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scenariopubblico · 4 days
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Intervista a Joy Alpuerto Ritter
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Ex danzatrice della Compagnia di Akram Khan oggi Joy è assistente alle coreografie e ripetiteur nonché coreografa freelance. Nata a Los Angeles e cresciuta a Friburgo in Germania, oggi vive a Berlino. Alcuni giorni fa si è collegata da Londra per incontrarci su Skype. Di mattina, prima di iniziare la giornata di prove, ci ha raccontato della sua storia ripercorrendo il lavoro con Khan arrivando poi alla sua attività di oggi.
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Photo by Jean-Louis Fernandez
Ricordi il primo incontro con Akram Khan? Che percezioni hai avuto e come sono cambiate nel tempo?
Penso che il mio primo incontro con Khan non sia stato granché speciale perché, impegnata con una produzione del Cirque du Soleil, non ho potuto partecipare all’audizione ufficiale. La compagnia è stata molto generosa però a offrirmi l’opportunità di fare un’audizione privata con il direttore delle prove Jose Agudo che ha poi mostrato il video a Khan. Quindi, attraverso il video, Khan mi ha scelta e invitata per un suo nuovo progetto nel 2013. È stato strano perché io non lo avevo mai incontrato e la prima volta è successo in Francia per una cena con tutta la compagnia. Lì abbiamo parlato per la prima volta, ricordo in particolare dello spettacolo su Michael Jackson che avevo appena fatto con il Cinque du Soleil.
Nel primissimo periodo ricordo di essermi sentita molto nervosa, ero l’unica nuova nella compagnia quindi Khan conosceva già tutti e mi sentivo sotto esame. Ho imparato tantissimo: il lavoro era molto giocoso con tantissime improvvisazioni, ma anche con tanto materiale coreografico. Khan usava due strade per conoscere al meglio i nostri punti forti ma soprattutto la nostra personalità, un aspetto importante per quel lavoro caratterizzato da diversi personaggi.
Ricordi il nome del progetto?
Era iTMOi (nella mente di Igor). Ciò che mi ha messo alla prova è stata la fisicità del lavoro, le rotazioni, i miei piedi bruciavano al pavimento. Khan chiedeva tantissima energia ed era anche molto sfidante in termini di ritmo. Io non desideravo altro, ero in quella fase in cui stavo imparando e volevo farlo il più possibile. Khan è una persona davvero rispettosa e sa come essere esigente con i suoi danzatori spingendoli sempre al di fuori della loro comfort zone.
Durante i suoi processi creativi collabora con i danzatori?
Dipende dal progetto, per esempio ricordo che abbiamo collaborato per Kaasha e iTMOi e abbiamo anche danzato insieme con lui in Until the lions. Danzare con lui è stupendo. C’era tantissima potenza che riuscivo a cogliere e dare ai suoi pezzi; lui non si aspetta altro che il massimo. Bisogna essere sempre focalizzati sul lavoro senza mai marcare.
Qual è il training quotidiano della compagnia?
Dipende anche qui dal progetto. Solitamente il direttore delle prove si occupava della lezione di riscaldamento e rafforzamento con una lezione di danza contemporanea. Poi danzavamo anche il Kathak – che è la base del lavoro di Khan insieme a un mix di danza tradizionale indiana, danza contemporanea e altri stili di danze folkloriche. Di base si trattava di danza contemporanea o di un altro tipo di training fisico (come lo yoga), poi il Kathak e poi le prove. Il riscaldamento durava più o meno due o tre ore. Il suo è un lavoro davvero corposo e in quel contesto non importava mai quanto si riuscisse a fare in termini di quantità. Ciò che contava era sempre di avere una buona preparazione fisica ed essere pronti per le prove. Alla fine della giornata spesso facevamo anche degli esercizi per migliorare le nostre capacità ritmiche, con pattern ritmici che cantavamo e seguivamo con i passi, spesso molto difficili!
Cosa vuoi trasmette del lavoro della compagnia, soprattutto per coloro che non hanno mai fatto esperienza del lavoro di Khan?
Credo che si debba avere innanzitutto la volontà che ti permette di impegnarti al massimo. Invito tutti coloro che parteciperanno a fidarsi del viaggio che faremo e di permettere a loro stessi di andare a fondo della ricerca e mettendola anche in discussione.
Ciò che importa è la qualità, non conta la quantità di cose che si è in grado di fare. Non importa quanto posso fare ma come posso farlo. Questo vale pe tutto dal movimento più virtuosistico fino al semplice stare in piedi fermi. Il focus è sull’estremità e non su quale movimento mi rende un grande interprete; spingerò molto in questa direzione, perché essere un bravissimo danzatore non significa essere un grande performer e viceversa. Tutto sta nel come si trasmette al pubblico, di certo bisogna avere la tecnica ma non solo. La combinazione dei diversi aspetti è la soluzione! Per questo è importante capire il miglior approccio mentale per danzare, che include sacrificio e impegno. Bisogna anche credere e fidarsi nel percorso che si fa e permettere di andare sempre più a fondo.
Ora che sei anche coreografa, quali esperienze del passato pensi ti abbiano segnato di più?
Il mio background da danzatrice è stato sempre versatile: ho iniziato con la danza classica, poi con la danza folklorica filippina, mia madre mi ha insegnato la danza tradizionale asiatica poi ho studiato danza contemporanea, jazz e hip hop.
Sono sempre stata curiosa, volevo ispirarmi a più stili e ambiti di danza: quello professionale rimanendo legata anche al senso di comunità che ha la danza popolare.
Ciò che porto con me è un mix di stili e penso anche al Kathak di Akram. Da coreografa sto provando a connettere tutto ciò che ho provato nel mio corpo per raggiungere una libertà di espressione personale. Questa modalità mi proviene da Khan che dice sempre: «Trova il tuo modo». Mi ci è voluto un po’ per capirlo.
Un’ultima cosa importante è il lavoro di Khan con diversi personaggi, in Untile the Lions e iTMOi ad esempio. Lui usa storie ma invita ogni volta ogni danzatore a creare la propria.
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Photo by Jean-Louis Fernandez
Do you remember your first meeting with Akram Khan? What kind of sensations did you live and how these emotions changed during the time?
I think my encounter was first time quiet not special, because I auditioned a second time. I came from Cirque du Soleil, I couldn’t enjoy the official audition, so the company was generous to make a private audition with the rehearsal director Jose Agudo. I was auditioned with him, and he showed the video of my dance to Akram. Then, through the video, Akram invited me to the first research of a project in 2013. It’s weird because I had never met him in my life, the first time we were in France with all the dancers in a restaurant. We had a private conversation, especially about Michael Jackson Circle du Soleil show. At the beginning with the company, I was nervous because he knew the other dancers already and I was new, it looked like a test. At the beginning dancing was very playful with lots of improvisation, but he also gives a lot of choreographic material, so as both to know our special skills and getting to know our personality especially for that project where there were a different kind of characters. I learned so much!
Do you remember the name of the project?
Yes, iTMOi (In the mind of Igor). What I really was memorized and challenge by was also really grounding physicality and spins; my feet were burning on the floor. This was a special technique that really push you and challenge you also in terms of rhythm. I really wanted that challenge because I was in the phase of learning as much as possible as dancer. He is very respectful, but he really knows how to push people out of their comfort zone.
During his creative process does he collaborate with dancers?
It depends on the project. For example, in the beginning yes for Kaash, iTMOi and we also danced together in Until the lions. Dancing with him was amazing. There was a lot of power that I was able to discover in his pieces, he expects you to really go for it. No marking, you go for it very focused. I really like the balance between be respectful and very challenge.
What is the physical training did you do with him daily?
It depends on the project. At the beginning we had the rehearsal director giving us a warmup, strengthening out the body, in contemporary dance. Than we also dance kathak – which is the base of his work mixed with Indian classical dance, contemporary dance and also other folk dances style. Basically, the training was contemporary dance or different training (as yoga), kathak than we went to rehearsals. It’s around two or three hours. It is a very consistency training, it does not matter how much you tour, the quantity; It is important to have a good base of physical fitness. At the end of the rehearsal, we used to improve our learning and rhythm with different and challenging patterns.
For those who don’t know your work, what is the physical focus that you want to transmit to the dancers?
I think there is some feeling allow to commit. I invite them to trust in the journey and allow yourself to go deep search also questioning. It is important the quality, not even the tricks or to impress but the quality. It is not important the quantity, not what I can do but how I do it. From very virtuous physical movement versus just standing still. The focus is extremities not which movement makes me a great performer. Of course I will push in this direction, because great dancer does not mean great performer and vice versa. It is about how to transmit to the audience and space and of course we have the technique so that combination is the answer. It is important to understand the best mental approach to dance, which involves sacrifice and commitment, you also need to have trust in the journey, and allow yourself to go deep. It’s important the quality, how I do something, either a physical movement or just standing still.
Now as a choreographer what aspects of his work and your past experiences made a sign in your today’s work?
My dancing background has been versatile: I started with ballet, Philippine folk dance, my mum taught me Asian folk dance, then contemporary dance, jazz, and hip hop, I also did hip hop battles! I was always curious, I wanted to be inspired by different styles and fields. Professional of course but also remaining close to the sense of community of the popular dance. As a choreographer I’m trying to connect different styles that I have tried in my body, and I try to achieve the freedom to express through these different styles. It is from Akram: “Find your way”.  You get inspired by different techniques and styles and then make it your own, it took me a while to that. Lastly, another thing is that I like working with characters. I worked with Akram on Until the Lions and iTMOi. He uses stories but he invites every time to make it to your own.
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Photo by David Scheinmann
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scenariopubblico · 8 days
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Aspettando il FIC dance workshop in dialogo con Maud de la Purification
Danzatrice e assistente alle coreografie della Compagnia Zappalà Danza, nel 2011 ha incontrato Roberto Zappalà e da allora vive a Catania. Quest’anno ha ricevuto il Premio Danza&Danza come migliore danzatrice del 2024 per la sua interpretazione solistica nello spettacolo Oratorio per Eva. Parliamo di Maud de la Purification storica componente dell’ensemble catanese che incrociamo ogni giorno tra gli spazi di Scenario Pubblico ma che, in occasione del FIC dance workshop, abbiamo voluto incontrare per farci raccontare la sua storia.
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Qual è il tuo percorso di formazione nella danza?
Ho studiato al conservatorio di danza classica di Tolosa e a diciotto anni dopo aver ottenuto il diploma ho frequentato per qualche mese la scuola del Ballet National de Marseille dove poi stata presa come stagista. La compagnia era diretta da Marie-Claude Pietragalla e quell’anno tra le tappe del tour di Giselle c’era anche il Teatro Bellini di Catania. Ricordo molto bene quel momento. Il primo contratto ufficiale l’ho avuto a Tolosa nella compagnia Balanchine che era per me quella del cuore. Per la direttrice – che aveva lavorato con Balanchine – ero però troppo “modern” così non mi ha rinnovato il contratto dopo il primo anno. Mi sono trovata con una ferita enorme. Una signora dell’amministrazione, però, mi aveva parlato di Kylian consigliandomi di provare per la compagnia junior.  Così mi sono impuntata e ho creato un solo, sapendo che, ufficialmente, non avevo più l’età per rientrare nella compagnia giovane che sarebbe venuta a Toulouse in tour. Nel frattempo, avevo ottenuto un contratto – la mia ultima esperienza con la danza accademica – quindi la sera conclusa la giornata mi mettevo a lavorare per il solo che, incredibile, si chiamava Eve (cioè Eva). Quando sono andata a vedere NDT, ho consegnato il mio CD al direttore e poi mi hanno invitata all’audizione. Proprio quell’anno hanno richiesto un solo e ho finito il mio proprio davanti a Kylian. Purtroppo, non c’era posto nel gruppo, ma una ragazza ha abbandonato in corso e così mi hanno chiamata. Dopo un anno, ho deciso di andare a New York dove durante un tour avevo fatto amicizia con dei danzatori della Cedar Lake. Lì è stato un periodo molto libero, ho lavorato con una giovane coreografa, poi sono andata a Berlino per fare una residenza e sono rimasta per lavorare in un altro progetto con un coreografo che aveva ideato una propria tecnica, molto mista, partendo da un background di hip hop. Era un momento non felice della mia vita e proprio in quel periodo ho capito tantissime cose del mio corpo.
