precisazioni
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da circa un mese sono completamente immerso in un disco che sto facendo. mi sveglio, faccio musica, mangio, torno a fare musica, dormo, e ricomincio. gli unici intervalli arrivano grazie alla mia ragazza, che mi riporta nel mondo dei vivi: facciamo una passeggiata, prendiamo un gelato, andiamo a cena fuori. ma tolti quei momenti con lei, sto dedicando ogni singolo istante delle mie giornate tra hardware e plugin. in questo momento sto chiudendo (si spera) la terza traccia. in realtà ho un sacco di cose da fare: scrivere recensioni, candidarmi a vari bandi, cercare un lavoro perché la naspi sta cominciando a calare, propormi di più per dj set e lavori da fonico. ma ogni momento della giornata finisce comunque lì, su questo fantomatico disco. ho ritrovato tutta la creatività e la volontà di fare musica che pensavo di aver perso. e sotto questo aspetto, non potrei essere più felice
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fra poco più di un mese compio trentacinque anni e la cosa che più mi mette tristezza è avere molti dei problemi sociali di quando ne avevo venti. penso di essere una brava persona, emotivamente matura o quantomeno più della media maschile e, a dirla tutta, dal periodo teen di passi in avanti ne ho fatti parecchi. ma se c'è una cosa che ancora oggi si protrae, è quello che la mancata diagnosi di autismo ha portato. comunque, sono una persona funzionale: su questo poco da dire, ma non so svolgere attività fuori casa senza sentirmi confuso o sovraccarico. sono in una fase di rassegnazione: penso a quante cose carine mi piacerebbe fare, ma so già che non ne sarei capace; anche solo avere qualche amico mi sembra un ostacolo insormontabile. con l'avviarsi dell'età adulta, quelli virtuali stanno lentamente svanendo, con le chat di telegram fatte solo di conversazioni con la mia ragazza. le mie interazioni giornaliere erano lei e i miei genitori, ma da quando mio padre ha avuto l'ictus mia madre è sempre lì ad andargli dietro, e da che li sentivo ogni giorno, mi ritrovo come se non avessi più nessuno dei due. li chiamo e mi parlano solo della riabilitazione che è stata fatta, della clinica in cui sono andati; non riesco a trovare il tempo di dire che mi sono svegliato col torcicollo o che saremmo andati in montagna. sono felice della mia relazione, su questo nessun dubbio. sono anche capace di evitare ogni dipendenza affettiva, ma non posso fare a meno di intristirmi per come uscire di casa mi provochi degli shutdown. a giugno ho la prima visita dallo psichiatra del cps, di meglio non posso permettermi. vediamo che dice
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capisco che mio padre si sta un po' riprendendo quando in tv compare meloni o salvini e inveisce contro di loro. è lì che lo rivedo in salute
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lo scorso mese ho fatto uno stage in uno studio di registrazione, ma andiamo con ordine. a novembre ho seguito un corso online come tecnico del suono: non la solita solfa udemy con lezioni in differita, ma una classe vera e propria con docente e colleghi con cui parlare. sono partito con le migliori intenzioni di socializzazione: dopotutto, è negli spazi virtuali che trovo la mia dimensione, ma il periodo è coinciso con l'ictus di mio padre. preso l'aereo, ho continuato a seguire le lezioni giù in sicilia, a videocamera e microfono spenti. alternavo i momenti in cui seguivo a quelli in cui davo una mano a mia madre, che si ritrovava sola per la prima volta nella sua vita coniugale. a fine corso, ci avevano avvisati della possibilità di fare uno stage a macerata, nello studio di registrazione di uno dei docenti, un musicista navigato con quarant'anni di esperienza alle spalle. in passato avrei rifiutato per ansia sociale e paura di fallire, ma ho sbattuto così tanto la testa che, stavolta, ho deciso di buttarmici, agevolato anche dal fatto che lo stage, della durata di una settimana, sarebbe stato retribuito
