Tumgik
#***** sappiamo tutt di che località si tratta
enkeynetwork · 2 years
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deathshallbenomore · 2 years
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comunque il migliore di oggi in assoluto il tizio che: io sono di *****. il viaggio per venire fin qui è lungo. e si suda tanto. se sudo mi dà fastidio indossare l’orologio da polso. pertanto, ecco il motivo per cui sto indossando un orologio da taschino, d’oro.
sei così peculiare ti prego non rubarmi il posto ma intrattienimi per sempre
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paoloxl · 6 years
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Israele, lo Stato che occupa la Palestina per una superficie che va ben oltre quella stabilita nella partizione proposta dall’ONU nel lontano 1948. Israele, lo Stato che per sistematica inosservanza di decine e decine di Risoluzioni Onu è un Paese fuorilegge sebbene non venga (per fortuna) bombardato come successo, con benedizione mediatica e popolare, per altri Paesi. Paesi che magari di Risoluzioni Onu ne avevano ignorata soltanto una.
Israele, che non subisce sanzione per le sue continue violazioni del Diritto universale umanitario e delle Convenzioni di Ginevra riesce, con un sortilegio basato su complicità e interessi internazionali, a mantenere il suo appellativo di Stato democratico. Aggettivazione che non perderà neanche dopo aver distrutto la ormai famosa “scuola di gomme” costruita dalla ong italiana Vento di Terra nove anni fa. Scuola che è stata oggetto da subito di minacce di demolizione, di confische di strutture ricreative quali altalene e altri giochi asportati addirittura con l’impiego di elicotteri per impedire a 170 bambini l’uso di quanto offerto dalla generosità internazionale.
Israele non perderà neanche questa volta la sua definizione di Stato democratico, per quanto assurdo sia rispetto alla realtà, grazie ad un fantastico gioco di prestigio giuridico-lessicale capace di ipnotizzare i democratici onesti e di fornire materiale narrativo ai suoi valletti mediatici.
Vediamo di cosa si tratta. Prima di tutto va ricordato che Israele – nel più totale silenzio mediatico – demolisce abitualmente strutture scolastiche oltre che abitative nell’Area C. Non solo, ma in particolare nell’Area C, cioè in quella parte di Palestina che la trappola degli accordi di Oslo del 1993 pose “provvisoriamente” sotto giurisdizione israeliana.
La scuola di gomme è riuscita, giustamente, ad attrarre l’attenzione internazionale sia per la tenacia dell’organizzazione che l’ha costruita, sia per l’originalità del progetto basato sul riciclo di vecchi copertoni e senza le fondamenta che, nella crudele e arbitraria prassi israeliana, ne avrebbero decretato l’abbattimento immediato per violazione delle norme ambientali. Non sembri pleonastico precisare che laddove vengono impedite anche minime costruzioni palestinesi lo Stato ebraico costruisce o lascia costruire a coloni (anch’essi fuorilegge ai sensi della legalità internazionale) enormi insediamenti su territorio comunque palestinese.
Ma cerchiamo di capire cosa consente a questo Stato di non perdere il grande scudo protettivo, e finora inossidabile, chiamato democrazia. Israele fa precedere le sue azioni più o meno violente contro il popolo palestinese, la sua terra, i suoi diritti e finanche la vita tout court, sia quando abbattuta in forma di stillicidio sia quando abbattuta per grandi numeri, dalla magica formula democratica della “legge” emanata dalle sue istituzioni.
La demolizione di case, ultimissime quelle del villaggio di Al Walaja vicino Betlemme, come tutte le altre demolizioni e confische di beni palestinesi e come tutte le altre costruzioni illegittime regalate ad ebrei in quanto ebrei su terreno palestinese, sono precedute da decreti, sentenze, o leggi emanate dalla Knesset che, grazie allo scudo giuridico-lessicale  costituito dal temine “legale” – normalmente a braccetto con la definizione “sicurezza per Israele” – anestetizza i tanti sinceri democratici rendendoli incapaci di confronti semplici. Uno di questi confronti, solo per parlare dell’Italia, si può avere dando un’occhiata alla “legalità” di un tristissimo periodo storico del secolo scorso.
