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#è importante passare del tempo con i suoceri
talithamaisa · 10 months
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colazione con lo gnoro (ha chiammat e guardie)
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Un bambino predestinato nell'Amore/1
In questo triduo pasquale ci facciamo accompagnare sul Calvario, sino alla Risurrezione di nostro Signore Gesù Cristo, da un piccolo bambino di nome Antonio Terranova. Salito al Cielo a soli otto anni, Antonio ci insegna a camminare dietro a Gesù: Colui che ha amato sino a condividerne la Passione e morte sulla sua pelle, diventando così Luce e Pane di vita per tutti, proprio come Gesù.
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di Costanza Signorelli (01-04-2021)
Quando alle ore 12:10 di mercoledì 14 luglio 2004 Antonio Terranova venne al mondo, presso l’ospedale civico di Palermo, mamma Monica e papà Giuseppe non potevano sapere che quel piccolo frugoletto era stato scelto da Dio Padre sin dall’Eternità per un progetto d’amore meraviglioso.
Eppure i segni di una particolare predilezione del Cielo iniziarono sin da subito, nascosti nella semplicità e nelle delicatezze della vita, proprio come piace fare a Dio con i suoi piccoli.
“Quando nacque Antonio – racconta mamma Monica - mi ricordo che la stanza si riempì subito di persone: nonne, zii, suoceri, amici di ogni tipo…. C’era veramente una gran folla di gente, che andava e veniva ad ogni ora, e stranamente nessuno dell’ospedale la allontanava, tanto che io ne rimasi meravigliata. Sembrava nato il Bambinello”.
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Antonio era un bimbo sano e paffutello, con i capelli biondi e gli occhi verdi, color della speranza. Da subito manifesta un carattere solare, Antonio infatti è sempre allegro e sorridente e ama molto stare in compagnia del prossimo: “Sin da piccolissimo ci riempiva la casa di persone. E quando arrivavo all’asilo a prenderlo, quasi sempre lui si era già accordato con qualche genitore affinché il loro figlio venisse a casa nostra. Aveva un modo di fare così entusiasmante e coinvolgente che nessuno sapeva resistergli”.
Non era un caso poi che mamma Monica scoprisse che Antonio si andava a scegliere i bambini più bisognosi o quelli che lui percepiva essere in difficoltà: aveva un autentico fiuto per il prossimo, era come se sapesse leggere nei cuori.
Questo suo dono era ancora più evidente quando lo si vedeva in relazione con le persone adulte: “Antonio non aveva quella sorta di egocentrismo tipico dei bambini e poche volte l'ho visto fare un capriccio. Sapeva ascoltare tutti, grandi e piccoli, e in tutti lasciava un segno. Ricordo che una volta, quando già era malato, un dottore mi disse: “Non è possibile che io stia parlando con un bambino di sei anni e mezzo!" era incredulo che un bimbo di quell'età potesse fare certe domande e ascoltare con tranquillità certe spiegazioni”. Antonio, infatti, volle sapere tutto sul suo male e i medici si trovarono costretti ad informarlo su ogni cosa ottenendo in cambio la sua collaborazione e gratitudine.
GESÙ IN PERSONA COME MAESTRO
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Quanto al rapporto con Dio, Antonio crebbe piuttosto a digiuno: “In quel tempo - continua Monica - la nostra famiglia non frequentava la Chiesa, eravamo la classica famiglia che va a Messa quando ci sono matrimoni e funerali”. Ma questo non impedì a Gesù di conquistarsi il cuore del suo bambino e di plasmarlo a sua immagine ancor prima che ciò fosse visibile e comprensibile al mondo, a partire dai suoi stessi famigliari.
Solo a posteriori i suoi genitori compresero che certe cose che loro figlio diceva o faceva avevano una ragione molto più profonda di quella che loro potessero immaginare. Come quel giorno in cui il bimbetto, che ancora non era malato, camminava così assorto nei suoi pensieri, che alla mamma venne spontaneo domandargli a cosa stesse pensando di tanto importante. Antonio la guardò con i suoi occhioni limpidi e d'improvviso le disse: “Mamma, ma come fanno le persone che non credono in Gesù?”.
La mamma rimase di sasso e non seppe cosa rispondere, anche perché, il rapporto con Dio, era l’ultimo dei suoi pensieri in quel momento. Non era così, però, per il suo piccolo figlioletto, che Gesù in persona stava, segretamente preparando ad una speciale missione, attraverso lo Spirito Santo.
