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Sei
Si massaggia il collo, riflettendo. Non è troppo sicuro di quello che deve fare a quel punto. Ovvio che in mezzo a una strada non lo può lasciare. Già ha un aspetto terribile in quel momento, se attende ancora dubita ne rimarrebbe qualcosa di riconoscibile.
Mhh… Il vero problema è che in realtà nemmeno Hutch, ora come ora, ha un posto in cui stare. Inizialmente pensava di andare a riscuotere un paio di favori dal gran capo in persona per rimediare una qualche abitazione libera, ma ora c’è il ragazzino da mettere in conto, e non sembra più un’idea geniale presentarsi di fronte al bastardo rosso con quella cosetta miserabile… Uh! Cioè, non intendeva pensare quel che sembra aver pensato, è solo che… Oh, merda, non sa proprio che cazzo fare.
Forse potrebbe provare con Lucas e sua moglie Sandra, che non stanno troppo lontani e hanno una casa più spaziosa. D’altra parte hanno già dei figli loro e magari accetterebbero di ospitare almeno il ragazzino, finché Hutch non troverà un’alternativa accettabile, ovvero una che non coinvolga Sant’Antonio e le sue macchinazioni da psicopatico.
Annuisce fra sé. Tanto vale provare. Se andrà male… Avrà un enorme problema da risolvere e nessun’altra idea in merito. Merda. D’accordo, è perfettamente inutile fasciarsi la testa prima del dovuto. Si augura solo di riuscire ad arrivarci fino da Lucas. In verità è già stanco morto dopo aver fatto quei pochi passi fino alla pompa dell’acqua ed essersi inutilmente lambiccato il cervello. Allora coraggio, solo un altro piccolo sforzo.
E in effetti è minimo sul serio. Fatica molto di più a rimettersi in piedi piuttosto che a sollevare da terra il ragazzino. Ma si è appena messo in marcia, attento a non serrare troppo la presa per non rischiare di stritolarlo involontariamente, quando il piccoletto si ridesta con un brusco sobbalzo e prova, senza il minimo risultato, a spingerlo lontano da sé e a sgusciare via.
«Ehi, calma. Non ti faccio nulla, tranquillo» prova a rassicurarlo, nonostante la voce un po’ ruvida a causa delle recenti vicissitudini rovini di parecchio l’effetto pacificante che intendeva imprimere con le sue parole.
Di fatto il piccoletto è lontano anni luce dal dare retta ai buoni propositi di Hutch. Prova persino a scalciare, con l’ovvio intento di fargli mollare la presa, ma Hutch ha il fondato dubbio che stia patendo più dolore di quel che riesca a infliggerne all’uomo.
«Ti stai facendo male. E io non sento nulla. Smetti di dimenarti e respira adagio. Ti giuro che non sei in pericolo» riprova, con più pazienza di quanta chiunque, conoscendolo, lo riterrebbe capace.
Forse finirà per stancarsi, dopo tutto. Di certo Hutch si sta stancando parecchio, non tanto per il peso ridicolo del ragazzino, quanto per la camminata sfiancante sotto il sole che gli sta appannando il cervello più di quanto già non fosse in precedenza.
Abbassa un momento lo sguardo per cercare di capire come se la passa il piccoletto, dato che non lo sta più prendendo a calci. Per poco Hutch non gli scoppia a ridere in faccia: ha questa espressione truce così totalmente fuori luogo sul suo visetto da micetto deperito. Immagina stia provando a intimidirlo. In verità Hutch ne è ben lontano, ma suppone non sia il caso di farglielo sapere. Solo non riesce a impedirsi di sorridergli. Quel che ottiene in cambio è un’occhiataccia furente, prima che il ragazzino volti la testa con il chiaro intento di ignorare la situazione il più a lungo possibile. Arrischia a rinserrare appena un poco la presa e prova ad allungare il passo, sperando di arrivare a destinazione prima di doversi trascinare sulle ginocchia (non manca molto, in nessuno dei due casi).
╬╬
Alla casa di Lucas ci è infine arrivato. Il ragazzino è ancora sveglio, ma ha appoggiato la fronte contro il petto di Hutch, rinunciando a sfuggirgli (almeno per il momento). La verità è che se dovesse provarci sul serio Hutch non è troppo sicuro di riuscire a riprenderlo. La porta di Lucas è chiusa, ma la finestra è socchiusa, quindi qualcuno dovrebbe essere in casa. Ha le mani occupate, quindi prova a dare un lieve calcio all’uscio per attirare l’attenzione di chiunque sia all’interno.
La bellezza di due minuti abbondanti dopo, quando già Hutch stava programmando di stendersi a dormire davanti alla casa, finalmente la porta si spalanca e Hutch si ritrova faccia a faccia con Sandra, la moglie di Lucas, una donna bionda e minuta, ma che nel momento in cui decide che non sei il benvenuto finisce col diventare una delle creature più spaventose sulla faccia della Terra e oltre.
«Buongiorno» affanna Hutch, deglutendo a vuoto, decisamente ansioso. Avrebbe preferito avere a che fare con Lucas, ma a quell’ora del mattino dev’essere per forza al lavoro.
La donna lo adocchia scettica. «Non lo sembra per niente, almeno non per voi due» commenta. Trae un lento sospiro e fa un segno con la testa. «Entra, coraggio. Vediamo cos’è capitato questa volta.»
Hutch, orecchie basse e coda fra le zampe, obbedisce all’ingiunzione di Sandra e varca la soglia con ogni precauzione. Si guarda attorno, in cerca di qualcosa di adatto. Non lo trova, ovviamente, allora cerca soccorso dalla donna, la quale leva gli occhi al cielo e scuote la testa.
«Hutch Bessy, sei davvero senza speranze» commenta asciutta. Torna sui suoi passi, gli afferra un gomito e gli fa strada fino a un angolo della sala. «Pensi che possa bastarti?» inquisisce sarcastica, indicandogli un divano un po’ rappezzato ma dall’aria maledettamente comoda.
Hutch sorride, annuisce felice e, sempre con cautela, si siede e appoggia le spalle sul morbido schienale. «Meraviglioso» mormora sognante. Un piccolo ringhio risuona sul suo petto, e in quel momento ricorda il piccoletto che si è portato dietro e che aveva quasi scordato al solo pensiero del divano. Abbassa lo sguardo e scopre di essere ricambiato da un paio di occhi azzurri e affilati come rasoi. Sorride di nuovo. Niente, ha idea di essersi già affezionato a quel cosetto malandato. Sandra ha ragione: è proprio senza speranze. Si rivolge di nuovo a lei, speranzoso. «Hai qualche cosa da mangiare?» Lei lo fulmina sul posto e, pronto a scommetterci, sta per sommergerlo di improperi. L’anticipa sul tempo, provando a spiegare: «Oh, non è per me, ma per lui» assicura, indicando con un cenno della testa il ragazzino ancora intrappolato nella sua stretta ma che, almeno a giudicare dal suo sguardo, sta meditando sul modo migliore per farlo a fettine senza sprecarci sopra troppe energie.
Per l’ennesima volta, Sandra trae un lungo sospiro sconfortato. «Ho della frutta. Stasera Lucas dovrebbe portare a casa della carne, spero» considera preoccupata.
«Andrà più che bene» assicura Hutch.
Francamente dubita che il ragazzino si faccia problemi riguardo cosa infilarsi nello stomaco. Qualunque cosa sarà sicuramente meglio di niente. Un rapido sguardo al piccoletto glielo conferma: ha una lucetta speranzosa in quei suoi occhi affilati, e un lieve rosa sulle gote puntute. Adorabile!
#Hutch “Earp” Bessy#Cat “Doc” Stevens#Bill Sant'Antonio#Dio perdona... io no!#fanfiction#Primo Incontro#avventura#R_Roiben_R
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Capitolo Sei
«Pesa» lamenta piano Salud, mentre trainano il piccolo velivolo al sicuro verso uno degli hangar del campo volo.
«Probabilmente meno di te» rimbecca il pilota, non meno affannato di lui.
«Non sono così pesante. Solo un poco» protesta appena.
Lo sente sospirare. «Forse avrei dovuto provare ad avviarlo e farlo rullare fino al coperto.»
«Scordatelo. Non ci si vede a un palmo dal naso. Poi domattina avremmo dovuto raccattare la carcassa del tuo aereo disseminata lungo il prato.»
«Questo sì che si chiama ottimismo! Probabilmente dovrei offendermi per il fatto che mi ritieni una simile frana nel condurre un velivolo.»
«Non è quel che ho detto» ribatte testardo. Non sa neppure perché sta discutendo con il ragazzino invece di risparmiare fiato e forze per arrivare agli hangar.
«Manca ancora molto, secondo te?»
Ha una vocetta che gli arriva piccola e incerta. Sembra abbastanza scoraggiato. Salud prova a orientarsi nel buio, ma non è per niente facile. Se almeno ci fosse stata la luna avrebbe avuto un’idea abbastanza certa della strada ancora da percorrere, ma quella sera ci sono unicamente le stelle, e lui non è un marinaio e non saprebbe in che modo sfruttarle, quindi sbuffa e scuote la testa.
«Non saprei dire» borbotta.
〜
«È stata una brutta idea, eh?» lo riscuote dai propri pensieri nebulosi la voce abbastanza stremata del fottuto pilota.
«Stai zitto» ringhia piano.
«Oh? Altrimenti?»
«Altrimenti mollo questo trabiccolo, ti prendo a pugni e poi ti carico nella cabina e vi porto entrambi fino all’hangar.»
Doveva essere una sorta di promessa minacciosa. Un lungo silenzio le fa seguito, poi il silenzio viene spezzato da una lieve risatina.
«Sai che forse mi conviene? Almeno la fatica la faresti solo tu.»
Salud grugnisce indispettito. «Non esserne troppo entusiasta. Di solito ci impiegano un bel po’ per tornare coscienti.»
«Bah! Questo è tutto da vedere» ribatte a tono.
Pare proprio che non gli riesca di farlo stare al suo posto. Ma dopo tutto è pur sempre un pilota: brutta razza, son di quelli che dell’essere seccanti e tronfi hanno fatto un vanto, se non addirittura la loro ragion di vita.
«Come ti si spegne, a te? Non ce l’hai, da qualche parte, un interruttore per mandarti a nanna?»
«Guarda, io ci andrei volentieri anche da solo, se sapessi dove sta il tuo magazzino. Ma siamo in mezzo al nulla e… Ahi! Cazzo» mugola, dopo aver prodotto un tonfo attutito.