Se la legalità si fa semplicemente domestica e cozza contro un ben più universale corpo di leggi  internazionale, la legge nazionale mantiene la forma di legge pur violando la legittimità del suo contenuto.  Anche il Parlamento italiano approvò le leggi razziali del 1937 in violazione dell’eguaglianza con le popolazioni colonizzate, definendole “razze inferiori” e quelle del 1938 contro i cittadini italiani di religione ebraica definendo anch’essi “razza”. Erano “leggi” e pertanto rispettavano quel simulacro detto legalità. Bene, Israele fa regolarmente altrettanto e, come allora le leggi razziali ebbero l’autorevolezza di essere leggi, così ora le discriminanti norme giuridiche di Israele, peraltro all’interno del suo essere Stato fuorilegge in quanto occupante e assediante, hanno l’autorevolezza della forma e tanto basta perché il mondo le accolga e, tutt’al più, tolleri l’organizzazione di petizioni e preghiere affinché il governo israeliano mostri magnanimità nell’applicazione di norme e sentenze che di per sé dovrebbero essere condannate dalla comunità internazionale in quanto illegittime già alla fonte.
Quanto sta succedendo con la demolizione della scuola di gomme del villaggio beduino di Khan Al Akhmar in Cisgiordania e la successiva deportazione della comunità Jahalin che lo abita, è solo l’ultimo esempio di tutto ciò. Demolizione e deportazione sono state decise da molti anni, da quando le istituzioni israeliane hanno stabilito di allargare la colonia (ovviamente illegale) di Ma’ale Addumin unendola ad una colonia più piccola  tagliando definitivamente in due la Cisgiordania e impedendo anche solo l’idea della nascita, seppure in forma ridotta, di quello Stato palestinese che la Risoluzione 181 proponeva accanto a quello israeliano.
La decisione – rimandata più volte in seguito a petizioni, richieste di organizzazioni palestinesi ed anche israeliane, la tenacia di Vento di Terra e l’attenzione di parlamentari italiani e di varie nazioni, e i ricorsi alla Corte suprema israeliana – infine è arrivata, e in forma di sentenza definitiva. Sentenza emessa da quella Corte suprema che, assurdamente, è considerata super partes nonostante sia istituzione giuridica dello Stato occupante e quindi, per logica, rappresentante semplicemente quella figura che la saggezza popolare italiana ha affidato a un vecchio adagio, quello che recita “oste com’è il vino? Ottimo direi”.  Quindi la Suprema corte israeliana, dopo una farsa pluriennale, ha sentenziato che il villaggio verrà demolito e la scuola di gomme con esso. I 170 bambini che la frequentano, insieme con le loro famiglie verranno deportati, ma il verbo usato è “trasferiti” e le parole hanno un loro perché, verranno deportati in una località generosamente offerta dallo Stato di Israele, ovviamente in territorio palestinese e, addirittura, verranno offerte loro delle tende in modo che con calma possano ricostruirsi le case che Israele demolirà. La zona offerta, con possibile alternativa, è nei pressi di una grande discarica, l’alternativa è invece nei pressi di un impluvio di acque reflue.
Come ricordano i rappresentanti di VdT, la comunità Jahalin è qui da settant’anni, cioè da quando l’esercito israeliano l’ha cacciata dal Neghev dopo la Nakba. Insomma, vessazioni su vessazioni praticate dal democratico Stato di Israele fin dal suo nascere e di cui questa è solo l’ultima in ordine di tempo.