gli stage si sarebbero divisi a gruppi di due studenti, quindi io sono andato in coppia con un tipo dell'età di mio fratello, quarantasette anni, un uomo dall'aria gentile con cui mi sono trovato bene, e anche con il professore non ho avuto di che lamentarmi. il nostro era più uno stage didattico, in cui vedevamo il tipo di lavoro svolto lì dentro. ho ripreso sicurezza nelle mie capacità comunicative, che da tempo sentivo di stare perdendo, anche perché dovevo gestire da solo ogni aspetto delle giornate. ho trovato il mio bar preferito, un posto adorabile che vorrei esistesse anche a milano, pieno di quadri e dall'aria di 'locale di sinistra', con tanto di numeri di internazionale, la7 di sottofondo, tutte cose che mi hanno fatto sentire a casa. ho trovato il mio kebabbaro di fiducia, dove sarò andato cinque volte in una settimana. ho chiaccherato amichevolmente con persone che due giorni prima non conoscevo, camminato a lungo per le strade di macerata che è sicuramente un bel posto, quantomeno da visitare
ci sono andato in un periodo climaticamente perfetto: sempre soleggiato, ma con temperature basse, ideali per le camminate in salita, dove con lo sforzo si rischia di surriscaldarsi. cosa importante, vedere quel produttore discografico lavorare, mi ha fatto tornare sicurezza nelle mie capacità artistiche. condividevo quasi ogni scelta tecnica che lui attuava nei brani per cui doveva lavorare; erano cose che avrei fatto anche io e che in certi casi avevo anticipato, con lui che mi aveva dato ragione. sono tornato a milano felice di quelle giornate, e mi mancherà passeggiare per quella piccola cittadina, che ha un po' l'aria 'compagna' di bologna ma con un'architettura da borgo. da quando sono rientrato, ogni mia scelta artistica mi pare più sensata, e ho trovato più desiderio di espormi e propormi in giro. rimane che non ho conoscenze, che non sono in nessun giro e che non appartengo ad alcun collettivo, ma posso dire di credere un po' più nelle mie capacità
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anche se con gli anni ho smussato il mio carattere, continuo a portarmi dietro una diffidenza di fondo che non mi piace. non ne vado fiero e cerco di mascherarla: ad una chiacchierata non mi permetterei mai di assumere quel tono che, con una blanda parafrasi, si riassume nel detto ‘fidarsi è bene, non fidarsi è meglio’. anzi, preferisco parlare della mentalità islandese, che parte dall’idea: se io mi reputo una brava persona, allora è probabile che lo sia anche chi ho davanti. diciamo che soffro di questo mio tratto; da un lato lo riconosco come parte dell’introversione, ma dall’altro mi domando se non sia anche un’eredità del pensiero capitalista, quello che esalta l’individualismo come virtù. se il primo posso provare ad accettarlo, il secondo lo rifiuto. per questo, e per altri motivi, ho cercato nel tempo di allenarmi e partire da un approccio positivo, sia nelle parole che nell'assetto mentale. ma forse, anche per la mancanza di quotidianità, per il fatto che spesso mi chiudo in camera, non riesco a liberarmi di quel sentore di ostilità, e quindi di paura, verso ciò che non conosco
non mi era successo prima, ma ultimamente mi capita di pensare a cosa rimarrebbe di me se morissi oggi. in questi giorni è morto un ragazzo che non conoscevo, non so neanche perché (forse un incidente?), però il mio profilo da artista è pieno di storie su di lui, di una festa fatta in suo onore, di una colletta per aiutarne la famiglia. mi sono chiesto: per quante persone la mia presenza è stata significativa? a quanti ho dato qualcosa, con le parole, con l'affetto? la risposta è: tutt'al più una decina; mi mostro poco, mi espongo poco, continuo a mantenere un basso profilo. prima di questi mesi, forse da quando mio