solotucurime
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Questo account nasce per raccogliere mezzi scleri e bullet point di due ragazze (eccoci qua, siamo @haipresoilcuoredistriscio e @romanticasemiva!) amanti di una ship che ci ha sciolto il cuore.Cos'altro dire, spero che quello che posteremo sia di vostro gradimento e se non dovesse esserlo.. beh, ditecelo pure, le nostre mail box sono sempre aperte! 💙
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solotucurime · 7 years ago
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Let me mend your broken heart.
SESTA PARTE (mamma mia, di già)
“Niccolò, ti annoi?” sbottò Fabrizio notando il praticando seduto su una seggiola blu dietro il bancone della hall del reparto di cardiochirurgia pediatrica. “No, in realtà no. Sto sbrigando un paio di cose importanti…” balbettò alzandosi e frugando tra cartelle cliniche e scartoffie.
“Vieni con me.” tossicchiò solo prendendolo per una spalla. “D-dove andiamo?” fu la risposta del ragazzo mentre affiancava il medico. “Pronto soccorso, un codice verde. Io dico che lo puoi sbrigare tu, no?” e strizzò gli occhi pigiando il pulsante di chiamata dell’ascensore. “C-certo, certo che sì!”
“Nico, te voglio più sicuro di te! Questo è un semplice codice verde ma capiterà che arrivi un bambino in codice rosso, devi mantenere i nervi saldi e il sangue freddo. Non balbettare, non aver paura, quando le porte del pronto soccorso si aprono devi diventare un’altra persona.” e lo specializzando gli lanciò un’occhiata. “Ho paura di sbagliare.” tossicchiò cominciando a torturarsi le mani.
“Anche io ho paura di sbagliare ma ricorda che non lavori da solo, quando hai un dubbio chiama un’infermiera, un medico o qualche tecnico. Siamo una squadra Niccolò, non lavoriamo singolarmente!” e gli passò una mano sulle spalle come per dargli coraggio. “Non sai quante volte, in casi di grande emergenza, mi sia capitato di perdere il coraggio o la forza. A volte le circostanze non erano delle migliori, ho sbattuto la testa ma ho continuato ad operare.”
Niccolò lo guardava quasi con ammirazione con quegli occhi insicuri e un po’ lucidi, “Nun me dire che ora te viè da piagne?” esasperò Fabrizio dandogli una pacca giocosa sulla schiena. “No dottore, non piango io.” e si stropicciò gli occhi prima che le porte dell’ascensore si aprissero.
“Ok vediamo un po’, Valentina ha quindici anni e soffre di bradicardie e blocchi atrioventricolari di secondo grado. Ha avuto una piccola crisi, come procediamo Dottor Moriconi?” lo interrogò il moro una volta che lesse la cartella clinica della paziente.
“Io direi cardiogramma completo e la lasciamo in osservazione.” e si infilò i guanti di lattice, “Proceda pure.” ridacchiò Fabrizio mostrandogli il corridoio del triage.
(...)
C’era un telefono che squillava ma Fabrizio non si prese nemmeno la briga di capire se fosse veramente il suo, stava davanti allo specchio a sistemarsi il colletto della camicia. Abbottono o non abbottono? E andava avanti così da ore: si girava, cambiava posa, si aggiustava i capelli e poi i polsini della giacca. Non gli andava bene quello che vedeva nel riflesso, sbuffava e pensava che forse quella camicia non era adatta ad un primo appuntamento.
Appuntamento? Ma io nun so più come se fa! E lui era campione olimpico dell’andare in paranoia, continuava a fissare l’orologio e poi lo specchio. Orologio, specchio. Capelli, colletto della camicia, lancette che scorrevano lente. Il telefono squillava ancora, lo cavò dalla tasca dei pantaloni sbuffando irritato.
Niccolò??
“Nì, che succede?” pronunciò agitato, che fosse successo qualcosa di grave?  
“Oh, ehm dottore.” disse l’altro. “Sta bene?” e sapeva che lo specializzando percepì che Fabrizio era abbastanza esasperato.
“Tutto bene ma, ti prego, fuori dall’ospedale chiamame Fabrizio, Fabbrì o come te pare.” ok, forse non era nulla di grave. “Perchè me stai a chiamà?”
“Posso chiederle un consiglio?” perchè tutte a me? E tossicchiò per fargli capire di sbrigarsi e domandare alla svelta.
“Insomma, questa sera esco con una ragazza…” disse piano tastando il terreno, “Volevo sapere una cosa?” altra pausa di cinque secondi. Fabrizio voleva solo scoppiare a ridere. “Nun me dire che sei agitato eh!”
“Eh, forse un po’. Come mi devo comportare?” sputò infine sospirando.
“Nun me dire che è quella che sta al triage!” e capì perfettamente che era così, ridacchiò sistemandosi per l’ennesima volta il collo della camicia.
“Devi essere te stesso Nì, te devi calmà e falla sorridere. E calmati, non c’è bisogno di agitarsi” SEI UN FALZO FABBRIZIO
“E’ abbastanza sicuro di questa cosa? Non che poi faccio figure e questa non mi vuole più?” pronunciò Niccolò con un filo di tensione nella voce.
“Ma che stai a scherzà? Te fidi de me?”  
(...)
“E te me stai a dì che non è Gomorra la serie più bella de sempre?” tossicchiò divertito Fabrizio posando il calice di vino sul tavolo. “No Bizio, stai sbagliando di brutto.” posò la forchetta Ermal spostando leggermente il piatto ormai vuoto. “Tecnicamente è Game of Thrones la miglior serie televisiva di sempre.” e concluse con la miglior faccia da saputello che potesse fare.
“Me stai a provocà?” ridacchiò Fabrizio osservandolo bene, “Non ti sto provocando, sto solo dicendo che ha una regia da paura.” rispose pacato il riccio.
Fabrizio si appoggiò allo schienale della sedia con un cipiglio serio, “Dimme che scherzi.”
“No Bizio, non scherzo.” e alzò di un’ottava il tono di voce mostrando fiero un sorrisetto di sfida, “Stiamo parlando di una delle migliori serie televisive prodotte. Questo lo devi ammettere.”
“Non lo ammetterò mai. So tutti capaci de mettere du draghi e quattro spade su uno schermo.” e ridacchiò giocando con il calice di cristallo. “Non mi sembra il caso di litigare su queste cose, si sa che ho ragione io.” sbuffò l’altro tamponando lieve le labbra con il tovagliolo.
“Ma tu sei sempre così testardo? Sai bene che ho ragione io ma nun vuoi darme ‘na soddisfazione.” sputò Fabrizio poggiando le mani sul tavolo. “Umh no, in verità sono molto convinto che tu stia sbagliando clamorosamente per il semplice fatto che tu non hai mai visto Games of Thrones e non hai manco la voglia per recuperare tutte le stagioni, quindi pensi che sia una serie scarsa e sopravvalutata.”
“Ma lo è Ermal, è sopravvalutata al massimo!” sbottò ridendo esasperato. “Non è assolutamente così invece!”
“Signori, signori.” i due scossero leggermente la testa richiamati dalla voce bassa e pacata di un cameriere. “State disturbando gli altri commensali, è inaccettabile!” si guardarono abbastanza stupiti ridacchiando leggermente. “Vi chiedo di abbassare la voce e di accomodarvi all’uscita.”
Fabrizio e Ermal tornarono a guardarsi negli occhi trattenendo a fatica una risata imbarazzata ma, senza proferire parola, si alzarono dalle proprie sedie e recuperarono i cappotti sghignazzando come se avessero tredici anni. “Nun me fa fare figure de merda pure ‘n cassa. Pago io e stai zitto.” sussurrò tra lo stizzito e il divertito Fabrizio, l’altro si limitò a sorridergli colpendolo con il gomito e soffocando una risata.
“Se vuoi possiamo andare a prendere il dolce e continuare la nostra discussione altrove.” propose il riccio mostrandogli la porta d’uscita.
Si incamminarono tra le strade della capitale, un po’ buie e un po’ illuminate dalla luce dei lampioni. Qualche luminaria natalizia a rendere l’aria più frizzante e gioiosa e la luna alta nel cielo, piena, argentata e bella. “Ce sta sto posto che fa delle pasta da paura.” tossicchiò Fabrizio indicandogli un vicolo sulla destra. “Guidami tu allora.” ridacchiò il riccio stringendosi nelle spalle per sentire meno il freddo pungente della notte. I bar chiusi, le seggiole di plastica bianca impilate e poste davanti all’ingresso insieme a quei tavoli Algida rossi che gli ricordavano tanto l’estate.
Due biciclette buttate a terra di chissà chi andato chissà dove che non avevano avuto nemmeno la decenza di metterle sul cavalletto, magari qualche avventuriero notturno che, a quell’ora, si concedeva delle delizie appena sfornate dai forni bollenti di qualche panetteria aperta pure in piena notte.
La luna li guardava passeggiare ancora con quel sorrisetto imbarazzato a curvargli le labbra. “Vabbè, non ammetterò mai che Game of Thrones sia la miglior serie televisiva di tutti i tempi.” ruppe il silenzio Fabrizio, “Ah va bene, se domenica non hai il turno vieni a casa mia e inizi a farti una cultura.” ridacchiò Ermal.
“Frena ricciolè, quello che si deve fare una cultura qua non sono io.” e alzò un sopracciglio guardando l’altro di sottecchi, un’insegna al neon illuminava la piccola via buia segnalando la presenza di una pasticceria aperta ventiquattr’ore su ventiquattro.
“Siamo arrivati.” annunciò Fabrizio sollevato e con lo stomaco che domandava il dolce, posò la sua mano sulla schiena del riccio che tremò leggermente a quel tocco inaspettato ma sorrise, eccome se sorrise aprendo la porta di quel piccolo locale. “Lascia fare a me, ordino io qualcosa. Tu aspettami e basta.” gli sussurrò Fabrizio troppo vicino al suo orecchio, il riccio fece spallucce attendendo che l’altro ordinasse il loro dolce.
Gli sembrava di essere tornato a Bari, seduto su un muretto con le gambe a penzoloni rivolto verso il mare, brezza estiva che gli scompigliava i ricci, i suoi vecchi amici e qualche dolcetto da gustare aspettando che il sole sorgesse all’orizzonte. Sapevano di conquista, di una notte intera passata a girovagare per le strade deserte, per quegli esami di maturità che si erano lasciati alle spalle e e per tutti quei momenti che si porterà sempre nel cuore.
Non era a Bari, era a Roma, era inverno ed era seduto ad un tavolino di una pasticceria popolata dai pochi avventurieri notturni e gruppi di amici. Davanti a lui non c’era il mare ma un parco verde ricoperto da una sottile patina di brina, Fabrizio gli sedeva accanto con un sorriso scemo stampato in faccia, dietro di lui solo la sua carriera lavorativa fatta di alti e bassi. Davanti a lui? Una vita intera. Solo che sentiva che qualcosa mancava, percepiva a fondo che mancava un brivido ma forse quel “brivido” l’aveva a pochi centimetri da lui.
Fabrizio, dal canto suo, stava bene. La sua mente era totalmente sgombra da ansie e pensieri negativi, si sentiva in pace davvero avendo al suo fianco un ragazzo, una persona che aveva la capacità di farlo stare una favola. Una cameriera posò due tazze di caffè fumante e un piattino con delle paste sul loro tavolo, Ermal al volo acciuffò un maritozzo prima che l’altro potesse rubarglielo. “Sei proprio un bastardo, eh.” sospirò Fabrizio facendo l’offeso (per la cronaca, si era davvero offeso).
Ermal ridacchiò prendendo un morso, veloce mise una mano sotto il dolcetto per evitare che la camicia si inzozzasse di panna. Fabrizio sorrise notando la palese difficoltà del riccio che nel frattempo si era sporcato pure la punta del naso, “Che te serve un fazzoletto?” ridacchiò l’altro facendogli notare un lembo della giacca sporco.
