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Una ad una le persone che amo avere intorno si stanno adattando perfettamente allo starsene da soli chiusi in casa, perdendo ogni necessità di contatto con gli altri. Mimetizzati perfettamente con le proprie mura, con qualche sporadica apparizione su un social a caso. Abbiamo passato la fase dello shock, poi quella in cui abbiamo tenuto duro aspettando passasse il disastro, poi il disastro non è passato e allora ci siamo adattati, ognuno a modo proprio. Va benissimo così. Ma io invece ho ancora bisogno di chiacchierare e ridere con qualcuno, di provare a parlarsi e a vedersi e a toccarsi nonostante tutto, pianificare e creare cose assieme, chiedersi come stiamo, ascoltare musica insieme, immaginare, volersi bene soprattutto. Ma mi sa che sono rimasta l’unica ad avere di queste necessità così antiche e fuori contesto: mi imbarazzo quasi a provare questi slanci che agli occhi degli altri devono sembrare infantili e viziati. Dopo un anno di pandemia e lockdown intermittenti c’è una cosa che mi terrorizza molto più delle altre: che quando tutto sarà passato, o quando almeno potremo tornare a muoverci e vederci come ci pare e piace, non ne avremo più voglia.
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Non so se sono una tipa da colpo di fulmine con le persone, ma con i dischi sicuramente sì. Quando un disco mi fa impazzire, e mi fa esplodere il cuore di adrenalina al primo ascolto, vuol dire che me lo porterò dietro per sempre. Con “Album” dei Girls successe proprio così. Non ricordo esattamente quel momento, ma ricordo che certe canzoni diventarono la mia vita e le citavo (fosse anche a mente, canticchiandole) in continuazione. È andata avanti così per anni. Quando si tratta di ricordare cose che mi sfuggono, io apro Gmail e inizio a scavare. Volevo ricordare esattamente cosa facevo quando uscì questo album e ancor prima il singolo che lo anticipò. “Lust for Life” uscì a luglio del 2008 durante un’estate incredibile, di quelle che poi da adulto definisci “la più bella della mia vita” anche se poi all’epoca avevi sofferto come un cane (o almeno così ti sembrava). “Album” uscì invece quasi un anno dopo, era il settembre 2009 e vivevo un periodo molto entusiasmante, mi ero appena trasferita ad Amman per lavorare all’ambasciata Italiana. Parlavo dei disco dei Girls con Federico (che stava preparando un esame di medicina e stava sotto con le pasticche di passiflora) con una media di una mail al giorno per commentare qualsiasi dettaglio, dalla copertina a una foto di Chris e JR su MySpace - due pazzi. Una delle prime persone a cui lo mandai con un mediafire fu Carlo, che poi scrisse un tweet che è ancora lì. Enzo lo ascoltava a casa nuova da un nuovo laptop, tra gli scatoloni del trasloco e le lettere magnetiche colorate sul frigo. Giovanni aveva trovato un pulmino per iniziare il tour dei Chewingum in Francia e Spagna, e aveva registrato un organo hammond “che quando torni avrai timore”. Il ragazzino che sarebbe poi diventato mio marito mi mandava recensioni da pubblicare sul mio blog di musica. Che disco incredibile. Grazie JR, riposa in pace.