padre ha avuto l’ictus, non mi ero posto il problema di cosa avrei lasciato con la mia morte. ma ora mi capita più spesso di pensare che non vorrei continuare a portarmi ostilità e diffidenza. vorrei essere in grado di conoscere persone e lasciare loro qualcosa in termini di intesa o condivisione. sono parole al vento: fuori casa mi sento straniato, tanto poco esco. certo, in questo periodo sto sempre dentro: sono dai miei per aiutare mio padre; ma anche in tempi normali, non è che vada diversamente. vivo con la mia ragazza, usciamo insieme, e adoro farlo. però i nostri coinquilini non hanno amici, non invitano nessuno, non escono mai. ecco, questa cosa mi mette tristezza. e io sono quasi come loro. e vorrei non esserlo più
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per quanto durante la mia depressione avessi slatentizzato gli abbracci con mio padre, non mi era mai capitato di toccargli le mani, o meglio, non da quando ero bambino. da una decina di giorni sono qui dai miei, e quella di toccargli le mani è una delle mie principali attività; o meglio, gli tocco la sinistra, che non riesce a muovere e che ha una certa spasticità, cioè rigidità muscolare, con quella tendenza a chiudersi su sé stessa, roteando verso l’esterno invece che in direzione del busto. sono dieci giorni che gli massaggio gamba e braccio, provando quanto appreso guardando il fisioterapista e qualche video su youtube; provo a essere delicato, senza forzare, per non fargli male. da dieci giorni gli apro la mano, gliela stendo e metto il tutore per tenerla aperta; gli misuro la glicemia, lo faccio alzare, stare in piedi per qualche secondo, dandogli brevi istruzioni che ormai conosce: gamba destra in avanti, fai forza sul lato destro, raddrizza la sinistra
i problemi sono anche cognitivi; la memoria a breve termine non funziona. non ricorda cosa ha mangiato, quindi a ogni pasto gli chiedo: cosa stai mangiando? e lui mi fa l’elenco, o almeno ci prova, dato che qualche ora dopo, a volte, lo dimentica. glielo faccio ripetere, perché rimanga impresso. poi, la logopedia: muove la lingua, sorride, per quanto riesce. a volte parla come se non avesse voce: mia madre ironizza e dice che sembra fantozzi; io imito la voce dei vecchi, lui allora sorride. quella del sorriso è un'abilità perduta: sorrideva sempre, non come adesso. in più, tiene gli occhi più aperti. lo sguardo vitreo e senza sorriso, cascare verso un lato, non ricordare i fatti recenti e non fare i ragionamenti di una volta; è qualcosa di cui è in buona parte cosciente. oggi l'ha chiamato il fratello; quando ha chiesto come stai, ha risposto così così così, aggiungendo che la memoria non funziona, che scorda le cose dopo due minuti, per poi concludere: è deprimente
adesso l’obiettivo è renderlo autonomo. non riesce a trattenerla, e mia madre deve cambiargli il pannolone. ma i traguardi ci sono: cammina meglio, quando lo metto in piedi è più dritto, e durante i pasti non gli casca il cibo. ieri, mentre gli stendevo la mano, ha detto che stava avendo sensibilità alle dita. oggi non ne ha, ma è un inizio. oggi magari niente, ma stasera forse tornerà a dirmi che sente un minimo, un solletichino. e poi il giorno dopo magari lo dirà nel pomeriggio. ci concentreremo sul tenerlo più dritto, sugli esercizi di memoria, sullo sbiascichìo e sul nodo alla gola che dice di avere. ho pochi momenti per me, ma va bene così: li impiego per sistemare il terreno, togliere le erbacce e preparare il pane. non sono qui per me. il sonno è l'unico momento che sento di avere. auguro loro la buonanotte e, dopo averli salutati, mi addormento con la sensazione tattile della sua mano rigida, che puntualmente apro e che puntualmente si richiude