Salud si è fermato, perché è rimasto il solo a tirarsi appresso l’aereo e perché vorrebbe capire che ne è stato di quell’impiastro di pilota.
«Qual è il problema, a questo giro?»
«Che la tua pista ha pure delle buche, oltre a non essere affatto illuminata, e io ci sono finito dentro con tutte le scarpe» sbotta.
«A parte che la pista non è mia ma di un mio amico, sono piuttosto sicuro che non abbia affatto buche. Quindi direi che non siamo più sulla pista.»
«Ci siamo persi? È questo che cerchi di dirmi?»
«Credo di no» replica Salud, pensieroso. «Aspettami qui un momento.»
«Cosa? Non starai cercando di mollarmi in questo… buco, vero?» si altera il piccoletto.
«No, sto cercando di controllare se siamo arrivati dove penso. Adesso, per favore, puoi restartene zitto e buono un maledetto momento? Sai, non vorrei ritrovare la strada per poi scoprire che sei scomparso tu. Sarebbe una gran rottura di palle.»
«Fai come ti pare» ringhia, sembrando tutto fuorché lieto dell’ultima trovata di Salud.
Sospira e scuote la testa. Che razza di grana si è ritrovato per le mani. Come se non ne avesse già a sufficienza ogni santo giorno.
〜
La buona notizia (l’unica di quella dannata giornata che volge finalmente al termine) è che ha ritrovato uno dei loro magazzini. Come sospettava, sono arrivati alla fine della pista e si sono inoltrati appena un poco nella zona sterrata. Avrebbe preferito evitarlo, ma è anche colpa sua, dato che non ha pensato di passare prima dal magazzino per appropriarsi di una torcia e poi tornare a recuperare il monomotore. Ora, dato che se lo può permettere, oltre alla luce si frega anche uno dei loro rimorchiatori, così non dovranno più spaccarsi la schiena per trainare il velivolo del pilota al coperto. Ha pure i fari, il trattore; ha una mezza idea di vantarsi con il ragazzino indisponente e sfotterlo un po’... Magari la mattina seguente, perché a quel punto sono entrambi abbastanza stanchi e preferirebbe di gran lunga concedersi una lunga dormita, prima di attaccar briga, forse anche una bella colazione.
Presto ritrova l’aereo, tutto rosso fiammante e bianco neve nel mezzo dello sterrato polveroso. Il pilota, ovviamente, non è in vista. Sbuffa esasperato. Fottuti piloti! Dove accidenti sarà andato a cacciarsi quell’impiastro volante? Smonta dal suo veicolo, fa il giro dell’aereo ed eccolo, stravaccato accanto al timone di coda.
«Che fai, dormi?» sbotta, raggiungendolo.
«No, anche se mi sarebbe piaciuto. È solo che ci hai impiegato un’eternità!» lamenta piagnucoloso.
Salud leva gli occhi al cielo. «Sei sempre così fastidioso, oppure oggi è un’occasione speciale?»
Il ragazzino schiude le labbra, trae un respiro, tentenna, ci riprova, infine sospira e imbastisce un piccolo broncio che scatena una risatina divertita da parte del meccanico.
«A meno che tu non voglia passare la notte appoggiato al tuo aeroplano, muovi il culo e aiutami ad agganciarlo al rimorchiatore.»
I suoi occhi lo fissano un attimo di troppo, in un modo che, come sempre, non riesce a interpretare, ma infine annuisce. «D’accordo» accetta, rimboccandosi le maniche e aiutando Salud a fissare le ruote del velivolo al gancio del trattore.
Il breve viaggio fino alla rimessa trascorre in silenzio. Sistemano con cura il velivolo in uno spazio libero all’interno dell’hangar più vicino, il pilota si attarda in un ultimo controllo del suo mezzo. Salud si limita a osservarlo a braccia conserte e attendere che abbia terminato la sua ispezione che, in verità, somiglia molto a un commiato fra due amici di lunga data. Per un momento Salud ha l’impressione di averlo perfino veduto passare un palmo sulla fusoliera rossa in una sorta di carezza. Potrebbe essersi sbagliato, considerato che casca dal sonno, e non è certo se preferire un’ipotesi piuttosto che l’altra, ma infine fa spallucce e fa strada al ragazzo, accompagnandolo al suo magazzino mentre rischiara il loro cammino con la torcia recuperata in precedenza. Alle stranezze di quell'incontro tornerà a pensare l’indomani mattina; ora, francamente, è troppo stanco anche solo per mettere in fila un ragionamento sensato.
#...più forte ragazzi!#All the Way Boys (1972)#Plata/Salud#Ali dal Nord#R_Roiben_R#plata & salud#Plata#Salud#Naso Balsam#Airplanes#Pilots#First Meeting#from the work of Giuseppe Colizzi#Comper Swift#all the way boys
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Capitolo Cinque
Il suo pilota…
Sgrana gli occhi, sbalordito.
Ora, vediamo, perché diavolo lo ha appena chiamato suo pilota nella propria testa? Per esperienza, Salud sa bene che i piloti non sono mai di nessuno. Al massimo possono prestarsi momentaneamente per qualche lavoretto, dietro compenso si intende; come ad esempio spostare un aereo da qui a lì, o da su a giù (per quest’ultimo caso in particolare, dietro un compenso più oneroso, in quanto i rischi sono maggiori).
Sta vaneggiando. Dev’essere più stanco di quanto pensasse. Quel che cercava di dire prima di perdere la bussola è che il pilota (che non è suo, proprio per niente!) ha tutta l’aria di uno che sta per crollare dal sonno. Allora Salud decide di prendersi un ulteriore rischio. Gli è chiaro che, essendo letteralmente piovuto giù dal cielo quella sera, non può evidentemente avere a disposizione un posto sicuro dove dormire. Pertanto tenta la sorte.
«Pensavo, potrei scovarti un posticino in cui puoi stare per stanotte.»
Il ragazzo leva gli occhi dalla superficie del tavolo che stava contemplando distrattamente fino a un momento prima e li posa in quelli di Salud, poi offre uno striminzito sorriso.
«L’idea ha un che di allettante, ammetto. Mi risparmieresti l’ennesimo, misero tentativo di infilarmi sotto la carlinga del mio aeroplano per ripararmi dall’eventuale pioggia» commenta imbarazzato.
Salud spalanca la bocca, impreparato. «Non ci staresti» protesta flebile.
«Eh, no che non ci starei. Ci ho provato, sai. Sono sottile, ma non abbastanza, soprattutto considerando che intendo avvolgermi attorno un sacco a pelo» replica divertito.
«E quindi come facevi?»
«Mi ci mettevo a fianco, nel lato riparato dall’aria.»
Salud storce il naso, per niente allettato da quell’idea. «Non mi piace.»
Si stringe nelle spalle, dubbioso. «A me non piace molto più che a te, ma in mancanza d’altro… Comunque non ho molto denaro con me, quindi non potrei concedermi il lusso di spenderlo per affittare una camera. Se stavi pensando a qualche locanda, devo avvisarti che non credo di potermelo permettere… A meno di non proporre un pagamento in natura» scherza.
Salud arrossisce di nuovo. Sta diventando una pessima abitudine, quella sera. È assurdo, se pensa che in realtà dovrebbe essere il ragazzino quello imbarazzato fra i due.
«Quante sciocchezze dici» borbotta, scuotendo la testa contrariato. «Se le locande sono da scartare, beh, posso vedere se c’è rimasto dello spazio nel magazzino in cui sto io. Almeno avresti un tetto sopra la testa. Può darsi che si riesca a rimediare anche un letto.»
Non sa bene come interpretare l’ennesima occhiata che gli sta lanciando il pilota. Forse trova la sua idea un’idiozia. In effetti non è particolarmente allettante ma, considerate le alternative, suppone che ci si potrebbe adattare; per lo meno, Salud lo farebbe, ma non è certo che lo stesso discorso valga per il ragazzo.
«Non so bene per quale motivo ti importi di dove dormirò questa notte» commenta con un tono confuso e incerto. Salud sta per protestare, ma a quanto sembra l’altro non ha ancora terminato il suo pensiero. «Sarebbe però folle da parte mia non approfittarne. Quindi…» per l’ennesima volta si stringe nelle spalle «Considera accettata la tua proposta. Starò alla grande anche sul pavimento. Alla peggio mi porterò appresso il sacco a pelo.»
〜
Stanno ripercorrendo in silenzio la strada dell’andata. Salud è pensieroso, e fra le varie idee che gli frullano in testa una riguarda quel che invece potrebbe avere in testa il ragazzino, che prima o poi smetterà di chiamare in quel modo. In fondo un nome glielo ha dato, anche se non è quello di battesimo, quindi potrebbe anche usarlo… forse.
Hanno appena superato la recinzione del campo volo, quando il pilota prende la parola.
«Dovrei recuperare il mio aereo. L’ho praticamente abbandonato lungo la pista. Se non lo levo di mezzo, domani mattina finisce che qualche altro pilota ci si schianta contro mentre prova a lasciare questo posto.»
«D’accordo, ti aiuto» annuncia Salud, dopo averci riflettuto per quasi due interi secondi.
Un lungo silenzio risponde alla sua offerta, una mancanza di suoni che non avrebbe idea di come interpretare ma che ha la capacità di innervosirlo.
«Va bene» soffia appena la voce incerta del ragazzo. «Grazie.»
Arriccia le sopracciglia, perplesso. Era un tono ben strano quello con cui lo ha ringraziato. Salud non capisce. Da quando è sceso a terra, il ragazzino che gli è comparso di fronte ha mostrato modi e toni che lo confondono. A momenti sembra felice e spensierato, qualche istante dopo invece è come se fosse immerso in pensieri sgradevoli. Lo stesso genere di dubbio glielo offrono i suoi occhi, quando decidono di posarsi su Salud. Può darsi che serva approfondire la conoscenza per capirci qualcosa in più, ma è un’eventualità inusuale per lui e sta faticando un poco per accettarla.
E sta faticando un bel po’ anche per ritrovare l’aeroplano del pilota. Avrebbe dovuto procurarsi una torcia, magari anche due. Che idea assurda brancolare sulla pista buia sperando di imbattersi per caso in quel trabiccolo volante. Uh! Meglio tenere quel pensiero per sé, o potrebbe finire per offendere di nuovo il pilota, oltre che l’aereo.
«Eccolo!» annuncia la voce ora vibrante del ragazzo. «L’ho trovato.»
«Grazie al cielo!» esulta Salud, che già immaginava di vagare per il campo volo una notte intera nella vana ricerca di quella specie di colibrì di metallo.