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E poiché al Maestro piace rendersi presente nella comunione tra i fratelli – “Li inviò a due a due avanti a sé” (Lc 10,1) – non fece mancare ad Antonio il dono di un’anima che gli fosse quasi gemella nel cammino di fede. Alla scuola elementare infatti, Antonio ebbe per maestra una donna profondamente cattolica che, poco dopo aver preso in carico la sua classe, si trovò ad affrontare la terza recidiva di un tumore maligno.  La sua grandissima fede unita alla Croce, che ella aveva deciso di abbracciare con amore, fecero sì che Ina (così si chiamava) avesse l’urgenza di comunicare ai bambini un solido rapporto con il Cielo ed un concreto senso della Vita Eterna.
“Spesso trovavo sui quaderni di Antonio la scritta “Ina ti amo”, “Ina ti voglio tanto bene”, Antonio aveva un legame tutto speciale con lei e lo capii davvero quando partì per il Cielo”. Quando infatti Ina seppe che per Antonio non vi erano più umane speranze di guarigione, lei che aveva lottato per anni come un leone contro il suo male, confidò ad una collega: “Se Antonio sta andando, devo andare prima io: devo essere io ad accoglierlo in Cielo!". E così accadde. “Noi volevamo tener nascosta la sua morte ad Antonio – spiega la mamma- per non pesarlo di questa ennesima sofferenza, ma un bel giorno scoprimmo che Antonio, inspiegabilmente, sapeva già sapeva tutto”.
LA MISSIONE HA INIZIO
Il 21 Maggio del 2011, all’improvviso, si scopre il peggio: Antonio ha 10 cm di massa tumorale in un fegato cirrotico e gravemente compromesso. La situazione è così grave che i medici parlano di pochi mesi di vita, forse due. Non solo, il piccolo necessita di un trapianto di fegato immediato, ma le aspettative di vita sono così basse che l’ospedale non vuole nemmeno inserirlo nella lista d’attesa dei trapianti.
“Nonostante non potessi dirmi una credente praticante - continua la mamma - la prima cosa che pensai nell’istante in cui ci comunicarono di Antonio, fu: “Allora Dio non esiste”. Mi venne d’improvviso questo pensiero, che subito venne scacciato da un secondo pensiero: “Dio esiste e l’unica cosa che posso fare è sperare in Lui”. Non so spiegare nemmeno io cosa mi accadde, ma è come se dentro di me scattò qualcosa che mi donò una grande speranza. Quando ci trovammo davanti al medico, mi uscirono queste parole: "Dottore lei ha fede?". Lui mi rispose: "No, ho visto morire troppe persone per avere fede". Io lo guardai e gli dissi: "Io invece sì. Lei deve mettere mio figlio in lista d'attesa e mio figlio ce la farà".
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Ciò che accadde poi fu qualcosa di prodigioso: in poco tempo trovarono un fegato perfettamente compatibile con quello di Antonio ed il chirurgo stesso rimase sbalordito di come il trapianto riuscì alla perfezione, con una semplicità che mai si sarebbe immaginato. Questa fu una prima grande grazia perché, sebbene l’operazione non guarì la malattia, che presto si ripresentò con una diffusa metastasi ai polmoni, essa regalò ad Antonio un anno in più di vita: “Il Signore ci ha donato la grazia del tempo. Così noi abbiamo avuto tempo per comprendere, tempo per fare un profondo cammino di fede, tempo per passare dal rifiuto totale, al momento in cui alzando gli occhi al Cielo dissi: "Signore io umanamente, come mamma, desidero che mio figlio resti con me e guarisca, ma se la Tua volontà non è questa, fai Tu, perché Tu sai ciò che io non so".
IL GETSEMANI DI ANTONIO
All'inizio Antonio prese la malattia quasi per gioco, riceveva molte visite e regali e lui, tutto sommato, stava ancora bene. Poi le cose cambiarono drasticamente. Il tempo trascorso in ospedale iniziò ad essere quasi continuo, tanto che un giorno guardando fuori dalla finestra Antonio lanciò un grido, che però non partiva dalla bocca, ma dal profondo del cuore: "Io cosa ci faccio qua? Io dovrei essere a scuola, a giocare con gli altri bambini. Perché sono qui?".