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dopo quattro mesi, mio padre è stato dimesso dall’ospedale. vedere una sua foto tornato a casa mi ha riscaldato il cuore, anche se la riabilitazione non è andata come speravamo. è ancora in sedia a rotelle e non è autosufficiente, che si traduce in: ha il pannolone, la mano è ancora paralizzata, fa piccoli passi e si stanca facilmente. questi sono i macrofattori, a cui si sommano i collaterali: la mano si gonfia, la gamba gli fa male e spesso deve coricarsi. in generale, fatica a percepire la parte sinistra, in sedia a rotelle tende a cascare da un lato, si sveglia la notte e così via. da moglie qual era, mia madre è diventata la sua infermiera, e i suoi fastidi alle articolazioni sono diventati dolori curabili solo con gli antidolorifici. per ragioni a noi ignote, il servizio sanitario ci ha garantito un fisioterapista ma non l’oss, e quindi della pulizia si occupa anche lei. tutto questo è aggravato dal fatto che vivono fuori città, in campagna, rendendo difficile sia l’aiuto delle mie sorelle che l’accesso a servizi domiciliari, che siano la spesa o la consegna di farmaci. date queste premesse e per quanto possibile, ho prenotato un volo per stare un mese con loro e dare una mano
comunque, è stato dimesso circa tre settimane fa, e la scorsa è arrivato mio fratello, rimasto fino a oggi. gli ha fatto fare continue sessioni: alzarsi, sedersi, massaggi, piccoli esercizi. noi figli facciamo una colletta mensile per aiutarli, dato che non navigano nell’oro, in attesa che venga accettata la domanda per la disabilità. così, oltre al fisioterapista del servizio sanitario, ne abbiamo preso un altro. tra i due e il lavoro svolto da mio fratello, i progressi sono stati evidenti. adesso si regge meglio, è meno storto, la mano un po’ meno rigida. sono arrivato quattro giorni fa e ho già visto dei miglioramenti: con il nostro aiuto e tenendolo per mano, è riuscito a fare la strada per il bagno. ci siamo resi conto che la riabilitazione fatta a casa ha funzionato più di quella in ospedale, dove lo hanno sostanzialmente ignorato. lei, che è molto ansiosa e tende ad abbattersi, forse per amore del marito è riuscita a non rimuginare sulla scelta di mandarlo in quella clinica. ha contattato un altro centro, più specializzato, e ha chiesto un appuntamento per iniziare una riabilitazione veramente intensiva
il medico lo ha visitato: ha confermato la possibilità di accoglierlo per un mese di degenza, anche se da giugno; ha poi parlato di buone probabilità di recupero totale. oggi mio fratello è partito; il mio timore è non riuscire a tenere i suoi ritmi: far sollevare mio padre, gestire la camminata, i dolori alla gamba, la sensibilità al braccio. il lato positivo è che sta iniziando a riottenere sensibilità al palmo della mano, cosa che finora non era successa; ma non sono riuscito a tenerlo bene in piedi e la mano si chiudeva e contorceva di continuo. è un periodo duro, ogni istante è dedicato alla sua cura, e trovo assurdo che non ci abbiano fornito almeno un oss per l’igiene, o che abbiano speculato anche sulla sedia a rotelle, chiedendo quella più costosa per avere più provvigioni. ora mi aspetta un mese intenso: starò qui fino a metà maggio e la strada è ancora in salita, ma spero di fare del mio meglio
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sono di ritorno da un dj set ambient di cinque ore e mezza che ho tenuto in un negozio north face: prima volta che verrò pagato decentemente. torno qui dentro per cercare di metabolizzare l'incertezza che si presenta ogni volta che mi espongo a un presunto pubblico, che sia fisico o digitale. il discorso è forse banale: non ricevo molti commenti su quello che faccio. ho l’impressione che la gente mi chieda di mettere dischi da qualche parte, magari ascolta anche le cose che suono, ma non è facile che arrivino parole di apprezzamento