Erma alzò gli occhi al cielo allargando le braccia in segno di resa, “Questo è il karma ricciolè.” ma si zittì. O almeno, Ermal lo zittì posando le sue labbra su quelle rosse e morbide del moro, Fabrizio preso in contropiede quasi non si strozzò con la sua saliva.
Daje Fabbrì, daje che è il tuo momento e zittì quella vocina fastidiosa, si fece più vicino al riccio posandogli una mano tra i ricci leggermente sfatti, Ermal sorrise sulle sue labbra e, piano, chiese il permesso di approfondire il bacio. Se lo strinse più verso di sé posandogli una mano sul fianco e l’altra direttamente sulla nuca del moro, il cervello in corto circuito, il cuore che batteva all’impazzata, i sensi alterati e il profumo dolce di Ermal che lo stordiva completamente. Lo baciò, piano, con passione assaporando ogni suo minimo movimento e respiro, tirando leggermente le punte dei suoi capelli e giocando con i ricci morbidi.
Erano i polmoni che bruciavano per la mancanza d’aria ma l’assurda voglia di rimanere ancora un po’ uniti, ancora un po’ stretti. Il concetto di kiss me like nobody's watching Ermal lo conosceva bene, nella stanza c’erano loro due e basta. Il riccio si scostò per riprendere fiato, “Me potevi almeno lascià finì la frase, eh.” sussurrò Fabrizio, l’altro sorrise mimando un no con la testa per poi lasciare un bacio lì, sull’angolo sinistro della bocca del più grande.
Come al solito eccoci alla fine di questa parte, vi ringraziamo per essere giunti fino a qua.
Vi abbracciamo e alla prossima parte.❤
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solotucurime · 7 years ago
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Let me mend your broken heart.
PARTE CINQUE
Due settimane. Quattordici giorni e nessun miglioramento. Almeno questo era quello che gli avevano comunicato le infermiere del piano perchè lui proprio non se la sentiva di andare a controllare, non dopo l’ultima volta.
Lo avevano portato in terapia intensiva dopo l’operazione e Fabrizio aveva passato la notte alternandosi tra i suoi pazienti e la stanza di Ermal.
Vederlo lì, pallido, con le ferite sul viso e ancora incosciente lo faceva stare male. Sperava con tutto il cuore che si riprendesse al più presto.
E effettivamente così fu: due giorni dopo  Ermal si riprese. E fabrizio sapeva bene come funzionavano i traumi, lo sapeva bene, aveva passato anni a studiarli, eppure quando entrò in stanza non potè fare a meno di preoccuparsi.
Ermal stava guardando fuori dalla finestra cercando di tenere gli occhi aperti il più a lungo possibile; quando lo sentì entrare si voltò verso di lui “Buonasera dottore, come sto?” e Fabrizio per un momento sperò davvero che Ermal fosse tornato il solito Ermal e lo stesse prendendo in giro ma, quando lo guardò negli occhi, si accorse che non erano gli stessi occhi marroni in cui era caduto spesso negli ultimi mesi, erano spenti e distratti.
Ermal infatti tornò subito a voltarsi verso la finestra e dopo vari minuti di silenzio durante i quali il più grande era rimasto immobile nella stanza, l’altro tornò a voltarsi verso di lui “Mi scusi ma stamattina non era un’altro dottore che era venuto a visitarmi?”.
Perchè si Ermal era sveglio da qualche ora ma Fabrizio essendo di turno non era riuscito a liberarsi nemmeno un secondo per andare a vedere come stesse. A quelle parole la realtà lo colpì in pieno viso, quello che sospettava fosse successo appena aveva sentito le prime parole del collega, ora sapeva essere la verità: Ermal non si ricordava di lui.
Si sentì mancare e fu costretto a scappare dalla stanza. Arrivato in corridoio si mise a correre su per le scale con il respiro affannoso e la vista sempre più sfocata. Si diresse verso il terrazzo rendendosi conto solo a metà tragitto che non sarebbe stata una buona idea, proprio per niente.
Mentre la mente continuava a ripetere le parole di Ermal e i suoi piedi si muovevano da soli alla ricerca di un posto all’aperto, due mani lo afferrarono e lo trascinarono verso il balcone del piano in cui si trovava. Elisa, il chirurgo neonatale con cui aveva lavorato spesso, era lì e lo stava aiutando. Cercò di concentrarsi su di lei che lo invitava a respirare più lentamente: “Fuori dalla bocca e dentro dal naso Fabbrì, con calma, segui i miei respiri.”
Dopo una decina di minuti riuscì a calmarsi e raccontò tutto a Elisa che lo rassicurò ricordandogli che erano normali delle amnesie temporanee dopo i traumi e che Ermal si sarebbe presto ripreso
“Grazie Elì, davvero” la ringraziò Fabrizio; avevano sempre avuto un bel rapporto loro due e ancora una volta Elisa si era rivelata una persona su cui poteva contare.
Dopo quell’avvenimento si era promesso che sarebbe tornato da Ermal solo quando questo si fosse ripreso completamente. Era egoista, lo sapeva, ma non poteva farsi del male inutilmente e la paura che l’altro non si ricordasse più di lui non lo faceva ragionare lucidamente;
Per questo dopo qualche giorno di permesso, era tornato a lavorare cercando di levarsi dalla mente il suo collega.
Solo a fine turno, ogni giorno, si concedeva di chiedere le condizioni del riccio alle infermiere in terapia intensiva
Nessun miglioramento se non la ripresa quasi totale dal coma: Ermal continuava a ricordare ben poco.
(…)
Era sera e stava uscendo dall’ospedale quando il telefono gli squillò in tasca.
Lo schermo riportava “Ermal?” e il panico iniziò a farsi strada nel suo corpo: chi e perché stava chiamando con il telefono del collega e soprattutto era successo qualcosa di grave?
Una voce flebile lo chiamò dall’altro capo, non ci poteva credere: “Ricciolè stai bene?”
“Ti ho svegliato? Ti disturbo? Scusa è che non sapevo chi chiamare”
“Non mi disturbi affatto ho appena finito il turno e stavo uscendo, passo da te va bene?” chiese mentre già stava facendo le scale di corsa.
Quando arrivò davanti alla stanza di Ermal il suo cuore batteva a mille un po’ per la corsa  e un po’ per la chiamata inaspettata di Ermal.
“Scusa se ti ho chiamato, è che non ho nessuno qui e oggi ho parlato con mia madre ma le ho detto di non salire e non so a chi chiedere”
“Respira ricciolè mi fa piacere essere d’aiuto. Come stai? Che ti serve?” Lo vedeva stanco, spossato e ancora confuso e disorientato ma almeno lo riconosceva e questo lo faceva stare un po’ più tranquillo. Avrebbe voluto scusarsi per non essere passato e per aver aspettato che fosse stato l’altro a chiamarlo ma non sapeva da quanto si ricordava e cosa si ricordava quindi preferì evitare e fare finta che fosse tutto normale”
“Mi hanno detto che dovrò stare qui ancora un bel po’ e inizio a puzzare e avrei davvero bisogno di vestiti da mettere, anche solo pigiami e poi mi annoio qui e mi manca la musica, cioè quando non lavoro nel tempo libero suono o leggo ma qui ci sono solo queste riviste gossippare che mi annoiano”
“Ok posso portarte qualche libro ma nun dovresti suonare, il tuo braccio non deve essere sforzato”
“Ti prego non lo uso e mi invento qualcosa ti giuro” Lo implorò il più piccolo chiaramente frustrato da quella situazione. Effettivamente non riusciva a immaginare come si potesse resistere così tanto tempo inchiodato nello stesso letto. Lui era sempre stato dall’altra parte e mai aveva sperimentato il ruolo di paziente.
“Hai da fare stasera?” domandò il riccio con una nota di speranza nella voce
“No e domani ho il turno la sera, se vuoi posso restare qui stanotte a tenerti compagnia o semplicemente lasciarti dormire”
“Insomma non vorrei costringerti però mi farebbe piacere si” sorrise stanco.
“Ok ma io c’ho fame e penso che ordinerò qualcosa. Tu devi promettermi che non soffrirai troppo alla vista de cibbo vero e non sta robaccia che ti obbligano a mangiare qua”. L’altro fece una smorfia prima di mettersi a ridere e a Fabrizio era mancata quella risata, eccome se gli era mancata. Prese la poltrona a disposizione e si avvicinò a lui. Iniziarono a raccontarsi aneddoti della loro vita che ancora non conoscevano, spesso era il più grande a parlare perchè l’altro si stancava a fare discorsi troppo lunghi però vedeva i suoi occhi più luminosi di quando era entrato nella stanza e questo lo faceva stare bene.
All’ennesimo racconto sui suoi esami falliti, Fabrizio alzò la testa e vide Ermal profondamente addormentato con la testa storta e i ricci che gli coprivano in parte il volto. Si avvicinò per sistemare meglio il cuscino sotto la sua testa e rimboccargli le coperte; era quasi l’alba e decise di tornare a casa non prima di aver scritto su un fazzoletto trovato sul comodino che sarebbe tornato l’indomani con quello che aveva chiesto. Si era reso conto che Ermal non gli aveva detto dove abitasse ma non se la sentiva di svegliarlo per chiederlo né tantomeno tornare il mattino a mani vuote, gli avrebbe prestato qualcosa di suo.
Tornò il mattino dopo davvero, sul tardi però perchè si era perso nella libreria dove era andato per comprare i libri per Ermal. Già considerava le librerie una sorta di Casinò Lotus, dove entri e perdi la cognizione del tempo, quando poi dovevi comprare dei libri per una persona che conosci da poco e di cui ignori totalmente i gusti sai che bell’impresa!
Alla fine aveva optato per un libro per genere più o meno: un giallo, un thriller, un classico e persino una commedia romantica. Non voleva risultare impreparato insomma.
A quella che quasi possiamo chiamare biblioteca aggiunge una sua tuta, un suo pigiama e alcune magliette delle sue band preferite. E infine la tanto richiesta chitarra, chitarra che ovviamente era sua e con la quale condivideva uno stretto rapporto: insomma lasciarla in ospedale non sarebbe stato facile. Si fidava del riccio ovviamente ma le sarebbe mancata la sua compagnia in casa.
Non gliela portò in camera, ci mandò Niccolò. Era troppo in ritardo per potersi permettere due minuti in compagnia del riccio, si augurò soltanto che Ermal non si offendesse.
(…)
Fabrizio era abbastanza incazzato. Esatto incazzato e se vi chiedete il perché, è solamente una nottata da far concludere alla svelta. La notte in pronto soccorso o non passava mai, o passava troppo veloce. Quella volta sembrava che le lancette dell’orologio non volessero girare più, eppure ne aveva avute di cose da fare, eppure aveva assistito un paio di pazienti abbastanza gravi. Nulla da fare, il tempo non passava.
Solo quando smontò dal turno tirò un lungo e rilassato sospiro di sollievo. Come al solito, prima di rincasare, passò per il suo reparto salutando gli infermieri di turno. Solo che sentiva che mancava qualcosa, qualcosa che necessariamente andava fatto. Non si tolse nemmeno il camice e, con le gambe che andavano da sole e il cuore a mille, percorse il corridoio del reparto di traumatologia, il cuore stretto in una morsa sempre più leggera.
“Martina, deve medicare qui?” chiese all’infermiera con un gran sorriso sul volto, l’altra fece sì con il capo. “Lascia, faccio io.” spuntò Fabrizio congedandola.
Bussò piano sullo stipite, “E’ permesso?” sussurrò lanciando un’occhiata nella stanza invasa dalla luce dorata del mattino. “Fabrizio, entra!” salutò una voce arrochita dal sonno e dalla stanchezza. Ermal si tirò piano a sedere incurvando le labbra in una smorfia di dolore.