Quando e come è iniziata poi la tua collaborazione con Roberto Zappalà?
Era il 2011 e stavo lavorando a un progetto con un ex collega dell’NDT al Korzo theater. Quello con Zappalà era un vero e proprio stage-audizione e il mio amico me lo aveva consigliato…così ho incontrato Roberto. Avevo un ginocchio infortunato e durante l’audizione ho iniziato ad avere dolore. Quando è arrivata la pausa ho preso le mie cose per andare via ma Roberto mi ha vista e mi ha chiesto “Cosa fai?”. Ho spiegato che non potevo farmi male, avevo uno spettacolo da fare, ma lui mi ha chiesto di rimanere, mi ha detto che potevo fermarmi quando volevo e così sono rimasta. Poi mi hanno chiamata e, così, sono arrivata a Catania. Ho lavorato con persone bellissime e ho deciso di rimanere. Nonostante non volessi entrare in una compagnia, ho subito accettato il contratto, era evidente che c’era qualcosa che mi aspettava qui.
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In quanto danzatrice e ripetiteur, qual è, secondo te, la cosa importante da trasmettere a chi farà il workshop?
Questa è la bellezza che mi nutre ogni giorno quando insegno Modem: avere le migliori condizioni per accedere al momento presente. Non c’è spazio per altro, hai la possibilità per un’ora e un quarto senza stop di rimanere nella tua concentrazione – ed è una cosa speciale, perché di solito ci si ferma. Per me questa è la cosa più interessante e nobile da cercare nella danza. Essere qui, che poi è il migliore degli allenamenti per il palco. È una concentrazione e una presenza che si chiama onestà. Chi sono in questo momento? La cosa meravigliosa poi è portare sul palco quello status cercato a lezione. In questi stati si accede a una tale onestà, apertura e non c’è più il tabù, il pudore. Il pudore che viene a sporcare il danzare. In quella condizione il pudore viene eliminato da sé, non perché si vuole eliminarlo. Essendo presente in quel momento, senti il flusso che davvero ti attraversa e rimbalza nel corpo e se c’è una certa intensità richiesta dal task si accede a qualcosa di vero quindi il viso sarà specchio della pancia e non ci sarà più una maschera dell’essere presentabile. Sono quello che c’è. Ed è la cosa più onesta che si possa cercare. Cos’è danzare? Perché lo faccio? Si creano poi delle situazioni con il gruppo che non puoi riprodurre da solo. È anche incredibile percepire l’influenza degli altri, di quello che succede attorno a me. Se qualcuno ha un giorno down lo sentiamo tutti. In quel caso è meglio osservare, prendere appunti…si impara lo stesso. Possiamo creare una magia d’armonia se ognuno è responsabile della sua presenza. Si arriva a cose incredibili, speciali. Non c’è una mosca che vola, è super bello.
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scenariopubblico · 10 days
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Rosario Guerra: intervista per il FIC Dance Workshop
In attesa dell’inizio dei workshop curati da Ocram Dance Movement nell’ambito del Catania Contemporanea/FIC Fest ci siamo messi in contatto con i danzatori invitati a condurre le lezioni per poterli conoscere meglio. A rispondere in questa prima breve intervista è Rosario Guerra che sarà presente a Catania dall'8 al 12 maggio in qualità di ripetiteur del repertorio di Marco Goecke.
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Ricordi com’è stato il tuo primo incontro con Marco Goecke? Quali sensazioni hai vissuto entrando sempre più in contatto con il suo lavoro?
Il mio primo incontro con Marco é stato a Stoccarda, ricordo che stavamo lavorando su un solo I found a fox, e già li mi sentii catapultato in questo nuovo modo di creazione. Lo scrutavo da lontano, ero piccolo ed ero ancora tanto timido ma super eccitato. Stavo riscoprendo un nuovo me. Marco riuscì a farmi conoscere nuove sensazioni mai sentite prima. Riusciva a leggere il mio umore e a farmelo usare nel migliore dei modi. E cosi é stato poi per il resto dei suoi lavori: ogni volta mi ritrovavo in un ambiente diverso, sempre più challenging, puro e stimolante. Ancora oggi quando entro in sala non so cosa sarà ma di sicuro si dovrà affrontare una nuova sfida, che, secondo me, it’s a must per un danzatore.
Qual è il suo training quotidiano e il suo processo di creazione insieme ai danzatori?
Come dicevo con Marco non si può avere una routine nel quotidiano, lui é un artista cosi sensibile che percepisce il nostro stato d’animo; perché l’uno non funziona senza l’altro, ci si deve connettere altrimenti non si va avanti. Bisogna adattarsi alle esigenze dell’altro per entrare nel suo processo di creazione. E quando questo inizia non si perde né tempo né animo. Marco ha un modo di fare coreografia molto unico e inimitabile. A volte é più facile viverlo che spiegarlo.
In quanto danzatore e ripetiteur, cosa vuoi trasmettere del suo modo di lavorare ai partecipanti che non hanno mai lavorato con lui? Qual è il modo per avvicinarsi alla danza di Goecke?
Cercherò di fare del mio meglio per far entrare i partecipanti nel suo stile. Cercherò di far aprire il loro cuore e di stimolarli a fidarsi del proprio istinto esprimendo ciò che realmente sono, proprio cosi come fa Marco con noi.
Infine, cosa ti ha segnato di più del suo lavoro che pensi rimarrà per sempre importante per la tua carriera da danzatore e magari autore?
Si fa fatica a lavorare con altri, solo con pochi si può avere la sensazione di libertà e onestà che Marco ti fa sentire quando ci lavori insieme. Questa sensazione farà sempre parte di me e cercherò di trasmetterla il più che posso al prossimo, sia nell’arte sia nella vita.
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scenariopubblico · 17 days
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Angolo di salvezza
Ormai solo un DIO ci può salvare
Martin Heidegger
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Ph. di Balto Videomaker
Se per far esistere qualcosa basta darle un nome, forse così non è per gli esseri umani. A loro serve essere pensati, essere guardati ed in definitiva, quindi, essere amati. Solo per questo, forse, Barabba ha compiuto quegli atti osceni, perché si sentiva escluso dal mondo che lo circondava. Inneggiava la delinquenza, la menzogna e l’odio probabilmente solo perché non conosceva l’amore. In conclusione dello spettacolo diretto da Teresa Ludovico (testo di Antonio Tarantino), nel momento in cui Gesù si sacrifica per lui, ecco… ecco che per la prima volta capisce che a qualcuno importa di lui, realizza per la prima volta che esiste altro oltre il male che era abituato a fare e a ricevere, quasi senza pensare a ciò che faceva. Tolstoj diceva «non fate il male e il male non esisterà». L’antidoto ai mali del mondo sarebbe, in definitiva, il bene? Troppo semplice risolvere un’equazione che si morde la coda dall’inizio dell’esistenza citando solo “il bene o il male”. Bisognerebbe perciò capire chi ha inventato il male, compito non semplice, in cui l’uomo si diletta da secoli senza riuscire a darsi una risposta probabilmente poiché la risposta sarebbe brutale e cioè… l’uomo stesso.
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Ph. di Balto Videomaker
«Non si può asciugare l’acqua con l’acqua, non si può spegnere il fuoco con il fuoco, perciò non si può combattere il male con il male» diceva Lev Tolstoj.
Barabba non era mai stato trattato adeguatamente da nessuno, come si poteva pretendere che trattasse piacevolmente gli altri? Riesce a sentirsi, per la prima volta, minimamente integrato in questo piccolo-grande mondo nel momento in cui gli viene dato amore. Gli proviene proprio da colui che aveva insultato chiamandolo “povero illuso”, colui che non riusciva a compatire; ormai alienato dai trattamenti ricevuti in prigione, come se vivesse in una bolla di sola malvagità, in cui non si riesce a provare altro che odio verso chi ti sta attorno. I monologhi all’interno dello spettacolo veicolano messaggi strazianti con tono rassegnato come se niente mai potesse cambiare. Nemmeno un “dono” da parte di un altro carcerato, da cui si è ereditata la cella, permettono di cessare le vessazioni allessitimiche di Barabba. Nulla può fargli cambiare idea, eccetto l’amore. Quell’idea fredda che ha degli uomini veicola tutte le insicurezze che, in primis, nutre verso sé stesso.
Sarebbe stato interessante chiedere a Barabba se pensasse di conoscersi. Cicerone diceva «quando si dice all’uomo “conosci te stesso”, non è soltanto per abbassare il suo orgoglio, ma è anche per fargli sentire quanto egli vale». Barabba, possiamo immaginare, nonostante si vantasse dei suoi continui crimini, di cui era rimasto prevalentemente impunito, non credeva davvero alle sue parole, forse vagavano nel suo cervello esclusivamente per convincersi che quello che faceva era giusto e tutti gli altri erano degli stolti.
Secondo Mark Twain, «i due giorni più importanti della vita sono quello in cui sei nato e quello in cui capisci perché». Crediamo che Barabba nel giorno del perdono abbia compreso il suo “perché”.
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Perché Barabba voleva convincersi di ciò?
Sicuramente, in primis, perché nessun uomo vuole pensare al fatto che quello che sta facendo sia sbagliato ed è sempre più facile puntare il dito verso gli altri piuttosto che guardarsi allo specchio. Come disse Luigi Pirandello d'altronde «Notiamo facilmente i difetti altrui e non ci accorgiamo dei nostri». Qui sottolineiamo che il problema non sia solo di Barabba in quanto uomo “spregevole” già di suo, bensì di tutti gli esseri umani. Difatti nello spettacolo viene messo in luce come le guardie delle prigioni abusavano in maniera oltraggiosa del loro potere sui prigionieri. Barabba, nei suoi monologhi, raccontava di tutte le atrocità che doveva subire all’interno di quelle celle e di come la realtà fosse ben diversa da quello che doveva essere in base alle regole stipulate all’epoca. Inoltre parlava anche di come al di fuori delle celle venisse raccontato che la loro situazione di vita all’interno delle prigioni fosse ottimale e che ovviamente ciò, non corrispondendo al vero, andava solo ad aumentare l’astio che si aveva nei confronti dei carcerati causando abbondanti richieste per ridurre il loro status di “comfort”, che nella realtà non esisteva. Ovviamente, la storia raccontata dal punto di vista di Barabba avrebbe fatto cambiare idea a coloro che, al di fuori di quelle mura, votavano contro di lui, ma egli era lì dentro e la sua voce non contava. Importava solo la voce degli ufficiali e delle guardie che come unico interesse avevano quello di rendere la vita dei carcerati un inferno ancora più buio.
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Ph. di Balto Videomaker
Chi sta sbagliando quindi? Chi dovrebbe puntare il dito? Barabba o la guardia?
La risposta, avendo entrambi le versioni, è chiara…nessuno dei due. Però, nello spettacolo viene messo in luce come all’epoca non si avessero entrambe le versioni…ed è qui che può tornare utile la frase di Anthony De Mello «Volete cambiare il mondo? Che ne dite di cominciare da voi stessi? Che ne dite di venire trasformati per primi? Ma come si ottiene il cambiamento? Attraverso l'osservazione. Attraverso la comprensione. Senza interferenze o giudizi da parte vostra. Perché quel che si giudica non si può comprendere».
Ovviamente si evince che le guardie non avessero nessuna intenzione di comunicare per cercare di comprendere i disagi dei carcerati e questo fa capire che, in fondo, non erano poi così tanto meglio rispetto a loro. Questo concetto viene ripreso nello spettacolo durante il discorso fatto tra Barabba e Gesù, nel quale quest’ultimo gli dice che siamo tutti peccatori e che quindi la salvezza serve e sarà data a tutti. Molto spesso, invece, quello che accade è che consideriamo le guardie o chi possiede un ruolo di autorità come persona “buona” che si impegna a far vigere l’ordine...ma abbiamo notato come il “bene” ed “il male” siano concetti relativi, cosa che traspare apertamente nella performance.