Il pilota ridacchia, chiaramente divertito a causa della voce esasperata di Salud. «Mi pareva ti fossi offerto tu di darmi una mano» fa notare con ironia.
«E intendo ancora farlo, non dubitarne. Sono solo seccato perché non ho pensato prima di portarmi dietro qualcosa per poterci vedere.»
«Ci penserai alla prossima occasione» ribatte di buon grado.
“Perché supponi di atterrare di nuovo oltre il crepuscolo per farmi venire la tachicardia?” avrebbe una gran voglia di rinfacciargli. Si astiene perché è stata una giornata lunga e faticosa, seguita da una serata abbastanza pesante, e non ha modo di sapere se quella del pilota sia stata migliore, ma ha una mezza idea che la risposta sarebbe assolutamente negativa.
#...più forte ragazzi!#All the Way Boys (1972)#Plata/Salud#Ali dal Nord#R_Roiben_R#plata & salud#Plata#Salud#Naso Balsam#Airplanes#Pilots#First Meeting#from the work of Giuseppe Colizzi#Comper Swift#all the way boys
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Cinque
Non riesce a respirare, come se ci fosse dell’ovatta incastrata in fondo alla gola, ma ovatta che brucia. I capelli gli gocciolano, e il ticchettio ritmico di ogni goccia è un ansito strozzato e polmoni doloranti. Avverte un acuto bruciore anche alla coscia, quella destra. Ah, diavolo, se solo potesse avere un poco di aria in più! Tiene gli occhi socchiusi per ripararli dal bagliore troppo caldo che lo investe a ondate irregolari. Potrebbe allontanarsi un po’... No, in verità lo vorrebbe, ma dubita di poterlo davvero fare. Ha provato a fare forza sui palmi delle mani per tirarsi su, ma non è riuscito a muoversi per niente. Quindi, decisamente, ogni spostamento va rimandato a un momento migliore di quello che sta vivendo.
Fa troppo caldo. Davvero, davvero troppo. Apprezzerebbe un po’ di pioggia. Schiude le palpebre con prudenza. La luce lo fa sussultare e gli strappa un gemito, di pena e angoscia, qualcosa che non sarebbe in grado di definire con chiarezza, qualche cosa che però lo fa sentire male, un dolore che non è soltanto fisico ma che avverte nel petto e in fondo alla sua testa. Mmhh… forse si è beccato una botta troppo forte? La scuote sperimentalmente, ma no, non è qualcosa di rotto che gli duole in quel momento. Riprova ad aprire gli occhi, voltando il capo per evitare la luce diretta, e in quel modo scorge una figura un po’ sfocata e in ombra.
Batte le palpebre, incerto. Ha già visto quell’ombra. Oppure si sbaglia? Può trattarsi di un’allucinazione? L’ombra rimane ferma lasciandolo nella sua incertezza. Hutch allunga una mano, ma scopre che non è abbastanza vicina da poterci arrivare stendendo un braccio. Dovrebbe avvicinarsi lui, ma col cavolo che ha intenzione di muoversi oltre. Più tardi, forse. Sì, molto meglio più tardi.
Senza rendersene conto, intorpidito e stanco, si accascia sul selciato del cortile e si addormenta.
╬╬
Quel bestione idiota: russa persino! Ma è mai possibile che tocchino tutti a lui certi soggetti assurdi? Dev’essere un qualche genere di maledizione, una sorta di manto della sfortuna che lo ricopre e lo perseguita. Magari se la ride pure alle sue spalle, quella bastarda della Sfortuna! Ecco, è maledettamente fastidioso, sembra di stare in una caverna in compagnia di un orso in letargo. Forse avrebbe fatto meglio a lasciarlo bruciare nella sua stupida casetta di legno in compagnia della sua preziosa e stupidissima dispensa agli sgoccioli. ‘Fanculo!
Prova a rimettersi in piedi, abbastanza traballante. Incespica e per un soffio non ruzzola di nuovo a terra. Oh, è faticoso sul serio e, in aggiunta alle sue recenti disgrazie, l’abitazione più vicina ancora in piedi gli pare, in quel momento, assurdamente distante. È solo che ha così fame, e l’idiota se la dorme come un maledetto angioletto senza un solo pensiero in testa. Bene! Tanto vale provarci, possibilmente prima di stramazzare al suolo senza più forze. Almeno a quell’ora la gente normale dovrebbe già aver terminato la cena per prepararsi alla notte. Speriamo.
La prima abitazione che gli riesce di raggiungere ha l’interno illuminato e, avvicinandosi, può scorgere almeno un paio di persone intente a chiacchierare. Sfortuna bastarda. Sposta lo sguardo di nuovo sulla strada e individua la successiva costruzione ad almeno mezzo miglio da dove si trova in quel momento. Ha una mezza idea di seguire l’esempio del bestione idiota e stendersi per fare un risposino. L’unico guaio è che non è troppo sicuro di potersi risvegliare, né quel giorno, né la mattina seguente. Probabilmente mai sarebbe un lasso di tempo più adeguato al suo caso.
╬╬
Sbadiglia. Prova a stiracchiarsi.
«Auh!» esclama, mentre la testa gli rimanda una fitta di dolore, seguita da una fitta più convinta da parte della coscia destra. «Ma che diamine…» borbotta.
Sfarfalla le ciglia, reclina il capo. Non capisce. È il cielo quello che sta guardando in quel momento? Fa per grattarsi la testa, perplesso, e la ritrova piena di terra e pezzi di legno anneriti. Allora soltanto gli torna alla mente la sua casetta data alle fiamme. Si mette seduto di scatto e gli manca il fiato. Rantola scombussolato. Si tasta con prudenza la schiena. Sì, fa male, parecchio male. Chissà che diavolo gli è piombato addosso mentre non era cosciente. Niente di buono, immagina. Sposta lo sguardo sulla casa, ma trova solo macerie ancora fumanti. Rabbrividisce e un gemito di pena fa vibrare la sua gola ancora un poco riarsa a causa del fumo respirato la sera precedente.
E non capisce. Non capisce come faccia a trovarsi nel cortile davanti a casa sua, invece che essere un mucchietto di cenere dentro le macerie annerite. Intendiamoci: preferisce di gran lunga essersi svegliato pesto e dolorante piuttosto che non svegliarsi affatto. Ma ancora non sa come sia accaduto. Dovrebbe alzarsi, controllare i danni, scoprire se qualcosa si è salvato. Non che ne abbia una gran voglia: l’idea di avvicinarsi a quel che rimane è molto in fondo alla sua lista di quel che vorrebbe fare e il solo immaginarlo lo atterrisce. Bene, niente grigliate né romantici caminetti, almeno per un po’ di tempo (possibilmente per sempre).
Intanto può annoverare una vittoria al suo attivo, per quel giorno: in piedi è riuscito a rimettersi, quindi non dovrebbe essersi rotto nulla. Evviva. Ma ha perso ogni cosa avesse mai posseduto. Bella merda. E il pensiero di dover cercare soccorso dal bastardo rosso lo angoscia quasi più di quanto faccia l’incendio.
«Che schifo di giornata» brontola depresso.
Si volta, cercando qualcosa che possa risollevargli l’animo, e rimane di sasso a fissare la piccola figura umana mezza raggomitolata contro vasca che raccoglie l’acqua della pompa. Spalanca la bocca, sbalordito, la richiude, la apre una seconda volta tentando di produrre qualche suono. Niente da fare. Con cautela si avvicina. Quando arriva a pochi passi deve arrendersi all’idea che si era fatto all’inizio: è un ragazzino. E quando è praticamente sopra di lui una folgorazione lo tramortisce: il ragazzino non solo è il suo tanto ricercato ladro di provviste, ma doveva anche trovarsi all’interno della sua casa, a un certo punto, e a giudicare dallo stato dei suoi abiti e di tutto il resto era presente proprio mentre prendeva fuoco, o subito dopo.
Aggrotta la fronte, incerto. Riflette. No, di sicuro non è stato lui a far cadere la lampada sulle coperte piegate accanto alla poltrona. Forse è stato José, o magari proprio lo stesso Hutch, vai a saperlo. Avrebbe dovuto gettarlo fuori dalla finestra prima che facesse danni, o meglio ancora non farlo entrare affatto. Guarda tu cosa è successo alla sua povera casa! Per non parlare della sua amata dispensa, andata completamente in fumo, dannazione! O della sua gamba, che brucia ancora come se si trovasse tuttora in mezzo alle fiamme. O… di quel ragazzino.
Con un poco di fatica posa un ginocchio a terra accanto a una delle sue scarpe rotte, scosta la stoffa strappata e bruciacchiata di una manica della sua maglia e ci trova sotto un braccio sottile e rovinato, un poco di sangue incrosta ancora la sua pelle. Forse, dopo tutto, avrebbe dovuto fregarsi qualche provvista in più, perché è magro in modo abbastanza allarmante. Come accidenti avrà fatto a trascinarlo fuori? Oh, sì, a quel punto a Hutch è chiaro che non è diventato un mucchietto di cenere perché il ragazzino ha deciso che doveva salvargli il culo. Perché? Non ne ha idea. Però è piuttosto soddisfatto che sia andata in quel modo. Beh, d’accordo, se la sua casa fosse ancora in piedi sarebbe molto più felice, ma non si può avere sempre tutto, giusto? La vita è comunque un bel passo avanti verso la giusta direzione.
#Hutch “Earp” Bessy#Cat “Doc” Stevens#Bill Sant'Antonio#Dio perdona... io no!#fanfiction#Primo Incontro#avventura#R_Roiben_R
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Peak cinema
No but fr why do so many people hate on rise of the guardians????
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Capitolo Quattro
Si sono appena accomodati attorno a un tavolaccio in una taverna sovraffollata, una delle tante che si possono trovare a Santarém. Al pilota in sua compagnia non sembra tuttavia importare troppo di essere circondato da così tanta gente, voci, luci, musica e odori spesso discordanti o incomprensibili. Sorride, invece, appoggiando la schiena contro il muro alle sue spalle, lo sguardo che vaga sfarfallando per il locale.
Salud approfitta della sua distrazione per studiarlo con più cura. È così orribilmente giovane. Il piccoletto ha il suo bel da proclamare di essere ormai quasi maggiorenne: sembra un ragazzino anche guardandolo da così vicino e in piena luce. Chissà da dove diavolo è saltato fuori quel folletto biondo con le sue piccole ali rosse e bianche. Forse glielo chiederà, dopo tutto. Anzi, che diavolo: sicuramente glielo chiederà. È troppo vergognosamente curioso di saperne di più per potersi permettere di essere discreto, di avere la pazienza di aspettare che si decida a sbottonarsi spontaneamente.