Ricordiamo che Vento di Terra ha fatto e sta facendo ottime cose anche nella Striscia di Gaza e che proprio lì, quattro anni fa, l’IDF distrusse completamente la città dei bambini, un meraviglioso asilo all’avanguardia come sistema educativo nel villaggio beduino di Um al Nasser al nord della Striscia.  Fu allora che, nell’operazione dal magico nome “margine protettivo”, in soli 51 giorni Israele uccise qualche migliaio di persone compresi 570 bambini.  Però Vento di Terra, con la tenacia che evidentemente ha in comune col popolo palestinese, a Um al Nasser sta portando avanti altri ottimi progetti per le donne e i bambini scampati alla strage del 2014. Le nuove strutture resisteranno solo se Israele, nel suo arbitrio impunito, non avrà “bisogno” di distruggerle e, in quel caso, sappiamo che il mondo assisterà ancora impotente, o ignaro, o consenziente a seconda della narrativa che riuscirà ad essere veicolata dal suo vallettismo mediatico.
Intanto si seguitano a organizzare petizioni, manifestazioni di solidarietà con la popolazione del villaggio a cui partecipano anche sinceri democratici israeliani. La società civile si muove chiedendo che Israele non commetta quest’ennesimo crimine e Vento di Terra sta facendo il possibile perché il crimine non accada. Ma accadrà. Le proteste e le richieste affinché la Corte suprema israeliana modifichi la sua sentenza finale cadranno nel vuoto. Del resto, sarà gioco facile dire che se ci si affida a un tribunale si devono accettare le sue sentenze, e così si darà a Israele la possibilità di definirsi ancora una volta paese democratico il quale, prima di compiere un’azione, si affida al diritto. Che poi sia un diritto domestico e “Cicero pro domo sua” passerà in secondo piano.
Ma forse succederà di peggio. Siccome i luoghi in cui si è stabilito di deportare gli abitanti di Khan al Akhmar sono orrendi e insalubri, probabilmente il governo israeliano ha già pronto un piano B: cambierà luogo offrendo come nuova residenza un ambiente non inquinato e, con l’aiuto di qualche bravo opinion maker, forse si finirà per chiedere che gli abitanti di Khan al Akhmar ringrazino Israele per la sua umana comprensione. Altra operazione che trasformerà un ennesimo crimine israeliano in una prestigiosa medaglia alla generosità.
Nessuno fermerà Israele finché questo Stato sarà utile ai suoi protettori e ai suoi protetti. Pochi diranno la verità, e pochissimi l’hanno già detta. La verità si chiama sviluppo del progetto di annessione di tutta la Palestina storica a danno – tra gli altri – degli abitanti di Khan Al Akhmar, confiscando altra terra palestinese, implementando Ma’ale Addumin e creando un muro invalicabile che spezzi in due la Cisgiordania, portando dentro la Palestina ebrei venuti dalla Russia e dal mondo in genere i quali, cacciando i palestinesi diventeranno israeliani, cittadini della “Grande Israele” o Eretz Israel come vuole il sogno sionista sempre più vicino alla sua realizzazione grazie alle complicità o all’impotenza dei governi e delle istituzioni internazionali.
La petizione di Vento di Terra, che fa appello al Governo italiano alla UE e all’ONU, verrà presentata all’Alto rappresentante per gli Affari Esteri della UE Federica Mogherini.  Forse assisteremo a un’ennesima beffa del Diritto internazionale, tuttavia, i cittadini che ancora credono nell’importanza delle istituzioni democratiche sono invitati a firmarla.