La scintilla che ha portato alla stesura di questo articolo è scoccata dopo aver visto lo spettacolo Barabba andato in scena a Scenario Pubblico. Siamo stati coinvolti emotivamente, come forse successe anche un tempo, nel prendere una decisione su chi punire?
Barabba… o forse tutti noi?
A cura di Donato Gabriele Cassone e Laura Raneri
Questo articolo fa parte della rubrica
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scenariopubblico · 25 days
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ROI di Nicola Simone Cisternino
Restituzione delle prime tre settimane di creazione
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ROI, da leggere così com'è scritto, è il titolo del nuovo progetto del danzatore e coreografo Cisternino. Traslazione della pronuncia della parola roi (cioè re, in francese) il titolo è direttamente legato all'argomento di indagine che è appunto sulla figura del re.
«Sto tentando di indagare su una figura per me ambigua. Primo tra gli uomini e allo stesso tempo schiavo di tutti, il re si posiziona al centro di una doppia trazione - tra investitura divina e necessità di vita e riconoscimento altrui».
Come ha raccontato, Nicola ha lavorato sull'accumulazione di materiali, sulla somma, prima ancora di prendere delle decisioni volontarie. Per far ciò tutta l'attenzione è stata posta sulla predisposizione del corpo messo nelle condizioni di poter cercare derive, percorsi e frequenze con lo scopo, poi, di veicolare sensazioni verso l'esterno.
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Nicola Cisternino durante la sua open door ha mostrato tutto il materiale accumulato nelle tre settimane di residenza. Dopo trenta minuti di azione ha chiesto al pubblico:
Quali momenti, sensazioni, figure o ritmi hanno aperto in voi territori esplorativi sulla figura del re?
Grottesco Serietà, divertimento Destabilizzato, attraente Sguardo e luci danza, lentezza, le mani, i piedi occhi aperti, occhi chiusi perché? un re che può essere fragile, sciocco, fiero, potente Elvis performante Sottofondo fuoco, le notifiche
Si è parlato a lungo con i presenti. Suggestioni, feedback, riflessioni sono stati i nuovi appunti per il performer che continuerà il suo lavoro di ricerca, dosaggio e selezione di temperature, iconografie e architetture di paesaggi.
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scenariopubblico · 1 month
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La storia delle residenze di SP/CZD
Tra le attività più articolate sostenute da Scenario Pubblico vi sono senza dubbio le residenze artistiche. Ne parleremo brevemente qui per diffondere la conoscenza su cosa sono e come funzionano con l'obiettivo di creare un quadro chiaro, anche se non esaustivo, che possa essere l'incipit di una serie di attraversamenti che faremo nei prossimi mesi in cui conosceremo tutti i soggetti selezionati dal bando ACASA 24-25.
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Introduciamo questo breve attraversamento consigliando la visione di un video che ripercorre - attraverso le immagini - la genesi di Scenario Pubblico e la sua vita di ogni giorno 👇
Non per niente siamo partiti dalla storia
Da spazio privato voluto per diventare casa della Compagnia Zappalà Danza, Scenario ha iniziato subito ad ospitare una stagione di danza. Conseguenza "naturale" del circuitare di artiste e artisti sono state le diverse richieste di ospitalità per avere spazi e poter creare. Così in concomitanza con la stagione è iniziato un programma di residenze artistiche regolamentato poi nel 2015 0anno in cui Scenario diventa Centro di Produzione della Danza riconosciuto dal MiC.
Nel tempo il progetto di residenze si è andato strutturando meglio. Quello che esiste oggi è un bando biennale - chiamato ACASA - (giunto alla sua seconda edizione) destinato ad artiste e artisti over 30. In un biennio l'impegno è quello di garantire continuità ai progetti anziché rimanere esperienze isolate.
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Nel corso del biennio la residenza si articola in due fasi: una prima creativa che si conclude con uno sharing del lavoro e un dialogo con il pubblico e una seconda parte tecnica finalizzata alla messa in scena del lavoro creato.
A coronamento dei due anni i lavori vengono presentati durante il FIC Fest, occasione di ritrovo, condivisione, confronto. Questa possibilità è utile sia per i programmatori che possono quindi vedere più artisti nell’arco della durata del festival, che per gli stessi artisti.
Con questo tipo di articolazione il Centro e il pubblico hanno la possibilità di seguire gli artisti e le artiste nel loro percorso, vedere le evoluzioni, assistere al processo completo: dalla creazione alla messa in scena. Momenti importanti e sentiti in tal senso sono le open door, ovvero le prove aperte che si svolgono alla fine del primo ciclo di residenza. Insieme alla "restituzione" del lavoro fatto l'incontro con l'artista viene accompagnato da uno sharing dialogante con il pubblico che viene incoraggiato ad esprimere il proprio feedback, le proprie sensazioni.
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Questo contributo è stato elaborato in collaborazione con Laura Gullotta, responsabile della programmazione di Scenario Pubblico che proprio in questi giorni rappresenta il centro nella Tavola Rotonda IntegrARTI intitolata Il ruolo delle Residenze Artistiche nella rigenerazione Urbana: spazi, modelli, comunità che si svolge dal 18 al 20 marzo a Messina.
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A presto con il prossimo attraversamento che entrerà nella prima Residenza Artistica del 2024!
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scenariopubblico · 2 months
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BE INTERNATIONAL together
Martedì 5 marzo è iniziata a Scenario Pubblico la settimana dedicata a Be International un progetto «selezionato per la seconda volta tra i vincitori della quarta edizione del bando Boarding Pass Plus del MIC che incentiva l’internazionalizzazione delle carriere dei giovani artisti e dei giovani organizzatori italiani attraverso un percorso di formazione e di esperienze da sviluppare all’estero e in Italia».
Capofila del progetto è la Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano relazionata a partner nazionali (Bolzano Danza, Festival Ipercorpo, COORPI, Festival Prospettiva Danza, Scenario Pubblico) e internazionali (Festival KoresponDance, Nu Dance Festival, Art Republic, Chrysanthi Badeka, Machol Shalem, Quinzena de Dança, Centre de vidéo-danse de Bourgogne).
Il workshop intensivo svolto a Catania fino a domenica 10 marzo è stato dedicato alla video danza ed è stato tenuto da Chrysanthi Badeka, partner internazionale di Be International, nonché danzatrice, coreografa e video maker ateniese.
Attraversiamo brevemente in questo diario il "succo" di ogni giorno - con punti, immagini, citazioni - consapevoli che l'essenza di questa esperienza sia (giustamente) impossibile da trasmettere nella sua globalità.
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Il primo incontro si è svolto martedì pomeriggio, durante il quale tutti i partecipanti si sono presentati attraverso la condivisione di un lavoro performativo in video, sia proprio che di altri autori.
Dalle visioni video Chrysanthi ha esordito presentando la dance on screen come
un linguaggio diverso, peculiare, che non ha a che fare con la documentazione e dunque la "semplice" ripresa di un evento performativo.
mercoledì. La prima giornata si è aperta con un esercizio dei corpi nello spazio. L'obiettivo è stato quello di immaginare di essere ad una festa all'interno della quale gli occhi di ognuno dovevano concentrarsi per diventare come le ottiche di una camera. Dal lavoro è scaturita una scaletta dei movimenti degli occhi-camera per ognuno diversa. Divisi in coppie, director - camera operator, ognuno ha poi realizzato il proprio long shot (piano sequenza) immaginato con strumenti amatoriali.
dentro la grammatica. Chrysanthi ha guidato il gruppo in un percorso analitico del linguaggio filmico specifico della danza dove esistono la VIDEO DANCE o SCREEN DANCE o DANCE FOR CAMERA - ovvero un prodotto audiovisivo breve - e il DANCE FILM - cioè un prodotto audiovisivo più lungo e articolato. In entrambi i casi il corpo umano e il corpo della camera dialogano tra loro - come nella contact improvisation - collaborando per la trasmissione di una storia. Quindi, la scelta della location, insieme a ogni sua possibile angolatura, risulta importante poiché sarà la camera a guidare lo sguardo degli spettatori, un po' come è accaduto durante l'esercizio del "party", in cui ciascuno decideva attentamente dove indirizzare il proprio sguardo. Da esso vengono a svilupparsi una storia e una drammaturgia:
parole -> inquadrature frase -> scena paragrafo -> sequenza capitolo -> macro-sequenza libro -> film
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Come guardo? Cosa? A che altezza? Da quale angolatura? A quale distanza?
Prima di creare sono molto importanti le prove corpo-camera affinché possa essere deciso un movement script consapevole. Si ritorna allora alla location che, oltre ad essere scelta, deve essere visitata, studiata e vissuta più possibile per poi essere ri-mappata in studio. Dallo script dei movimenti (corpo - corpo camera) emergeranno o dovranno essere decisi tutti gli altri elementi da sviluppare: scene, costumi, musica e tutti gli altri aspetti della post-produzione.
longline synopsis script storyboard decoupage
Per poter comunicare bene con quel linguaggio tecnico Chrysanthi ha mostrato due lavori di video danza grazie al quale è stato possibile consolidare la terminologia della grammatica filmica in inglese e, allo stesso tempo, provare a estrapolare longline e synopsis da due opere a posteriori. Fare questi esercizi è servito a tutte e tutti a capire di più anche del proprio sguardo, tappa necessaria per chi vuole sviluppare propri progetti autoriali.
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giovedì. Dopo aver assistito alla performance Body Teaches della CZD Chrysanthi ha guidato le riprese del party del giorno prima stavolta con il gimbal. Ognuno ha ripreso la propria festa e dopo sono stati proiettati tutti i video: un esercizio dello sguardo attivo. Alla fine della giornata, ognuno ha presentato la propria idea di progetto, con la lettura della logline e della sinossi. Insieme poi, si è presa la decisione su quale idea realizzare.
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Il progetto che ha convinto tuttə è stato quello di Alessandra Indolfi, director, quindi, del corto realizzato.
TRE GIORNI INTENSI NEL WORKSHOP INTENSIVO.
venerdì. E' stato svolto tutto il lavoro di pre-produzione: lavoro coreografico in studio insieme alla director e al camera operator scelta dei costumi scelte del suono composizione dei soli divisi in tre gruppi con rispettivi director, cinematographer e assistenti sopralluogo a villa Bellini.
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sabato. giornata di riprese
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domenica. editing e presentazione del lavoro.
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a sinistra Lucia Carolina De Rienzo (COORPI) a destra Chrysanthi Badeka.
IL PROGETTO UNTIED HANDS
Torna sovente e prendimi, palpito amato, allora torna e prendimi, che si ridesta viva la memoria del corpo, e antiche brame trascorrono nel sangue, allora che le labbra ricordano, e le carni, e nelle mani un senso tattile raccende. Torna sovente e prendimi, la notte, allora le labbra ricordano, e le carni... (Torna di Konstantinos P. Cavafis)
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creato da Alessandra Indolfi Carmine Dipace Eros Brancaleon Mariangela Di Santo Melania Caggegi Roberta Indolfi Siria Cacco Sofia Bordieri Veronica Messinese Vanessa Lisi
Special thanks to Chrysanthi Badeka, Mara Serina, Lucia Carolina De Rienzo.
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scenariopubblico · 2 months
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Normalità Crocifissa
Chi era davvero Kristo? Potremmo definire quell’uomo strano? Cosa abbiamo appena visto? Quell’uomo era un pazzo o un visionario? Se lo spettacolo fosse presentato in altre parti del mondo le reazioni sarebbero le stesse? Cos’è la normalità?
Dopo aver visto lo spettacolo Kristo queste domande hanno pervaso la mia mente, creando uno stato di “ansia esistenziale”. Ciò che è stato messo in scena, avrà sicuramente scaturito in ognuno dei presenti dubbi e pensieri che urgentemente hanno stimolato in ognuno una “dissociazione temporanea” dal mondo circostante. Travolti dalle emozioni di quel preciso momento, quindi, la sensazione è stata quella di sperare un’epifania.