‘Lust for Life’ lyric sheet
(source: “The emotionally tender story behind Girls’ debut album” The Face)
:’)
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I met you at Enrico's party
You said you liked my cardigan I said 'I like your hat - I think I've seen you at the Barbican' You said you're tired of life You said you're tired of London We went back to you're place But I didn't have a condom But I didn't really care I just wanted your body next to mine A couple of days after that Or it might just have been sooner You said you didn't want to see me Although I was a good spooner You haven't got time for guys You need to focus on your studies And that you like me and all But you want us to be just buddies And although I was in great despair At least I had your body next to mine that night
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Caro Vincenzo,
ho letto le tue parole e francamente capisco cosa vuoi dire. Capisco perché vuoi evitare di esporti e dire a P. cosa pensi di lui, cosa senti quando siete assieme. Fare il primo passo non è mai semplice, la paura di essere rifiutati è paralizzante, il pensiero della bruciatura che ne può seguire è intollerabile. Ma io ti consiglio una cosa che ho imparato a fare sin da bambina, anzi forse così ci sono proprio nata: sono convinta che sia molto meglio rischiare sempre tutto in maniera incosciente, buttarsi a peso morto nelle braccia dell’intuito, dire qualsiasi cosa invece che rimanere fermi in un angolo e guardarsi circondati dalla propria solita ombra. E ti dico questo non perché io sia convinta che le cose siano destinate a mettersi sempre nella giusta piega, ma perché credo che valga davvero la pena cacciarsi ogni tanto anche in qualche dolore, in qualche guaio. È un modo sempre interessante di sentirsi vivi, si rifugge la noia, si impara a leggere il proprio cuore e quello degli altri, e soprattutto hai qualche storiella da raccontare al bar. Se la prendi con la giusta leggerezza può essere divertente anche soffrire come un cane.
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Tutti facevano quello che diceva Elsa
Con il cielo coperto e con l’aria monotona grassa di assenti rumori lontani nella mia età di mezzo (né giovane né vecchia) nella stagione incerta, nell’ora più chiara cosa venivo io a fare con voi sassi e barattoli vuoti? L’amore era lontano o era in ogni cosa?
Qualche sera fa mio suocero ha preso in mano il libro di poesie di Sandro Penna che lascio sparso in salotto, da leggere ogni tanto quando viene voglia. Con la faccia sorpresa e anche un po’ accigliata si è avvicinato e mi ha detto: “Hai un libro di Sandro Penna? Ma è famoso? Io lo conoscevo, era un poverino, una specie di barbone, lo incontravo sempre sotto casa a Trastevere e gli offrivo le cose al bar perché mi faceva pena.” A quel punto si è unita alla conversazione mia suocera che ha aggiunto: “Ma sì poverino, la sua casa era una cosa abominevole. Piena di giornali, stoviglie sporche, polvere, persino feci. Era depresso, si era lasciato andare completamente. Un giorno Elsa Morante convinse uno degli amici della nostra compagnia ad andarci a letto insieme per fare un’opera di bene. Noi eravamo tutti stupiti, scandalizzati quasi. Ma alla fine tutti facevano quello che diceva Elsa, era una specie di despota.”

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Caro Vincenzo,
ieri ho letto qualcosa che mi ha fatto sentire un po’ di imbarazzo. A dire il vero non è stato cosa ho letto, ma dove: ho trovato questa frase sfogliando una specie di tabloid, una rivista per donne che mi è capitata sotto gli occhi. Nella posta del cuore una lettrice si struggeva e confessava di essere completamente imbambolata di un uomo che sa a malapena della sua esistenza. La donna saggia e disillusa, dall’alto del suo ritratto ovale in alto alla pagina, le rispondeva: “Amore immaginario vale quanto amore reale, se si tratta di non riuscire a vivere.”
Ho continuato a pensare a questa frase, alla sua verità sconcertante, e a quanto un gesto sconsiderato come chiedere consiglio ad un tabloid possa essere a volte una buona idea. Spero che la ragazza possa aver trovato sollievo. Per quel che mi riguarda, tutte le volte che non sono riuscita a vivere per via di questo malessere immaginario, me lo sono davvero goduto.
Oggi pomeriggio ho passato parecchio tempo a guardare fuori dalla finestra, perché l’albero al centro del cortile di casa nuova ha fiorito delle meravigliose magnolie bianche che sembrano tante piccole scolare. C’era lo stesso tipo di albero, posizionato proprio al centro del cortile, in un ufficio dove lavoravo molti anni fa. Mi ricordo che ogni volta che alzavo gli occhi dal computer il mio sguardo si poggiava prima sull’intonaco rosso pompeiano della palazzina, antico e scrostato, poi sulle foglie lucide e giganti dell’albero, alto quanto e più del balcone che era il mio punto di vista. Era un bel modo per riprendere fiato.