“Lascia stare, stai buono dove sei.” gli si fece vicino, “Come stai Ermal?”
“Molto meglio, grazie.” rilassandosi in un sorriso stanco. Si ritrovò gli occhi nocciola del riccio puntati nei suoi, belli, bellissimi.
“Dai fammi vedere un po’ la cicatrice.” borbottò Fabrizio scacciando quel pensiero dalla testa. Ermal alzò la maglia mostrando un cerotto sul basso addome, le dita leggere del moro lo rimossero mostrando il taglio netto dell’intervento sulla pelle diafana. “Hai una bella cicatrizzazione.” gli fece notare.
Ermal rise e: “Lo prendo come un complimento.”, Fabrizio delicato deterse la pelle arrossata e leggermente tesa dai punti di sutura, il riccio fremette leggero sotto le premure del medico. Non tanto perché il disinfettante un po’ bruciasse, a quello non fece caso, ma era la vicinanza a Fabrizio, era quel dopobarba mischiato ai detergenti di pulizia delle sale. Era il nasino all’insù, le gote sporcate da lentiggini leggere e quegli occhi attenti, stanchi ma comunque brillanti.
Con la stessa cura e precisione controllò la ferita sulla tempia, “Hai fatto un bel volo.” constatò spostando i ricci che ricadevano morbidi sulla fronte. “Umh, non male. Ne ho fatti di peggiori.” sussurrò Ermal attento a non muoversi.
“Come sta il polso?” e il riccio se lo osservò come se fosse diventato la parte più interessante del proprio corpo. “Non fa più male.” sbuffò tamburellando le dita sul gesso, Fabrizio lo guardò scettico e: “Una frattura scomposta al radio non fa più male?” e Ermal si limitò a sbuffare in modo così teatrale e drammatico che diede fastidio pure a se stesso.  
“Che cosa hai intenzione di fare?” pronunciò Ermal alla vista di una siringa, Fabrizio rise di gusto “Sei un medico chirurgo e hai paura degli aghi?”. “Non esattamente.” si affrettò a precisare il più giovane, “Gli aghi mi danno fastidio solo se vengono a contatto con la mia pelle, non mi fa nulla inserire cannule nelle braccia dei miei pazienti!”    
“Hai presente che le mie infermiere distraggono i bimbi quando devono fare un’iniezione e ora lo devo fare io con un trentasettenne?!” e a Fabrizio faceva ridere tutto ciò. Ermal sbuffò un basta che fai in fretta con quel tono urgente e piccato.
Fabrizio ci pensò un po’ mentre picchiettava l’indice della mano destra sulla camicia della siringa, fece uscire l’aria spingendo leggermente lo stantuffo. Ci pensò, voleva farlo ma sentiva la preoccupazione di venire respinto viva nel petto, la paura di allontanarlo da sé.
Fabrizio si vive una volta sola, si avvicinò al riccio e, poco prima che potesse fargli l’iniezione, posò le sue labbra su quelle di Ermal. Leggero gli lasciò un bacio mentre premette lo stantuffo nella siringa, si scostò solo quando ritirò l’ago dall’addome dell’altro.
Ermal lo guardò con quegli occhioni da cerbiatto, grandi, scuri e forse un po’ stralunati dal gesto appena ricevuto. Si limitò a sorridere un po’ imbarazzato e Fabrizio ricambiò sperando che le sue gote non avessero assunto il colore della porpora, sembrava in preda ad una colossale cotta adolescenziale.
“Buona giornata Ermal.” salutò recuperando le sue cose. L’altro alzò la mano con un leggero sorriso sincero a curvargli le labbra, “Anche a te Fabrizio.”
Tornò da lui due giorni dopo, verso sera, quando ormai i parenti avevano lasciato le camere dei pazienti e al loro posto le infermiere somministravano medicinali e cure.
“Dimme un po’, la sai suonare davvero la chitarra?” tossicchiò Fabrizio sulla porta della camera. Ermal si illuminò per poi stirare le labbra in un ghigno di sfida: “Il gesso me lo impedisce!”
Il moro sorrise di rimando sistemandosi sulla poltrona, si accomodò meglio e prese il suo amato strumento pizzicando dolcemente le corde. “Suonala un po’ te.” soffiò Ermal poggiando la testa sul cuscino.
“Nun mangi?” si allarmò l’altro guardando ancora il vassoio della cena intatto. Il riccio fece no con la testa: “Ho la nausea.”
“Aspetta che chiamo l’infermiera, te faccio mettere la flebo.” si raddrizzò Fabrizio ma venne bloccato dalla voce flebile dell’altro: “Se suoni un po’, mi passa.” e rise piegando le labbra in una smorfia di dolore. Prese un respiro e si accomodò di nuovo sulla poltrona, tornò ad accarezzare le corde. “Che te suono?”
“Quello che vuoi!” me complichi la vita così!!
“Sai che te dico, te faccio un inedito!” e ridacchiò, “L’ho scritto anni fa quindi nun me criticà!”
“Non potrei mai Fabrizio! Anzi, sono molto onorato!” sorrise Ermal sistemandosi un riccio che gli cadeva davanti agli occhi. Il più grande lo prese come una conferma, piano cominciò a pizzicare le corde riproducendo quella vecchia melodia. Cantava, piano, sussurrando le parole, con quella sua voce roca e bassa, cantava di qualcosa di eterno e Ermal non potè che abbandonarsi a quelle parole.
Aspetta qui per un minuto e stringi le mie mani fino all’infinito e a Ermal parve per un attimo di rivedere casa sua, sua madre e i suoi fratelli, il suo mare e la sua vita.
Che se ti guardo io non ci credo che da domani sarà tutto cambiato e si era trasferito a Roma, con il suo sogno più grande in un bagaglio a mano e le chiavi del nuovo appartamento in tasca. Dietro di lui chilometri e chilometri, una lunga strada che lo separava dai suoi affetti più stretti ed importanti.
E non ci vedremo più, perché in fondo l’eternità per me sei tu e poi c’era la nuova equipe, la piccola Giulia, le corse in pronto soccorso. Non lo vorrebbe ammettere, ma in quel percorso ci vorrebbe pure mettere Fabrizio. Si addormentò senza che la nausea gli attanagliasse la gola.
Se invece chiedessimo a Fabrizio che cosa stesse pensando mentre canticchiava quella canzone, beh, il suo viaggio. Quel viaggio che lo portò lontano da casa per molto tempo, quel viaggio inciso sulla sua pelle e nella sua memoria a fuoco come quello che vide tra le corsie di quei piccoli ospedali in cui prestava servizio. Se glielo chiedete, lui nega, nega sempre tutto e tenta di cambiare discorso, quel viaggio se lo porta nel cuore come una delle più grandi lezioni di vita mai apprese.
(…)
Arrivò dicembre, il suo freddo pungente e con esso la neve che bianca scendeva copiosa dal cielo lattiginoso. Si avvolse la sciarpa al collo e ci affondò il naso tentando di riscaldarsi un po’, si maledì perché la sera prima aveva deciso di indossare delle pratiche scarpe da ginnastica e ora aveva freddo ai piedi.
Salì in macchina, poggiò il pacchetto delle paste su sedile del passeggero e sbuffando, si immise nel traffico mattutino della capitale. I Boston cantavano More than a feeling e forse sì, era più di una sensazione e se la sentiva nel cuore che batteva e gli faceva tremare piano le mani che reggevano il volante.
E quella sensazione aumentò solo dopo aver posteggiato la macchina ed essersi fermato davanti al citofono di un vecchio palazzo. Sospirò, me prenderà pe’ pazzo.
Eh, mo che faccio?
Si guardò intorno sperando che nessuno lo vedesse tendere l’indice sul tasto argentato a fianco ad un cartellino bianco, un po’ tremante, un po’ titubante. Lo pigiò e aspettò, contò un minuto preciso, sessanta fottuti secondi. “Vabbè nun ce sta.” sbuffò facendo un passo indietro quando…
“Chi è?” chiese una voce metallica, Fabrizio quasi si strozzò con la sua stessa saliva. “Ehm-Ermal so io, Fabrizio.” tossicchiò. “Oh. E come sai che abito qui?” e il moro alzò gli occhi al cielo sbuffando. “Se me fai entrà te spiego.” e udì solo una leggera risata e lo scatto del portone di legno che si apriva, lo scostò e si infilò nell’androne delle scale.
“Oddio, nun m’ha detto il piano.” e avrebbe voluto tirare una testata al muro, non si perse d’animo e mise un piede sul primo scalino. Quel bastardo lo attendeva sull’uscio di casa, ancora in pigiama e con un sorrisetto sornione a curvargli le labbra, “Oh me potevi dì che stavi al quinto piano.” soffiò Fabrizio portandosi una mano al petto. “Io ti dico sempre che fa male fumare.” e scoccò uno sguardo al secondo ridacchiando tra sé, “Dai, entra.”
“Che ci fai qui?” gli chiese chiudendo la porta blindata. L’altro si stropicciò un occhio poi allungò il pacchetto di paste esordendo con un: “T’ho portato la colazione.”
“Non dovevi disturbarti.” disse il riccio sbirciando il contenuto del pacchetto. “No è che volevo sapè come stavi.” aggiunse levandosi quell’orribile cappello di lana che aveva calcato in testa.
“Sto bene Fabbrì.” e trascinò quelle b fino allo sfinimento, “Dai ti faccio un caffè, accomodati.” e quel poveretto di Fabrizio si stava torturando le mani dall’ansia, sbottonò piano la giacca e si levò la sciarpa dal collo. Sentiva quella sensazione strana alla bocca dello stomaco, gli annodava il cuore e gli faceva tremare le gambe.
Ma sono o no ‘n’omo de quarant’anni? Daje Fabrizio, daje. Chiedigli se vuole uscire!
“Ermal?” domandò ma la voce gli si fece flebile, poco udibile. Il riccio mugugnò dalla cucina facendogli capire che poteva parlare. Le parole gli morirono in gola, tossicchiò sperando si riacciuffare il coraggio e la sua integrità per i capelli, “Bizio, mi hai chiamato?” domandò Ermal facendo spuntare la testa riccioluta dalla porta della cucina.
Bizio? Bizio?
Ora del decesso: otto e ventidue minuti.
“Oh, sì te stavo a chiamà.” sorrise stirando le labbra, sperò solo di non aver sfoggiato la sua classica faccia imbarazzata. “Dimmi, dimmi tutto.”
Ma che devo diree?
“Aspetta che te do ‘na mano.” e si alzò da tavola dandosi dello stupido. “Tranquillo, non ne ho bisogno.” ridacchiò l’altro cercando di avvitare con una mano la caffettiera. Gliela levò gentilmente dalle mani chiudendola con cura, “E te ce l’avresti fatta con il tutore?” sghignazzò Fabrizio portandosi una mano alla nuca imbarazzato.
“Uhm, forse no. Ti avrei chiamato.” rispose Ermal pigliando delle tazzine da un armadietto. “Accomodati, lascia fare a me.” e Fabrizio lo pregò con lo sguardo quasi per dirgli te prego, sto a fà ‘na fatica immonda e forse Ermal l’aveva intuito, si andò a sedere in sala da pranzo portando con sé la zuccheriera.
Il forte profumo del caffè richiamò l’attenzione di Fabrizio, spense il gas e versò il liquido scuro in tazzine prese con i punti del supermercato. Appuntati, regalagli un servizio Nespresso per Natale.
Reggeva il vassoio con due tazze di caffè fumante, raggiunse il riccio e si accomodò poggiando successivamente le mani sul tavolo di legno ruvido, tastò le rigature che quasi parevano vene, quelle sporgenti delle braccia bianche di Ermal.
“Spero sia buono sto caffè.” sospirò divertito Ermal. “Guarda che so mettere una moka sul fornello.” si sbrigò a sputare Fabrizio porgendogli una tazzina e il sacchetto delle paste. “Non ci hai messo cose strane, vero?” e il moro lo interrogò con lo sguardo. “Chessò, uff. Rosmarino, vino, cioccolata, tabasco?”