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foto di Serena Nicoletti
Come disse Amadou Hampâté Bâ, scrittore, filosofo e antropologo maliano, «le persone di una persona sono numerose in ogni persona». Il termine persona indica in latino la maschera teatrale. Dall’etrusco phersu, che a sua volta deriva dal greco pròsopon, la parola indica fronte, volto, faccia e, per traslazione, maschera e personaggio. Interessante è notare come, per giungere al significato di persona come individuo si passi dal teatro e dall’idea di “rappresentare”, attraverso una maschera, un personaggio. Nel teatro la maschera, com’è noto, consentiva al pubblico di identificare, anche a distanza, le caratteristiche prototipiche del personaggio. Allo stesso modo, si può dire che avere un’idea rispetto alla personalità di un individuo fornisce dei punti di riferimento che aiutano a prevederne le intenzioni, gli atteggiamenti e i comportamenti.
Diversi autori hanno indagato l’individuo nelle sue interazioni con la società, come ad esempio Pirandello in Uno, nessuno e centomila o Goffman in Una vita come rappresentazione teatrale. Entrambi lo hanno fatto sicuri del fatto che la persona, all’interno di una vita sociale, utilizzasse più maschere per esprimersi, non rivelandosi mai completamente.  Proprio in questo modo, l’uomo che chiamiamo “Kristo”, in virtù dei suoi atteggiamenti emulativi nei confronti della figura religiosa, si espone nella sua moltitudine di personalità ad un pubblico inerme, assuefatto dal momento presente, capace solo di osservare passivamente ciò che viene presentato, posticipando al finale “purificatorio” ogni giudizio.
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foto di Serena Nicoletti
Andrea Camilleri, celebre scrittore siciliano, diceva: «non bisogna mai avere paura dell’altro perché tu, rispetto all’altro, sei l’altro». Spesso, di fronte alla stranezza si rimane immobilizzati in uno stato di paura mista ad incertezza, credo, perché non si riconosce a primo impatto ciò che si ha davanti, o forse, semplicemente perché diverso da come ci si sarebbe potuto aspettare.
La stranezza però, se accolta, potrebbe portare a scoprire nuovi punti di vista, aprire nuove prospettive capaci di dimostrare che un’unica visione del mondo sarebbe riduttiva e insufficiente. Rinchiudersi in una cultura circoscritta ad un luogo di nascita, porta spesso all’essere bigotti o restii ad accettare il cambiamento nonché un semplice pensiero diverso dal nostro.
Ogni essere umano è diverso. Sono convinto che l’affermazione “siamo tutti uguali” sia erronea perché manchi di punti di vista alternativi. Ogni essere umano differisce dall’altro ed è proprio questo aspetto che rende il mondo vario e capace di progredire. Se fossimo tutti uguali, non ci sarebbe in nessuno di noi “particolarità”, una dote che ci rende unici all’interno di questo piccolo-grande mondo.  Molto spesso, però, sono proprio le particolarità di ognuno di noi a farci sembrare “pazzi” o “strani” agli occhi giudicanti degli altri. Bisognerebbe però chiedersi cosa sia davvero la follia. Cosa ci rende normali?
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foto di Serena Nicoletti
La normalità è un comportamento assunto da una maggioranza di persone. Si diventa “strani”, “pazzi” o “anormali” solo se inseriti in un contesto di riferimento. Molti atteggiamenti che in un contesto sono dati come normali agli occhi esterni diventano folli.
Paul Watzlawick (1921 – 2007) è stato uno psicologo e filosofo austriaco naturalizzato statunitense, eminente esponente della Scuola di Palo Alto, nonché seguace del costruttivismo, derivante dal pensiero relativista del costruttivismo filosofico. Egli, insieme al gruppo di studiosi della scuola di Palo Alto si interessò al concetto di “follia”, teorizzando, con un rimando al sociologo Durkheim, la contraddizione insita ai concetti di normalità e anormalità. C’è una diffusissima opinione sul fatto che "normale" sia sinonimo pressoché imprescindibile di "positivo". Qualcosa di normale è ampiamente accettato. La normalità va a braccetto con la quotidianità e l’inattaccabile certezza che qualsiasi cosa sia, l’aggettivo normale le conferisce un’aura di familiarità e, di conseguenza, di tranquillità, pace ed equilibrio. D’altro canto, è altrettanto largamente accetto che il suo polo opposto, conosciuto nell’opinione pubblica come "anormalità", venga visto e sentito con un’accezione negativa. Mentre così non dovrebbe essere.
Nel 1967 Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin e Don D. Jackson, pubblicavano Pragmatics of Human Communication. A Study of Interactional Patterns, Pathologies, and Paradoxes, che riporta gli studi condotti al Mental Research Institute sugli effetti pragmatici che la comunicazione umana ha sui modelli interazionali e sulle patologie, con anche una disamina del ruolo dei paradossi comunicativi. La tesi centrale di questo libro riguarda il comportamento patologico (nevrosi, psicosi, e in genere le psicopatologie) che, affermano, non esiste nell'individuo isolato ma è soltanto un tipo di interazione patologica tra individui. Gli autori indagano la relatività delle nozioni di "normalità" e "anormalità" mostrando che ogni comportamento acquisisce un senso specifico all'interno del contesto in cui si attua. “Sanità" e "insanità" perdono così il loro significato, poiché ciò che è sano in un contesto può non esserlo in un altro, e l'osservatore può giudicare un dato comportamento come "normale" o "anormale" a seconda della sua ottica preconcetta. Gli autori, quindi, sostengono: «Ne consegue che la "schizofrenia" considerata come una malattia incurabile e progressiva della mente di un individuo e la "schizofrenia" considerata come l'unica reazione possibile a un contesto di comunicazione assurdo e insostenibile (una reazione che segue, e perciò perpetua, le regole di tale contesto) sono due cose del tutto diverse».
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foto di Serena Nicoletti
Nella parte finale della performance, Kristo completamente denudato non solo dai vestiti ma anche da ogni certezza sul mondo che lo circonda, si esibiva in una doccia “purificatoria”. Le gocce che scivolavano sul corpo del performer (Massimo Trombetta) sapevano molto di pensieri perduti, di normalità perduta e pensiero critico acquisito. Forse è davvero di una doccia “purificatoria” ciò di cui l’umanità avrebbe bisogno, perché spesso incapace di guardare al di là della serratura dei propri confini, convinta che i pensieri che la pervadano siano giusti solo perché condivisi da una moltitudine. Forse questo Kristo, questo povero uomo kafkiano, non è un impostore di cui bisogna aver paura ma al contrario un “messia” venuto a salvare ciò che rimane del mondo. Forse è venuto a risvegliare un popolo di esseri non pensanti che si omologa ad una società alienata che scorre troppo veloce, incapace di fermarsi e riflettere sul proprio comportamento, incapace di capire che ciò che compie non ha nulla di “normale”. Bisognerebbe che qualcuno più spesso ci ricordi che abbiamo solo un tempo limitato in questo mondo e sprecarlo, a emulare comportamenti seriali di una società allo sbando, non è uno scopo di vita degno di essere perseguito.
Scritto da Donato Gabriele Cassone
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scenariopubblico · 2 months
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Estetica e coreografia dark di Marco Goecke
Quando mio padre diceva ai suoi colleghi di lavoro che suo figlio stava studiando per diventare coreografo, loro dicevano: "Ah, come Pina!".
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Marco Goecke è nato a Wuppertal (la città di Pina Bausch) nel 1972. Dopo aver completato la sua formazione in danza classica a Monaco si è diplomato nel 1995 al Conservatorio Reale dell'Aia. Da subito poi, ha iniziato a lavorare come danzatore all'Opera di Stato di Berlino e al Theater Hagen dove, nel 2000, ha creato la sua prima coreografia intitolata Loch.
A partire da quel momento Goecke ha creato diversi lavori per la Noverre-Society con ballerini del Balletto di Stoccarda e per il New York Choreographic Institute che lo ha invitato. La sua cifra stilistica è stata apprezzata da subito, infatti, ha ricevuto sin dagli esordi diverse commissioni che lo hanno portato a lavorare con numerose compagnie come Les Ballets de Monte Carlo, il Norwegian National Ballet, il Pacific Northwest Ballet di Seattle e il Berlin State Ballet. Nella stagione 2005/2006 Marco Goecke è stato nominato coreografo in residenza presso il Balletto di Stoccarda e la stagione successiva presso lo Scapino Ballet di Rotterdam. Dall'anno 2013/2014 è coreografo associato presso il rinomato Nederlands Dans Theater e dal 2019 al 2023 è stato Direttore dello Staatsballett Hannover dove oggi è coreografo associato oltre all'essere Artist in Residence della Gauthier Dance.
Nel 2015 è stato nominato coreografo dell’anno dalla rivista TANZ ed è dell'anno successivo lo spettacolo che lo ha reso conosciutissimo in Italia: Nijinski (ricevendo, peraltro, sempre nel 2016 il premio Danza&Danza come miglior coreografo). Creato per la Gauthier Dance il suo Nijinski, dopo essere stato portato in scena, nel 2021 entra nel repertorio del Balletto del Teatro Massimo di Palermo.
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Sempre nel 2016, esce per la Königshausen & Neumann di Würzburg, la monografia di Nadja Kadel, Dark Matter. Achtzehn ausgewählte Choreographien von Marco Goecke 2003-2015.
A Spoleto 66 lo scorso luglio, Goecke ha partecipato con l'omonimo trittico di coreografie particolarmente rappresentative della sua estetica.
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«Il motore del mio lavoro è l’angoscia, può diventare una fonte di speranza. Quello che cerco di fare con i movimenti veloci del mio vocabolario è rendere visibile e palpabile l’ansia per trasformarla in bellezza. Fuggire dal corpo, scappare dai propri limiti».
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Più volte la sua danza è stata definita dark, cupa. Proprio per l'urgenza di Goecke di attingere al sentire interiore e profondo le sue coreografie sono poesie visive mai didascaliche ma fortemente legate ad una precisa estetica. Esito sono coreografie forti come radici e - allo stesso tempo - delicate come petali. Il suo lavoro è, anche per questo, sempre basato sulla relazione con i danzatori e le danzatrici, con cui si approccia in modo non gerarchico. Insieme all'ensemble viene a crearsi, prova dopo prova, un forte legame scaturito dalla condivisione della ricerca. Quest'ultima, come già accennato, è sempre affacciata sul vissuto emotivo che viene poi tradotto nel linguaggio di Goecke. Il meccanismo che si instaura è, come ha affermato in un'intervista curata da Maggie Foyer per Danza&Danza (1) - «come un segreto».
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«Non c’è bisogno di comprendere la danza da cima a fondo, non si può capire tutto, sarebbe noioso. Meglio lasciare scivolare ciò che si vede a un livello più profondo».
Il repertorio di Marco Goecke approderà a Scenario Pubblico con il danzatore dello Staatsballett Hannover Rosario Guerra, dall'8 al 12 maggio 2024 nell'ambito del Catania Contemporanea/Fic Fest.
(1) Maggie Foyer, Marco Goecke, in «Danza & Danza» magazine bimestrale n.303 marzo-aprile 2022 anno XXXVII prima pubblicazione 25 febbraio 2022.
a cura di: Sofia Bordieri
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L’ULTIMA VETTA
“Sali” “Ce la puoi fare” “Non pensare, agisci” “Ancora un ultimo sforzo”.
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White Out di Piergiorgio Milano ph. Andrea Macchia
Herve Bermasse è un alpinista italiano, ultimo discendente di una dinastia di “montanari” professionisti. Ha fatto della montagna la sua vita, dopo essersene perdutamente innamorato a seguito della sua prima scalata da professionista nel Cervino nel 2000. Ottomila metri sono stati la sfida che nel 2017 ha tentato, accompagnato dal tedesco David Gottler: la scalata impossibile dello Shisha Pangma in Tibet. Partiti insieme dalla valle del monte nelle prime ore del mattino, i due sono riusciti ad arrivare a tre metri dalla vetta, per poi scendere in circa tredici ore, compiendo un record fino a quel momento impensabile. Bermasse e Gottler hanno scritto una nuova pagina di storia dell’alpinismo che, nonostante tutto, ha un sapore leggermente amaro a causa di quei pochi passi che li hanno separati dalla vetta.