La petizione si trova QUI
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Letteratura in viaggio
La Valchiusa tra Petrarca e Boccaccio
Est in Narbonensi provincia nobilis fons Orge nomine. In eo herbe nascuntur in tantum expetite bubus, ut totis eas querat viribus. Sed illas in aqua nascentes certum est non nisi ymbribus ali.[1]  [Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, par. lat. 6802, f. 143v]
Accanto a questo passo del codice parigino della Naturalis Historia compare un’aggiunta di un’altra mano, una “S” che vuole correggere il nome del fiume in “Sorge”.  A porre questa modifica non fu un amanuense qualsiasi, ma il primo proprietario del manoscritto; Francesco Petrarca, il grande intellettuale medievale reso celebre dal suo immenso sapere ed immortale dalle sue poesie. In particolare, questo passo pliniano sta descrivendo un luogo a lui incredibilmente caro: si tratta di Valchiusa, una località delle Alpi provenzali a pochi chilometri da Avignone, una delle città più frequentate dal sommo poeta girovago. A renderne necessaria la frequentazione era il periodo storico: tra il 1309 ed il 1377 la sede del papato si era trasferita proprio ad Avignone, delineando quella che verrà sempre ricordata come “Cattività Avignonese” con i suoi papi ed antipapi. A Valchiusa Petrarca trovò ben più di un rifugio tranquillo dalla frenesia della nuova città papale: questa località ospitava, così come ospita tuttora, la Fontain de Vaucluse, da qui nasce il fiume Sourge, la cui bellezza incantò così tanto il poeta da diventare l’emblema del suo locus amoenus, il suo personale paradiso terrestre fonte d’ispirazione. È proprio pensando a Valchiusa che scriverà, tra il 1340 ed il 1341, “Chiare, fresche et dolci acque”, la composizione più celebre del suo Canzoniere.
Il manoscritto di Plinio ci regala molto di più di una “S”: poco più sotto appare lo schizzo di un airone cenerino che mangia in mezzo ad un canneto, in lontananza un sentiero che s’inerpica sopra di un monte, sulla cui vetta appare una cappella.
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Il disegno è tanto più interessante quando si scopre che a farlo non è stato Petrarca, bensì il suo pupillo più devoto; Giovanni Boccaccio. Grazie al confronto con un altro schizzo certamente attribuibile all’autore del Decameron, infatti, è stato possibile dichiarare anche questo disegno figlio dello scrittore. È certo, d'altronde, che Petrarca gli abbia prestato il manoscritto per permettergli di continuare le sue ricerche per la stesura del De montibus e cosa, più importante, sappiamo che Petrarca apprezzava ritrovare sui propri volumi disegnetti e abbozzi di chi li aveva avuti in prestito.
Il filologo Francesco Rico ha visto qualcosa in più di un semplice omaggio da parte di Boccaccio verso il suo modello. Secondo lo studioso potrebbe trattarsi di una rappresentazione simbolica: l’airone cenerino sarebbe Petrarca stesso, dal momento che condivideva con il nobile uccello non solo le abitudini alimentari (pesci e frutta), ma anche la paura per le tempeste ed un ingegno smisurato (così viene ritratto l’animale nei bestiari medievali). A questo punto, il monte con la cappella in vetta altro non è che il percorso che il poeta ha compiuto per liberarsi dei suoi peccati giovanili per raggiungere la pienezza religiosa, la raffigurazione di un’ascesa “in montem Domini”.
Il disegno è davvero singolare, dal momento che Boccaccio non visitò mai Valchiusa (infatti quello che rappresenta non assomiglia a nessun luogo veramente esistente). Tutto quello che sa di questo posto lo conosce grazie ai racconti del suo maestro, che certamente glielo deve aver descritto numerose volte, prodigandosi nei dettagli.
Ancora alcune lacune ruotano attorno a questo piccolo capolavoro. Non è chiaro, infatti, se Boccaccio lo realizzò di sua libera iniziativa, come sostiene il professor Fico, o se lo fece sotto l’occhio vigile di Petrarca, come, invece, ha ipotizzato Maurizio Fiorilla. Certo è che le parole che seguono appena sotto il disegno sono state vergate da Petrarca stesso, il quale ha voluto omaggiare a modo suo il lavoro del pupillo fiorentino.