“Che è? Il caffè della Peppina? Bevi e sta zitto.” sbuffò facendo roteare il cucchiaino nella tazza. Ermal incurvò le labbra in un sorrisetto sornione e prese un sorso, si limitò a inumidirsi le labbra rosse con la lingua posando la tazzina sul piattino abbinato. Fabrizio si trattenne deglutendo.
“Insomma Ermal, te dovevo dì ‘na cosa.” tossicchiò riprendendosi. L’altro piegò la testa verso sinistra e: “Prego, ti ascolto.” ridacchiò.
Che dico? Vieni a cena con me? Forse troppo diretto. Provo con “Ti andrebbe di uscire con me? Nulle de serio, eh!”
“Si, mo’ te spiego.” prese tempo, l’altro sbuffò facendo il finto irritato. “Bizio, esci a cena con me?” disse l’altro dopo una manciata di secondi passati a far roteare il cucchiaio nella tazza ormai quasi vuota, quasi Fabrizio non soffocava. Sbarrò gli occhi, cercò l’aria che i polmoni non volevano fornirgli e: “Te lo volevo chiedere io.” confessò.
“Se avessi aspettato te saremmo ancora ai convenevoli.” tossicchiò l’altro prendendo l’ultimo sorso di caffè. “Allora, ci vieni o no?” domandò di nuovo addentando un cornetto.
“Certo, certo che ce vengo.” rispose un po’ piccato perchè daje Fabbrì ma che te prende?
“Venerdì alle otto?”
“Eh, cosa?”
“Va bene venerdì alle otto?” ridacchiò Ermal nel vederlo in difficoltà. L’altro annuì, so’ proprio un disgraziato.
Eccoci tornate dopo un periodo di silenzio, come al solito grazie per essere giunti fino a qua!
Vi abbracciamo e alla prossima parte❤
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solotucurime · 7 years ago
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Let me mend your broken heart.
Qua lasciamo la parte precedente.
 PARTE QUATTRO
Fabrizio sbadigliò appena controllando le ultime cartelle cliniche, le medicazioni da far eseguire alle infermiere e le carte di dimissione dei suoi piccoli pazienti. Tutto apparentemente in ordine, tutto apparentemente tranquillo in reparto quella mattina.  
Buttò un occhio al suo orologio e poi svelto controllò la tabella dei turni. Strano, Ermal non è mai in ritardo, Mr Precisione non sgarra mai. Bah.
Posò gli occhiali da vista sulla scrivania massaggiandosi gli occhi e sentendo la stanchezza fargli tremare leggermente le gambe. Aveva voglia di cambiare aria anche solo per un paio di ore, staccare la spina per non sentire più quell’ammasso di pensieri e ricordi che non lo facevano dormire la notte,
“Dottore, dottor Mobrici” chiamò l’infermiera nel corridoio, Fabrizio si affacciò vedendo Anna arrivare di corsa. “Piano Anna, cosa succede?” chiese facendola tranquillizzare. “Urgenza in pronto soccorso, richiedono la sua presenza” ed ecco che sentì il cuore battere a mille, l’adrenalina scorrergli nelle vene. “Anna, dimmi.”
L’infermiera prese una boccata di aria e poi: “Incidente multiplo, un morto e tre gravi”. Richiuse il camice e mollò il cellulare sulla scrivania, sentì il cercapersone vibrare nella tasca e lo zittì premendo un tasto. Corse giù per le scale, gli si fece vicino Roberto, il primario di neurochirurgia. “Ci sarà da divertirsi oggi.” disse questo con un tono amaro e Fabrizio annuì appena.
Le porte del pronto soccorso si aprirono e il triage era in subbuglio. Vide la prima barella entrare scortata da quattro paramedici, si avvicinò pronto ad osservare la vittima quando.
Vide.
La seconda barella. Sgranò gli occhi notando Ermal immobile e con il volto ricoperto di sangue entrare in pronto soccorso. Nemmeno un respiro che si fece vicino ai paramedici, l’ansia a mille. “Ditemi tutto!” si affrettò a dire. “Uomo, sui 35 anni, Glasgow¹ 3. Bloccato tra il cruscotto e il vetro, ha un taglio abbastanza profondo sulla tempia, le bende non reggono l'emorragia”
“Pressione?” si affrettò a chiedere guidando la barella dietro il triage. “90 su 50, tachicardico a 140 e saturazione al 100%” e sentiva le gambe di gelatina. Lo stomaco e la testa un gran casino, non risponde agli stimoli, non reagisce ad alcun tipo di dolore. Subito il primario prese in mano la situazione, dettò un paio di ordini e si affrettò a far posizionare Ermal su di un’altra barella mantenendolo sulla tavola spinale. “Mobrici, sostituisca il tubo laringeo con un endotracheale.” e ragionava a fatica. Non riusciva nemmeno a credere al fatto che quello fosse Ermal, le mani gli tremavano ma riuscì nel minor tempo possibile a sostituire il tubo.
“Ma non è un nostro medico?” chiese un’infermiera mentre gli infilò un ago nel braccio. “Certo è il mio collaboratore.” soffiò Fabrizio ancora ritto dietro la barella. “Ermal Meta, 37 anni, cardiochirurgo.”
“Sai altro su di lui? Patologie, allergie, farmaci specifici?” ma fece di no con la testa, nulla che potesse essere utile al momento. “Ha dei parenti in città a cui possiamo chiedere?” e Fabrizio fece mente locale rispondendo prontamente che “No, ha tutta la famiglia a Bari. Qua lui è da solo.”
“Non è cosciente, non apre gli occhi dal momento dell’incidente” commentò un infermiere. “Voglio il tracciato celebrare, un’ecografia all’addome e il cardiogramma completo, la pressione è in continuo calo.” disse perentorio il primario e non persero tempo. Fabrizio era come scosso, non ci poteva credere ancora. Avrebbe voluto urlargli che a lui gli scherzi di questo tipo non piacciono assolutamente, non aveva nemmeno la forza di guardarlo. Stava lì, immobile come se volesse prenderlo per il culo.
“L’addome è completamente immerso nel liquido, fate preparare la sala operatoria.” e l’equipe si scostò, la barella venne portata via. Nel triage rimasero in due: Fabrizio e il primario. 
“Mobrici, si vada a sistemare. Opera anche lei.” 
Avevano inciso e tamponato l’ingente perdita di sangue. Fabrizio respirava lentamente, teneva a bada il cuore che come un matto batteva nella sua cassa toracica. Ermal non fare scherzi cazzo. Le mani tremavano nel passare strumenti e pulendo i lembi di pelle tagliata, gli occhi pizzicavano, li sentì umidi di lacrime nervose che ricacciò a fatica.
“Mobrici, sta bene?” chiese il primario, tirò su con il naso e si affrettò a rispondere. “Sì, sto bene Baglioni” ma questo si accorse del tremore nervoso dell’altro. “Mobrici le devo chiedere di lasciare la sala operatoria.” e alzò gli occhi dall’addome di Ermal. “Non si opera in queste condizioni” e Fabrizio si sentì come colpito al cuore, “La prego, non dica così.” soffiò soltanto e la sua forza scemò insieme alla sua voce.
“Lasci la sala, ora.” e con un gesto della mano gli indicò l’uscita. “La prego mi faccia restare, la prego” cercò una conferma negli occhi dell’equipe, qualcuno che lo facesse restare. Andrea, un infermiere e l'anestesista gli si fecero vicini, Fabrizio si divincolò da quel tocco. Ermal ci stava per lasciare le penne e lo volevano fuori dalla sala? Un fastidioso fischio fece tacere tutti i presenti, un’occhiata alle macchine e il panico si fece vivo nel petto di Fabrizio.
“Non c’è polso, è in arresto cardiaco!” si affrettò a comunicare un’infermiera. “A me le piastre.” e per poco Fabrizio non urlò Ermal che cazzo ti salta in mente. Lanciò uno sguardo al riccio steso sulla barella poco prima che il corpo venne invaso dalla prima scarica, poi la porta della sala operatoria chiusa davanti ai suoi occhi.  
Si tolse i guanti in lattice con uno schiocco e sbuffò frustrato sull’orlo di una crisi di nervi, mollò il camice e lasciò la sala operatoria confondendosi tra le persone che animano l’ospedale quella mattina. Sentì un nodo al cuore, lo strozzava e non lo faceva respirare, da quando reagisce così? Da quanto il cuore comanda sulla sua parte razionale? 
Si doveva sedere all’istante, da qualche parte, per far si che il sangue arrivasse anche al cervello e non lo facesse collassare in mezzo ad un corridoio asettico.
Respirò a fondo mettendo in pratica quel giochino che gli insegnarono tempo prima per controllare gli attacchi d’ansia. Premette la schiena contro lo schienale della seggiola conta Fabrizio, conta e stai tranquillo.
Cinque oggetti che vedo. Fece vagare lo sguardo richiamando tutta la sua forza: la sedia blu, una barella, l’estintore rosso, la porta del triage, una sedia a rotelle. Ermal.
Quattro oggetti che posso toccare. Tirò un respiro profondo e sentì il cuore in tachicardia: il camice ruvido, il cercapersone che ho in tasca, la seduta della sedia, il pavimento sotto i miei piedi. Ermal.
Tre oggetti che sento: le voci di due infermiere, un bimbo che piange e i ticchettio dei tasti di un computer. Non sapeva come levarselo dalla testa, contava e cercava di calmarsi ma Ermal c’era sempre.
Due oggetti che annuso: il camice che sa di ammorbidente e i prodotti per la pulizia. Ermal.
Un oggetto che gusto. Non ne trovò ma sentì il cuore rallentare, inspirò piano e serrò gli occhi. Buio.
(...)
Roberto, dopo essere rientrato dalla sala operatoria, venne placcato da Fabrizio. “Roberto dimmi, sai qualcosa dei feriti di questa mattina?” l’urgenza nella sua voce scosse l’amico. “Fabrizio calmati, sono stati spostati tutti e tre in terapia intensiva.” e il suo cuore fece un balzo, Ermal è “vivo”. Con un grazie detto a mezza voce prese a salire le scale come un dannato, non si perse tra quei corridoi che per molti possono sembrare un labirinto. Spinse la porta dell’ingresso del filtro della intensiva, si vestì indossando i capi di protezione e si spinse tra i corridoi bianchi.
Lo vide dietro ad un vetro, steso sul letto e i morbidi ricci sparsi sul cuscino. Era abbastanza normale sentire qualche suono poco rassicurante provenire da qualche macchina e Fabrizio rimaneva in apnea appena ne udiva uno.
Un’ingente quantità di tubicini e fili pendevano dalla sua figura adagiata tra un paio di cuscini. Gli avevano ripulito il volto dal sangue e, con un paio di punti, avevano chiuso quel taglio sulla tempia, il respiratore lo aiutava ad ossigenare il sangue e a farlo respirare meglio. Sentiva il lieve ronzio delle pompe infusionali, qualche beep beep ogni tanto ma nessuno accorreva, voleva dire che non era nulla di grave.
Si sentiva tremendamente inutile. Tremendamente fragile come se si potesse spezzare da un momento all’altro, Fabrizio fece scorrere lo sguardo in quella stanza asettica in cui l’avevano spostato, era tutto così surreale.
Si prese la testa tra le mani poggiando la schiena contro la parete voltando le spalle al vetro della camera, come mai stava così? Perché stava quasi per piangere in sala operatoria? Perché il suo cuore non la smetteva di battere come un forsennato nel petto? Tirò un lungo sospiro, si impose di mantenere il controllo. Lanciò di nuovo uno sguardo nella stanza sperando che non ci fosse Ermal lì dentro, sperando che non ci fosse nessuno in realtà.
Ermal, Ermal e Ermal. Perchè si sentiva così?