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Per il bambino inizia un periodo breve, ma durissimo. “Ricoverati all’Ismett (Centro Trapianti) - racconta la mamma - ogni mattina dovevamo scendere nella stanza dove tutti i bambini facevano i prelievi del sangue: fu per lui un’esperienza veramente traumatica. Ciò che più lo straziava era sentire ogni volta le urla dei bambini che piangevano disperati: “Mamma vai a consolarli, ti prego non farli piangere!”, mi supplicava per quei piccoli, noncurante che, di li a poco, sarebbe toccato a lui”.
Ogni mattina si consumava una tragedia, sino a che un giorno Antonio non ce la fece più, prese in mano il Crocifisso di San Benedetto, lo strinse forte forte tra le mani, e iniziò a gridare: “Gesù dove sei? Sei tu che mi devi aiutare! Io ho sempre creduto in te, ma se ora tu non mi aiuti, io a te non ci credo più”. Tutto questo avveniva sotto gli occhi disperati degli infermieri e dei parenti che non riuscivamo più a calmarlo.
(CONTINUA...)
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jucks72 · 7 years
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Seconda stella per Andrea Aprea «A Natale suocera in cucina, io a tavola»
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Seconda stella per Andrea Aprea «A Natale suocera in cucina, io a tavola»
«Hai visto? Abbiamo rinnovato la cupola, giusto in tempo per Sant’Ambreus»: inflessione quasi milanese quella con cui mi accoglie Andrea Aprea, in gran forma e fresco della seconda stella Michelin al suo Vun. Ci sediamo ad un tavolino del bar del Park Hyatt Milano, il lussuoso Hotel nel cuore del capoluogo lombardo.
Qui ci ha dormito Barack Obama, qui Aprea sta portando la ristorazione ai vertici della grande cucina. Con il Vun e con, appunto, la rinnovata cupola che sarà il luogo dove godersi i menu delle feste dalla Vigilia di Natale fino al veglione di fine anno.
Andrea Aprea
Andrea, da dove sei partito? Da Napoli, sono napoletano. Sono partito da lì per arrivare ad approfondire il mondo della ristorazione, ma facciamo un passo indietro… Negli anni Novanta le cose erano molto differenti, non c’era attenzione mediatica per il nostro lavoro, ciò che ti spingeva a farlo era la passione e la voglia di viaggiare. Quando si hanno 18-20 anni si hanno prospettive diverse. L’obiettivo a quel tempo era avere un mestiere che ti permettesse di girare il mondo e se facevi il cuoco, ti succedeva eccome. Oggi è tutto molto diverso.
Quando torni a Napoli cosa cerchi? È la mia città, sono mancato a lungo, ci sono tornato per aprire il ristorante Il Comandante al Romeo Hotel, e sono ripartito. Adesso ci vado tre giorni per le feste che riesco a passare in famiglia, mio fratello, i nipoti, gli amici… Quando scendo ho troppo poco tempo, devo concentrare tante cose, ma non manca mai una visita alla famiglia di mia moglie, nella parte bassa del Cilento. Da noi queste visite sono regola e gioia al tempo stesso, si deve “presenziare”, Natale dai suoceri e Santo Stefano dai miei.
Il sapore del Natale a Napoli Voglio portare mia figlia a San Gregorio Armeno, la via dei presepi. Vittoria compie cinque anni, ne resterà affascinata e le comprerò il torrone.
Caprese… Dolce salato
E a Natale chi cucina? Non lo so ancora, penso mia suocera. Almeno per una volta voglio stare dall��altra parte. Sono fortunato a differenza di altri colleghi che durante le feste lavorano, il Vun chiude il 23.
Quindi felicemente a casa… Cucina tradizionale? Come tutte le famiglie italiane è la tradizione a vincere. Brodo di gallina a Natale con la minestra maritata, a differenza del nord, al sud il vero pranzo è la cena della vigilia.
Del percorso che ti ha portato al successo cosa non rifaresti? Penso di aver fatto scelte mirate, giuste, con il senno di poi certo qualcosa forse avrei cambiato, ma nel bagaglio professionale di un cuoco è giusto ci sia una sperimentazione trasversale. Il mio lavoro è in un hotel di lusso, dove devi gestire tutta una serie di offerte gastronomiche portando in ciascuna la stessa qualità, eleganza e ricerca.