Transalpina solitudo mea iocundissima.[2] [par. lat. 6802, f. 143v]
Gabriele Chincoli
Questo articolo è stato pubblicato sul Cimone, il notiziario del CAI di Modena. Per scaricarlo Cliccate Qui
Bibliografia: Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, Codice par. lat. 6802 M. Fiorilla, Marginalia figurati nei codici di Petrarca, Olschki 2005 F. Rico, Ritratti allo specchio: Boccaccio, Petrarca, Antenore 2012
[1] “Nella provincia narbonese c’è una sorgente famosa col nome di Orga. In essa nascono erbe ricercate tanto dai buoi, che le cercano con tutte le teste immerse. Ma è certo che quelle che nascono nell’acqua non sono alimentate se non dalle piogge” [traduzione libera del passo non corrotto]
[2] “Il mio dolcissimo eremo transalpino”
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Forza maggiore - Ostlund
Una coppia con due figli trascorre una settimana bianca in un albergo di una località sciistica. Ostlund non si perde in preamboli. Ci mostra una Vacanza, che scorre nella pura normalità.
Poi una telecamera fissa e distante, quasi fosse la registrazione a circuito chiuso dell'albergo, li riprende mentre pranzano su un terrazzo.
All'improvviso una slavina si stacca dal fianco della montagna. Le persone presenti se ne accorgono, subito prendono i telefonini e girano un video. La valanga appare lontana e controllata, e offre uno spettacolo meraviglioso...
Passano appena quattro cinque secondi. E' veramente questione di un attimo. Tutti si rendono conto che la neve si avvicina pericolosamente e li sta per travolgere. C'è chi si blocca, chi capisce prima, e chi dopo. Chi fugge e chi rimane impietrito.
Il padre è tra quelli che istintivamente si defilano. La madre resta immobile, come i figli, ma fa quasi da scudo per proteggerli.
Una gran nuvola di nevischio avvolge tutto, poco dopo si dirada.
Solo un grande spavento, nessuno si è fatto male.
Ecco, sappiamo in che direzione si muove il film.
Ci mostra le diverse reazioni di fronte a un fatto assolutamente fuori dall'ordinario. Una coppia, apparentemente stabile e felice, viene messa alla prova da un evento potenzialmente tragico: si tratta di una sorta di prova generale, simile ad una esercitazione dei vigili del fuoco.
Una prova generale che potrebbe, a detta di qualcuno, dimostrare quello che siamo veramente, la nostra essenza ultima. Dire una volta per tutte se possediamo quel coraggio e quell'altruismo che ci inducono a proteggere i nostri cari a qualsiasi costo, anche della vita.
La coppia riprende la sua attività di vacanza, normalmente, come se nulla fosse accaduto, ma è solo apparenza.
La moglie cova un rancore tremendo. Si intuisce fin da subito che è profondamente delusa dal marito, forse in modo irrevocabile. Resta imbronciata. Si isola.
Poi pretende una sorta di chiarimento. Il marito la porta in corridoio per non fare assistere i bambini a una discussione che si annuncia piena di tensione. O almeno così ce la aspettiamo.
In realtà i due si accordano per un Finiamola qui, non è successo niente.
Ed ecco che la magia di Forza maggiore si scatena: Inizia un gioco di rabbie trattenute, sguardi, sfoghi, esplosioni d'ira.
Frequentano altre coppie. Ci vengono mostrati frammenti di conversazioni, poi all'improvviso la moglie inizia la sua vendetta personale, e annuncia il fatto agli amici, coinvolgendoli.
E' l'imbarazzo più totale. Ciò che rende unico il film  è che il disagio è trasmesso allo spettatore. Traumaticamente. Vediamo la scena e ci prende una morsa allo stomaco. Aiutano in questo gli attori, straordinari, credibili, che instillano in noi la loro stessa incredulità.
Da questo momento in poi il film è un crescendo di tensione. Un succedersi di eventi, più interiori che altro, espressi sempre attraverso impercettibili sfumature.
E' un film minimale, in cui molti dei pensieri li si possono soltanto immaginare.
Spesso, contemporaneamente ai vari personaggi chiamati in causa, a nostra volta coinvolti, ci chiediamo quanto il comportamento del marito sia stato sbagliato oppure addirittura grave o imperdonabile.
Istintivamente in ognuno si scatena un dibattito profondamente etico.