(...)
Aveva collegato che cosa fossero i documenti di cui aveva parlato Ermal tempo fa. Aveva collegato quello al fatto che lo vedesse sempre più spesso in ospedale. 
Una mattina di poco tempo prima, avendolo incontrato nell'atrio, gli si avvicinò: “Te posso offrire un caffè, buono questa volta però, per ringraziarti dei tuoi discorsi motivazionali”, “Non mi devi ringraziare ma si, lo accetto volentieri un caffè al bar. Quelli delle macchinette sono proprio terribili.”
“Eh me ne so’ accorto quella volta che facevi le facce perché te faceva schifo” ridacchiò.
Non lo fece apposta ma rivelò a se stesso che lo aveva osservato, anche quando pensava fosse uno strafottente. Aveva osservato quella testa ricciuta che si aggirava per i corridoi sempre più spesso, quel suo modo di camminare un po' strano, l'aria altezzosa ma gli occhi spesso insicuri, il modo in cui arricciava il naso quando si concentrava.
Non voleva ammetterlo ma si era interessato a quel ragazzo e la chiacchierata sul terrazzo aveva decisamente fatto crollare i muri di Fabrizio, decise di conoscere per davvero quel cardiochirurgo, non solo da quello che leggeva sulle riviste scientifiche.
“Ma quindi come mai sei sempre qui?? Non che non me faccia piacere ma tu non lavoravi a' n’ altro ospedale?”
Ermal arrossì a quella rivelazione inaspettata ma cercò di nascondere il volto bevendo un sorso del caffè che aveva appena ricevuto. “Mi hanno offerto un posto qui perché il cardiochirurgo si trasferisce e ho deciso di accettare; penso mi faccia bene questo cambiamento perché non avevo più stimoli di miglioramento a Bari”
“Ah me pareva non fossi de Roma, bella Bari? Io non potrei mai lasciare la mia Roma” “Bari sarà sempre la mia casa ma cambiare a volte fa bene" disse con tono amaro, Fabrizio notò di aver toccato un tasto dolente, voleva quasi scusarsi di essersi cacciato in quel mezzo pasticcio.
“Hai ragione.” riuscì a soffiare per poi finire, con un ultimo sorso, il caffè. “Posso chiederti una cosa?” ruppe il silenzio poco dopo, “Perchè ascolti quella musica in sala?” trascinò un po’ il quella alludendo al fatto che non fosse proprio il suo genere.
Ermal alzò gli occhi dalla sua tazzina e: “Mi aiuta a rilassarmi, insomma a chi non piace la musica classica?” rise, Fabrizio non si trattenne dal dire a me alzando la mano. Il riccio sbuffò incurvando le labbra fini in una smorfia alquanto schifata.
“Io preferisco altro, ma dato che ai miei collaboratori non piace quell’altro metto la radio.” disse con un gesto secco della mano. “Che musica ascolti?” lo incalzò Ermal appoggiando il mento sulla mano destra. “Mah, c’ho sta fissa per i Guns N' Roses. Ma ‘nsomma, in sala a volte nun piacciono.” sbuffò.
“Non hai dei brutti gusti allora.” ridacchiò Ermal, “E ce mancherebbe pure.” sbottò divertito l’altro aprendo le braccia, solo che urtò il bicchiere di acqua dell’altro, questo cadde e gli inzuppò la camicia inamidata. “scusascusascusa me dispiace troppo.” sbottò Fabrizio alzandosi in piedi brandendo un tovagliolo e poggiandolo sul petto dell’altro.
“Fabrizio calmati.” rise di gusto, “Non mi hanno sparato, non sto perdendo sangue. E’ solo un po’ d’acqua.” l’altro si guardò la mano poggiata sullo sterno del riccio e la ritrasse come scottato, sperò ardentemente che Ermal non notasse le sue guance prendere fuoco come se avesse quindici anni. Il più giovane rideva, rideva un sacco e Fabrizio si perse un po’ in quella risata cristallina.
Bastò poco, un’infermiera del piano che lo chiamava, per farlo tornare a galla da quei pensieri che non smettevano di annodarsi nella sua mente. “Dottor Mobrici, tutto ok?”, scosse il capo leggero facendo poi sì con la testa. “Anna, dimmi una cosa. Come sta?” e l’infermiera sapeva bene che Fabrizio aveva il cuore come un macigno che, lento, batteva nel petto. Prese un lungo sospiro e al moro non piacque per nulla.
“L’hanno sedato di nuovo, purtroppo non risponde ancora alle cure.” soffiò appena la ragazza, Fabrizio inspirò a fondo lasciando vagare lo sguardo. “Grazie Anna, grazie.” disse appena. 
¹ -  Scala del coma di Glasgow è una scala di valutazione neurologica utilizzata per tenere traccia dell'evoluzione clinica dello stato del paziente in coma. Si esprime sinteticamente con un numero che è la somma delle valutazioni di ogni singola funzione (oculare, verbale, motoria). Il massimo punteggio è 15 e il minimo 3 che indica un profondo stato di incoscienza.
Eccoci di nuovo qua, speriamo sempre che tutto sia di vostro gradimento❤
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solotucurime · 7 years ago
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Let me mend your broken heart.
Qua la parte precedente. 
PARTE TRE
Ermal era tornato in ospedale per controllare Giulia e ritirare alcuni documenti.
Arrivato al terzo piano si scontrò con un Fabrizio imbronciato che stava correndo verso le scale e che neanche si accorse di lui. Decise di seguirlo per vedere cosa era successo e così fu costretto a salire 5 piani di scale, rischiando di lasciarci un polmone perché quello andava velocissimo e non voleva perderlo di vista.
Quando Fabrizio si fermò davanti ad una porta in ferro Ermal potè finalmente riprendere fiato mentre si avvicinava all’altro che stava aprendo una porta.
La luce del sole illuminò le scale e Ermal si affrettò a seguirlo per evitare di restare chiuso dentro; quando uscì dalla porta si ritrovò sul tetto dell'ospedale ad ammirare la vista spettacolare. Con i loro occhi potevano vedere gran parte della città eterna che, sotto al sole mattutino di quella giornata di autunno, sembrava brillare ed essere immortale
Fabrizio sembrò non accorgersi della presenza del collega e si avvicinò alla balaustra stringendo le mani attorno alla ringhiera, respirando profondamente con la testa bassa.
A Ermal quella visione fece stringere il cuore. Si vedeva che stava male, non era il solito Fabrizio e per un attimo ebbe anche paura che l'altro, così vicino al bordo commettesse qualche stupidata.
Così si avvicinò e gli mise una mano sulla spalla facendolo sobbalzare: “Tutto bene?”
L'altro si voltò e si stupì di ritrovarsi il collega accanto “Che ci fai qui?”
“Ti ho visto correre via e non volevo facessi pazzie” disse sorridendo.
“È solo una giornata de merda e avevo bisogno de aria” sbuffò rumorosamente quello. Ermal si incupì a vederlo così: sì, da quando si erano conosciuti aveva notato che l'altro si barricava spesso dietro a quella maschera che lo faceva sembrare incazzato con il mondo, aveva però visto il sorriso che gli spuntava a contatto con i suoi piccoli pazienti, gli occhi che gli brillavano. E ora quello sguardo così scuro e privo di luce lo fece stare male. Non avevano legato i due, anzi, la rivalità che scorreva tra di loro era percepibile anche a occhio esterno, però, lì, lontano da tutto e tutti, solo loro, con il tempo che sembrava congelato, si rese conto che avrebbe davvero voluto vedere un sorriso sul volto dell'altro e gli chiese se aveva voglia di parlare sperando di poterlo aiutare in qualche modo.
Sul viso di Fabrizio a quella domanda comparvero una serie di emozioni indecifrabili, era stupito, ma stupito davvero. In quel mondo non c'era mai tempo per parlare e i legami che si formavano erano davvero rari. Aveva sì legato con qualcuno nei suoi 5 anni di permanenza in quell'ospedale, ma erano conversazioni di cortesia. Mai nessuno lì dentro si era interessato sul serio a come stava lui. Eppure sul volto di quel ragazzo poco più piccolo di lui leggeva interesse, compassione e mai si sarebbe aspettato di riceverla proprio da quel cardiochirurgo che conosceva da poco e con il quale aveva uno strano rapporto: “È che pensavo di riuscire in questo intervento, lo avevo promesso ai genitori. È un bimbo di 5 anni non posso lasciarlo morire in un letto d’ospedale nell’attesa di un trapianto senza poter fare niente. Pensavo di farcela… ce la dovevo fare. Ho deluso lui, i genitori e me stesso.”
Il più piccolo si affiancò a lui e gli strinse un braccio: “Lo sai meglio di me che quello che facciamo è legato alla scienza, non basta desiderare di riuscirci, se non puoi fare niente, non devi prenderti la colpa. Non vuol dire che non sei un bravo medico ma che il problema era più grande di te”
“Ma il problema è che dagli esami risultava anche un'operazione facile, ho persino fatto una ERCP per assicurarmi che i risultati fossero corretti. Il bimbo é stato sottoposto alla chemioterapia per diminuire le dimensioni del tumore e rimuoverlo. Alla fine era solo una metastasi da levare. In sala però mi sono accorto che non era così; il tumore aveva preso gran parte del pancreas e rimuovendolo avrei danneggiato il pancreas stesso.” Tirò fuori dal camice il pacchetto di sigarette e ne offrì una al collega che declinò l'offerta “Sei un medico e fumi? Sai quanto fa male fumare no?”
“Lo so ma me serve per smorzare la tensione, se fumare mi aiuta a rilassarmi e curare meglio le persone, va bene così. Insomma le vite che ci mettono in mano sono tante e io devo scegliere tra loro e accorciare un po' la mia. Non posso badare a tutti.”
Ermal iniziò a capire che sotto quel corpo tatuato c'era molto di più di quello che pensava. Non c'era un uomo competitivo ma un uomo con un’anima pura, interessato a far star bene gli altri più che alla sua vita. Un uomo di cui sapeva ancora ben poco e che desiderava conoscere. Gli prese la sigaretta dalle mani e fece un tiro tossicchiando un po' cosa che fece sorridere il moro che finalmente scacciò l'ombra buia che aveva sul volto.
“Comunque per quanto riguarda l’operazione posso aiutarti. Cioè non in modo pratico ma se vuoi ti posso aiutare ad imparare ad aspettare. Faccio il cardiochirurgo da 10 anni e sai quante volte mi è capitato di fare il mio meglio in sala ma andare dai parenti e dire che si può soltanto aspettare e vedere? Quasi sempre. Ci siamo abituati noi a questo genere di discorsi, siamo abituati ad aspettare e sperare. La medicina è sì, basata sulla scienza ma a volte non si può fare altro che aspettare. Non vuol dire che non ci siamo impegnati, semplicemente non possiamo fare altro”
“Io ho sempre basato tutto sulle mie capacità: ci riesco bene, non ci riesco perché? Se è perché non sono capace chiedo aiuto, se è perché è troppo grave la situazione mi arrendo. Non ci sono “forse”,“aspettiamo” “magari”…”
E Fabrizio chinò il capo in avanti spegnendo la sigaretta in un posacenere di fortuna, il riccio poteva percepire quel velo di nervosismo che l’altro portava nel cuore, lo capiva, lo capiva benissimo e non poteva che stargli accanto. “Forse dovrei smettere di provare emozioni.” mormorò  il moro.
Ermal trasalì a quella affermazione dura, no, no e no. “Che cosa stai dicendo?” sbottò ma subito si pentì di quella reazione poco controllata.
“Sto dicendo” fece Fabrizio, “Forse sarebbe meglio per tutti che io non mi affezioni più ai miei pazienti.”