Tortello cacio e pepe
Quanto è importante la squadra? È alla base di tutto. Con i miei ragazzi ci intendiamo, un bel gruppo: è difficile, ma se funziona è vincente. Si tratta di trasmettere la tua passione, il tuo progetto. Sei o sette di loro sono con me da cinque anni e sono il gruppo che ci ha portato al successo. Non basta avere un fuoriclasse che fa tre goal, perché se hai una difesa debole e ne prendi sette, perdi sette a tre. Bisogna darsi impostazioni di base, per far funzionare un organico, ci vuole un coach che guidi il gruppo. Ai miei ragazzi dico sempre: «Se vedete una foglia che ha una macchiolina dovete chiedervi “La mangerei? La pagherei?”». Ecco l’attenzione al dettaglio è uno dei tasselli fondamentali, per arrivare alla squadra che funzioni e che sia sincronizzata. Devi trasmettere visione perché non puoi essere su tutto, quindi devi ramificare la tua impostazione.
Mettersi sempre in discussione? Tutti i giorni e su tutto. Nel nostro lavoro usiamo il palato, una cosa bellissima. Ho 24 cuochi e 24 palati, se qualcuno mi dice “questa crema di carciofi non mi convince” io raccolgo il dubbio e ne parliamo. Se la squadra è tale, il gruppo deve avere sinergia e io rispetto le opinioni di tutti. Se rispondessi “non capisci nulla”, bloccherei la crescita dei ragazzi, è questione di saper gestire. Basta uno sguardo e già sappiamo dove sta il problema, è un rapporto simbiotico. Il più vecchio della brigata del Vun, Antonio Sena, ha 29 anni e Giuseppe Crescentini, chef di cucina, che si occupa di eventi e del bistro, ne ha 30.
Baccalà, pizzaiola disidratata e olive verdi
Tifoso? Del Napoli, credo che quest’anno ci sia un pelino di sfortuna calcistica, legata a un paio di infortuni, ma mancano cinque mesi e sono fiducioso. Certo, seconda stella Michelin e scudetto lo stesso anno sarebbe un vero en plein.
Quando è arrivata la telefonata della Michelin? E cosa ti hanno detto? Tre giorni prima della presentazione a Parma e mi hanno semplicemente invitato ad essere presente, come tanti altri, senza dirmi nulla di più. Ti chiedi che succederà, quale sia il motivo, poi la grande emozione, per tutti noi, perché questi riconoscimenti fanno bene a tutti la brigata, all’hotel, alla proprietà. Una spinta forte per tutti.
I cuochi campani stanno mietendo successi… I cuochi campani hanno avuto crescite importanti in realtà dove poter operare bene, credo che questo sia dato dal fatto che siamo forse più predisposti. Abbiamo per indole e per vissuto un riflesso della cucina mediterranea. La mia amo definirla contemporanea e italiana, voglio portare in tavola piatti italiani, dalla Caprese al Tortello cacio e pepe. Un messaggio identitario. Quando mi confronto con un cliente internazionale è importate far capire che questa è la nuova Cucina italiana, lontana dai luoghi comuni. Negli anni sessanta e settanta i francesi aprivano i grandi ristoranti e noi ci facevamo rubare il concetto di Cucina italiana all’estero con piatti improbabili. Oggi la Cucina italiana è di altissimo livello.
Maiale nero “100 ore”, radicchi di campo, provola affumicata, miele e peperoncino
Le due stelle Michelin a cosa ti fanno pensare? Sono innanzitutto un premio a ciò che abbiamo fatto sino ad oggi. Ma dobbiamo trovare stimoli tutti i giorni, altrimenti ci fermiamo, anche un riconoscimento è un forte stimolo. Ci sono momenti, indipendentemente dai premi, in cui ho una mia necessità di portare qualcosa di nuovo, di provare, di cercare, fino ad ottenere quei “signature dish”, altrimenti diventi statico. Se non dai linfa, il meccanismo si ferma.
Miri alla terza stella? Ora mi godo il momento e vorrei conservare il risultato: testa bassa e andiamo avanti.
Il tuo luogo del cuore? Quando vado nel Cilento da mia moglie c’è una dimensione di “paesino piccolino” nel golfo di Policastro: tu, il cane e il mare. Ho sempre detto a mia moglie che potrebbe essere il posto dove ritirarsi quando saremo in pensione.
La cena romantica è ancora un arma vincente? Si, dicono che funzioni, io, mia moglie Mara, l’ho sedotta con la gola… Conquistata con una cenetta casalinga.
Per informazioni: www.hyatt.com/restaurants/vun
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