Non dirò altro. Il finale, che potrebbe ribaltare la prospettiva, è secondo me di una raffinatezza unica nel suo genere, dice tutto, senza dire nulla, con un immagine di una forza straordinaria.
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Erano Sallentini o Salentini?
di Nazareno Valente
  Poi alla fine qualcuno di noi scoprirà che i suoi avi erano più precisamente Calabri, e che con i Sallentini o i Salentini — come dir si voglia — avevano solo comunanza di stirpe. Comunque sia intriga ugualmente il quesito posto dall’amico Armando Polito nel suo recente interessante intervento, “Salentini o Sallentini?”, su quale di questi due termini debba considerarsi corretto.
Premetto che, per me, la forma da preferirsi è Sallentini.
E cercherò di avvalorare questa mia scelta partendo, visto che si tratta di antichità, da lontano.
La prima volta che le fonti narrative antiche citano la nostra terra non ne menzionano la denominazione, ma unicamente la zona geografica dove essa era collocata. È infatti riportato che è quella parte della Iapigia («Ἰηπυγίης») che sta a sud dell’istmo che va dal porto di Brindisi a Taranto («ἐκ Βρεντεσίου λιμένος ἀποταμοίατο μέχρι Τάραντος»)1.
Erodoto — che, mi piace pensare, introdusse questo passo mentre in una serata estiva d’un anno vicino al 440 a.C. declamava le sue “Storie” ai concittadini Turini, tradizionali alleati dei Brindisini — non dà pertanto un nome al nostro popolo né alla nostra terra. Utilizza infatti un più generico toponimo, Iapigia, che caratterizzava una regione ben più vasta, pressappoco coincidente con l’attuale Puglia e quella parte della Lucania che si affaccia sul mare Ionio, e che comprendeva quindi anche la penisola che noi chiamiamo salentina.
Iapigia e Iapigi, risultano rispettivamente il più antico coronimo ed etnico utilizzati per definire la nostra terra ed i nostri antenati. E, cosa meno nota, erano termini utilizzati dalla gente del luogo per definire sé stessi, quando nel II millennio i Greci non avevano fatto ancora capolino in quelle contrade.
Quando i colonizzatori greci alfine arrivarono, causarono una piccola grande rivoluzione nella società iapigia che incominciò a differenziarsi e, nel corso del tempo, finì per formare al proprio interno gruppi etnici con differenti specificità.
Al riguardo la tradizione maggiormente accolta è quella di matrice greca che prevede la ripartizione degli Iapigi in Dauni, Peuceti e Messapi i quali ultimi occupavano la Messapia, i cui confini erano appunto all’incirca delimitati a nord dall’istmo che collega Brindisi a Taranto.
Tale percezione divenne sempre più esplicita in età ellenistica fino a trovare una sua compiuta definizione nella tradizione divulgata da Nicandro di Colofone2 il quale narra come Licaone, che ebbe per figli Iapige, Dauno e Peucezio, raccolto un grosso esercito in gran parte composto da Illiri guidati da Messapo, giunse sulla costa adriatica e scacciò gli Ausoni. Effettuata la conquista, divise l’esercito e il territorio in tre parti, denominati in base al nome di chi li comandava, Dauni, Peucezi e Messapi, e la regione che si protendeva nella parte estrema dell’Italia al di sotto di Taranto e Brindisi fu chiamata Messapia.
In definitiva la ripartizione canonica della regione Iapigia, vale a dire grosso modo dell’attuale Puglia, in Daunia, Peucezia e Messapia, accolta anche da storici del calibro di Polibio3 e da geografi tipo Strabone4, e che soggiace di fatto alla visione egocentrica con cui i Greci erano soliti vedere tutto ciò che era di là dai propri confini.
Era tipico della spocchia greca che le terre ed i popoli fossero ridefiniti con nuovi termini, del tutto diversi da quelli usati dagli indigeni. Così, ad esempio, gli Etruschi diventavano per loro i Tirreni. Allo stesso modo, i nostri progenitori divennero Messapi. Queste operazioni erano poco accettate dalle comunità locali, in genere molto legate alle proprie tradizioni e denominazioni, però prendevano piede e finivano per creare una specie di sudditanza al mondo ellenico, che era appunto l’obiettivo ultimo di chi si poneva di svolgere azione colonizzatrice.