«Ci siamo detti “fermiamoci qui”. A ogni passo il manto nevoso su cui procedevamo era tutto uno scricchiolio. Rumori profondi di assestamento. Pochi passi che indicano vita o morte, a seconda della decisione. Parrebbe inutile sottolinearlo per molti, ma noi vogliamo dirlo, ci siamo fermati a 2 o 3 metri dalla vetta per poter tornare giù, per vivere». (La Stampa, 2017)
È un realismo conscio quello dell’alpinista. Consapevole dei possibili rischi, ha scelto di sopravvivere.
«Quando sei a casa e ti alleni per realizzare un sogno è molto facile. È quando il sogno ti si presenta alto più di duemila metri sopra di te e parti per realizzarlo con 25 metri di corda e poco materiale che pensi sia irrealizzabile».
«E così ammetto di aver avuto paura di non essere in grado di realizzare il sogno. Sovrastato dalla grande montagna mi sentivo piccolo, piccolo. Poi il primo passo, quindi un altro, la testa si svuota dai pensieri pesanti e inizi a salire. Ma finita la parete, quando siamo arrivati sul plateau finale che porta alle gobbe e alla cresta di vetta e sprofondavamo fino al ginocchio, le nostre chance erano pochissime. E i dubbi sono tornati. Eravamo soli su tutta la montagna che si presentava in modo differente, cambiata per il terremoto di tre anni fa. E da allora non è stata più salita».
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Foto tratta dall'intervista a cura di Planet Mountain su scarpa.com
La ricerca della vetta può diventare una vera e propria dipendenza, un pensiero fisso che porta ad assumersi rischi spesso non calcolabili a causa, ad esempio, delle condizioni meteo facilmente mutabili. Così, l’alpinista rischia la vita per qualcosa di apparentemente inutile, ma lo fa perché altrimenti non avrebbe senso vivere. Certamente prendere una decisione sbagliata in quel contesto (come avviene in similitudine anche nella vita) potrebbe innescare una serie di eventi nefasti, un “effetto farfalla” capace di portare nei casi più estremi anche alla morte.
Pensiamo a Battista Bonali, ritenuto da molti l’alpinista italiano più celebre degli anni Ottanta e Novanta. Nel 1993 perse la vita sulla parete nord dell’Huascaràn, a duecento metri dalla vetta, travolto da una scarica di ghiaccio e rocce, mentre insieme all’amico Giandomenico Ducoli cercava di ripercorrere la via Casarotto. Ai due è stato dedicato un rifugio, in omaggio alle imprese da loro compiute, che è divenuto per gli alpinisti simbolo di coraggio e amicizia.
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Rifugio Torsoleto Battistino Bonali e Giandomenico Ducoli foto di G.Cemmi
I due alpinisti erano legati da una fortissima amicizia nutrita da profondi sentimenti di rispetto ed empatia coltivati anche grazie alla condivisione di esperienze – come possiamo immaginare – estremamente forti. In situazioni d’emergenza la paura della morte rende completamente nudi. Forse è anche questo aspetto di sfida che appassiona chi pratica l’alpinismo. Guardare in faccia la morte e sbeffeggiarla, rimanendo consapevoli che ogni momento potrebbe essere l’ultimo anche soltanto per un piccolo passo errato.
Con queste parole viene ricordato Bonali:
«Grazie montagna per avermi dato lezioni di vita, perché faticando ho appreso a gustare il riposo, perché sudando ho imparato ad apprezzare un sorso d’acqua fresca, perché stanco mi sono fermato e ho potuto ammirare la meraviglia di un fiore, la libertà di un volo d’uccello, respirare il profumo della semplicità, perché solo immerso nel tuo silenzio, mi sono visto allo specchio e spaventato ho ammesso il mio bisogno di verità e amore, perché soffrendo ho assaporato la gioia della vetta percependo che le cose vere, quelle che portano alla felicità, si ottengono solo con la fatica. E chi non sa soffrire, mai potrà capire». O. Forno, Battistino Bonali: grazie montagna, Cuneo, Mountain Promotion, 2003.
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White Out di Piergiorgio Milano ph. Andrea Macchia
Nello spettacolo White Out affiora questo concetto di forte amicizia. Soprattutto all’inizio quando un alpinista-performer trascina ostinatamente con sé anche i corpi dei due amici ormai defunti, nonostante le sue evidenti difficoltà. La presa di cura dell’altro non esiste solo nell’amicizia ma può essere un tratto distintivo generale di una persona. Secondo l’antropologa Margaret Mead la nascita della civiltà è ravvisabile in quel momento in cui i membri di una comunità iniziano a prendersi cura l’uno dell’altro.
Mingma Gelje, il più giovane ad aver scalato il K2 in inverno, ne è una dimostrazione. Aveva iniziato a scalare le montagne per passione, per poi diventare uno scalatore professionista oltre che una guida alpina. Il suo nome ormai, nel mondo dell’alpinismo in particolare, viene molto ricordato per le sue varie imprese di soccorso.
Ma più che per i suoi soccorsi “all’ordine del giorno” vi è stato un salvataggio in particolare che ha richiamato anche l’attenzione del New York Times.
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La vicenda, avvenuta un anno fa, riguarda il salvataggio di un uomo che si trovava nella “Zona della morte” sull’Everest. L’impresa venne definita un “miracolo” persino dai funzionari del Dipartimento del Turismo, perché è quasi impossibile essere salvati in quella zona. Gelje, nonostante non conoscesse quell’uomo, è stato disposto a trasportarlo sulle sue spalle per più di sei ore, caricandosi – tra peso effettivo del corpo, vestiti e attrezzatura dell’uomo – più di cento chili. Alternandosi ogni tre ore con un suo compagno, insieme non lo lasciarono indietro. Non lo lasciarono morire. Erano quasi giunti alla vetta, ma sono tornati giù per aiutare. Se ci soffermiamo a pensarci non è per niente scontato. E infatti, come ha dichiarato è stata l’impresa più difficile mai compiuta.
Purtroppo, la montagna non è un gioco e per fortuna nella maggior parte dei casi fra gli alpinisti vi è molta coesione. Ma è un attimo, un passo sbagliato, un cambiamento climatico, una perdita di equilibrio... ed ecco che
 “Sali”
“Ce la puoi fare”
“Non pensare, agisci”
“Ancora un ultimo sforzo”
Si trasformano in..
“Non sono riuscito a salvarlo”.
Dopo la visione dello spettacolo White out di Piergiorgio Milano ci siamo trovati a riflettere su quali pensieri potessero passare per la mente di un uomo disperso nell’immensità di un monte innevato. Solo, infreddolito, tremante e privo di ogni speranza di sopravvivere. Chiunque avrebbe pensato di arrendersi e abbracciare la morte. La verità però, pensiamo, sia che nei momenti più bui l’essere umano si tramuti e anche se ormai disilluso rispetto alla vita, cerchi disperatamente di aggrapparsene assaporando ogni istante come fosse l’ultimo, e così forse riesce a sopravvivere.
Di: Donato Gabriele Cassone Laura Raneri
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scenariopubblico · 2 months
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Terrena, agile, spirituale: la danza di Akram Khan
Durante il Catania Contemporanea/Fic Fest organizzato da Scenario Pubblico si innesterà il Fic Dance Workshop, dieci giorni di training e trasmissioni coreografiche focalizzati su creazioni di repertorio.
Durante i primi cinque giorni, dal 3 al 7 maggio, il lavoro sarà condotto da Joy Alpuerto Ritter danzatrice e coreografa, ripetiteur del repertorio di Akram Khan, uno dei coreografi più celebrati di oggi.
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Con un breve attraversamento andremo a scoprire la figura di questo coreografo che, oltre ad arricchire il patrimonio immateriale del Regno Unito, ha segnato la storia della coreografia mondiale.
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Akram Khan nasce a Londra nel 1974 da una famiglia bengalese. Inizia a studiare danza da bambino e all’età di tredici anni viene scelto da Peter Brook per la sua produzione MAHABHARATA (ovvero La grande storia dei discendenti di Bharat ispirata a un importante poema indiano). Continua i suoi studi nell'ambito della danza, collaborando per diversi anni con Anne Teresa De Keersmaeker che lascerà un segno profondo nel suo linguaggio. A partire dagli anni Novanta poi, inizia presentare le proprie coreografie.
Nel 2000 fonda la sua compagina di danza, l’Akram Khan Company, che ha debuttato all’Edinburgh Fringe Festival (annoverato tra i festival più famosi al mondo), con Koosh, in collaborazione con il celebre scultore Anish Kapoor e il musicista Niton Sowhney, entrambi di origine indiana.
Nel corso della sua carriera ha collaborato in qualità di coreografo con tantissimi teatri e compagnie in tutto il mondo. Ricordiamo la sua reinterpretazione del balletto Giselle per l’English National Ballet, in un allestimento in collaborazione con il Sadler’s Wells Theatre e il Manchester International Festival.
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Nel 2019 ha vinto il Laurence Oliver Award per l’eccellenza della danza con il suo balletto Xenos.
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Oggi Khan continua a portare avanti il suo lavoro circuitando nei più importanti teatri e festival tra Occidente e Oriente. Il suo ultimo lavoro, Jungle Book reimagined, è stato presentato in prima nazionale lo scorso settembre al Romaeuropa Festival.
Scrivono di Khan...
Un fluido e inclassificabile genio che accosta la cultura religiosa dell'Oriente del suo imprinting alle dinamiche della fisicità del suo Occidente d'approdo. (Rodolfo Di Giammarco - La Repubblica)
Lui, icona della danza contemporanea, distrugge i confini, disegna ambiguità, lascia che il palcoscenico divenga un flusso di energia che si muove al ritmo della tradizione per incontrare il presente, l’attimo in cui il gesto accade, il violento hic et nunc. (Redazione - Teatro e critica)
Nel gotha dei coreografi più riusciti e prolifici di oggi, Akram Khan abbraccia l’Oriente o l’Occidente in una danza scolpita che emana bellezza e trascendenza. (Giuseppe Distefano - Danza & Danza)
Come sempre, nelle danze di Akram Khan si ritrovano le geometrie alla De Keersmaeker sapientemente miscelate con elementi pop, come la break dance, o i riferimenti alla tradizione indiana, soprattutto nelle disposizioni lineari, come nei bassorilievi nei templi indù che raffigurano le danze delle Apsaras. (Enrico Pastore - Paneacquaculture)
[...] (i danzatori di) Akram Khan sono veri e propri ambasciatori della libertà di movimento attraverso le frontiere perché, come ha notato già diversi anni fa Elisa Vaccarino (E. G. Vaccarino, Danze plurali/L’altrove qui, Macerata, Ephemeria Editrice, 2009), non sintetizzano più soltanto nel loro operato una “fusione multietnica”, bensì incarnano in loro stessi una vera e propria identità “plurima”. (Francesca Magnini – Artribune)
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[Consigli di visione]
Negli ultimi anni, Khan è si è impegnato anche nella divulgazione della danza realizzando documentari come
Can we live with Robots? Prodotto da Swan Films  per Channel 4;
Why do we dance (in cinque episodi intitolati: Storie, Provocazione, Anima e Corpo, Identità, Eros) per Sky, qui il link https://www.nowtv.it/streaming/dance-perche-balliamo/skyarte_b1ee405897c040489d5ab14ba37ea817/skyarte_5ed571baef0a4e7d9ed062cb0ba11026/seasons/1;
Un episodio (il quinto) della serie MOVE che puoi trovare su Netflix.
Nel prossimo attraversamento parleremo di Marco Goecke, altro protagonista del Fic Dance Workshop 2024.
a cura di: Sofia Bordieri
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scenariopubblico · 3 months
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Emozioni di fondo
Pronti… Partenza… Via…
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Per uno sportivo l’inizio di una competizione rappresenta un momento magico, frenetico, emozionante. Se dovessimo cercare di racchiudere in una sola parola, questa sarebbe «speciale».
Il "via" segna il momento in cui la morsa allo stomaco deve svanire, il momento in cui occorre isolarsi, il momento in cui bisogna diventare ciò che serve lì dentro, qualunque cosa questo significhi. Uno sportivo capisce che in quegli istanti ogni respiro conta, ogni pensiero determina un’azione. I problemi, in quel frangente come nella vita, possono presentarsi improvvisamente e serve essere pronti a reagire. Bisogna confrontarsi con i propri limiti e con le proprie paure, cercando di trasformare ogni emozione in forza.