“Stai sbagliando.” sputò Ermal estremamente serio in volto. “Sbagli facendo così, non puoi sterilizzare l’atto medico.” Fabrizio lo guardò interrogativo per poi dire: “Non posso permettere che la mia parte emozionale venga alla luce, se lo facessi esiterei solo a praticare la prima incisione.” era abbastanza piccato ma lasciò scorrere quella sensazione.
“Fabrizio, quando ero solo un praticando, un anestesista rianimatore mi fece questo tipo di discorso. Mi disse che, per poter rianimare una persona, egli doveva avere una storia da raccontare, un buon pretesto per non mollare e lasciare che questo muoia su un lettino d’ospedale. Il punto è che non puoi non guardare il tuo dipinto di emozioni ma le devi riconoscere, studiare e pensare che siano davvero quelle che ti facciano lavorare.” trasse un profondo respiro e il moro lo fissò a lungo. Vide comprensione nei suoi occhi, vide una silente richiesta d’aiuto colmata, Ermal si limitò a posare la sua mano su quella del più grande.
“Tu esegui il tuo lavoro egregiamente, questa passione la si legge nei tuoi occhi. Senza quel bagliore, senza quelle emozioni non saresti più tu, non lavoreresti nella stessa maniere perchè tu vuoi bene a quei piccoli, non è così?” concluse Ermal sorridendo. “Sì, è così.” si limitò a dire Fabrizio ringraziandolo silenziosamente, gli strinse leggermente la mano.
Forse aveva trovato un’anima affine, ne era estremamente felice.
(...)
Da quel mattino sul terrazzo i due si erano rivisti, Ermal continuava a presentarsi in ospedale e Fabrizio ancora non ne aveva capito il motivo; ogni qualvolta incrociavano i loro  sguardi nel corridoio, però, come un tacito accordo, si dirigevano sul terrazzo e il riccio teneva compagnia al più grande mentre fumava una sigaretta. Era diventato il loro modo di conoscersi. Quei dieci minuti al giorno erano solo per loro; erano riusciti a creare la loro bolla grazie al quale piano piano avevano imparato ad apprezzarsi.
Era capitato qualche volta che Ermal provasse a fare due tiri ma come quella mattina finiva sempre per tossire e far ridere Fabrizio. Non lo avrebbe mai ammesso ma era quello il motivo per cui continuava a tentare nonostante proprio non gli piacesse: la risata di Fabrizio. Quella risata cristallina che gli arrivava alle orecchie e gli migliorava la giornata; Fabrizio che quando rideva si nascondeva timido dietro la sua mano, e quanto avrebbe voluto Ermal levargli quella mano dal viso per lasciare scoperto il suo sorriso e per stringerla tra la sua, incrociando le loro dita e stando così, ad osservare l’immensità di Roma su quel terrazzo che in qualche modo li aveva fatti avvicinare.
Eppure ogni volta si tratteneva perchè no, è solo un collega, si ripeteva. Anche se quella strana sensazione al petto non era per niente normale e lui lo sapeva bene; sapeva che, di certo quella sensazione al petto non poteva essere definita infarto. Eppure ogni volta che incrociava lo sguardo del più grande avvertiva il cuore battere come un dannato nel petto, sapeva che la circolazione non c’entrava quando le sue guance si coloravano di rosso dopo un complimento ricevuto da Fabrizio e sicuramente sapeva che non era colpa dei polmoni se a volte si dimenticava di respirare quando era intento ad osservare l’altro mentre si accendeva la sigaretta. Però continuava a ripetersi che, anche se non trovava una spiegazione medica a tutto quello che gli succedeva in presenza del più grande, non voleva dire che ci fossero per forza dei sentimenti di mezzo, di certo non quel genere di sentimenti.
(...)
Sembrò quasi naturale per Ermal lavorare tra quelle corsie, come se non avessa fatto altro in vita sua. Dolcemente settembre lasciò la strada a ottobre, all'aria frizzante e alle foglie che piano ingiallivano e si staccavano dagli alberi. Gli pareva di essere nato per quella città, per quel lavoro e per quelle vite: quelle che gli passavano davanti agli occhi tutti i giorni, quelle che si rialzavano e quelle che si lasciavano andare.
“Ermal levati dal corridoio e vieni con me.” furono le parole spicce che pronunciò Fabrizio mentre spingeva una barella a gran velocità accompagnato da alcuni paramedici evidentemente diretti in sala operatoria. Il riccio si fece subito da parte evitando di venir travolto in mezzo al corridoio, gli si fece vicino aumentando il passo e chiedendo: “Di cosa si tratta?”
“Ragazzo di diciassette anni, sospetto danno cardiaco.” e deglutì pesantemente facendo cenno rapido agli infermieri. “Ti aspetto al filtro.” pronunciò secco allontanandosi dalla figura di Ermal correndo accompagnando l’equipe per il corridoio.
Fabrizio era chino sul lavandino lavando le mani sotto il getto continuo dell’acqua, “Di cosa si tratta?” chiese serio Ermal. “Il ragazzo è stato coinvolto in un incidente automobilistico e ha subito una lesione al torace.” rispose secco Fabrizio allontanandosi dal banco, prese un respiro per poi: “Al momento del ricovero mostrava segni abbastanza evidenti quali: frequenza cardiaca aumentata, polso debole, suoni cardiaci deboli ed una pressione arteriosa bassa.”.
“Sangue nella cavità pericardica?” tossicchiò Ermal avvicinandosi all’altro porgendogli una mascherina. L’altro si voltò: “Pericardiocentesi.” e si affrettò a posizionare la mascherina sul volto dandogli la schiena affinché gliela annodasse. Al riccio non dispiacque per nulla quella piccola attenzione, come per dire andiamo insieme, anche questa l’affrontiamo insieme. “Sappiamo entrambi che questo ragazzo non potrebbe essere in mani migliori.” disse piano Ermal lasciando che l’altro si avviasse verso la porta scorrevole della sala.
“Forza, andiamo ora.” e anche se la sua bocca era nascosta poteva notare benissimo quel sorriso nel pronunciare quelle parole. La porta si aprì rivelando la stanza asettica e ben illuminata, gli infermieri già in posizione e i monitor accesi. “Ok, Dottor Meta come intendiamo procedere?” Fabrizio lo sapeva bene ma gli piaceva testare le conoscenze dei suoi partner.
L’altro lo guardò con quel bagliore di sfida negli occhi pronunciando un: “ECG collegato, l’attrezzatura per la rianimazione sotto mano e prepariamo le aree xifoidea e sottoxifoidea.” Fabrizio già manteneva tra le mani la cannula adatta, con un movimento rapido Ermal posizionò la sonda ecografica poco sotto lo sterno, con mano ferma il moro infilò l’ago nella pelle con gli occhi puntati sul tracciato cardiaco.
“Deviazione mediastinica assente.” soffiò spingendo piano in profondità, “Piano.” sibillò Ermal e Fabrizio ritirò di poco l’ago notando delle onde di lesione sul tracciato. “Fai piano.” ripetè poi serio. Il moro sentiva il cuore pulsare nelle orecchie, fece saettare un paio di volte lo sguardo dal tracciato al monitor ecografico, tirò un breve sospiro quando raggiunse il sacco pericardico gonfio. Siringa alla mano, iniziarono ad aspirare il liquido permettendo al cuore di battere con più facilità.
Era bello lavorare insieme, era come se fossero in una bolla, immersi nel loro lavoro fatto di silenzi e indicazioni quasi sussurrate. “Aspiro ancora e ritraggo l’ago piano.” pronunciò Fabrizio e con mano salda mentre, piano, ritraeva la siringa, “Stai pronto a fissare la cannula in sede.” tossicchiò poi. Un lieve fischio fece tacere i presenti.
“Cazzo.” sbottò Fabrizio, “La pressione è in calo!” e la sala era in fermento, ognuno era pronto a prendere la propria posizione. “Dottor Mobrici, devo chiamare il Dottor Conti?” chiese un’infermiera facendosi avanti.
“Non penso che possa fare più di quello che stiamo facendo noi.” tossicchiò Fabrizio mantenendo ancora la siringa tra le dita. Ermal sentì un moto di orgoglio scaldargli il petto, era soddisfatto perché Fabrizio non si arrendeva di fronte a nulla.
“Il battito cala, non si stabilizza.” disse con voce urgente un infermiere. “A me le piastre, ora.” sbottò Ermal allungando la mano verso l’equipe.
“Scarica, non mollare.” e fortunatamente reagì subito facendo tirare a tutti un sospiro di sollievo.
(...)
Ermal si sosteneva sui gomiti al lavabo del filtro, si era tolto la mascherina e i guanti. Fabrizio entrò poco dopo accostandosi alla figura del riccio. “Tutto bene?” tossicchiò.
“Si Fab, tutto a posto.” e si massaggiò le tempie per alleviare il forte martellare alla testa, si guardarono per una manciata di secondi ringraziandosi a vicenda. Neanche una parola, solo la sensazione di sentirsi vicini e di aver collaborato egregiamente.
E forse era questo che li faceva sentire vivi.
Come al solito eccoci ai saluti, grazie mille per essere giunti fino a qua. 
Vi abbracciamo❤
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solotucurime · 7 years ago
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Qua lasciamo la parte uno. 
PARTE DUE 
Lanciò una rapida occhiata al cellulare giusto per sapere che ore fossero, aspettava che la macchinetta infernale del terzo piano preparasse quella brodaglia che tutti lì chiamavano caffè.
Ripose il telefono nella tasca del camice e prese un sorso dal bicchiere di plastica, quel caffè sapeva di bruciato e desolazione. Si diede dello stupido perchè si era già dimenticato che ore fossero, di nuovo cavò il telefono di tasca e premette il tasto di sblocco, sospirò.
Si prese in quella foto che aveva impostato come salvaschermo, quella distesa bianca di nuvole scattata in alta quota. Bari, la sua casa gli mancava un po’.
Gli mancava la sua famiglia e quella morbida routine che affrontava ogni volta che ci tornava per le vacanze o nei fine settimana bollenti di agosto. Spostò, con un rapido cenno del capo un riccio che ricadeva molle davanti ai suoi occhi, sbuffò leggero.
“Meta.” lo salutò una voce famigliare, Ermal si rinvigorì scrollando il capo e alzando lo sguardo dallo schermo, ormai nero, del cellulare. “Dottor Mobrici.” sbuffò piano buttando giù l’ultimo sorso di caffè.
“Da quanto tempo non dorme?” ridacchiò l’altro inserendo una monetina nella macchinetta. “Dal ‘92.” rispose di getto.
“Noto.” aggiunse Fabrizio premendo dei bottoni a caso, sbuffò subito dopo.
“Le ha mangiato le monete?” ridacchiò Ermal gettando via il rimasuglio della sua colazione, l’altro grugnì di rimando passandosi una mano sugli occhi stropicciandoli appena. Le labbra del riccio si piegarono in un sorriso sghembo, lo salutò con la manina avviandosi verso il triage del pronto soccorso.
(...)
“Moriconi con me.” chiamò Fabrizio abbastanza stizzito, non era nemmeno riuscito a bere un fottuto caffè, nemmeno mezzo perchè la macchinetta gli aveva inghiottito il soldi. Inspira Fabrizio, non è una brutta giornata si ripeteva come un mantra, come una preghiera sussurrata a labbra strette per scongiurare altre difficoltà insormontabili. Niccolò alzò lo sguardo da un plico di scartoffie che stava consultando con quella bella e giovane infermiera, la congedò con un mezzo sorriso imbarazzato per raggiungere il medico.
“Non faccia il filo a quella in servizio, la voglio concentrato.” sbuffò massaggiandosi il ponte del naso per alleviare la tensione, l’altro arrossì violentemente abbassando lo sguardo. “E’ ora di fare un giro tra i corridoi del pronto soccorso, accertati che tutti i pazienti siano stati assistiti e che stiano relativamente bene. Controlla il polso, la pressione e la comparsa di vari sintomi. Capito tutto?”
