caso Wilson e Freud - Bullitt come coautori. Bergson quella spesa la conosceva bene, perché nel 1917 la meglio gioventù francese, anche letteraria e filosofica, vi moriva con dovizia.
Buffo, tragicamente buffo, che Bergson richiamasse in vita, tra i tanti discorsi strategico-culturali-politici contro la barbarie teutonica, uno dei concetti più indiscutibilmente pretestuosi di Hegel relativo alle figure sovrastoriche, a quegli individui che impersonificano lo Zeitgeist con sovrano disprezzo di tutto il resto. Il caso di Macron, però, ci riporta a uno spirito del tempo che non ha più neppure gli orpelli retorici manifestati da Bergson, ma solo esibita, meschina, affaristica prosopopea.
Gli appunti e i discorsi di Bergson nei suoi due viaggi negli Stati Uniti si possono leggere in Le mie missioni nella Grande Guerra, con la cura di Roberto Peverelli, pubblicate nel 2014 da Medusa. Da leggere per confrontare due modi di chiamare alle armi, lontani eppure affini.
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La contemporaneità è gravida delle parole della Sibilla Tiburtina: «E gli anni si accorceranno come mesi e i mesi come settimane e le settimane come giorni e i giorni come ore» (Sibylla Tiburtina, Explanatio Somnii). Questo è il senso che Reinhart Koselleck dava all’accelerazione del tempo nella modernità, riprendendo l’apocalittica del IV sec. In realtà la Sibilla proseguiva affermando che «il Signore accorcerà quei giorni per amore degli eletti». Di conseguenza la frenesia accelerazionistica di questi decenni, con l’offerta continua, ossessiva, martellante di traguardi sempre più prossimi: dieci anni allo scioglimento dei ghiacci; tre all’alzamento dei mari; quindici alla mancanza d’acqua; una manciata di lustri alla completa deforestazione e via di seguito, con conseguenti misure per rallentare gli effetti indesiderati, scassano nel profondo la percezione del tempo naturale. Lo pestano nel mortaio previsionale delle sventure come se l’accelerazione progressista del tempo, misurato sullo sviluppo della civiltà, avesse bisogno, contemporaneamente e contraddittoriamente, di un rallentamento regressivo dei suoi effetti. Si rallenta, in definitiva, per avanzare; si avanza per regredire. Non c’è che dire. La Sibilla Tiburtina e forse anche lo stesso Koselleck, sebbene per motivi diversi, sanno, più la prima che il secondo, a dire il vero, che quello schiacciamento del tempo è tipico della fase senile delle forme di vita, quella che vede avvicinarsi di gran carriera la morte. Per il quale avvicinarsi nulla possono le marce all’indietro, e le aspettative apocalittiche divergono fino a contraddirsi. Per quanti sforzi si possano fare per impedirlo la fase attuale vede il pedale dell’acceleratore schiacciato insieme alla frizione che inverte la direzione di marcia da avanti a indietro. Il testa coda è assicurato.
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