Secondo Giuseppe Vercelli, uno psicologo dello sport, vincere significherebbe provare le migliori sensazioni possibili in quel preciso momento, cercare il meglio da sé stessi. Il campione, continua Vercelli nel suo Vincere con la mente (2016), è colui che sa assumersi la responsabilità del proprio mondo, dal successo al fallimento. È colui che sa prendere delle decisioni e ha il coraggio di farlo ascoltando le proprie sensazioni. San Francesco d’Assisi diceva: «Cominciate col fare il necessario, poi ciò che è possibile e all’improvviso vi sorprenderete a fare l’impossibile». Questa massima si può applicare nella vita di tutti i giorni, come nello sport.
Possibile e impossibile a volte si fondono diventando un tutt’uno.
Viene subito alla mente il caso di Vinny Paz, un pugile statunitense di origini italiane. La sua carriera è stata segnata da un incidente automobilistico che quasi gli è costato la vita. Secondo i medici, infatti, non avrebbe più potuto camminare, figuriamoci combattere sul ring. L’atleta però non si è arreso e ha deciso di farsi installare un apparecchio che avrebbe mantenuto il suo collo immobilizzato per tre mesi, sperando nell’impossibile. Contro ogni aspettativa, tredici mesi dopo l’incidente, è tornato a combattere, laureandosi campione del mondo.
Nel 2016, la storia di Vinny Paz è stata portata sul grande schermo, con il film Bleed, Più forte del destino. La pellicola si conclude con un’emblematica intervista, in cui al protagonista viene chiesto quale sia stata la più grande bugia che gli sia mai stata detta. La sua risposta è stata «non è così semplice».
Oscar Wilde scriveva: «Siamo tutti immersi nel fango ma alcuni di noi guardano verso le stelle».
La storia di Paz ci insegna che «non è così semplice» rappresenta la menzogna che ci ripetiamo ogni giorno per non affrontare ciò che ci sembra più arduo, ed è questa che può farci desistere dal realizzare i nostri sogni e raggiungere i nostri obiettivi, per quanto essi siano stravaganti o impossibili.
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Come disse lo scrittore francese Charles Péguy «È sperare la cosa più difficile. La cosa più facile è disperare, ed è la grande tentazione». 
Ognuno di noi, nel quotidiano, tende a focalizzare gli aspetti negativi in ogni cosa ed è anche noto che si tenda a ricordare maggiormente eventi negativi che positivi, poiché più stressanti dal punto di vista psicologico. Dunque, in un mondo dove ci si concentra sugli aspetti nefasti…la resistenza potrebbe salvarci.
Non usiamo il termine resilienza che, come sostengono Maura Gancitano e Andrea Colamedici, è
«un termine mutuato inizialmente dall’ingegneria che ha attraversato la biologia, l’informatica, l’ecologia, la psicologia e che negli ultimi anni è finito con il descrivere la capacità di resistere agli urti, di tornare a sé stessi dopo aver vissuto un trauma o una deformazione. Come i metalli che subiscono urti e manipolazioni ma poi tornano uguali a come erano prima, così siamo invitati a fare noi. […] Essere resilienti significa, quindi, aspettare passivamente che le cose spiacevoli passino e che i tempi ridiventino floridi».
Le storie di cui stiamo parlando sono caratterizzate da ben altro che attesa e passività. Piuttosto dal contrario.
«Se proprio vogliamo usare un termine preso in prestito dall’ingegneria, riprendiamoci il concetto di resistenza, cioè quella capacità dei corpi di opporsi al passaggio di una corrente. Chi resiste non si limita ad aspettare che la tensione passi, non fa finta che non stia succedendo niente, ma si oppone attivamente. Un corpo resiliente è un corpo passivo, mentre un corpo resistente è un corpo vivo, che subisce ferite e trasformazioni dalla forza ostile e non fa finta che non stia succedendo niente. Prova dolore e fastidio, e ciononostante continua a resistere. Resistere significa fare esperienza, rischiare di farsi male e di sparire pur di opporsi alla distruzione generale».
Non possiamo che raccontare, a questo punto, la testimonianza personale di una studentessa dell’Università di Psicologia di Catania che giocando a pallavolo, durante un incontro, ha subito un grave urto al ginocchio compromettendo una rotula. La sua è una storia apparentemente semplice che però cela risvolti personali ben più complessi. Oltre al dolore fisico, infatti, l’infortunio è stato alla pari emotivo, specie dopo la diagnosi presentata della propria fisioterapista secondo cui la giovane non avrebbe più potuto giocare. La notizia spiazzante però non ha lacerato la sua voglia di resistere continuando a seguire il piano di riabilitazione che doveva per riprendersi, giorno dopo giorno, con rigorosità. Alla fine, è riuscita a tornare in campo.
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Altro caso eclatante viene narrato nella Serie Tv I fantastici 5:
Laura, una ragazza di 16 anni, è vittima di un incidente che le costa la perdita di una gamba. Una situazione che travolgerebbe qualsiasi individuo e che però pesa in particolar modo in quella fase adolescenziale in cui si trova la protagonista. Quel momento in cui comincia a scoprire il proprio essere, le proprie attitudini, il periodo nel quale si comincia a costruire la propria identità. Forte e lucidamente pronta a non lasciarsi abbattere, Laura non si lascia intimorire e decide di entrare in un centro, il Nova Lux, in cui sono presenti tanti altri ragazzi con diverse disabilità, tutti accomunati da una preziosissima ricchezza, la resistenza. All’interno di questo centro viene data la possibilità ai ragazzi di rialzarsi e di continuare a vivere la loro vita. Tutto questo grazie allo sport. Laura, diciottenne, grazie al suo impegno, alla sua dedizione e alla sua forza di resistere alle avversità della vita diventa abilissima nella corsa. Insieme agli altri ragazzi del centro, decide di partecipare alle selezioni per gli europei. Un obiettivo importante. Qui però, Laura ha un crollo ripensando a ciò che le era accaduto, così come ad altri suoi compagni e di conseguenza non riuscirono a partecipare alla competizione. Rimaneva ancora una possibilità: partecipare in squadra a una gara di staffetta. I ragazzi, grazie al loro reciproco aiuto, al lavoro di squadra e alla loro voglia di realizzare il sogno, riuscirono non solo a superare le selezioni, ma anche a vincere gli europei. 
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Non è semplice, ma come disse Pietro Trabucchi: «Tutti abbiamo delle motivazioni. La differenza sta nella loro capacità di farle durare a lungo nonostante ostacoli, difficoltà e problemi». E aggiungiamo, quindi, nella capacità di resistere che può soltanto provenire da una profonda motivazione.
Usciti dallo spettacolo di Marco D’Agostin, First Love, queste storie hanno pervaso la nostra mente, ci hanno fatto emozionare e riflettere su quanto la vita dello sportivo possa essere dura e sostenibile solo se si ama ciò per cui si combatte. Siamo noi a costruire la nostra esistenza sulla base delle risorse di cui disponiamo e di cui possiamo disporre, dalle quali dobbiamo attingere per non soccombere agli ostacoli. «Ciò che non mi uccide, mi rende più forte» diceva Nietzsche e, tenendo a mente questa citazione, dobbiamo ricordarci che anche il cielo talvolta intimorisce e incute paura, ma emana anche bellezza e speranza.
Di: Donato Gabriele Cassone Giulia Concetta Celeste Laura Raneri
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scenariopubblico · 3 months
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Qual è la vetta più alta della vostra vita?
Inizio Immaginate tre alpinisti durante il loro cammino iniziatico verso la fine di una scalata. Ci ritroviamo lì, in una tempesta di neve nella vetta più alta di una montagna. Difficoltà, delusione e angoscia.
È così che il coreografo/interprete Piergiorgio Milano avvia White Out, uno spettacolo pieno di turbolenze emotive dove la danza contemporanea e il circo di creazione sono perfettamente amalgamati. L’alpinismo è il pretesto grazie al quale Milano - insieme a Javier Varela Carrera e Luca Torrenzieri - espone il suo linguaggio tecnico e virtuoso con leggerezza e semplicità inverosimili.
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Primo giorno di spedizione Durante lo spettacolo ascoltiamo una voce esterna narrante che scandisce l’evoluzione della missione accompagnata anche dalla presenza di effetti sonori (curati da Federico Dal Pozzo) come il fruscio del vento o gli aliti dei brividi di freddo in continuo aumento, rendendo la visione ancora più tangibile.
La successione temporale non lineare – con l’inizio in medias res - fa perdere la cognizione dello spazio e del tempo. È proprio questo che White Out significa in termini di alpinismo: l’incertezza di andare avanti o indietro. Ogni cosa si dissolve nell’ignoto.
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La scenografia dal forte carattere cinematografico è caratterizzata dalla presenza di oggetti come funi, imbragature, torce e caschi oltre che da un lavoro di luci millimetrico (curato da Bruno Teusch). Tutti elementi che generano una narrazione chiara ma mai prettamente didascalica. L’utilizzo degli oggetti viene alterato rispetto alla loro funzione reale, al servizio di una danza che sfida le leggi della verticalità esposta continuamente al rischio, cercando tanti “altrove”.
Un esempio è la danza fatta con i piedi fissati sugli sci, volteggiante e virtuosa, dove viene stimolata l’immaginazione dello spettatore, libero di poter osservare una partitura coreografica poetica. Viene altresì evocato il continuo oscillare dell’umano che non si accontenta mai di quello che ha, sempre alla ricerca dell’inutile. 
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Sulle note di I Will Always love you proveniente dalla radio portatile presente in scena, lo spettatore viene immerso all’interno di uno scenario “pop” ironico. Gli alpinisti escono dalla loro tenda con una danza ipnotizzante. Il loro umorismo gestuale ed espressivo fa vivere brevi momenti di leggerezza e spensieratezza della notte prima della partenza, in contrasto ai momenti di paura e ansia che seguono. 
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White Out è una performance che affronta temi del rischio, della fiducia e dall’amicizia. Oltre che nella sinossi questi aspetti sono ben visibili in scena quando, ad esempio, i tre performer uniti tra loro da funi danno vita a movimenti all’unisono esprimendo una negoziazione con la propria e altrui forza, una connessione e una interazione reale. 
Salvati o condannati dall’istinto?
Dalla drammaturgia possiamo desumere che sia possibile essere sia salvati che condannati. Possiamo essere condannati dalle nostre fragilità ancorate nella nostra mente o possiamo essere salvati aggrappandoci alla speranza. È proprio questo il senso della sfera di cristallo che gli alpinisti si sono portati con sé. Irradiando punti di luce durante tutta la performance, durante tutta la scalata nonostante le difficoltà, essa è simbolo di forza, coraggio, bellezza. Nel finale Piergiorgio Milano attaccato a una fune porta con sé questa luce. Spoglio e solo scala la vetta. Prima che arrivi in cima quasi collassa, ma la sua anima continua a salire. 
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“Noi stessi” si trova qui dentro e non lassù
White Out ci racconta che la montagna siamo noi, sopra di essa non c’è niente ma semplicemente noi, con le nostre insicurezze e fragilità che abbiamo sempre avvinghiate addosso con il bisogno di scalare la “montagna” per Riscoprirci. 
Allora vi auguro cari lettori di scalare le vette più alte.
a cura di: Martina Adelfio
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scenariopubblico · 3 months
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Intervista a Piergiorgio Milano - l'autore che ha scoperto i tanti volti della montagna
Il lavoro di Piergiorgio Milano è dedicato all’interazione costante tra danza, circo e teatro. Le sue parole chiave sono: virtuosismo della partitura coreografica, teatralità, ricerca estetica. Lo abbiamo incontrato a Scenario Pubblico dove ha presentato il suo White Out, spettacolo che chiude la stagione Sp*rt! 23/24.