lo so che non è un pensiero razionale, è solo il risultato di due cose che si sommano: da un lato l’insicurezza, dall’altro l’autismo, che non mi permette di cogliere i sottintesi delle persone. quindi se qualcuno non mi dice chiaramente “è bello”, io capisco che non lo pensi. anche se poi magari mi chiamano a suonare da qualche parte. una cosa che vorrei dire in giro è: se pensate che un artista emergente sia bravo, diteglielo. gli farà un enorme piacere, e magari smetterà di pensare di stare buttando tutta la sua vita in qualcosa per cui non è portato
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non so se ho ancora voglia di scrivere qui dentro. non è tanto una presa di posizione, quanto un naturale decadimento: ogni mio desiderio di usare la scrittura è ormai pienamente soddisfatto dalle recensioni e dalle monografie che ho iniziato a pubblicare, anche con una certa costanza, su ondarock. ho anche avviato una collaborazione con una seconda webzine e forse ne inizierò una terza. nessuno mi paga: tutto fatto per passione, ma confido che questa cosa possa darmi quel minimo di autorevolezza per iniziare a essere percepito come una persona esperta di musica. o almeno questo è il tentativo
questo non è il primo blog che ho avuto. nel mio precedente spazio scrivevo di non avere un lavoro, ma anche di questioni personali che oggi non so se vorrei riportare su un sito pubblico: internet è un’arma a doppio taglio e non tutti hanno buone intenzioni. sono indeciso se lasciare tutto com’è, abbandonando il blog, o trasformarlo in un diario fotografico. sarebbe un buon motivo per usare di più la fotocamera, solo che la mia vita non è abbastanza interessante: passo quasi tutto il tempo in casa. magari è un monito inconscio per scrollarmi, o forse riuscirò a scrivere per tre riviste e poi tornare a buttare giù qualcosa
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se avessi un lauto stipendio (cioè: sopra i mille), ci sono tre cose su cui spenderei i miei soldi: sintetizzatori, libri e sottoscrizioni a riviste. da sempre mi affascinano le edicole; per anni ho comprato ogni settimana il nuovo numero di internazionale, per poi passare alla versione digitale che uso tutt’ora: non c’era più spazio per quelle copie, e non saprei neppure dove impilarle, dato che hanno una copertina morbida e, in centinaia, di certo non reggerebbero su una libreria
ho appena scoperto che il caporedattore di ondarock scriveva per una certa avvenimenti, poi diventata left, un mensile il cui sito web sembra respingere ogni possibile lettore giovane ma che, a occhio, potrebbe interessarmi. oppure c’è domino, la rivista di geopolitica, di cui avevo letto un numero con molto interesse, per non parlare di national geographic, limes o pandora. per un periodo mi ero iscritto a coelum, magazine di astronomia, ma dopotutto sono spese superflue
un'amica mi ha chiesto come faccio a campare spendendo così poco: vuole imparare da me, dice. in parte è necessità, ma poi ho pensato che, anche se meno di prima, continuo a vivere con l’idea di dover scappare dal posto in cui abito da un giorno all’altro, e quindi devo riuscire a tenere tutte le mie cose in una valigia o due. questo fatto si aggiunge a quella lista di cose di cui non trovo spiegazione quantomeno tangibile nel substrato di infanzia felice che ho vissuto
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questa settimana ho preso l'aereo per andare a trovare i miei - o meglio, mio padre, che è ancora in ospedale, e dare una mano a mia madre, che è da sola. la mia coinquilina, che non è una persona particolarmente pulita e può passare giorni senza lavarsi le mani, è raffreddata. nonostante abbia evitato contatti ravvicinati, è riuscita comunque a contagiarmi, con il risultato che, invece di andare a trovare mio padre in ospedale, essendo lui un soggetto fragile, sono chiuso in casa da giorni. la riabilitazione procede lentamente e a volte ci chiediamo se stiano facendo abbastanza. sembra che faccia fisioterapia solo per poche decine di minuti al giorno, tanto che il braccio ancora non lo muove e non sappiamo se mai lo riprenderà. ora riesce a rimanere seduto per tre ore e a muovere la gamba, ha fatto una decina di passi, ma per sollevarlo dal letto serve ancora una sorta di gru. porta il pannolone, e mi si stringe il cuore a vederlo così