Ma intanto sarà il caso di fare, finalmente, le dovute presentazioni, perché ancora non ha la più pallida idea di come dovrebbe chiamarlo. «Ehi, io sono Salud, a proposito» annuncia, tendendogli una mano e sfoggiando un gran sorriso per provare a invogliarlo.
Il pilota non sembra troppo impressionato dai suoi maldestri tentativi. Reclina appena un poco il capo di lato e lo sogguarda pensieroso, spostando i suoi occhi blu dal largo viso bonario alla grossa mano tesa di Salud e viceversa. Sembrerebbe indeciso sul da farsi. Eppure infine si risolve a offrirgli una qualche replica, anche se forse non era quel che il meccanico si attendeva.
«Penso tu possa chiamarmi Plata» proferisce in un bizzarro tono pensieroso.
Salud sfarfalla le ciglia, perplesso. «Vuol dire cosa: che non sei sicuro di come ti chiami? O che non lo sei riguardo al dirlo a me?»
Ora il pilota torna a sorridergli. Così è molto meglio, deve ammettere Salud. «Nessuna delle due. Conosco il mio nome, ma non lo uso da un po’, da quando sono partito per questo viaggio. Quindi, se non ti dispiace, continuerò a fingere che non esista.»
È un po’ sorpreso. Parecchio, in verità. E non sa se ha capito nel modo corretto quel che gli sta dicendo il ragazzo. Quel che invece sa è che le domande che si accumulano nella sua testa su di lui stanno inesorabilmente aumentando invece di diminuire, così come del resto accade con la sua curiosità.
«Beh, d’accordo. Un nome è pur sempre meglio che nessun nome. Non è come se potessi chiamarti Ehi all’infinito, no?»
Plata ride. Salud si sente decisamente soddisfatto per quel risultato.
«Sei buffo» gli butta lì il ragazzo, in un ansito mezzo soffocato dal divertimento.
Le guance di Salud si gonfiano. «Come sarebbe, buffo?» replica un po’ indispettito.
«Sarebbe che sei divertente e mi fai star bene.»
«Oh…» affanna impreparato, avvertendo il volto surriscaldarsi (di nuovo, accidenti!).
Qualche momento dopo giunge finalmente la loro sospirata cena, e i minuti seguenti vengono occupati nel farle i dovuti onori in un silenzio disteso, accompagnato dalla musica che riempie il locale quasi quanto fanno gli avventori.
Di tanto in tanto Salud si attarda con lo sguardo sul suo compagno di tavolo. Sembra un cucciolo di lupo. Si sta abbuffando come se dovesse fare rifornimento, o come se temesse di lasciare indietro qualcosa e doversene pentire in seguito. Di certo non è il tipo che fa complimenti. Si sofferma a riflettere, ancora una volta, sulla comparsa di questo pilota nel loro cielo, del suo modo di apparire quasi dal nulla e irrompere di prepotenza in quel loro mondo. Cruccia la fronte, perplesso: chissà dove diavolo lo mette tutto quel cibo? È sottile come un giunco, eppure sembra senza fondo. Può darsi che abbia trovato difficoltà e procurarsi dei pasti regolari, in quel suo stravagante viaggio? Non ha modo alcuno per saperlo. O meglio, uno ci sarebbe, ma non è sicuro che il ragazzo vorrebbe offrire di buon grado la sua collaborazione per chiarire i dubbi di Salud.
«E, senti, posso chiederti da dove sei arrivato con quel tuo aeroplano?» arrischia Salud, con la pazienza di attendere ormai agli sgoccioli.
Plata lo valuta nuovamente con lo sguardo. I suoi occhi sembrano ora terribilmente seri, e poco rimane della luce allegra di qualche istante prima. Può darsi non sia stata la domanda giusta da porre, dopo tutto.
«Dal nord» è infine la succinta replica che ottiene.
Salud batte le palpebre, incerto. La sua risposta è stata un poco vaga. Cosa può significare “dal nord”? Dalla Colombia? Forse dal Messico? Quanto a nord, poi? Di certo non dall’Alaska, giusto? Non che Salud ne possa sapere granché di quel che è giusto. Magari viene davvero dall’Alaska. I colori sono quelli giusti, dopo tutto. È abbronzato, certo, ma magari dipende dal fatto che è in giro per il sud da un po’ di tempo.
Il pilota lo sta ancora osservando, ora con uno sguardo incuriosito. Salud ha l’impressione di scorgere una sorta di aspettativa nei suoi occhi. Decide di tentare, mal che vada lo manderà affanculo intimandogli di farsi i cazzi suoi. Non sarebbe la prima volta che gli capita. Può sopravvivere benissimo a questo.
«Quanto a nord intendi?»
Le labbra di Plata si arricciano in un piccolo sorriso. «Sai dov’è il Michigan?» lancia pacifico.
«Euh… No…» dubita.
«Beh, vediamo. Il Canada lo sai dove sta?»
«Oh, quello sì!» esulta.
«Ecco. Hai presente che a sud-est ci sono i Grandi Laghi, giusto?»
«Mhh…» mugola, riflettendo sulle sue scarse conoscenze geografiche. «Credo di sì» tenta, visibilmente incerto. «Sono qualcosa come quattro o cinque e confinano con gli Stati Uniti.»
«Proprio così! Uno degli stati federati è appunto il Michigan, che a sud confina con il Canada e tre dei suoi cinque laghi.»
«Brrr!» esclama Salud, tremando alla sola idea di tutto il freddo che farà in quel posto.
E Plata ride di nuovo, sembrando sinceramente rallegrato dalla reazione di Salud, così quest’ultimo non prende troppo sul serio quel che immagina essere una delle sue innumerevoli figuracce.
«Sì, in effetti fa piuttosto freschetto lassù» ammette, stringendosi nelle spalle.
«Ed è per questo che sei venuto quaggiù?» si informa Salud.
«Non proprio.»
Lo osserva. Non ha l’aria di uno che abbia intenzione di dilungarsi oltre sui suoi motivi. Forse non portano a ricordi piacevoli, chissà. Magari Salud dovrebbe semplicemente lasciar perdere le sue indagini non troppo velate e permettere al ragazzo di tirare il fiato dopo quel che immagina essere stata una serata piuttosto movimentata.
#...più forte ragazzi!#All the Way Boys (1972)#Plata/Salud#Ali dal Nord#R_Roiben_R#plata & salud#Plata#Salud#Naso Balsam#Airplanes#Pilots#First Meeting#from the work of Giuseppe Colizzi#Comper Swift#all the way boys
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Quattro
Ha un brivido che gli ghiaccia la schiena nonostante il caldo afoso di quella sera. La casetta in legno sta bruciando come un campo di sterpaglie e non ha ancora veduto il suo abitante uscire dall’unica porta esistente. Si morde un labbro, gli occhi sgranati puntati ancora qualche lungo istante su quella stupida porta.
«Cazzo» sibila.
Balza giù dal ramo, atterrando miracolosamente in piedi, e sfreccia verso l’entrata, ma ha appena il tempo di varcare la soglia che è costretto a incespicare indietro, investito dal fumo che gli brucia la gola. Si inginocchia a terra e tossisce. Si guarda attorno con frenesia, individua la pompa dell’acqua in cortile, si sfila la maglia e la bagna con gesti frenetici e scoordinati, infila la testa sotto il getto d’acqua fredda, tossendo nuovamente e imprecando mentre cerca di rinfilarsi la maglia che si impiglia ovunque.
«Cazzo» ripete senza fiato, prima di tornare a intrufolarsi dentro casa con il naso coperto dalla maglia grondante.
C’è fumo ovunque, ormai. Gli occhi gli lacrimano e pizzicano. Fruga la piccola stanza che sembra ora un forno rovente, e infine riesce a scorgere il tizio grosso, accasciato in un angolo. Si fa strada quasi alla cieca verso di lui e, inginocchiatoglisi accanto, scopre che è svenuto, probabilmente a causa della botta alla testa che deve aver preso, considerando il sangue che gli cola dalla fronte.
Lo afferra per un braccio e tira. Pesa come un bisonte, dannazione! E lui che si era perfino preoccupato che potesse patire la fame. Ma quando mai! Tira, e tira ancora, riuscendo a stento a farlo scivolare sul pavimento di legno. Le dita umide gli sgusciano sulla stoffa della camicia, perde la presa e finisce con il culo per terra. Balza in piedi con uno strillo, scoprendo che il pavimento è parecchio caldo, troppo per i gusti delle sue chiappe.
Torna a tossire quando la maglia gli scivola via dal naso. Perde secondi preziosi nel rimetterla a posto. Quando torna ad afferrarlo un pezzo di trave mezza annerita e mezza fumante che sosteneva il tetto si stacca e finisce su di loro, sfiorandolo al braccio e crollando sulla gamba del tizio. E nonostante tutto quel trambusto infernale non accenna a riprendere i sensi. Forse ha respirato troppo fumo.
«Cazzo» ringhia per la terza volta, frustrato.
Si guarda indietro. La porta è vicina, eppure in quel momento gli sembra lontana anni luce. Decide di provare ad afferrarlo per le ascelle. Forse sollevandolo farà prima. Come no: e chi ci riesce a sollevarlo? Intanto il tetto sta allegramente prendendo fuoco e lascia cadere su di loro frammenti incendiati, quando va bene, o direttamente travature. Se non si spiccia a farli uscire da lì finiranno arrosto e tanti saluti. Di positivo c’è che non dovrà mai più preoccuparsi di trovare cibo da mettere nello stomaco vuoto. Che gran bella consolazione! Assolutamente no, non scherziamo. Ha solo quindici anni, e non ha per nulla voglia di restarci secco così presto e in un modo così stupido per giunta.
Con un diavolo per capello, ringhiando e imprecando alternativamente, strattona fuori quel cavolo di bestione da ciò che resta della casetta. Riprende a tossire in mezzo alla polvere e all’erba secca davanti al falò che ha preso il posto dell’abitazione. Per fortuna che aveva bagnato la maglia. Ma deve comunque aver respirato la sua malsana dose di fumo, perché i polmoni gli bruciano da morire, e gli occhi non sono in condizioni migliori. A tentoni va in cerca della pompa dell’acqua e quando infine riesce a trovarla per poco non vomita anche la cena di due anni prima mentre inghiotte acqua fresca e se la fa scorrere sulla testa.