“Capito, inizio subito.” rispose, Fabrizio fece cenno di avvicinarsi al primo piccolo paziente steso su di una barella in una piccola stanza sulla sinistra. Prima di potersi avvicinare al bambino, Niccolò rubò un guanto di lattice azzurro, lo gonfiò a fiato chiudendolo alla base con un nodo, ci disegnò con un pennarello degli occhi e la bocca e piano si avviò recuperando la cartella clinica del paziente. Fabrizio sorrise seguendolo all’interno della saletta.
“Ciao Martino.” salutò lo specializzando, “Sono Niccolò e sono venuto a visitarti prima che tu venga dimesso.” saluta sorridendo. Fabrizio stava dietro di lui, osservava e sapeva benissimo che avrebbe fatto il suo dovere in modo impeccabile.
Gli porse il palloncino di fortuna e il bambino sorrise, “Noto che ti sei fratturato la gamba, fa ancora male?” e Martino scosse il capo iniziando a giocare con il guanto. Niccolò fece cenno alla madre, questa, ancora scossa, si alzò e si avvicinò allo specializzando. “Ora chiamo l’ortopedico e sarà lui ad indicarvi la terapia giusta, nel frattempo controllo i suoi parametri.” si infilò i guanti in lattice facendo attenzione a non lesionarli.
Spostò lo sguardo sul piccolo e il panico gli attanagliò il cuore, “Martino?” lo chiamò. Fabrizio si sporse notando che il piccolo aveva perso i sensi sulla barella, lanciò uno sguardo fulmineo a Niccolò che già si era avvicinato per tastare il polso. “Dottore, non c’è polso.” e l’orrore si dipinse sulla faccia del ragazzo. Fabrizio gli fece un cenno per poi scattare verso il corridoio e chiamare a gran voce le infermiere e un medico, rientrò nella saletta notando soddisfatto che Niccolò aveva già portato una mano al torace del bambino per effettuare la rianimazione cardiopolmonare.
“Quando comprimi il cuore devi farlo con più forza.” sbottò Fabrizio avvicinandosi ulteriormente, “Ho paura di rompere le costole.” sbraitò Niccolò senza fermarsi.
“Più forte, fallo.” e l’ascoltò facendo più forza sul torace, comprimeva ritmicamente mantenendo i nervi saldi. “Forza Niccolò, spingi.” e Fabrizio lanciò un’occhiata al tracciato cardiaco, fermò il ragazzo con la mano intimandogli di fare silenzio.
“Battito ristabilito.” disse secco guardando la madre spaventata, di colpo Ermal fece irruzione nella piccola stanza cercando gli occhi delle infermiere per capire quale fosse il problema.
“Che cosa succede?” chiese spostano i ricci dalla fronte, “L’abbiamo preso per un soffio.” disse Fabrizio guardando Niccolò, l’altro tremava appena tenendo le mani sollevate e bene in vista.
“Non ho un accesso venoso.” sputò l’infermiere richiamando l’attenzione di Ermal. “Dammi il trapano, infusione intraossea.” e senza esitare arrotolò il pantaloncino del bambino fino al ginocchio, bucò trovando l’accesso in men che non si dica.
“Controllate che non ci siano emboli e trasferitelo in pediatria.” e l’equipe si mosse veloce lasciando la stanza vuota. Niccolò ancora non la smetteva di tremare, gli occhi spalancati alla ricerca di una mano a cui aggrapparsi, “Ottimo lavoro Moriconi, hai salvato una vita.” pronunciò Fabrizio stringendogli piano la spalla, il ragazzo si mosse, grato per quel giudizio, lasciando nella stanza il moro e Ermal.
“Complimenti Fabrizio.” disse il più giovane facendo schioccare i guanti in lattice. “Hai istruito bene il ragazzo.” e gli rivolse un sorriso sincero, mai visto su quelle labbra sottili.
“Grazie.” riuscì a dire ma l’altro aveva già lasciato la stanza.
In una mattina di pochi giorni dopo, arrivò la telefonata che Fabrizio aspettava da fin troppo tempo. C’era un cuore nuovo per la piccola Giulia.
La madre se la strinse al petto talmente forte che quasi temevano che la soffocasse. Nessun “ci vediamo più tardi” come le dicevano di solito, un bacino sulla fronte e una carezza tenera e anche il padre si allontanò dalla barella. Fabrizio lanciò loro uno sguardo carico d’amore e apprensione, uno sguardo che sapeva di faremo il possibile, lo prometto e si impresse quella scena nel cuore. Ai chirurghi non deve importare dei loro pazienti, almeno non nel senso emotivo, ma più guardava la piccola Giulia, più capiva che aveva un pretesto per farla rimanere in vita.
Entrarono in sala operatoria in tarda mattinata, Ermal ancora non aveva spiaccicato parola, leggeva solo del nervosismo nei suoi occhi. C’erano tutti i suoi collaboratori più stretti, dall’anestesista di fiducia Claudio, i suoi assistenti e il suo specializzando Niccolo. Era teso il ragazzino, era il più teso della sala e Fabrizio si limitò a passargli una mano sulla spalla prima di avvicinarsi alla barella.
“Perfetto, direi di cominciare.” sussurrò Ermal. “Fabrizio, dirige lei.” e quasi lo voleva strozzare fai lo sbruffone per settimane e ora mi dici ciò? Annuì leggermente scacciando ogni traccia di tensione per poi pronunciare un secco: “Bisturi.”
“Aspettate un attimo” disse Ermal. Fabrizio entrò in panico perché che diavolo stava succedendo, non avevano ancora iniziato l’operazione. Ermal si spostò dalla sua postazione e si avvicinò a uno dei tecnici della sala iniziando a parlare con lui. Erano tutti fermi e nessuno stava capendo il motivo di questa interruzione e perchè Ermal non avesse accennato a niente. Ancora stupiti, tutti i presenti in quella sala sentirono una strana melodia nell’aria mentre Ermal era di ritorno. “Ho bisogno di sentire musica classica durante le operazioni, mi rilassa. Ok possiamo continuare”
E ripresero da dove avevano iniziato con Fabrizio che si domandava quanto fosse strano quel ragazzo e che musica de merda ascolta.
Incise deciso la pelle diafana del petto della bimba, a Fabrizio parve, solo per una manciata di secondi, che gli occhi di Ermal avessero cercato i suoi come attenti ad una silente richiesta di conferma che tutto sarebbe andato per il meglio.
Prontezza di riflessi, nervi saldi e freddezza nel rispondere a qualsiasi stimolo o imprevisto, fu un’operazione lunga ed estenuante e le lancette correvano veloci nel quadrante bianco dell’orologio appeso al muro, nessuno ci dava veramente peso. Ermal avvolse il cuore malandato della piccola Giulia tra le mani sollevandolo ed esportandolo dal petto della bimba, di nuovo un silenzio freddo piombò nella sala, scandito solo dai battiti ritmici del cuore dei presenti e dagli archi leggeri di quella musica classica che faceva distendere i nervi. Fabrizio calò il nuovo cuore all’interno della cavità, lavorarono per un tempo indeterminato tra anastomosi e punti di sutura, congiungendo vasi stando perennemente all’erta. Precisi, attenti, meticolosi, teste chine e respiri mozzati perchè tutti volevano la stessa cosa lì dentro: far tornare a casa la piccola.
“Perfetto, riattacchiamo l’extracorporea.” tossicchiò Fabrizio lanciando un cenno ad Andrea. I presenti tornarono a respirare solo nel momento in cui si accorsero che, le cavità del nuovo cuore, si stessero riempiendo. “Piastre.” disse secco Ermal, un respiro profondo e posizionò le due placche sulla parete cardiaca.
“Scarica” e Fabrizio lanciò uno sguardo al tracciato cardiaco sullo schermo. Piatto. Giulia, non farmi gli scherzi.
“Un’altra volta.” la voce si fece asettica, vuota ma con una punta di speranza. Trattennero il fiato. “Scarica.” e di nuovo gli occhi fissi sul torace della bambina.
Sospirò sollevato appena vide che l’organo prese a battere, lo stomaco fece un balzo di felicità. Sollevò lo sguardo sui suoi collaboratori totalmente entusiasti ma ugualmente tesi e ancora all’erta. Eppure gli parve che, ancora una volta, Ermal stesse cercando il suo sguardo, ma questa volta non era un semplice miraggio.
(...)
Capitava spesso che Fabrizio si perdesse tra i suoi pensieri, capitava che rimanesse minuti interi con lo sguardo perso a nuotare tra le mille turbe e preoccupazioni. Giulia era stata spostata in terapia intensiva, dormiva ora con la madre a fianco che le accarezzava piano la testa cantandole una dolce melodia a bassa voce. Abbozzò un piccolo sorriso notando che le condizioni della piccola erano in continuo miglioramento, le voleva davvero tanto bene.
Si scostò dal vetro e ripercorse il corridoio raggiungendo il filtro del reparto, si sfilò i guanti e il camice di carta, si disinfettò le mani e uscì chiudendosi la porta alle spalle.
“Dottore.” si voltò incontrando uno sguardo a lui famigliare. “Mi dica Dottor Meta.” e si avvicinò al ricco ancora immobile sulle scale.
“Ehm sì … ha fatto un ottimo lavoro.” balbettò appena grattandosi l’occhio destro. “Dammi del tu, ti prego.” sbuffo stanco Fabrizio stirando le labbra in un sorriso sincero. L’altro lo guardò, sembrava così piccolo con quegli occhi spauriti.
“Ti devo delle scuse.” sbuffò poi facendo cadere quel muro che li divideva, “Sinceramente la prima volta che ti ho visto pensavo che tu non fossi un tipo professionale.”
Fabrizio lo guardò torvo, si sciolse solo per rispondere: “Posso avere anche molti tatuaggi, una faccia stanca e abbastanza allucinata ma ti garantisco che sono devoto al camice e a questo lavoro quanto te.” solo lì sorrise stringendo la spalla di Ermal. Lo congedò con un rapido cenno del capo, “Passa una buona giornata Ermal, ci vediamo domani mattina.” ridacchia mollando il più giovane nel mezzo del corridoio.
Eccoci di nuovo qua! 
Come al solito speriamo che questa parte vi sia piaciuta, in qualsiasi caso fateci sapere, noi siamo sempre qua. 
Vi abbracciamo. ❤
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solotucurime · 7 years ago
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Let me mend your broken heart.
PARTE UNO
Fabrizio percepiva che stava sorgendo il sole, lo capiva dal cambiamento di luce in quel corridoio asettico che, dal triage del pronto soccorso, lo conduceva in sala operatoria. Che il turno di notte sia sfiancante è un dato di fatto, erano stati in sala per quattro ore d’urgenza ma tutto si era concluso nel migliore dei modi, sentiva ancora l’adrenalina scorrergli in vena e sapeva che non sarebbe riuscito a riposare. Avanzava e sentiva l’intenso profumo del caffè, non sarà lui a berlo però, ne aveva già bevuti troppi e il suo stomaco si stava ribellando da un po’.
Ma quello del caffè è il classico odore mattutino che, lì, si mescola con quello dei prodotti di pulizia delle sale. Il blocco operatorio si stava svegliando piano piano, gli infermieri e gli anestesisti smontavano dal turno e le gioviali signore delle pulizie iniziavano a lucidare le rampe di scale. Fabrizio sentiva le gambe pesanti come due macigni e gli occhi bruciavano dalla stanchezza, ma ancora non voleva andare a casa. Ripassò per il reparto pediatrico di cardiologia e controllò le ultime cartelle e medicazioni, salutò Anna, la sua infermiera di fiducia, e poi poteva veramente andare a casa.
“Dottore aspetti.” lo chiamò questa prima che Fabrizio scomparisse dietro all’angolo. “Si ricordi che deve chiamare il nuovo cardiochirurgo.” e gli passò un post-it giallo a forma di cuoricino. “Così me sembra un appuntamento romantico.” sghignazzò il medico infilandoselo in tasca.