Chiudo qui questa lettera (che è senza capo né coda, ma d’altronde la promessa di scriverci sempre comporta qualche compromesso) con una frase cantata in una canzone che sto ascoltando in questo momento, e che mi sembra faccia da esatto contrappeso a quella suggerita alla disperata del tabloid. È il piccolo racconto di un amore platonico, ma puntualmente corrisposto.
Credo che ci pensiamo con lo stesso interesse E c'è un appuntamento che nessuno ha stabilito E non c'è un obbligo ma una buona forza di rispettarlo
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Dalla prossima settimana andrà meglio
Due o tre volte l’anno mi ritrovo a mettere un cuoricino sulla frase di qualcuno che esprime più o meno questo concetto: l’età adulta è composta di infiniti momenti in cui ti dici “dalla prossima settimana andrà meglio”. Assieme, c’è il contro canto di chi dà la colpa di tutto al capitalismo, e di chi nel frattempo cerca appigli e risposte nell’astrologia. Che posso dire mai? Hanno tutti ragione.
Non sono di certo l’unica persona che si ritrova a vivere la propria vita in maniera frenetica (non ho neppure dei figli, figuriamoci), non sono l’unica che si sente sopraffare dal passare dei giorni, dalle scadenze e dalle cose da fare. Ciò che in questa situazione attrae il mio interesse però è la strategia che si usa spesso per controbilanciare tutta questa tensione, che a volte invece di alleggerire il cuore arriva a sotterrarci in strati di sensi di colpa sempre più profondi.
Aprendo Tumblr ad esempio guardo immobile un’immagine dopo l’altra, mi espongo passivamente a segnali molto diversi ma tutti coerenti tra loro (del resto li ho scelti io!) che liberano in me i pensieri più selvaggi. Tipo: la scritta fluttuante che dice qualche porcata con la quale finisco inevitabilmente per empatizzare. Cuore. Oppure: una gif che trasuda un afrore mediterraneo e che mi fa sognare una vita parallela che ovviamente non accadrà mai (una vita in cui posso affacciarmi alla finestra e vedere dispiegarsi davanti a me un paesaggio erotico e calmante, dune di origano, una vita in cui non ho un cazzo da fare tutto il giorno, guardo distratta i film di Agnes Varda, creo vasi, faccio la spesa, faccio l’amore). Inevitabilmente arriva poi un’immagine che ritrae una parte del corpo (una coscia, il lato di un seno, un pezzo di collo?) di una tipa bella, ovvio in maniera non banale, molto delicata. Provo subito attrazione ma anche molto fastidio per la sovraesposizione di corpi femminili e aspirazionali a cui sono sottoposta (segue qui inevitabile frustrazione riguardo le imperfezioni del proprio corpo: salto, grazie). Arriva un dipinto di un guerrigliero arabo che mi dà l’unico appiglio della giornata ad una parte di me che trascuro sempre, e che vorrei nutrire: è quella che guardava col cuore ripieno di gioia alle montagne rosa del Wadi Rum quando si facevano le sette di sera (dov’è andata a finire? Dove l’ho lasciata?). Romy Shneider sorride naturale sotto una camicetta gialla e mi ricorda di quando i colleghi di un vecchio lavoro passarono un pomeriggio intero a discutere di quanto somigliassi a Shirley MacLaine in Irma la Dolce (che poi non è vero per niente, ma quei collant verdi mi sono sempre piaciuti in effetti). Mi accorgo allora infine che ho finito per cercare sollievo in una serie ininterrotta di cose che potrebbero accadere, persone che potrei essere, libri che potrei leggere, racconti che potrei scrivere, corpi che potrei avere, progetti che potrei iniziare. Il senso di colpa è a un passo dal farmi soccombere alla deplorazione, penso teneramente che vorrei solo avere dei consigli da dei miei amici più grandi, imparare da loro e chiedergli come si fa (ma non lo sanno nemmeno loro, è per questo che sono miei amici).