Con la visuale ancora un po’ sfocata si volta in cerca del tizio grosso, il quale non si è mosso di un solo palmo da dove lo ha trascinato. Raccoglie un poco di acqua fra i palmi e la porta fino a lui, lasciandone cadere una parte sul suo viso annerito e una parte sulla sua gamba bruciacchiata.
Finalmente, alla buon’ora, il tizio si ridesta di soprassalto, tossendo anche l’anima, a quanto pare. Almeno è vivo. È già qualcosa. Certo, non sembra proprio in buone condizioni; visibilmente, fatica abbastanza a respirare. Va a recuperare altra acqua, ora che gli pare di essere un poco più saldo sulle gambe, e gliela porta. Per tutta risposta quel cavolo di bestione idiota grugnisce, spingendolo a chiedersi se valesse davvero la pena di rischiare la pelle quella sera.
«Che accidenti…» tenta, salvo poi piegarsi in due e tornare a tossire.
Siccome a quel punto non sa bene che farsene dell’acqua recuperata, decide di versargliela sulla testa. Magari in quel modo si schiarisce le idee (sempre ammesso che prima dell’incendio le avesse mai avute chiare; inizia a nutrire seri dubbi in merito).
Sente le ginocchia molli. Forse sarebbe meglio se si sedesse un momento, magari anche più di uno. Aspettando che il grosso bestione riprenda fiato e si scrolli di dosso i suoi incubi a cielo aperto, torna alla pompa e si mette seduto appoggiando la schiena alla vasca dell’acqua, respirando adagio e provando a rallentare la folle corsa del suo cuore.
Si dà un’occhiata. È un vero macello: la maglia strappata e bruciacchiata qua e là lascia intravedere che anche la sua pelle è graffiata e bruciacchiata più o meno negli stessi punti. Sospira, appoggia la nuca al bordo della vasca e solleva gli occhi, osservando le nuvole sfilacciarsi e far spazio al quarto di luna calante e un po’ smangiucchiata. O forse è la sua fame che gli suggerisce certi pensieri sciocchi e improbabili. Le stelle si vedono poco, perché il bagliore della casa che va in fumo copre il loro normale chiarore. Alla fine hanno davvero dovuto dire addio alla dispensa e al suo contenuto. Avrebbe una gran voglia di piangerne la dipartita, ma si trattiene perché non gli garba granché l’idea di farsi scoprire a versare lacrime da quell’idiota ancora stravaccato in mezzo al cortile. Che bisogno c’era, poi, di combinare tutto quel pandemonio? Sarebbe bastato un bel gancio sotto il mento e il problema del signor José si sarebbe risolto in meno di cinque secondi. Scuote la testa, pensando che certa gente non è proprio capace di sfruttare gli assi che ha nella manica.
#Hutch “Earp” Bessy#Cat “Doc” Stevens#Bill Sant'Antonio#Dio perdona... io no!#fanfiction#Primo Incontro#avventura#R_Roiben_R
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Capitolo Tre
«Ehi… Hai fame? Conosco un posto non troppo lontano da qui che fa dell’ottima feijoada» propone Salud.
Il silenzio si installa sulla pista per qualche lungo momento. Probabilmente il pilota sta valutando l’offerta.
«Non so cosa sia, ma sì, ne ho parecchia di fame. Quindi fai strada che ti seguo» accetta infine, facendo sorridere ancora una volta Salud.
Il tizio, chiunque sia e da qualunque luogo sia spuntato, sembra piuttosto in gamba nel rallegrare il nostro amico meccanico.
«Bene. Ehi, non mi hai ancora detto com’è che ti chiami» esclama.
«Nemmeno tu. Ma preferirei vederti in faccia prima di fare le presentazioni ufficiali. In questo posto di cui parlavi prima, la luce ce l’hanno, vero?»
Eccolo, di nuovo. Il pilota ride, e stavolta Salud lo segue a ruota, stranamente allegro.
«Ovvio che sì. Hanno la luce, hanno le panche e i tavoli, hanno cibo e bevande. Pensa, hanno perfino la musica» scherza divertito.
«Oh, ci mancherebbe! Non sono certo venuto fin quaggiù per ritrovarmi in un mortuorio senza musica.»
«Ah no? E allora perché sei venuto?»
«Beh, mi pare evidente: per divertirmi!»
Che dire? L’aereo non s’è schiantato sulla loro pista e Salud ne ha guadagnato una buona compagnia per una sera. Poteva andare peggio, decisamente. Invece ora può finalmente avviarsi in città, e non lo deve neppure fare da solo! Ogni tanto le cose vanno per il verso giusto, pure quando sembrano fatte apposta per incasinarti la serata.
〜
«Per la miseria!» esclama d’un tratto il pilota che lo sta tallonando lungo la strada. Ormai non manca più molto al centro abitato, il percorso è ora asfaltato e spunta qua e là qualche lampione a illuminare la via. Presto saranno nel piacevole via vai di gente che è uscita a cena e per divertirsi, esattamente quel che intendono fare loro. «Sei assolutamente enorme! Molto più di quel che mi era parso prima sulla pista.»
Salud sbuffa una risata e scuote la testa. «Preferivi rimanere all'oscuro, immagino» ribatte con una lieve nota sarcastica.
«Che? No, affatto. Sottolineo solo l’ovvio. A volte mi capita» commenta leggero.
Un po’ sorpreso suo malgrado, Salud si volta per cercare di valutare se il pilota da strapazzo che si è ritrovato fra capo e collo senza preavviso lo stia o meno prendendo per i fondelli. E a quel punto rimane impietrito, quasi inciampando nei suoi stessi piedi mentre indietreggia involontariamente e vedendosi per questo costretto a fermarsi per evitare di finire lungo disteso per terra.
«Che c’è? Ho qualcosa che non va?» indaga. Si porta le mani fra i capelli, provando a valutare con le dita le loro condizioni. «È un po’ che non mi guardo allo specchio, devo essere un vero casino, eh?»
Salud boccheggia, apparentemente incapace di collegare le informazioni che lo hanno appena assalito e mettere assieme un pensiero che abbia senso. «Tu… T-tu sei…»
«Quello che è atterrato sulla tua pista con un monoposto senza luci, sì. Pensavo lo avessimo già stabilito da un pezzo» si burla divertito.
«No… Io… Tu…» balbetta incerto.
«Dovrai provare con qualche altra parola, se vuoi spiegarmi il tuo problema, sai» lo deride con un piccolo sogghigno che gli arriccia un angolo della bocca.
«Sei un ragazzino» affanna Salud, gli occhi fuori dalle orbite per la sorpresa.
«Ehi! Attento a come parli, scimmione! Io non sono un ragazzino, ho quasi diciotto anni, che credi? Cioè, li compirò tra quattro mesi, ecco… Ma non è questo il punto!» si inalbera, visibilmente contrariato.
«Scusa, non intendevo offenderti. Sono solo sorpreso, perché, ecco… sei arrivato con quello strambo aggeggio e sei pure riuscito ad atterrare senza un graffio, e così pensavo…»
«Smetti di insultare il mio aereo. Si può sapere che cos’hai contro di lui?» protesta piccato.
«Oh, no, non stavo… Cercavo solo di spiegarti. Non ho nulla in contrario verso il tuo aereo.»
Il ragazzino… Beh, comunque sia, il pilota, inarca un sopracciglio prendendo un’aria molto scettica.
«Non sei granché convincente, te lo devo proprio dire» fa notare con giusto una punta di acidità.
«Eh, immagino di no. Il fatto è che non mi aspettavo di scoprirti così giovane. Sono un po’ invidioso, per la verità» borbotta costernato.
Sgrana gli occhi, poi arriccia il naso in un modo piuttosto buffo e si scompiglia i capelli con una mano. Più di quanto già non fossero un momento prima, cosa che francamente Salud non riteneva fosse possibile. Ma a quanto sembra il ragazzino può permettersi questo e altro.
«Non credo di capire» ammette quest’ultimo, dopo un consistente lasso di tempo, apparendo visibilmente perplesso.
«Beh, ecco, il fatto è che sono mesi che sto provando a far sollevare da terra un aereo, uno qualsiasi in effetti, ma non mi riesce affatto. Chiaro che sbaglio qualcosa, ma nessuno mi dice mai che cosa sia. E poi tu arrivi nel bel mezzo della sera, già con il buio incombente; tu, con il tuo piccolo aereo che lo si vede appena, e lo fai sembrare di una semplicità disarmante…»
«Ehm… Non proprio. È stato un po’ faticoso, in realtà» dissente, indeciso se essere indispettito oppure divertito.
«Suppongo lo sia stato, ma il risultato non cambia: a terra ci sei arrivato tutto intero. Quindi, ecco, mi sono trovato un po’ spiazzato quando mi sei capitato davanti e ho dovuto fare i conti con il fatto che un ragazzino… Uh! Scusa!» esclama già pentito, dopo aver visto la sua espressione rabbuiarsi. «Volevo dire, un giovanotto come te riuscisse laddove io non faccio altro che fallire» spiega impacciato.
Il pilota rimane qualche momento in silenzio, studiando il suo interlocutore, poi soffia una lieve risata. «Ammetto che quando vuoi sei proprio bravo a lusingare la gente. Offrimi anche la cena e sarò tuo per sempre!» esclama divertito.
Il volto di Salud si imporpora di sconcerto e imbarazzo. Fottuti piloti!
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Tre
Non lo sa perché continua a tornare lì. C’è qualcosa, però; qualcosa che gli sussurra di rimanere nei paraggi per… Per quale motivo? Lo ignora. Eppure è di nuovo accanto alla minuscola abitazione di quell’uomo. È una follia. Sa che lo è. L’ultima volta si è quasi fatto prendere, per la miseria! Per di più la sua dispensa non è neppure fra le più fornite dei dintorni e sta correndo il rischio di far morire di fame entrambi. Ma è di nuovo lì, e non sa che fare. No, a dir la verità lo sa quel che sta facendo: lo sta aspettando. Lo ha osservato mentre tornava dopo essersi incontrato con certa gente che ha giudicato per nulla raccomandabile, poi lo ha osservato uscire di nuovo, questa volta con un bagaglio appresso. E ora sta attendendo che faccia ritorno. Lo ha già detto che è una follia, vero? Se dovesse trovarlo nei paraggi, se la passerebbe davvero male. E se poi dovesse scoprire che lo tiene d’occhio… Non vuole neppure immaginare come potrebbe reagire. Sembra così grosso. Ma che sta dicendo: è grosso, non lo sembra solamente. Probabilmente lo spiaccicherebbe come un moscerino insignificante con un solo ceffone.