oltre a questo, chiama mia madre più volte anche di notte, facendola dormire male e aggiungendo ulteriore stress. da tre mesi, ogni giorno, parte dalla casa di campagna per andare a trovarlo in ospedale. sabato ripartirò e lei tornerà a essere sola e, tra il raffreddore e la debolezza, non sono neanche riuscito a fare granché, solo cucinare qualche piatto. forse ho perso il diritto alla naspi perché a gennaio ho suonato in un posto, firmando documenti in cui dichiaravo che non avrei ricevuto dei soldi. nonostante questo, per l'inps è comunque lavoro autonomo. ho inviato la dichiarazione di reddito zero al limite delle tempistiche previste, e non è detto che me la accettino. se dovessero accoglierla, proverò a restare ancora un po' giù dai miei, uno o due mesi, come avevo fatto dopo l'ictus: dimetteranno mio padre ai primi di marzo e sarà tutto ancora più complicato, soprattutto all'inizio; avranno bisogno di una mano. se invece la rifiutassero, dovrò cercare subito un lavoro, e il mio ritorno a milano, previsto per questo sabato, si porterà dietro l'incertezza della prossima volta in cui potrò scendere. rivedrò la mia ragazza, passeremo del tempo insieme, e io mi sentirò in colpa per stare bene, per divertirmi, e per averli lasciati così, come abbandonati a loro stessi, per una svista burocratica che, ironia della sorte, non mi ha nemmeno portato un compenso
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non scrivo da un po’ e faccio fatica a ritrovare l’assetto mentale giusto per mettermi ad annotare i pensieri. soprattutto, il bisogno di riportare qualcosa su un documento (verrebbe da dire “su carta”, se non fosse che uso solo lo schermo del computer) è già ampiamente soddisfatto dalle recensioni che ormai redigo con regolarità per ondarock. sono ancora un collaboratore, ma di questo passo, entro un anno o due potrebbero anche chiedermi di entrare in redazione. non che ci sia un compenso, ma sarebbe comunque un titolo utile in più di un’occasione
mio padre sta meglio, anche se è ancora in riabilitazione: lentamente sta recuperando l’uso della gamba e ha iniziato a fare i primi passi, mentre il braccio, per ora, non riesce a muoverlo. sabato torno giù a trovarlo. per quanto riguarda il resto, i contatti umani sono ridotti all'osso; sento che dovrei uscire di più, ho perso l’abitudine e mi sento spaesato anche nelle situazioni più ordinarie. l'unica persona con cui parlo è la mia ragazza, e le persone che vedo sono sempre in sua compagnia. di recente ho rivisto un amico ed è stato strano, mi ha fatto bene, ma non ho molti altri contatti. in generale, è un periodo un po' così; a tratti sono contento di come vanno le cose, ma ho anche la sensazione di trascinarmi nel tentativo di vedere una positività che, in fondo, non è reale. le giornate scorrono veloci, mi pare di portare a termine una o due cose al massimo, e non sto nemmeno lavorando
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per come la vedo, un amico è quella persona che non devi necessariamente vedere o sentire di frequente, ma che c’è nei momenti difficili. sotto questo profilo, posso dire con una certa tranquillità che non solo non ho persone che sento quotidianamente, ma che nessuno si è fatto avanti in un periodo complicato come questo. almeno, non qui, nella mia città natale, dove mi trovo ora. ogni volta che me ne rendo conto – e non è la prima volta che succede – penso a una sorta di rivalsa: riuscire nella musica al punto che queste persone provino a ricontattarmi, desiderose di sfruttare la conoscenza, e mandarli a quel paese. eppure, puntualmente, il tempo smorza questo risentimento; forse per una solitudine che, se non fosse per la mia relazione, rischierebbe di sovrastarmi, o forse perché non riesco a serbare rancore, finisco sempre per chiudere un occhio. così, la volta successiva che torno qui, li contatto per risentirli e prenderci un caffè