Poi mi fermo un attimo perché lo shuffle di Spotify ha messo su “I was dancing in a lesbian bar” di Jonathan Richman. All’improvviso mi sorprende una sensazione di benessere e serenità, come se avessi rivisto mio padre dopo tanto tempo e lui avesse fatto un gesto inconsapevole e buffo e io avessi capito in un secondo l’ampiezza del bene che gli voglio. Penso alla volta che ebbi la fortuna incredibile di vederlo dal vivo: suonò in un locale a Monti che poi ha chiuso, si chiamava “Casa Clementina”. Era un bar ma si erano inventati questa stranezza di farlo passare per una casa: potevi bere in un vero salotto, in una vera cucina, etc etc (non facevano gli scontrini). All’epoca io avevo 25 anni e amavo Jonathan Richman come amavo qualsiasi altro musicista in quel periodo, non mi ero mai informata bene, non avevo mai letto la sua storia, non sapevo davvero la portata di cosa stessi andando a vedere. Mi ricordo che suonò in camera, io ero seduta o forse sdraiata proprio sul letto a un metro da lui, già un po’ vecchiotto ma ancora ispirato e genuino, molto bravo. Mi emozionò molto. Ma mi emoziono ancora di più adesso, a distanza di sette anni e mucchi di articoli letti sulla sua leggenda, a pensare che ho avuto la fortuna incredibile e sfacciata di poterlo ascoltare da ventenne in una minuscola camera da letto al Rione Monti, assieme a una decina di altri miracolati col cocktail in mano. Quali saranno i momenti che tra un po’ di anni ricorderò con assoluta gratitudine e devozione? Mentre ci rifletto su mi accorgo che crescendo riesco via via a riconoscere quei momenti quasi nello stesso momento in cui accadono. La prossima settimana andrà meglio.
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L’amore, che è la cosa più naturale al mondo, è anche la più cerebrale. E infatti lo riconosci solo quando entra nel tuo pensiero e ci resta. Un’inesausta immaginazione ragionante senza alcun esito pratico ai fini del piacere, e da cui però non ci si può sottrarre. Ricorda Dante? Amor che nella mente mi ragiona. È per questo che è necessario fare l’amore. Gli unici momenti in cui si smette di pensare a chi si ama è quando si è tra le sue braccia. Un gran riposo, anche fisico. Persi in quel vasto paesaggio che è il corpo amato, ci dimentichiamo delle nostre singolarità corporee, belle o brutte che siano.
Patrizia CavallI (via ninopoli)
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Pure scoprendo che quello che vedevo, e lo vedevo in te amore amato in verità non c’è, non c’è mai stato, forse per questo è meno vero? No, continua ad essere vero, e non perché così mi era sembrato, non si tratta di soggettività. Nessuno infatti avrebbe in sé alcuna qualità se non fosse per quel sentire che spinge a concepire mischiandosi all’oggetto un pensiero commosso per cui la nostra mente intenerita fa che la morte venga differita, almeno per un po’, giocando a questo o a quello, prestando al giocatore opaco il suo fervore, anche inventato.
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Affrontare la vita alla maniera di una suora etiope
Negli ultimi anni ho imparato a riconoscere uno schema ricorrente in alcuni dei miei ascolti più amati: ho sempre evitato di condividerli. Può sembrare un atteggiamento snob o misantropo ma dietro c’è una ragione precisa. Ed è che la costante battaglia per l’attenzione alla quale siamo sottoposti è stata semplicemente una delle cose che mi ha annoiato di più degli ultimi anni: le testate e i brand sgomitano per arrivare agli utenti, pagano per sponsorizzare i post, danno agli articoli i titoli più assurdi e antipatici, si prodigano in meme di instant-marketing, producono video totalmente inutili. Le persone, tra di loro, hanno imparato a fare altrettanto: un meccanismo infinito e asfissiante che si cancella e riparte daccapo ogni giorno, senza una finalità, come in Groundhog Day o in una banalissima storia di Instagram. Da anni sono intrappolata -come tutti- in questo meccanismo, e questo ha fatto sì che io stia perdendo gradualmente tante cose: per prima, la capacità di distinguere ciò che mi piace davvero da tutto il resto (e poi dedicargli il tempo, i soldi e l’amore dovuto). Per seconda: la capacità di leggere con cura un testo lungo senza saltare tra le righe in cerca della parola chiave. Terzo, la voglia di condividere le cose che amo con gli altri. Condividere ovviamente lo intendo come uno spartire in maniera empatica assieme a qualcun altro a cui voglio bene, non come il trasmettere un contenuto a senso unico a centinaia di utenti, come fossi un’emittente tv.