Sospira, sistemandosi meglio tra i rami dell'albero sul quale si è appollaiato per poter meglio tenere sott’occhio la strada senza correre il rischio di mostrarsi. Un fastidioso crampo allo stomaco lo fa tendere. Sbuffa, dimenandosi con cautela. Torna a osservare la strada e i paraggi, poi la piccola abitazione, di nuovo la strada, infine l’orizzonte. Il sole sta calando. Tra non molto scenderà la sera. Chissà se l’abitante della casetta farà ritorno prima che cali il buio. Non sa con certezza se augurarselo oppure sperare che rimanga lontano ancora un po’. Sì, beh, ha chiaramente dei seri problemi, che purtroppo non si limitano al suo stomaco vuoto. Forse dovrebbe far visita a una dispensa più fornita; se non altro risolverebbe il suo problema più semplice e immediato.
Di nuovo si guarda intorno. Magari quell’abitazione in fondo alla strada, quella più grossa, con un piccolo portico all’entrata e uno più grande sul retro. Sì, quella di certo avrà una quantità maggiore di provviste, e forse neppure si accorgerebbero se manca qualche cosa, o almeno non subito. L’uomo che abita nella casetta lo ha notato al volo, invece, e si è messo ad annusare in giro come un segugio e a tendere sciocche imboscate nella speranza di beccarlo. Come se davvero potesse cadere in tranelli così sempliciotti.
Un altro sospiro. Un ennesimo crampo allo stomaco. Digrigna i denti e riflette. Ha davvero fame. Ma se facesse ritorno mentre è lontano per la sua spedizione di ricerca di cibo? Cruccia le sopracciglia, incerto. Perché dovrebbe importargli se quell’uomo dovesse tornare a casa in sua assenza? Non capisce. Odia non capire. Al diavolo! Troppa fame, non riesce più a pensare in maniera lucida. Tornerà più tardi a sorvegliare la casetta di quell’uomo (ma perché, dunque?!).
╬╬
«Ti avevo detto che non mi serviva nessun aiuto! Ma è chiaro che sei sordo, José. E pure idiota, a peggiorare tutto!»
Ha un soprassalto, che non è affatto una buona idea quando ti trovi in bilico su un ramo. Ma sfiderebbe chiunque a restare impassibile e non reagire in alcun modo se all’improvviso e dal nulla quel cavolo di bestione arriva (alla buon’ora!) strepitando come e peggio di un venditore ambulante di mercanzia truffaldina. Rimane appostato in ascolto per capire quel che può essere accaduto per averlo messo così di malumore.
«Avrebbe potuto creare problemi» cerca di giustificarsi il tizio che gli sta alle calcagna.
«Benissimo! E invece sei tu ad avermene creati. Ma che fortuna!»
«Alla fine però si è risolta» tenta di nuovo.
«José…»
«Eh?»
«Preferisci sparire all’istante, oppure preferisci che ti stacchi la testa dal collo e mi tolga per sempre il pensiero della tua inutile e seccante presenza?»
«Ehm…» Prima che abbia il tempo di prendere una decisione, la porta della casetta si apre e poi si richiude sbattendo con violenza davanti alla sua faccia perplessa.
Ciò nonostante il signor José non sembra in grado di afferrare il concetto del benservito appena ricevuto, così torna alla carica bussando. Oh, non gli garberebbe proprio per niente trovarsi nei suoi panni, per nessun motivo al mondo. Il tizio grosso ha una tale espressione che promette gran brutte cose. Si chiede come faccia questo José a non aver chiara quella semplice nozione: se ti sbattono la porta sul muso dopo averti minacciato di morte, tu ovviamente togli il disturbo, non insisti per proseguire nella conversazione. Fila il ragionamento? Beh, pare proprio di no. Il signor José deve avere molti problemi, sicuramente più di quanti ne abbia lui, che pure non è messo benissimo.
Ecco, ora hanno pure ripreso a litigare, dopo che il tizio grosso si è deciso a riaprire la porta per capire cosa diamine ci facesse ancora lì impalato il signor José. Chissà se finirà sul serio con l’ammazzarlo, a un certo punto. Immagina che, tutto sommato, se la sarebbe anche cercata, questo è poco ma sicuro. Si mette più comodo sul suo ramo e rimane a osservare lo svolgimento della lite con una certa curiosità. In qualche modo ha l’impressione che scoprire l’epilogo di quella storia sia importante, anche se non saprebbe spiegarne il motivo.
╬╬
Scuote la testa, mentre i due là dentro scuotono invece la casetta. Spera solo che non facciano a pezzi anche la dispensa, oltre a tutto il resto. Conteneva ancora delle cose piuttosto interessanti, tipo un paio di chorizo stagionati, o quella piccola forma di formaggio che ha volutamente ignorato (anche se con molta fatica e parecchi rimpianti). Gli dispiacerebbe molto se andassero rovinati.
Ha un altro brusco sobbalzo quando le voci si alzano più ancora e il tizio grosso lancia un urlo abbastanza spaventoso. Per poco non casca sul serio dal suo ramo, questa volta. Neppure quando lo ha centrato con il coltello lo ha sentito gridare in quel modo. Diamine, dev’essere proprio furioso. Oppure è accaduto qualcosa di brutto?
Non deve attendere a lungo per scoprirlo. Meno di un minuto dopo la piccola finestra, che un momento prima dava sulla penombra della camera principale della casetta, prende a risplendere di luce mutevole e cangiante, dalla porta socchiusa scivola fuori del fumo, poi l’uscio si spalanca con violenza e il signor José schizza via, veloce e terrorizzato come una lepre con un coyote affamato alle calcagna.
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Capitolo Due
E anche per quel giorno ha concluso. Certo, l’indomani, con tutta probabilità, ci saranno altri guai da sistemare. Ma, dopotutto, domani è un altro giorno! Aggrotta la fronte, confuso. Gli pare di aver già sentito prima qualcosa di simile, ma non ha proprio in mente quando né dove. Bah! Che importa? È stanco, ora, e ha voglia di andare a sbronzarsi da qualche parte in città, e magari divertirsi, magari con qualcuno. Sorride speranzoso a quell’eventualità.
Levata la tuta da lavoro, macchiata e unta, e datosi una bella ripulita, si riveste alla bell’e meglio con abiti un po’ rattoppati ma lindi ed esce dal magazzino, avviandosi verso la città. A piedi, certo, e per due solidi motivi: per primo perché non possiede un’automobile; e per secondo perché, se anche la possedesse, non se la sentirebbe di portarla con sé e rischiare di mandarla a sfracellarsi in qualche fosso perché non è lucido a sufficienza da distinguere la via asfaltata dalla campagna.
Mentre si fa strada lungo lo sterrato che lo condurrà in mezzo al traffico cittadino, nella tiepida sera che si avvia rapidamente al crepuscolo, gli pare di udire un sottile ronzio nell’aria tranquilla. Corruga le sopracciglia, interdetto; reclina il capo di lato, provando ad ascoltare con maggior attenzione. Il rumore sale di intensità, oppure si sta ingannando? Si volta alla sua destra, poi alla sua sinistra, ma non scorge nulla di strano, nulla di diverso dalla solita e conosciuta campagna circostante e dalla strada che scorre placida e serpeggiante in mezzo a prati e alberi.
Scrolla le spalle, perplesso. Sta per rimettersi in marcia quando si rende conto che il suono che prima non era riuscito a identificare ora è più distinto, prende un più chiaro significato nella sua testa: è il ronzio regolare del motore di un aeroplano. Ancora si guarda attorno, stavolta con gli occhi puntati verso il cielo, ma non riesce a scorgere nulla, tranne alcune nuvole sfilacciate e l’aranciato infuocato del tramonto che va presto imbrunendosi. Tra poco il cielo si tingerà di viola, poi pian piano si scurirà fino al nero. Ma lui non vede nessuna luce nel grande cielo sopra la sua testa, il che significa che l’aereo ne è sprovvisto, il che significa che il folle ai comandi del velivolo se la dovrà vedere da solo con la pista ombrosa, perché neppure quella ne ha di luci.
Solleva un braccio e si gratta la testa, pensieroso. Continua a non vederlo, ma il suono del motore si sta facendo più distinto, quindi deve essere vicino, e dev’essere un monomotore.
E infine lo avvista, là, proprio a pochi palmi dall’orizzonte scuro, e spalanca la bocca, e quasi scoppia a ridere. È un affaretto minuscolo, appena un puntino insignificante che si allunga tremolante nell’aria calda e umida. Un puntino più scuro dell’orizzonte, che a breve si sfracellerà sulla pista ormai nera come l’inchiostro. Fottuti piloti!
〜
È indeciso. Dovrebbe andare a controllare, forse. Si mordicchia un labbro, incerto sul da farsi. Gli altri piloti se ne sono già andati a casa loro da un bel pezzo. Naso è partito da poco meno di mezz’ora per raggiungere la famiglia. I due meccanici che lavorano come lui al campo volo saranno già in qualche bettola a giocarsi la paga. Rimane la guardia che pattuglia il perimetro di notte, e la squadra delle emergenze. Loro potrebbero fare al caso, in effetti. Se le cose andassero storte (e viste le premesse c’è una forte probabilità che accada), un’autobotte è proprio quel che ci vuole. Inaspettatamente avverte lo stomaco contrarsi. Digrigna i denti, contrariato, e scuote la testa. Che cazzo ci sta a fare uno stronzo di pilota in cielo a quell’ora, in un posto non attrezzato e senza un aereo adeguato? I piloti di Naso sono idioti, questo è un fatto, ma nemmeno loro lo sarebbero abbastanza da andarsene a zonzo dopo il tramonto. Quindi dev’essere uno di fuori, magari uno che stava giusto cercando un posto per atterrare perché il suo aereo è in avaria. Fottuti piloti!
〜
Alla fine si è deciso a tornare sui suoi passi. Non che avesse davvero molte altre scelte. Poteva fregarsene, è pur vero. Solo che Salud non è tipo da fregarsene, se c’è qualche cosa che può fare in proposito.
Non riesce più a distinguerlo, nell’oscurità dell’imbrunire. Però il suo motore lo sente ancora. Chissà se ha già scovato la pista? Salud la sta raggiungendo giusto in quel momento, ed è davvero una lunga e indistinta striscia d’inchiostro. Freme e si stampa in testa l’unica regola da non scordare mai, ma proprio mai: evitare di prendere il volo dopo il crepuscolo senza una strumentazione adeguata. Fatto.