questa volta, però, nessuno mi è stato anche solo vagamente vicino in un momento così delicato. in quasi trentacinque anni di vita, non sono mai stato il tipo che riesce a fregarsene degli altri con leggerezza; anzi, è sempre stato un atteggiamento che ho rifiutato: penso ancora a persone che non sento da vent’anni. mi piacerebbe avere amici per cui sono disponibile e che lo siano per me, persone con cui parlare senza che dietro ci sia un tornaconto. più cresco, più questa aspettativa sembra sgretolarsi, come se il legame basato su fiducia e confronto si riducesse alla sola coppia, di cui ho ogni gratitudine, ma che tutto il resto diventi solo un espediente lavorativo. non manca la sensazione di sentirmi uno sconfitto; eppure, continuo a sperare: immagino un momento in cui suonerò abbastanza in giro da essere riconosciuto per il mio impegno, per avere un giro. immagino queste persone che provano a ricontattarmi, e io che chiudo loro la porta in faccia
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il ventiquattro dicembre mio padre è stato finalmente trasferito in una clinica per la riabilitazione intensiva: un bel regalo di natale. la situazione, però, non è tutta rose e fiori; anche se sta meglio, rimane paralizzato: ha iniziato a riacquisire un po’ di sensibilità, ma non è ancora in grado di muoversi. soprattutto la sera chiama spesso mia madre, manifestando ansie e paranoie in un panico notturno che, purtroppo, sembra tipico del periodo post-ictus. a capodanno non abbiamo fatto niente; sono andato a letto alle ventidue. ieri, primo gennaio, mia madre è caduta in modo brusco e, temendo ferite interne, è dovuta andare al pronto soccorso, proprio nel padiglione adiacente a quello dov’è ricoverato mio padre, durante l’orario in cui avremmo dovuto fargli visita. prima di andare è passata a trovarlo: nonostante il dolore, ha fatto finta di nulla. poi sono rimasto io con lui, mentre lei si metteva in lista per la visita d’urgenza; cercavo di prendere tempo per evitare che notasse la sua lunga assenza: quei venti minuti sono stati interminabili. finito l’orario visite, le ho fatto compagnia in reparto e, dopo ore di attesa e un’ecografia, finalmente l’esito: nulla di grave. resta comunque il peggior capodanno mai passato. una piccola consolazione: a causa dell’ictus, mio padre ha ripreso i rapporti con due dei suoi tre fratelli. uno è venuto a trovarlo, con l’altro si sono sentiti al telefono; era felice di questo. a noi, invece, ogni tanto dedica delle canzoni, scelte con cura per i messaggi che vuole trasmetterci. l’ultima che ci ha proposto è stata ciao ragazzi ciao di celentano, con quel verso che dice: “voglio dirvi che, che vorrei per me, grandi braccia perché, finalmente potrei, abbracciare tutti voi”
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mi sento un po' a terra. mio padre è ancora in ospedale; dovrebbe essere trasferito in una clinica riabilitativa, ma in sicilia la mala sanità si vede anche nel pressapochismo con cui gestiscono situazioni del genere. sta comunque meglio: ha ripreso a bere e mangiare, e sente un po' di sensibilità nella parte paralizzata; però, anche per lui, che è sempre stato ottimista, l'umore è difficile da sostenere: due giorni fa gli abbiamo portato la settimana enigmistica per tenergli la mente allenata, ma ieri mia madre l'ha trovato più triste del solito, con il giornale caduto a terra e nessuna possibilità di raccoglierlo. cerchiamo di dargli supporto, ma appena usciamo dalla sala mi tocca tirare su mia madre, almeno fino a cena, perché puntualmente crolla sul divano appena finito di mangiare, esausta dall'ennesima giornata sfiancante