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Una musica che ho tenuto per me per un po’ di anni (con qualche piccola eccezione) è quella di Emahoy Tsegue-Mariam Guébrou. Guèbrou è nata il 12 dicembre del ‘23 ad Addis Abeba, in Etiopia, ed attualmente abita a Gerusalemme (esatto: ha 96 anni, suona ancora). Suo padre era un intellettuale etiope di spicco, e per questo durante l’infanzia studiò violino e piano in Svizzera, in Egitto e in Etiopia. La sua famiglia fu deportata nel 1937 sull’isola dell’Asinara e poi a Mercogliano (provincia di Avellino) durante l’invasione italiana del paese. Era destinata a studiare musica in Inghilterra, ma l’imperatore Haile Selassie le negò una borsa di studio, cosa che la fece cadere in profonda depressione e la spinse alla decisione estrema di ritirarsi a vita monastica in un luogo isolato nel deserto. Nel 1948, Guèbrou diventò quindi una suora cattolica, ma continuò a comporre particolarissime pièce per piano: il suo stile proto-jazz è influenzato dal pop etiope come dai canti di chiesa africani, senza dimenticare la dieta europea a base di Satie, Debussy e Chopin con la quale si è evidentemente formata. Un suono unico e ipnotico che dal primo momento che è arrivato alle mie orecchie interrompe all'istante qualsiasi cosa io stia facendo; un suono che mi cattura così tanto da avermi costretto a riascoltarlo centinaia di volte ancora nel corso degli ultimi cinque o sei anni.
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Qualche giorno fa, nella ricerca di informazioni su di lei (volevo sapere se fosse ancora viva: mi sono ripromessa di andare al funerale di un paio di musicisti che adoro), ho scovato un bellissimo “servizio” audio della BBC, un podcast diciamo, a lei dedicato. Lo trovate qui, dura mezz’oretta scarsa.
La giornalista della BBC fa quello che avrei fatto anch’io se avessi lavorato per la BBC: è andata a Gerusalemme per incontrarla e passarci un po’ di tempo assieme, accendendo un microfono. Il risultato è un racconto in prima persona di una vita assolutamente incredibile che intreccia fede cattolica e musica, due temi che molto raramente sono trattati assieme (a meno di risultati patetici). Dopo l’ascolto, ho capito che amo questa musica perché per me è come la punta di un compasso: traccia un tondo perfetto all’interno del quale convergono infiniti punti che mi riguardano. Per iniziare, il pianoforte e Debussy, che ho studiato, suonato e amato alla follia da ragazzina (ho questa polaroid in mente: io e mia sorella Amira, assieme al mio ragazzo del liceo Luca, e a Duzzy, un altro ragazzino conosciuto su Splinder che venne a passare qualche giorno d’estate con noi - tutti chiusi di notte nella mia cameretta, al buio e in silenzio, diciassettenni, ad ascoltare Debussy e a fare i romantici); il cristianesimo in cui sono cresciuta; una tensione spiriturale indefinita ma sempre presente; l’Italia; l’Etiopia (che a quanto pare c’entra qualcosa con il mio cognome e forse con i miei antenati); il deserto, tra i miei luoghi dell’infanzia e quindi del cuore. E forse tante altre cose ancora che non mi interessa rintracciare.