Il rombo del monomotore lo riporta bruscamente alla realtà. Per sicurezza si tiene a lato della pista. Non si sa mai che il pazzo riesca a centrarla e si ritrovi di fronte Salud a fare da ostacolo. Sarebbe veramente bella, questa. Pochi momenti dopo spalanca di nuovo la bocca, suo malgrado sorpreso, mentre il suono inconfondibile delle ruote che toccano terra precede di poco quello dei freni. Ora lo distingue, anche se a mala pena. Sta procedendo a zig zag lungo la pista, rallentando progressivamente senza sforzare troppo sui freni. E infine lo scorge fermarsi dolcemente poco più avanti del punto in cui sosta Salud. E quest’ultimo scuote la testa, basito e suo malgrado ammirato. Quel bastardo di pilota sarà anche uno svitato, ma sa di certo il fatto suo. Ora, più rilassato, si avvia per dare un’occhiata al nuovo arrivato e sincerarsi che sia tutto intero.
«Ehi, amico» lo apostrofa una volta giunto a tiro d’orecchi.
Lo scorge appena voltarsi verso di lui, evidentemente altrettanto sorpreso dalla sua comparsa.
«Oh! Accipicchia. M’era parso di intravedere qualcuno nei paraggi, ma non ero troppo sicuro che fosse qualcuno in carne e ossa, così, sai… Ehm… Mi hai messo paura, chiunque tu sia.»
Salud storce il naso, piccato. «Io, eh? E tu che scendi giù dal cielo di notte come un fantasma, allora?» protesta.
Il pilota ride. Salud resta un lungo momento sospeso, quasi di sasso. Quella risata, sembra quella di un bambino.
«Giusto. Scusa, è che ho calcolato male i tempi e non sono riuscito a trovare una pista più adatta e abbastanza vicina. Quindi le scelte erano due: o mi sfracellavo in mezzo alla foresta, oppure tentavo con questa pista. Tu cosa avresti scelto?»
«La foresta» borbotta Salud, indispettito.
E il pilota ride di nuovo, con lo stesso identico effetto sui nervi del suo interlocutore. «Che gran racconta balle, sei.»
Offeso, mette il broncio, poi sbuffa. «Non sono un pilota. Ma nella mia ignoranza preferirei non trovarmici proprio a dover scegliere.»
«Eh, non hai tutti i torti. Ehi, senti, mi dispiace se ti ho spaventato. Volevo solo portare a terra il mio aereoplano e la mia pelle assieme a lui.»
Salud sospira ma è costretto ad ammettere che il pilota bastardo un po’ di ragione ce l’ha. Decide di farsi più vicino, perché è da quando il monomotore ha toccato terra che qualcosa nella sua testa gli urla quanto cattiva sia stata la sua idea, e vuole proprio capire perché.
Giunto accanto all’aereo si rende conto di quanto effettivamente sia piccolo e di nuovo si ritrova a scuotere la testa abbastanza allibito.
«Sei arrivato fin qui con questo giocattolino tutto da solo?» non può evitare di stupirsi.
«Vedi forse qualcun altro? E anche se avessi voluto, il posto a bordo è uno solo. Scommetto che andrebbe giù come un masso in un lago, se ci salisse una seconda persona. Se ci salissi tu, è probabile che non decollerebbe proprio» scherza il pilota, fissandolo con tanto d’occhi nonostante l'oscurità incombente non gli possa offrire un quadro preciso di quel che si ritrova di fronte.
«Sei parecchio spiritoso, per uno che ha appena rischiato l’osso del collo a bordo di un aereo per le bambole» lo redarguisce.
«Il mio Comper Swift funziona come qualsiasi altro aereo! Quindi non permetterti più di insultarlo» si inalbera il pilota.
Salud sorride. Il primo segnale positivo da quando ha udito il ronzio del motore di quel piccolo velivolo. Un pilota che difende il suo aereo. Il mondo non fa poi così tanto schifo, in fin dei conti.
#...più forte ragazzi!#All the Way Boys (1972)#Plata/Salud#Ali dal Nord#R_Roiben_R#plata & salud#Plata#Salud#Naso Balsam#Airplanes#Pilots#First Meeting#from the work of Giuseppe Colizzi#Comper Swift#all the way boys
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Due
«Fermo lì!» abbaia Hutch. Assottiglia le palpebre. «Ohi! Tu non sei mica un animale» si sorprende, fissando la figura in ombra che, per quanto scura, ha comunque la forma di un essere umano, uno di piccola taglia. «Allora? Chi diavolo sei, eh?» sbotta, piuttosto irritato all’idea di non poterselo mangiare com’era originariamente nei suoi progetti iniziali.
Purtroppo per lui e per le sue futili speranze, la sua preda non apre bocca, si limita a fissarlo di rimando. Li vede, i suoi occhietti che brillano nel buio come quelli dei gatti. Solo che quello lì non è un gatto, è una persona. Un qualcuno che gli ha scroccato le provviste delle ultime due settimane, mannaggia a lui!
«Si può sapere perché sei sempre in casa mia? La dispensa non è la tua, sai. Non puoi mangiarti le provviste anche degli altri, ogni tanto?» lamenta.
Di nuovo non ottiene uno straccio di risposta. Il ladro di cibo si limita a tenerlo sotto tiro con lo sguardo, senza muovere un muscolo. Hutch, stufo di quel tira e molla, fa un passo avanti, e allora sì che il ladro si muove, balzando indietro e facendo venire un soprassalto di sorpresa al padrone di casa.
«Ah, ma allora sei vivo, eh? Perché non dici niente? Troppa fifa?» lo punzecchia, sperando di prenderlo in fallo.
Così non è, per sua somma disperazione, allora prova un altro passo avanti. Magari lo può spaventare quel tanto da convincerlo a non tornare più nella sua cucina. Invece l’ombra dagli occhi brillanti fa un improvviso scatto laterale verso la finestra e, prima di scavalcarla e filar via come una saetta, una scheggia di luce acuminata raggiunge Hutch, il quale grida di dolore afferrandosi il braccio destro e lanciando una sequela di barbari improperi al dannato ladro.
A tentoni, una volta certo che l’ombra di forma umana se la sia svignata, Hutch recupera la lampada dalla credenza e fa un poco di luce, quel tanto sufficiente a dare un’occhiata al danno. Quella specie di demonio gli ha piantato un coltello nel braccio! Ma che diavolo! Non ci sono più i ladri normali che ti sparano addosso e fuggono con la refurtiva? Oh, giusto: sì che ci sono, c’è il maledetto gran capo Sant’Antonio, che si fa un punto d’onore nel non lasciare vivo nemmeno un topolino.
Hutch si fissa il braccio, desolato, già immaginando il male cane che farà levarsi quella cavolo di lama dalla sua povera carne martoriata. E pensare che se lo voleva mangiare, il ladro da strapazzo. Invece per poco non è stato il ladro a farlo a fettine. Sbuffa, abbastanza contrariato, e lancia un’occhiata alla credenza. Socchiusa! Il maledetto gli ha pure fregato il cibo! Non c’è più rispetto per le provviste altrui. Dove finirà il mondo di questo passo?
Torna in camera da letto e recupera della stoffa pulita dal cassetto. Fruga nello stipetto accanto al letto e mette sottobraccio una bottiglia di tequila ancora mezza piena. Torna nella sala principale, si siede al tavolo, vi posa sopra quel che ha recuperato in camera e di nuovo fissa mesto il suo braccio disgraziato. Sospira, e infine si rassegna all’inevitabile: sfila via la lama con uno strattone deciso, urla per la fitta di pungente dolore che gli attraversa il braccio fino alla spalla e lancia una nuova e molto sentita sequela di maledizioni al ladro. Poi, un po’ piagnucolando e un po’ borbottando, versa sopra il taglio abbondante distillato, caccia un altro grido straziante e ingolla un sorso di tequila per dimenticare, almeno in minima parte, quella notte sciagurata.
«Maledetto. Stramaledetto» brontola all’indirizzo di quel… di quel… maledetto! Accidenti.
Oh, ma lo troverà un modo per fargli scontare quell’affronto. Altroché. Che si sappia che Hutch Bessy non si lascia derubare dei suoi averi senza conseguenze! Per la miseria, non voleva nemmeno ammazzarlo, alla fin fine. Voleva solo scoprire chi diamine si prendeva il disturbo di infilarsi tutto il tempo in casa sua per fregarsi le provviste. Sospira di nuovo, per l’ennesima volta. Rimugina su quanto accaduto, su quel che può aver visto. Poco o nulla in verità: giusto il brillio dei suoi occhi e un’ombra minuta. Piega la testa, pensando. Forse si tratta di una ragazza? Forse il figlio di qualche peone in disgrazia? O magari un piccolo Tarahumara a corto di prede migliori? Vai a saperlo. Ha il presentimento che dovrà scoprirlo a sue spese, e l’idea non lo rallegra affatto.
╬╬
«Hutch, il capo ti cerca» lo avvisa Iaco dalla finestra.
E ti pareva. Sempre nei momenti meno indicati lo cerca quello lì.
«Sì, sì, arrivo» taglia corto con uno sventolio irritato della mano (sinistra, perché quella destra è attaccata al braccio fasciato e non ha voglia di maltrattarla più del dovuto).
«Ehi, che hai fatto al braccio?» si informa Iaco.
«Sono anche cavoli miei, sai. Perché non pensi ai tuoi denti, piuttosto» ringhia seccato.
«Ma i miei denti stanno bene» protesta interdetto.
«Non per molto, se continui a seccarmi» minaccia fosco.
Il collega coglie al volo l’invito e decide che non è il caso di irritarlo oltre. Il resto del tragitto verso il nascondiglio del gran capo lo trascorrono in silenzio.
«Bene, bene. Guarda un po’ chi ci degna della sua preziosissima presenza. Benvenuto, mio caro amico» lo accoglie Sant’Antonio.
Hutch storce il naso e trattiene a stento un sospiro irritato. «Sono venuto proprio perché mi hai cercato» fa presente in un tono più neutro possibile, onde evitare spiacevolezze.
Non che si possano davvero prevedere le conseguenze dello stare in presenza di Bill Sant’Antonio, in realtà. Però si può evitare di offrirgli troppa corda. Ed è esattamente quel che cerca di fare Hutch quando il gran capo necessità di avercelo intorno.
«Mi fa un immenso piacere che tu ti senta in dovere di accorrere al mio richiamo. Proprio come un bravo cagnolino devoto al padrone, non è vero?» puntualizza Bill.
«Proprio» conviene Hutch, senza minimamente dar retta alle sciocchezze che escono dalla sua bocca marcia.