“Che ne sa, magari potrebbe essere quello giusto.” sputò divertita Anna girando i tacchi e entrando nello stanzino dei farmaci. Fabrizio era alquanto scioccato, con gli occhi ancora sgranati e il chiodo di pelle posato sull’avambraccio fece dietrofront e uscì dal reparto. L’avrebbe contattato solo dopo aver dormito almeno un paio di ore.
(...)
L’aveva chiamato, quell’Ermal Meta, e questo l’aveva liquidato con quattro parole e la fase “Ci vediamo in corsia.” per poi riattaccargli il telefono in faccia. Ed eccolo arrivare, alto come una pertica e fine come uno spillo, trentasette anni e devoto al camice più di qualsiasi altra cosa, con quel dannato piercing al sopracciglio sinistro seminascosto da quella massa di ricci scuri e morbidi.
Morbidi?? Ma Fabrizio ma ti senti?
Tutti lo appellano il miglior cardiochirurgo della zona, un po’ snob ed estremamente serio, in sede all’ospedale Sant’Andrea di Roma per un paio di mesi per assistere ad un paio di interventi. Tra questi figurava anche il nome di Fabrizio, stava lavorando sodo sulla paziente che aveva in cura e sapeva bene che l’intervento era tutt’altro che facile.
La sua paziente è Giulia, una bambina di cinque anni dagli occhi blu come il mare e lunghi boccoli castani. L’aveva conosciuta un anno prima all’ospedale pediatrico Bambin Gesù per una prima valutazione del caso, gli si era stretto il cuore dopo aver letto sulla cartella clinica di una sospetta cardiopatia congenita complessa. Aveva diretto lui un paio di interventi correttivi per scongiurare qualche grave disfunzione.
Ma il cuoricino di Giulia non aveva retto, un paio di mesi prima è stato Fabrizio a comunicare ai genitori della piccola di una grave disfunzione ventricolare irreversibile, la cosiddetta end-stage heart failure. In poche parole aveva bisogno di un cuore nuovo e alla svelta, la inserì dunque nella lista d’attesa sperando ardentemente che arrivasse un cuore prima che quello della piccola smettesse di battere.
Fabrizio si era affezionato a quella bambina sempre sorridente e che lo riempiva di disegni ad ogni visita o analisi, lui li accettava con una lacrimuccia nell’angolo degli occhi e li appendeva nel suo studio. Aveva tanto insistito per poter programmare lui l'intervento facendo lavorare insieme a lui suoi collaboratori più stretti e gliel’avevano accordato, mancava solo un cardiochirurgo che gettasse la vita per la piccola Giulia.
Ed era arrivato Ermal, la sua cartella in pelle nera e quel profumo che faceva svenire mezze infermiere del reparto. Lo aveva avvisato che sarebbe dovuto essere reperibile a qualsiasi ora da qui a 2 mesi circa, ma non si aspettava di trovarselo in ospedale. Invece era lì, con il suo camice i suoi capelli ricci che conversava con Marco, uno dei suoi colleghi.
Gli avevano detto il riccio mingherlino è il tuo cardiochirurgo e così, riconoscendolo, si avvicinò a lui per presentarsi: “Sono il chirurgo che ti ha chiamato per il trapianto alla bambina. Cosa ci fai qui, non è oggi l'intervento!", “Sono venuto a controllare se il trapianto fosse necessario” boffonchiò l’altro.
“Nun te fidi delle mie analisi?”, “Non mi fido di nessuno se non di me stesso e, visto che l’operazione devo farla io, se non fosse necessaria finirei nei casini." quel tono mandò Fabrizio su tutte le furie.
“Va’ a vedere come sta la bambina, poi dimmi se nun ha bisogno di un cuore. Sta attaccata alle macchine perché fa troppa fatica a respirare da sola, vedi un po’ te!" e la pazienza se ne andò in frantumi.
“Calmo, non era una critica è che devo essere sicuro al cento percento di quello che faccio." disse molto rilassato il riccio.
“Vabbè mo che stai qua fai quello che te pare" e lo invitò con la mano ad addentrarsi nel corridoio, Fabrizio vide rosso. Si sentì colpito, come se i suoi anni a fianco dei bambini di cardiochirurgia fossero svaniti in puff due secondi??  
“Fatte ‘na padellata de cazzi tua” soffiò a denti stretti. 
“Scusa cosa?” rispose Ermal strabuzzando gli occhi sperando di non aver capito correttamente quello che l’altro disse in un sussurro. “Niente, lascia sta’” Ermal non si capacitava di come una persona così maleducata potesse essere un primario in un ospedale così rinomato.   
Lo accompagnò fino alla camera della piccola Giulia e a Fabrizio si strinse il cuore, scoccò uno sguardo glaciale al cardiochirurgo ritto al suo fianco appoggiato allo stipite della porta. “Che me dici ora?” soffiò il più grande.
L’altro rimase in silenzio, la fronte aggrottata e gli occhi fissi sulla bimba adagiata sul letto, la madre che le sfiorava piano i capelli per farla tranquillizzare. “L’abbiamo quasi persa poche settimane fa.” sputò Fabrizio aggiustandosi lo stetoscopio al collo. “Si è accorta la mamma.”
“Bisogna agire alla svelta.” tossicchiò serio il cardiochirurgo, “Posso avere la cartella clinica della bimba, ogni singola analisi e prelievo?”
Fabrizio sbuffò palesemente irritato, “Te le farò avere.” disse monotono, l’altro lo congedò con un piccolo cenno del capo.
Il moro sospirò a fondo appoggiandosi allo stipite della porta, era stanco, molto stanco quasi come se gli mancasse la forza di reggersi in piedi. Si stropicciò gli occhi sentendoli pizzicare dalla spossatezza e dalle ore di sonno arretrate e non ancora recuperate. “Dottor Mobrici?” chiamò piano una voce.
“Ancora tu?” bofonchiò notando il nuovo specializzando farsi vicino, “Mi scusi se la disturbo ma ho finito con i prelievi oggi e...” e si torturava quelle povere mani bianche con quello sguardo puntato verso il pavimento. “Niccolò.” lo richiamò serio.
Fabrizio, per quanto non si direbbe, con le matricole era molto severo ma a questo ragazzo non poteva non volergli bene. Gli assomigliava, troppo. 
“Niccolò, segui Anna per le medicazioni. Se sento un solo bambino lamentarsi ti spedisco a pulire le padelle per un mese intero.” ma si tradì incurvando le labbra in un sorrisetto genuino.
Il ragazzetto alzò lo sguardo, terrorizzato dalle parole appena pronunciate del chirurgo e: “Farò del mio meglio.” disse dileguandosi. Lo seguì con lo sguardo, guardò distratto l’orologio che teneva al polso, doveva tenersi occupato. O almeno, tenere occupata la mente dai pensieri che non lo facevano dormire.
“Aspetta Moriconi, ti aiuto io dai.” sbuffò, questo gli riservò uno sguardo grato Anna sapeva essere tremendamente antipatica con lui. “Prendi il necessario e la cartella clinica del paziente della stanza 204.”, “Tutto bene dottore?” Fabrizio stralunato gli riservò uno sguardo stupito e interrogativo. 
“La vedo giù.” concluse lo specializzando, il medico sbuffò lievemente stizzito e si fermò a riflettere. Stava bene? Avrebbe preferito scagliare qualche piatto a terra per alleviare la tensione, si sentiva tremendamente colpito da tutto quello che capitava attorno a lui. Osservò a lungo il ragazzo di fronte a lui prima di rispondere alla domanda.
“Sto bene, si figuri.” sviò, non voleva portare avanti quel tipo di conversazione, troppi problemi per la testa, troppe complicazioni e domande. Cambiò discorso camminando a fianco di Niccolò: “Con i bambini devi essere spontaneo, più giocherellone in queste occasioni. Tranquillizzali se sentono male e distraili, dì loro di stare fermi e non farti prendere dal panico se questi non si calmano.” e già Niccolò si stava agitando al suo fianco, a Fabrizio scappò un gemito frustrato. “Non ho mai avuto a che fare con i bambini.” tossicchiò lo specializzando.
“E’ facile, sai fare bene il tuo lavoro e sai che non accetto scuse. Ti ho visto con Anna, devi solo mantenere la calma, tutto qui.” e gli posò una mao sulla spalla. “Non stai operando, non ancora. Rilassati, in caso sai già quale è la tua fine se li sento lamentarsi.” si divertiva così tanto a farlo disperare.
(...)
No, proprio lui no pensò Ermal mentre vide entrare nell’ascensore il suo collega. Già avrebbero dovuto condividere una sala operatoria di lì a poco tempo, ci mancava pure fare 8, otto, piani con lui. Quello lo vide e dopo un breve cenno si mise a chiacchierare con quella che sapeva essere la capo infermiera di neurochirurgia Giada. Possibile che non sopportasse niente di quel ragazzo? Il modo da burbero cui si atteggiava in corsia, oppure il modo con cui flirtava con l’infermiera, quell’avvicinarsi considerevolmente a lei mentre rideva o il modo di colpirle piano la spalla per attirare la sua attenzione. Che poi era palese che ci stesse provando, come lei ancora non se ne fosse accorta quello era un mistero. Lo vide salutarla baciandole una guancia mentre lei si apprestava a uscire al sesto piano e non riuscì a trattenere uno sbuffo.
Erano rimasti solo loro in ascensore e quello si avvicinò un po’ a lui “Oggi nun c’hai niente da contestà?” domandò senza nascondere la sua acidità. “Tti ho già detto che è il mio lavoro, lo faccio a ogni trapianto”.
“Sisi non statte a giustificà, a me sembra sempre poco rispettoso nei miei confronti e nel mio di lavoro” disse avvicinandosi maggiormente a lui per guardarlo in faccia. 
“Certo caro mio che sei molto insicuro di te se ti senti colpito nell’orgoglio per un semplice controllo di routine” rispose quello a tono sfidandolo con gli occhi. “Che vorresti dì? Che c’ho la coda di paglia? Non è mica vero, pe’ me puoi fa’ tutti gli esami che vuoi ma non risulteranno diversi dai miei visto che faccio questo lavoro da dieci anni, sarà solo una perdita di tempo”.
La situazione stava iniziando a surriscaldarsi e Ermal si accorse che il suo collega rosso in viso era davvero ancora offeso per la conversazione della volta prima. “Senti dobbiamo operare una bambina insieme vediamo di non arrivare a scannarci in sala operatoria. Gli esami ormai sono stati fatti e non abbiamo sprecato tempo in alcun modo, ora però calmati che ti sta per scoppiare la vena del collo e poi lì sai quanto tempo sprechiamo per rimetterti in sesto?” 
Fabrizio era riuscito a farsi zittire da un ragazzetto, incredibile, non era un uomo di molte parole ma nessuno era mai riuscito a tenergli testa nelle sue discussioni fatte di silenzi e occhiatacce ed era anche per questo che si era aggiudicato il titolo di Bel medico tenebroso o almeno così aveva sentito dire dagli specializzandi. E poi era bastato quel cardiochirurgo tutto ossa e ricci a metterlo in riga, e questo lo aveva mandato ancora di più su tutte le furie. 
Grazie a chi è arrivato fino a qui, grazie per aver speso un po’ di tempo a leggere questa storia. 
Alla prossima, vi abbracciamo.  ❤
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solotucurime · 7 years ago
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Let me mend your broken heart.
Eccoci qua, noi siamo @haipresoilcuoredistriscio​ e @romanticasemiva​ e stiamo scrivendo a quattro mani questa mezza pazzia che abbiamo voluto definire come una med!au a più capitoli (o bullet point come più vi piace), un mezzo racconto nato in chat e poi sui file condivisi a cui teniamo particolarmente.
Per qualsiasi cosa le nostre mail box sono aperte a tutto e a tutti. 
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