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Nel servizio della BBC questa pianista, ormai piccola sorridente e rannicchiata alla maniera di alcune vecchine dei film di Miyazaki, racconta della sua vita con una voce flebile ma ancora gioiosa. Narra al microfono della sua storia straordinaria come se fosse la vicenda più banale del mondo, e si capisce che non lo fa per falsa modestia, ma solo perché non conosce al mondo nulla di diverso. Non concepisce davvero altra forma di tristezza o felicità da quella propria. Mi è sembrato, a suo modo, uno stato di pace al quale mi piacerebbe arrivare un giorno, tra molti anni. Nel frattempo ascolto le sue composizioni e bevo vino rosso, sperando che condividere finalmente queste parole e queste canzoni abbia fatto piacere anche a voi.
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Caro Vincenzo,
hai mai pensato al silenzio? Non intendo nulla di poetico - mi chiedo proprio se ti è mai capitato di riflettere sulle pause nei discorsi, di pensare al tempo che hai passato in posti senza suoni. Io è un po’ di giorni che ci ricamo su. Ho letto di una ricerca un po’ bizzarra che spiegava come dopo quattro secondi senza parlare il peso del silenzio tra due persone diventi insostenibile: di solito si cerca di riprendere la conversazione a qualsiasi costo, perché gli umani associano il silenzio al rifiuto. Invece, io credo fermamente alla tenerezza delle cose dette con infinita fatica. Quanto è malizioso e insieme ammirabile il silenzio che serve a lanciare nell’aria una frase azzardata (magari preparata in testa da intere mezz’ore o addirittura giorni) e che svela in maniera naturale il potere distruttivo della nostra bocca? Volevo raccontarti quindi della prima volta che ho notato davvero un silenzio. Ero con L. nel giardino di Fabietto, al torrente. Era un’estate senza viaggi, così decidemmo di passare qualche giorno in questa casetta bassa sommersa da alberi e cespugli, dove non prendeva il telefono né la tv. Non c’era uno stereo, non c’era una radio, zero musica e trasmissioni. C’eravamo solo noi, i grilli e le cicale. I primi due giorni è stato idilliaco come sembra: un riposo infinito. Man mano però abbiamo iniziato a parlare sempre meno tra noi tre. Forse avevamo finito le cose da dirci, forse senza stimoli esterni non avevamo spunti di conversazione; ci stavamo naturalmente adattando ad una quantità di silenzio enorme e che faticavamo ad assorbire. Al quarto giorno era andata a finire che ci guardavamo e basta. Ogni tanto io e L. sparivamo, ogni tanto spariva Fabietto. Se faceva troppo caldo andavamo a camminare dentro il torrente con tutte le scarpe (era troppo ghiacciato per andarci scalzi). Poi tornavamo e cucinavamo, Fabietto tirava cose dall’orto, e dopo poco tornavamo con estrema naturalezza in un mutismo profondo che sembrava una perdita di contatto con la realtà, una cosa quasi insopportabile per degli umani. Una mattina, forse al quinto giorno, Fabietto dormiva ancora. Io e L. leggevamo in salotto quando sentimmo una macchina avvicinarsi al giardino. Mi affacciai, era un uomo che cercava di suonare il campanello, senza emettere però alcun suono. Era rotto. Avrei potuto avvicinarmi allo sconosciuto e aprirgli, ma da ospite pensai fosse più opportuno fargli un cenno e avvertire invece il padrone di casa, ancora in fase rem. Così entrai velocemente in camera sua, gli picchiettai la spalla con delicatezza e cercai di bisbigliare “c’è un tizio fuori che chiede di te”. Gli parlai d’istinto con un filo di voce, ma il silenzio attorno fece sì che invece lui si svegliasse di soprassalto, quasi saltando, come se gli avessi squillato una tromba in un orecchio, una scena da cartone animato. Senza neppure vedermi e con gli occhi quasi chiusi si tirò via di scatto le lenzuola di dosso, poi completamente nudo e con una gloriosa erezione mattutina andò verso la porta di casa come se niente fosse. Non menzionai ad L. dell’apparizione, non so quanto Fabietto si vergognò del gesto istintivo che fece suo malgrado, ma nel dubbio il pomeriggio stesso tornammo a casa, al baccano di sempre.