«Meraviglioso! Ho un incarico per te» taglia corto.
“Sì, assolutamente meraviglioso” pensa Hutch con abbondante dose di sarcasmo, rimanendo comunque zitto ad ascoltare quel che ha da offrire Sant'Antonio.
«Mi devi portare una persona. Mi serve viva, capisci? Devo parlarci, con questa persona, quindi oltre a essere viva deve anche capire quel che gli domanderò. Intendi bene quel che ti sto dicendo?»
«Perfettamente. La persona in questione ti serve che respiri e pensi, ma che non se la squagli alla prima buona occasione» suppone Hutch.
«Assolutamente corretto, mio buon segugio! Amo quando la gente segue i miei ragionamenti senza dover fare troppa fatica. Ora, mio carissimo, parliamo di questa persona di cui ho necessariamente bisogno.»
Hutch sta per fare spallucce, si trattiene all’ultimo secondo e si limita a fissare la bocca di Sant’Antonio. Gli occhi è meglio evitare di fissarli, se non strettamente necessario. La prima e unica volta che lo ha fatto ha avuto la netta impressione di finire in un gorgo nero senza uscita. No, grazie. Va bene la sua stupida bocca; c’è di peggio. Per esempio, c’è la sua dannata lingua biforcuta, quella che a breve gli toccherà di seguire per capire chi è il prossimo disgraziato che finirà sotto terra.
Tra l’altro pare si tratti di uno che non conosce per nulla. Ma il gran capo si è premurato di istruirlo adeguatamente per far sì che Hutch lo possa reperire senza doversi fermare strada facendo a chiedere informazioni, cosa che avrebbe con buona probabilità minato la sua ricerca sul nascere. Avvisare la vittima di un rapimento dell’arrivo del rapitore non è esattamente un’idea geniale, giusto?
Ed è così che Hutch si rassegna a perdere per lo meno una buona mezza giornata per giustificare le spese e l’alloggio gentilmente offerti e rimborsati da Bill Dannato Sant’Antonio.
#Hutch “Earp” Bessy#Cat “Doc” Stevens#Bill Sant'Antonio#Dio perdona... io no!#fanfiction#Primo Incontro#avventura#R_Roiben_R
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DEADPOOL & WOLVERINE
2024 | Dir. Shawn Levy
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Gabbie
Uno
L’ultima settimana è stata decisamente di quelle da dimenticare. Il figlio di puttana… ehm… intende dire Sant’Antonio si è messo in testa di ripulire alcuni piccoli centri abitati del circondario, e con ripulire il gran capo intende ammazzarne gli abitanti, imprigionarli in qualche ameno tugurio o, nel migliore dei casi, sfrattarli dalle loro abitazioni e proprietà e spedirli altrove a calci in culo. Questo perché? Ovviamente non si è premurato di spiegarlo ai suoi uomini, ma Hutch si è fatto un’idea abbastanza precisa del suo piano a lungo termine e quindi è arrivato a supporre che il gran capo abbia avuto la bella pensata di distribuire terreni ai suoi fedelissimi come incentivo per la loro lealtà. Come se, del resto, potessero davvero scegliere di non lavorare per lui! Le alternative, in quel lurido posto, sono talmente scarse che quel che rimane da scegliere, volendo escludere Bill Sant’Antonio, è morire di fame, arruolarsi in qualche stupido esercito oppure… beh, Hutch suppone che si possa prendere in considerazione l’idea di finire in convento, ma non è esattamente un’opportunità allettante, in particolare se l’unico tuo credo è quello del prossimo pasto da racimolare.
A proposito di pasti, potrebbe anche sbagliarsi, eppure negli ultimi giorni gli è parso di notare che le sue provviste scomparissero apparentemente nel nulla. Ora, ben inteso, Hutch ama nutrirsi regolarmente. Di fatti, da quel punto di vista, per Sant’Antonio sarebbe sufficiente procurare a Hutch scorte illimitate di cibo; in quel modo si assicurerebbe la sua collaborazione imperitura e incondizionata. Che diavolo d’altro potrebbe chiedere alla vita? Assolutamente nulla.
Resta il fatto che la sua personale riserva di formaggi, salumi e conserve si è inspiegabilmente assottigliata, e il tutto nel corso degli ultimi tre giorni circa. Ha il dubbio che possa trattarsi di qualche genere di incursione da parte di uno o più animali selvatici in cerca di un facile pasto. Pertanto ha deciso di tendere una trappola all’eventuale ladro di provviste e, se si tratterà di qualcosa di commestibile, alla fine sarà Hutch a mangiarsi il ladro, dopo averlo debitamente cucinato. Tanto peggio per lui, se ha scelto la sua dispensa per procurarsi i pasti regolari che al contrario toccano di diritto a Hutch!
╬╬
Il suo primo tentativo è abbastanza fallimentare: nessun ladro si è presentato a reclamare le provviste di Hutch. Se non altro, quella sera, ha cenato senza seccature. Perfino il gran capo se n’è stato tranquillo nel suo nascondiglio. Esito della prima sfida: pareggio.
Due giorni più tardi ci riprova, offrendo come posta una preziosissima forma di formaggio che conserva solo per occasioni speciali. In cuor suo spera vivamente che il ladruncolo non si azzardi a farsi vedere. Verserebbe lacrime amare e molto sentite per la perdita di quel formaggio. Quando fa ritorno a casa e la ritrova intatta nel punto esatto in cui l’aveva lasciata non sa bene se sentirsi preso in giro oppure sollevato. Il suo formaggio c’è ancora, quindi propende per la soddisfazione. Esito della seconda sfida: pareggio.
È ormai la fine della prima settimana dall’inizio della sua personale battaglia contro i ladri di provviste. Ogni singola mattina passa in rassegna la dispensa con maniacale attenzione. Il terzo giorno ha trovato uno spazio vuoto dove la sera prima c’era un vasetto di miele, ma invano si è guardato intorno in cerca di cocci di argilla o tracce appiccicose. Inizia a pensare di essere ammattito. Forse, dopo tutto, il miele l’aveva già finito durante la colazione. È molto seccante iniziare a nutrire dubbi sulla propria sanità mentale, quando dovrebbe limitarsi a dare la caccia al dannato ladro di provviste. Esito della terza sfida: punto per il ladro.
╬╬
La sua caccia al ladro di provviste viene interrotta in modo repentino e poco accorto da una nuova, meravigliosa trovata del gran capo. “Assaltiamo la diligenza portavalori!” ordina lui. Massì, facciamoci sparare addosso dalle guardie armate fino ai denti, pensa cinicamente Hutch. Tanto poi i soldi, sempre ammesso che riescano a metterci le mani sopra, rimarranno comunque nelle tasche del bastardo… cioè, di Sant’Antonio, che nella sua infinita magnanimità si prodigherà nel distribuirne una infima porzione ai suoi uomini. Ovviamente solo ad alcuni, sia ben chiaro. Non basterebbero certo per tutti, vero? D’altronde ha accumulato così tanti uomini per la sua banda, non lo si può biasimare se è costretto a scegliere. E se invece, per qualche inaspettata ragione, bastassero si tratterebbe di una somma ridicola e inutile. Questo, chiaramente, a detta del gran capo. Hutch crede che Bill Sant’Antonio abbia tratto le sue peculiari abitudini da certi politici: affermare di lavorare per il popolo, mentre si lavora per le proprie tasche. Il popolo capirà, come del resto fanno gli uomini di Sant’Antonio. Tutti contenti, insomma, finché non si smascherano le sue vere trame. Hutch aspetta con ansia che qualcuno si decida a scavare negli affari di Sant’Antonio, per divertimento personale più che altro. Lui? Oh, no, lui preferisce lasciar correre e vigilare sulle proprie provviste, fintanto che il gran capo non diventerà una reale seccatura.
╬╬
Nemmeno quel giorno Hutch è riuscito a beccare il ladro. Purtroppo non si è visto né manifestato in alcun modo, quindi Hutch suppone che si possa dichiarare un pareggio anche per la quarta sfida. C’è solo un piccolo problema: Hutch è stanco di fare la guardia alla sua dispensa. Preferirebbe di gran lunga andarsene in giro a trastullarsi, piuttosto che passare il suo tempo libero a ideare trappole di dubbia resa. Ma non sia mai che la lasci vinta a quel… quel… qualunque cosa sia! Le provviste sono sue e ha lavorato duramente per ottenerle. Più o meno. Oh, beh, non è proprio così, ma un poco del suo impegno ce lo ha comunque messo. Più o meno… Ma insomma! Non è il momento di sindacare sui suoi meriti. È il momento di cogliere in flagrante il dannato ladro e cuocerlo a fuoco lento.
E infine quella sera stessa, dopo aver inutilmente inveito al vento, aver cenato ed essersi steso a dormire il sonno dei negligenti, finalmente la sua grande occasione si presenta! E ovviamente Hutch sta dormendo della grossa, russando sonoramente nella sua piccola stanzetta proprio accanto al culmine degli eventi.
La finestra della sala attigua si schiude in un lievissimo cigolio imputabile soprattutto alla carenza di manutenzione da parte dell’abitante della dimora. Un’ombra allungata si profila attraverso la fessura appena creatasi e scivola sull’assito. Evita con fredda accuratezza i lignei listelli difettosi che rivelerebbero la presenza non invitata e si fa strada verso la dispensa. L’anta di destra è traballante, quindi preferisce l’accesso attraverso l’anta di sinistra. Sposta l’attenzione alla sala buia appena illuminata dal quarto di luna calante che brilla di fuori, rimane in ascolto di un qualsivoglia rumore rivelatore o della loro assenza, infine rassicurato torna al contenuto della dispensa e sceglie un pezzo di pane tagliato di recente e un piccolo insaccato stagionato. Con cura riaccosta l’anta di sinistra e ripercorre a ritroso la via dell’andata verso la finestra ancora socchiusa.
Una lieve brezza si fa largo da quello spiraglio lungo il pavimento, creando una leggera corrente d’aria. Questo particolare non lo aveva previsto né considerato. Eppure è proprio questo misero particolare senza apparente importanza che finisce per metterlo allo scoperto e alla mercé del padrone di casa.
«T’ho beccato, mariuolo!» esclama Hutch, esultante, dopo essere stato ridestato dal suo beato sonno per colpa di uno spiffero d’aria piuttosto fastidioso.
#Hutch “Earp” Bessy#Cat “Doc” Stevens#Bill Sant'Antonio#Dio perdona... io no!#fanfiction#Primo Incontro#avventura#R_Roiben_R
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