La genesi di White Out: in quale momento hai deciso di creare lo spettacolo? Il progetto è composto di due lavori sulla montagna White Out e Au bout des doigts creati grazie all’invito del Festival Torinodanza e di Scene Nationale Malraux Chambéry Savoie che hanno chiamato diversi artisti italiani e francesi per lavorare su zone transfrontaliere: la Val di Susa e la Valle della Maurienne. Il progetto chiedeva di rimettere in valore, attraverso un’azione artistica, dei luoghi transfrontalieri da rivalutare. A partire da questa domanda ogni artista poteva con libertà assoluta avanzare la propria proposta. A me non andava di perdere la dimensione naturale, per questo ho creato due lavori. Partendo dalla domanda: cosa possono condividere la montagna e il teatro? Cosa non possono? Cosa possono insegnarsi, scambiare, puntualizzare? Il mio obiettivo era di creare un dialogo tra i due ambienti e di creare un avvicinamento di entrambi i mondi ad altri mondi. Tendenzialmente chi va abitualmente in montagna raramente va in teatro e viceversa. Volevo creare uno scambio di pubblico anche per lavorare su questa idea di frontiera, che a mio avviso era il nocciolo del progetto. Allora sono andato alla ricerca delle tematiche, degli sport…immaginavo chiaramente cosa volevo ottenere ma senza sapere quali strumenti usare. Così sono andato a cercare elementi che potessero in qualche modo rispondere a questa esigenza legandoli a ciò che so fare, in linea con il mio linguaggio scenico. All’inizio volevo fare uno spettacolo sullo snowboard che pratico da quando sono bambino. Ma quest’idea è risultata essere più difficile da realizzare, ci ho pensato, ci ho lavorato per un mese, esiste anche una bozza che però non è stata realizzata.
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Continuando nella ricerca sono entrato in contatto l’arrampicata e l’alpinismo. Ho iniziato a documentarmi, ho letto tantissimo, ho guardato tantissimi film, sono entrato in contatto con persone che hanno fatto questi sport ad alti livelli. Mi si è mostrata davanti questa grande differenza che era perfetta per quello che volevo fare: arrampicata e alpinismo condividono lo stesso mondo ma in realtà sono due antipodi. L’arrampicata è nata come risposta all’alpinismo eroico storicamente legato alla conquista e all’idea di nazione. L’arrampicata nasce in antitesi: "non conquisteremo niente ma ci nutriamo della bellezza di questo gesto". Quindi questi due mondi erano proprio vicini ma separati ed era quello che io cercavo trattando di montagna e teatro. Quindi ho dedicato un lavoro all’arrampicata Au bout des doigts e uno all’alpinismo che è White Out.
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Qui i documentari realizzati dei due lavori, Au bout des doigts e White Out 👇
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Come hai sviluppato il lavoro di ricerca? La richiesta è arrivata nel 2017, ho iniziato a creare nel 2018 e i due lavori si sono realizzati nel 2021 con un’anteprima nel 2019. Entrambi i progetti sono stati molto aiutati dal periodo di lockdown che mi ha dato quei due mesi per concentrarmi molto avendo alle spalle un anno di creazione. La cosa bella di White Out è che ha avuto una vera pre-creazione. Nel 2019 la ricerca è andata in scena, aveva una forma non erano solo idee. Poi è stata messa a riposo ed è stata ripresa per arrivare allo spettacolo finale. White Out ha cambiato almeno cinque squadre di persone, l’unica persona che c’è dall’inizio è Federico che si occupa del suono. Così lo spettacolo si è nutrito di tutto ciò che tutti hanno apportato, anche di passaggio.
All’inizio del progetto ero spaventato di lavorare sul concept montagna. La connessione corpo-montagna è difficile da trovare. Ho iniziato a leggere tutto ciò che potevo e anche a guardare, poi sono entrato in contatto con persone come Enrico Camanni, appassionato alpinista e scrittore affermato, e Anna Torretta, campionessa mondiale di scalata sul ghiaccio e guida alpina a Courmayeur. Con loro ho scambiato molte conversazioni, si è creata una connessione di fiducia. Mi hanno dato consigli su cosa leggere, su cosa informarmi. A Torino c’è la Libreria della Montagna (composta da novanta scaffali da quattrocento libri ciascuno). Da dove cominciare? Avere la loro guida è stato fondamentale. Montagna eroica, montagna punk – non è tutto come ti aspettavi, scopri cosa che non potevi pensare esistessero.
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Ci sono stati dei libri fondamentali per te? Che tipo di rapporto si è instaurato con la creazione? Posso dire almeno due o tre libri. Ogni scena dello spettacolo (cioè, ogni tre minuti) è una parte di un libro. I testi in voice-off invece sono stati ispirati più da dei film. La letteratura di montagna è molto bella per far partire l’immaginazione ma più “criptica”, cioè, difficile da tradurre in qualcosa di dinamico, accessibile e coinvolgente da mettere su palcoscenico. L’alpinismo poi è uno sport aritmico, e il teatro è principalmente ritmo. Come dare ritmo a qualcosa che ritmo non ha? Questa domanda ha generato le risposte più interessanti perché la drammaturgia è nata da lì. E questo mi ha spinto a vedere molti film, volevo capire come il cinema avesse risolto la questione. Ho visto tutti i film di montagna dai più commerciali a quelli più indipendenti.
Per tornare ai libri, ogni personaggio dello spettacolo è identificato in un personaggio esistente o tratto da una storia. I riferimenti ovviamente non sono stati sviluppati in maniera diretta, ma la gente dell’ambiente, chi ha visto lo spettacolo nei festival di montagna ha riconosciuto i vari cenni.
Il primo personaggio (quello con la radio) è tratto da Confessioni di un serial climber di Mark Twight. Lì c’è la montagna punk. Non avrei mai immaginato che qualcuno avesse vissuto la montagna così. Poi c’è un personaggio che non dice niente, lotta fino alla fine, è il più forte e si ispira a Aria sottile di Natoli Boukreev. Un personaggio secondario che mi ha colpito molto perché super integralista, rifiutava qualsiasi tipo di aiuto esterno. Infine, il personaggio che faccio io - che nella prima versione lo faceva una ragazza - che ha un ruolo chiave. Quando il ruolo veniva interpretato dalla performer, esso era ispirato a Alison Hargreaves alpinista britannica che ha scalato una quota 8000 incinta di otto mesi. Dopo aver partorito è ripartita ed è morta. Una forza della natura. Concludo con altri due libri di riferimento: La montagna a modo mio di Reinhold Messner e Touch in the void di Joe Simpson.
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Quali sono le figure di riferimento che hanno accompagnato il tuo lavoro autoriale? Mi sono staccato dalle mie figure di riferimento da un po’ di anni. Quello che mi ha sempre colpito e affascinato è il teatro fisico. Ho fatto circo ma non mi è bastato, ho fatto danza ma non mi ha convinto fino in fondo. I miei riferimenti sono grandi nomi che conoscono tutti, DV8 in primis e Peeping Tom. Sono quelle le creazioni in cui si segue una narrazione fatta con il corpo. A livello di danza sono sempre stato affascinato dai virtuosismi, i primi lavori di Rosas tipo Rain e Drumming li ho visti più di quaranta volte. Ero affascinato dall’incessante sequenzialità di quel movimento. Dall’energia nello spazio o spazio come energia.
Che ruolo ha per te la danza nella società di oggi? Io sono molto più legato al cinema che al teatro. Se consideri Non è un paese per vecchi, leggi il libro e pensi che è incredibile. Ma il film dei fratelli Cohen lo è altrettanto. Ed è un caso. Per me la grossa sfida è offrire un’alternativa. Secondo me lo schermo affascina, stupisce ed emoziona meglio di qualsiasi altra cosa. Quello che lo schermo non può fare però è lavorare sulla capacità di immaginazione. Bisogna creare quel compromesso per cui quando guardiamo qualcosa siamo disposti a metterci del nostro, a fare uno sforzo che diventa più magnifico perché collettivo.
Secondo me andare a teatro è come leggere un libro tutti insieme.
È fondamentale per il nostro tempo dire: siamo qui, non dobbiamo. Ed è bello poi metterci del proprio, fare un’attività. Non accontentarsi di stare lì passivamente. Bisogna uscire con delle domande, con delle intuizioni.
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a cura di: Sofia Bordieri
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scenariopubblico · 3 months
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“Come puoi raccontare a qualcuno del tuo primo amore come se fosse la cosa più bella che ci sia stata?”
La memoria di un atleta messa al servizio di un Marco D’Agostin adulto e bambino che spera di vincere, almeno per una volta.
La competizione personale, la fame e le grida di chi è intorno che sprona a non mollare, sono alcune delle componenti abbandonate per servire gli occhi di spettatori altrettanto affamati ma che, senza intervenire direttamente, assistono al giorno più glorioso della vita di Marco: la medaglia d’oro di Stefania Belmondo.
Con un po’ di immaginazione arriva la neve a Catania, i movimenti degli sciatori diventano passi di danza e la gloria illumina finalmente il performer.
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“Come puoi raccontare a qualcuno del tuo primo amore come se fosse la cosa più bella che ci sia stata?”
First Love il titolo del brano di Adele cantato in playback in apertura dello spettacolo è il concetto più coinciso per racchiudere il primo innamoramento che l’artista vuole raccontare: lo sci.
Come premessa, il promettente sportivo (bambino) ha lasciato a chi ha voluto seguire il racconto del suo più grande sogno, una busta da aprir «prima che si alzi il “sipario”». Una spilla, un adesivo, il testo del brano e la foto con il suo mito, la Belmondo, dopo una gara alla quale era arrivato diciannovesimo, ma era la prima volta che la incontrava!
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D'Agostin si serve delle memorie evocative di voce e corpo per parlare come un telecronista e danzare come uno sciatore. Vi è una correlazione diretta tra le due componenti così è come se stessimo guardando l’oro di Stefania Belmondo nei 15km a tecnica libera durante le Olimpiadi di Salt Lake City 2002 e sentendo Franco Bragagna affannarsi per il troppo coinvolgimento emotivo.
Il doppio, il lungo e, in caso di riposo, l’uovo, da movimenti fatti con gli sci ai piedi e i bastoncini alle mani diventano le piroquettes, i fouettés e le arabesque di un danzatore che, come in tenera età saliva le scale immaginando la montagna sotto di se, danza la memoria dell’atleta.
Strizza un po’ gli occhi ed è solo fantasia… ma l’eccitazione, la pelle d’oca e l’esaurimento delle forze in campo è reale.
Ciò che ha mosso il coreografo/interprete a mettere in scena la pace fatta con l’esperienza poco gratificante dello sport è proprio l’interrogativo: come sta un danzatore prima che la gara cominci? O ancora, come si sente un atleta prima che il pubblico si accomodi in platea?
In uno spazio metaforicamente innevato la performance procede fino a quando come un martellante ritornello, gli incitamenti per l’olimpionica campionessa mutano in cori per Marco che non deve mollare, che non può mollare. Le luci si abbassano e un’atmosfera malinconica e cupa scende in sala lasciandoci affacciare su una verità estremamente personale: il fardello dei desideri altrui.
Riprende la telecronaca; ormai mancano gli ultimi, pochi chilometri. La sala si riaccende, la voce si alza e la coreografia si affatica ma non si cede. Stefania/Marco deve arrivare sul podio. Una scalata ancora, i bastoncini scavano nella neve e le gambe sembrano cedere ma il tutto per l’oro…
Ancora pochi metri e… MEDAGLIA D’ORO PER STEFANIA BELMONDO!
                CHE BELLO!
Ancora pochi passi e… MEDAGLIA D’ORO PER MARCO D’AGOSTIN!
                CHE BELLO!
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Con questa performance Marco ha dimostrato che il suo primo amore ha avuto ragione di esistere, e lo ha fatto sussurrando ai presenti - con la sua nostalgica memoria - un grido di speranza, riconciliazione e forza.
Una neve non più immaginaria conclude il sogno e a noi non resta altro che ripetere in coro
che bello!
che bello!
che bello!
a cura di: Teresa De Angelis
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scenariopubblico · 3 months
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Corpi, letteratura e ricordo: il dialogo con Marco D'Agostin
Danzatore e performer trevisano, classe 1987, D'Agostin ha portato a Scenario Pubblico First Love (2018) uno dei suoi lavori più autobiografici. Incontrandolo abbiamo scoperto più a fondo la storia dello spettacolo e di questo artista sensibile e visionario.