fatte due brevi eccezioni, è un mese che esco solo per andare a trovarlo. passeremo il natale visitandolo, poi torneremo a casa a non festeggiare nulla, così come per capodanno. superata la fase iniziale di tensione e angoscia per la sua situazione critica, ho provato a darmi una spinta contattando locali per suonare in città, ma palermo, musicalmente, è la città morta che conoscevo. apro i social e vedo certi conoscenti che passano dischi, suonano a eventi, mentre io con la musica continuo a non concludere molto: a ottobre ho suonato in una webradio, ma il canale non ha ancora pubblicato il set; avevo poi registrato un mix per un altro canale, che ha deciso di posticipare la pubblicazione perché avevo espresso la mia scelta di non avere pubblicata la tracklist, senza però che però venissi avvisato in alcun modo del posticipo. sto pensando di bidonarli e mandare il lavoro a qualche altra serie podcast, ma è raro che qualcuno risponda
non conosco molte persone e farmi notare, per uno come me senza agganci, è infinitamente più difficile rispetto all'impegno che dedico alla mia ricerca artistica, a cui riservo ogni attimo del mio tempo. forse dovrei lasciare perdere e dedicarmi piuttosto a scrivere per le riviste, come già sto facendo. tanto si sa, i critici musicali sono musicisti falliti
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quando sono nato, i miei avevano trentacinque e quarant'anni; sono il quarto figlio, arrivato a distanza rispetto agli altri, cresciuto in una famiglia affettuosa ma con fratelli che, per le differenze anagrafiche, sembravano più zii che compagni di giochi e litigi. sono stato il primo a realizzare che un giorno i nostri genitori moriranno: li ho conosciuti già adulti. ora ho trentaquattro anni: mio padre ne ha settantaquattro ed è ricoverato in ospedale; mia madre, che di anni ne ha sessantanove, ha problemi alle ginocchia. in famiglia si parla spesso di esami medici o cibi da evitare, quelli che potrebbero alzare glicemia, pressione o colesterolo, problemi che riguardano loro ma anche i miei fratelli, ormai oltre i quaranta, che iniziano ad accusare i primi fastidi
mi sento come se non avessi mai vissuto davvero la giovinezza - non per colpa loro, quanto più per depressione e isolamento sociale: poche esperienze e spesso neppure sane. mio padre è in ospedale e mi pesa più del solito aver passato gran parte delle mie giornate davanti a un computer: vorrei iniziare ad affrontare la vita, socializzare, tornare mille volte in montagna; eppure so che i miei pensieri non riescono a staccarsi dai miei interessi, tanto continui quanto opprimenti: vorrei uscire, ma voglio prima riascoltare certe tracce; mi piacerebbe stare all'aperto, ma devo prima finire quel set o brano. non che vi sia una consolazione pratica: sul versante artistico quest’anno ho concluso qualcosa, ma ancora poco - colpa della mia altalenanza sui social; so anche che, rientrato a milano, finirò col chiudermi in casa: resterò la persona introversa e forse autistica che sono, con ogni proposito di assimilare la lezione sulla caducità che sembra già destinato a spirare
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quando apro instagram, a volte mi chiedo se ci sia qualcuno che conosco ma non seguo e che potrei aggiungere per una occasionale e disinteressata conversazione; puntualmente, non mi viene in mente nessuno. allora ripenso a quando mi rifugiavo sul web e mi domando come le nuove generazioni facciano amicizia. per quanto le statistiche dicano che ci si conosce sempre più spesso online, a me sembra un luogo molto più inaccessibile rispetto a quando negli anni zero ero adolescente. forse è una mia difficoltà, ora che ho superato i trenta, e temo che scrivere a qualcuno venga frainteso come un tentativo di flirt, rendendo difficile scambiare due parole o condividere interessi
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