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Per la prima volta in molti anni, quest’estate non ho pubblicato alcuna storia o foto in tempo reale delle mie vacanze. L’ho fatto per istinto naturale: questo irrefrenabile stimolo di condivisione fatua e fine a sé stessa che sembra aver pervaso le nostre esistenze mi ha messo la nausea già da un po’, e proprio quando pensavo di non poter fare a meno di soccombere a questa abitudine, proprio quando mi rassegnavo a trovare un modo per limitare almeno i danni, ho trovato non so dove la volontà di tirarmi fuori, seppure per qualche settimana. C’è da dire poi che le foto del mare, per quanto belle o ispirate possano essere, dopo un po’ si somigliano tutte. Come ha detto il mio amico Andrea: “Ho visto talmente tante stories di talmente tanta gente che non so più se le vacanze che ho fatto erano le mie o quelle di qualcun altro”. Con questo non voglio dire che ci sia qualcosa di male nell’usare Instagram per condividere più volte al giorno i dettagli della propria quotidianità, tutt’altro: tramite le storie mi diverto molto a visitare virtualmente posti meravigliosi dove non sono mai stata (e forse dove non andrò mai), imparo, rido, faccio ricerche, guardo immagini piacevoli che a volte leniscono le giornate. Eppure credo che la mancanza di filtri (pun intended) sia deleteria; sono convinta che condividere contenuti indipendentemente dal loro valore personale o oggettivo, e per il solo gusto di esserci, sia mortificante e inquinante. Ci vorrebbe una sorta di risveglio delle coscienze sull’ecologia digitale: una Greta Thunberg che accigliata ci trasmetta un terribile senso di colpa ogni volta che sprechiamo la preziosa occasione di tacere. Comunque. Se proprio avete curiosità di sapere che aspetto avessi quest’anno sulle solite spiagge all’Argentario o sulla Costa Merlata, sappiate che ero più o meno come queste due tipe qui sopra: al riparo dalla tramontana.

Marc Riboud A l'abri du Vent du Nord sur la Plage Hollande 1960
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That summer feeling That summer feeling That summer feeling When there's things to do not because you gotta When you run for love not because you oughtta When you trust your friends with no reason not to (nada) The joy I name shall not be tamed And that summer feeling is gonna haunt you One day in your life.
When the cool of the pond makes you drop down on it When the smell of the lawn makes you flop down on it When the teenage car gots the cop down on it The time is here for one more year And that summer feeling is gonna haunt you One day in your life.
That summer feeling That summer feeling That summer feeling If you've forgotten what I'm naming You're gonna long to reclaim it one day Because that summer feeling is gonna haunt you One day in your life.
And if you wait until your older A sad resentment will smoulder one day And Then that summer feeling is gonna haunt you And that summer feeling's gonna taunt you And then that summer feeling is gonna hurt you One day in your life.
When even fourth grade starts looking good Which you hated, And first grade's looking good too, Overrated, And you boys long for some little girl That you dated Do you long for her of for the way you were, That summer feeling shall haunt you the rest of your life
When the Oldsmobile has got the top down on it When the catamaran has got the drop down on it When the flat of the land has got the crop down on it Some things were good before and some things never were But that summer feeling is gonna haunt you One day in your life.
Well when your friends are in town and they've got time for you When you were never hanging around and they don't ignore you When you say what you will and they still adore you Is that not appealing, it's that summer feeling. That summer feeling is gonna haunt you One day in your life.
It's gonna haunt you It's gonna taunt you You're gonna want this feeling inside one more time. It's gonna haunt you It's gonna taunt you You're gonna want this feeling inside one more time.
One more thing... When you're hanging around the park with the water fountain And there's the little girl with the dirty ankles cuz she's On the swings, you know, and all the dust is kicking up And you remember the ankle locking And the way she flirted with you For all this time, how come? Well that summer feeling is gonna haunt you One day in your life. You'll throw away everything for it. You'll throw away everything for it.