Vogliamo addentrarci in First Love, un lavoro legato a delle emozioni vissute quando eri bambino. Chiediamo quindi, da dove è nata l’urgenza di iniziare questa ricerca? Quando è iniziato e come si è sviluppato il processo creativo? Tutto è iniziato con un fraintendimento. Anna Cremonini, direttrice artistica di Torinodanza, stava cercando per il progetto Corpo Links Cluster dei coreografi che non solo creassero degli spettacoli o dei progetti i quali dovevano restituire un’immagine non stereotipata della montagna, ma anche che conducessero una parte dei processi creativi in prossimità di luoghi montani, lontani dalla provincia. Lei credeva che il mio spettacolo Avalanche parlasse di montagna, lo aveva intravisto in una newsletter…così mi ha chiamato per chiedermi se potevo adattarlo al progetto. Io le ho detto di no ma anche del fatto, però, di avere il sogno di fare uno spettacolo su Stefania Belmondo e lo sci di fondo e sul risolvere il rebus di questa mia vita divisa in due, prima da sciatore di fondo agonista quasi professionista e poi da danzatore, e capire che cosa della prima esperienza era confluito nella seconda e come la danza mi faceva riosservare lo sci.
Il primo momento della creazione è stato un incontro con Stefania Belmondo a cui avevamo chiesto di partecipare a una parte del progetto con interviste, incontri…lei è stata sempre molto timida in realtà. Ha assistito alle prove ma era distaccata per una forma di timidezza "montana". Gran parte del processo di lavoro si è svolto a Pragelato che è la località in cui nel 2006 si sono svolte le olimpiadi di sci di fondo. In questo piccolo villaggio montano ho lavorato parzialmente in uno chalet della Pro loco, ovvero la sala prove immersa nella pista da sci che però, allora, era estate quindi era tutto verde. Ho lavorato con con venti bambini, dai 6 ai 10 anni, che di inverno sciavano e d’estate erano lì per frequentare il centro estivo. Altro incontro è stato quello con Tommaso Custodero, una figura cardine. Tra tutti i maestri di scii incontrati durante il primo sopralluogo solo a lui è interessato molto esserci. Così ha seguito il lavoro fatto con i bambini e le bambine creando un ponte tra la danza e lo sport. Con lui ho fatto i primissimi ragionamenti su come certi movimenti potevano essere considerati ritmicamente. Lui stava facendo degli studi di scienze motorie ma prima era stato uno sciatore di fondo molto bravo, ed era interessato ai legami tra lo yoga e l’arrampicata, si informava su cosa fosse la danza contemporanea…un personaggio veramente speciale: lui ha capito subito cosa intendevo fare.
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Poi, nella prima parte di lavoro con Chiara Bersani come aiuto drammaturga e Luca Scappellato con le musiche, sempre a Pragelato, c’è stato un momento di ricognizione, studio, messa in prova dei materiali maturati con i bambini e le bambine. Poi il lavoro è stato costruito attorno all’evocazione di questa telecronaca che ci riaccompagna tutti in quella domenica pomeriggio del febbraio 2002 registrata su un VHS e ascoltata mille e mille volte. È una voce che proprio riemerge nella memoria. Non ho fatto nessun lavoro mimetico consapevole, l’ho lasciata davvero riaffiorare. L’idea di essere il telecronista insieme allo sciatore è diventata il dispositivo che mi ha permesso di costruire una competizione con me stesso. Una cosa così faticosa da fare che diventava una gara anche per me. Una gara di cui sceglievo io la disciplina. Andavo così a risarcire un po' quel bambino che ero stato che aveva sofferto molto di fare quello che sport che non amava. E dall’altra parte tutto il lavoro sul corpo quindi, questa idea non solo di tradurre letteralmente i movimenti dello sci in danza ma anche di usare il corpo come un paesaggio. Ci sono dei momenti in cui le mani evocano dei paesaggi montani, si restituisce anche un’astrazione con quella gestualità che all’inizio non è ginnica competitiva invece sul finale lo diventa.
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Com'è stato l'incontro con Stefania Belmondo? Lei che per te è stata un mito, ti ha dato particolari suggestioni che hai trasformato in materiale? Con Stefania Belmondo ho affrontato grandi conversazioni sull’amore, non era interessata a parlare di sport e della gara…quella non era nemmeno la sua preferita tra l’altro. Voleva parlare più della vita e questo è stato significativo. La cosa molto bella per cui poi l’incontro è stato fondamentale è che lei mi ha ispirato la scena finale. Mi raccontava che era ancora molto legata alla montagna e allo sci e che ancora oggi a più di vent’anni della chiusura della sua attività professionistica andava a sciare e le piaceva molto farlo di sera. Qualche settimana prima del nostro incontro, mi ha raccontato, si è trovata a sciare molto tardi, il sole era sceso e, salita la luna piena, lei si era trovata nei boschi. All'improvviso aveva iniziato a nevicare e si era commossa. Allora ho pensato…dobbiamo regalare a Stefania quella nevicata. Quindi, l’idea finale di questo lavoro creato con Alessio Guerra, light designer, è una nevicata al chiaro di luna. Tutto il prezioso lavoro è la domanda: che cos’è il primo amore per me? Lo sci, la montagna, Stefania Belmondo, l’adolescenza…però alla fine c'è la neve che è la cosa che ci riconduce tutti e tutte, è magica per tutti anche per chi non la vive…e ci riconduce a quell’infanzia, quella gioia bambina, quella nostalgia. La caduta della neve è un fatto nostalgico e quindi secondo me il lavoro doveva finire con questa immagine.
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Il lavoro di drammaturgia è stato centrato più sul documento video o anche su ricerche altre? La premessa è che io e Chiara collaboriamo ormai da dieci anni nelle creazioni altrui in modi sempre diversi. A volte attraverso lo studio e la ricerca, altre volte con messaggi vocali mandati nel cuore della notte, altre volte ancora con improvvisazioni fisiche. I ruoli e le modalità cambiano sempre in base al progetto. First Love è uno spettacolo così incarnato in me, con un’idea così netta che non ha una grossa bibliografia. Il lavoro con Chiara si è concentrato sul cercare di capire come rendere il corpo un paesaggio e sul cercare di capire come il passato di quel Marco bambino cresciuto in una provincia si innestava all’interno di questo racconto. L’emersione del dialetto in quel punto centrale in cui subentra la voce maschile che incita il Marco bambino, è la voce di mio padre…quella scelta è frutto del lavoro fatto con Chiara. Insieme al documento video della gara gli altri video erano delle VHS che un vicino di casa dei miei genitori ha ritrovato e in cui riprendeva le gare di me da bambino. Un documento molto prezioso specie per le voci fuori campo. Si sentono, infatti, le voci di mio papà, mia mamma, vicini di casa e amici che ci hanno raccontato tanto. Mi hanno rimesso in contatto con dei ricordi che avevo un po’ sommerso. Infine il focus è stato posto su un testo - io sono convinto che in ogni spettacolo entrano tutti i testi che hai letto nella tua vita - l’unico su cui abbiamo fatto attivamente dei ragionamenti, uno degli scritti autobiografici di Walter Bonatti. Un testo molto bello perché racconta del proprio rapporto con la montagna, di quest’idea di essere messo a confronto con la propria finitudine e piccolezza e solitudine. Poi c’erano queste pagine meravigliose in cui lui diceva che quando uno scalatore si trova di fronte a una parete da scalare le decisioni che prende rispetto a come scalarla non sono solo logiche ma hanno anche una natura estetica. Quindi in base alla via che sceglievi, ai movimenti che sceglievi per percorrerla…l'idea che anche nel gesto atletico c’è sempre e comunque una componente estetica.
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In relazione al tuo lavoro nella danza, hai o hai avuto delle figure di riferimento che hanno ispirato le tue modalità di ricerca e creazione? Nell’ambito della danza ho dei maestri nei confronti dei quali ho un debito di riconoscenza maggiore rispetto ad altri che sono sicuramente Claudia Castellucci, Nigel Charnock e Alessandro Sciarroni. Più avanti anche Chiara Bersani e Marta Ciappina che faccio fatica a considerare maestre perché sono le mie migliori amiche, sono le persone con cui collaboro, però sicuramente anche l’incontro con loro è stato fondamentale e più alla pari. Poi, in realtà, io sono un grande appassionato di letteratura. Tra le figure più ispiranti per me c'è sicuramente Amelia Rosselli una poetessa che scriveva in un modo che sembra musicale in senso esatto, ma che in realtà rispondeva a un istinto psicologico. Quest’idea secondo cui quando stai scrivendo una coreografia c’è qualcosa di istintivamente psicologico, di non esatto che ti ispira… l'idea di come si affina questo istinto, cosa vuol dire psicologico… sono tutti quesiti che mi interessano. È stato sempre misterioso questo rapporto tra psicologia e musica che c’è in Rosselli. Annie Ernaux, ai quali sto dedicando sempre più progetti, che, secondo me, ha un scrittura che dà istruzioni per il corpo e ha un bellissimo modo di viaggiare tra passato e presente - che è una delle altre cose presenti nella mia scrittura coreografica e nella mia ricerca. Poi ancora tanti romanzi che hanno a che fare col tempo profondo perché una delle mie ossessioni è sempre quella di ricordarsi. In First Love questa cosa non c’è, ma in generale mi interessa il fatto di ricordarsi che quel tempo effimero e brevissimo della performance di sessanta minuti c’è e che quel tempo è anche sempre parte di un tempo più grande che è quello delle ere geologiche, che gli scienziati chiamano Deep Time. È quella sensazione che io provo quando leggo alcuni romanzi che ti fanno respirare con le montagne. Tipo la Nube Purpurea di Shiel, Trilogia della città di K. di Kristóf.
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Tra i temi che più emergono parlando con te ci sono sicuramente la memoria, una certa nostalgia, la curiosità, un modo di creare anche poetico...Che ruolo ha per te la danza nella società di oggi? Innanzitutto, bisognerebbe capire quale danza, ci sono tante danze… quella in discoteca ha un ruolo, la danza di tradizione ha un altro ruolo, quella classica ecc. Se la domanda è che ruolo ha la danza che facciamo noi, credo che non abbia nessun ruolo ma semplicemente perché non deve averne uno. Ti rispondo citando un autore che si chiama Jonathan Gottschall che ha scritto un libro intitolato L’istinto di narrare. Nel suo testo cerca di capire come mai gli esseri umani, di fatto, procedano raccontandosi sempre delle storie. A un certo punto parla del rapporto tra due tribù immaginarie del passato. In una tribù le persone lavorano, mangiano, dormono tutto il giorno e basta e nell’altra invece oltre a fare queste cose i componenti perdono anche del tempo per stare davanti a un fuoco a raccontarsi delle storie. Lui dice: «chi ti immagini che in una potenziale lotta fra queste due vincerebbe?». L’istinto ti farebbe dire, vincono quelli che non si raccontano storie perché risparmiano del tempo e quindi hanno più forza ed energia. La realtà è che la storia ci dimostra che ha vinto l’altra tribù, quella delle storie che è quella da cui noi dipendiamo. L’essere umano per vivere ha bisogno anche di qualcosa che non ha una funzione specifica, che non mira alla sua sopravvivenza. Quindi l’idea è che la danza (e il suo ruolo) sia molto marginale ma essenziale; la sua ragione è misteriosa deve rimanere misteriosa. Penso veramente a questo. Cerchiamo di rispondere, ossessionati, a questa domanda che ci pone il mondo, ma a noi non interessa veramente. L’istituzione ha bisogno di capire perché ci finanzia, perché ne abbiamo bisogno, qual è il ruolo... Eh però la sfida è veramente uscire da quella dinamica.  L' "istituzione" deve fidarsi di questo mistero che è sopravvissuto finora.
a cura di: Sofia Bordieri
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«La danza, in misura maggiore delle altre attività artistiche dell’uomo, concede questa sensazione “estrema” del possibile»
...con questa citazione di Paul Valery guardiamo al 2023 che sta volgendo al termine, attraverso i molteplici sguardi di chi anima ogni giorno Scenario Pubblico. Da noi:
buone feste a tuttə, al prossimo anno 💘
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