One more thing... Well when the playground that just was all dirt Comes haunting. And that little girl that called you a flirt Memory comes taunting You pick these things apart they're not that appealing You put them together and you'll get this certain feeling And that summer feeling is gonna haunt you One day in your life. It's gonna haunt you It's gonna taunt you You're gonna want this feeling inside One more time. Sarà la pms, l’ultimo giorno prima delle ferie, la mente esausta, l'ansia da crisi climatica, quello che volete. Ma oggi, ora, questa mi sembra la canzone più bella del mondo, e Jonathan Richman l’artista a cui voglio più bene al mondo
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Caro Vincenzo,
per quanto abbia cercato di evitarlo, stasera mi sono fatta prendere dalla nostalgia. So che è un’abitudine insalubre, che molti fraintendono per qualcosa di poetico e invece non lo è affatto, è solo la pigrizia dei romantici. A me in fondo ispira tenerezza e anche comprensione, è una debolezza umana che tutto sommato non fa male a nessuno se non a chi ci passa dentro troppo tempo, magari senza cavarne nemmeno una storiella buona per uno spunto di conversazione. Però certe sere (che poi si trasformano in certe settimane, mesi, a volte anni) non riesco a sottrarmi a questo richiamo, a questo sentimento che mi dà quasi dipendenza. Comincio a pensare a tutte le cose che mi mancano terribilmente: schiantarmi di proposito in relazioni di cui non ho nessuna sicurezza se non quella del tocco, della voglia di toccare ed essere toccati; il potere di far sentire un uomo anziano e malinconico; essere indifferente, avere una costanza e una determinazione tutta riservata a ciò che è necessario fare, senza prendere scorciatoie, o prendendole sentendomi terribilmente in colpa (cosa di cui in realtà non posso avere nostalgia, perché non mi è successo in nessun luogo mai). Amare, poi morire di delusione, languire e sentirmi scema. Consolarmi con un gelato (“Io che qui sto morendo, e tu che mangi il gelato”). Vivere le giornate senza contezza, planando sulla superficie delle cose come fossi una passante in una foto di Ghirri (che poi ogni estate, ad Orbetello, cerco le due palme con la panchina nel mezzo, non le trovo mai). Soprattutto, mi prende forte quando ripenso all’abitudine che avevamo di perdere le ore assieme senza nessuna pretesa, anche annoiandoci; quei pomeriggi passati ad aspettare che si facesse sera seduti all’ombra, a parlare su qualche scalinata liscia, a guardare le automobili parcheggiate vicino a noi che diventavano arancioni quando si asciugava la sabbia piovuta sopra qualche giorno prima. Settimane intere impiegate a parlare di niente e a guardare tra i rami dei pini per vedere passare qualche pappagallo verde chiaro. Ma poi com'è possibile che avessimo così tanto tempo libero? E com'è possibile che nei miei ricordi Roma fosse sempre così tropicale?
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“Petja è stato il primo uomo con cui dicono io l’abbia tradito. Certo, mi piace molto, ma mi piacciono anche le betulle, l’acqua scura della Neva, gli steli d’erba, i libri, la musica… Non mi sono certo mai sottratta all’amore - e perché? Come avrei potuto sottrarmi al loro potere, in questo mondo di pienezza che voglio mangiare come una torta? E poi che cos’è la fedeltà, in fondo, se non fedeltà a un punto, un centro, che comunque non può essere scalfito dai passanti? La fedeltà di cui parlate è solo eroismo o buona educazione. La mia non ha nulla a che vedere con la contingenza - è piuttosto una forma di assenza, la mia fedeltà. Per questo non ho mai tradito Sergeji da quando è diventato mio marito. Sergeji è il ricordo del nostro incontro sulla spiaggia a Koktebel’ ed è l’immagine della corniola che stringeva tra le dita: non può, semplicemente, essere tradito. Sta lì come una pietra.” Non mi stancherei mai di leggere Marina Cvetaeva e le sue adorabili riflessioni sull’unico tipo di amore che era capace di provare: quello selvatico
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When the heart gets too tender Return it to the sender Be more centered If you miss your friend Call them again
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