In questo modo si sono perse memorie e termini antichi, dando luogo anche ad aspetti per certi versi ridicoli: mentre i nostri antenati sarebbero andati su tutte le furie a sentirsi definire con un etnico diverso da quello da loro scelto, noi ne andiamo quasi orgogliosi. I Toscani si guarderebbero bene dal dirsi discendenti dei Tirreni, mentre sono fieri d’essere stati Etruschi. Noi, invece, gonfiamo il petto a dirci Messapi e, magari, neppure sappiamo che non era l’etnico natio, avendo di fatto assorbito, senza averne cognizione, questa forma forzata di integrazione culturale che ha eclissato le nostre origini.
Probabilmente molti di noi neppure sanno quali erano i coronimi e gli etnici coniati dai nostri antenati.
Ebbene, chi volesse scoprirli, ricorra a Strabone che, per nostra fortuna, ce ne ha lasciato memoria. Il geografo pontico ci fa infatti sapere che la denominazione geografica di Messapia è di origine greca («Μεσσαπίαν καλοῦσιν οἱ Ἕλληνες»), mentre la gente del luogo («ἐπιχώριοι» epicórioi) ripartisce la Messapia nel territorio dei Salentini («Σαλεντῖνοi») e in quello dei Calabri («Καλαβροὶ»). Successivamente6 ci fa sapere che gli indigeni chiamano la propria terra Calabria («Καλαβρία»).
In definitiva, i nostri progenitori non usavano le denominazioni greche, Messapia e Messapi, ma quelle da loro ideate, vale a dire Calabria, per definire la terra che noi chiamiamo Salento, e Calabri e Salentini, per indicare le genti che la popolavano. Quindi, di fatto, un solo coronimo, Calabria, e due etnici, Calabri e Salentini.
In merito a questa ripartizione dei popoli che l’abitavano, lo stesso Strabone specifica, sia pure in modo generico, che la terra dei Salentinoi è attorno a Capo Iapigio («τὸ περὶ τὴν ἄκραν τὴν Ἰαπυγίαν»7) — lasciandoci così intendere che gli insediamenti Salentinoi sono limitati attorno al Capo di Santa Maria di Leuca — e che il resto della regione è abitato dai Calabroì. Grazie all’apporto di altri geografi e storici dell’antichità si viene a conoscenza di altri particolari che consentono di definire con una qual certa precisione quali erano in epoca classica gli stanziamenti di questi popoli consanguinei8.
Senza dilungarci, riassumiamo le conclusioni cui si è pervenuti.
Località Calabre: Ostuni, Carovigno, Caelia (forse Ceglie Messapico), Brindisi, Scamnum (forse Mesagne), Oria, Manduria, Valesio, Lecce, Rudiae, Statio Miltopes (forse San Cataldo), Fratuentum, Portus Tarentinus, Otranto.
Località Salentine: Soleto, Vaste, Castrum Minervae (probabilmente Castro), Vereto, Capo di Santa Maria di Leuca, Ugento, Alezio, Gallipoli, Nardò, Senum.
  Sin qui abbiamo consultato solo autori di lingua greca i quali ribadiscono quanto già è a nostra conoscenza, vale a dire che le fonti elleniche utilizzavano in maniera esclusiva il termine Salentini.
Le fonti latine incominciano ad interessarsi della nostra terra, solo quando essa entrò nell’orbita romana e, a differenza delle fonti letterarie greche – che, come visto, privilegiavano termini di propria ideazione – facevano in maniera quasi esclusiva uso della terminologia indigena.
Di fatto il mondo latino accantonò i termini di matrice greca per divulgare solo quelli d’origine autoctona.
Era questo un approccio del tutto diverso da quello attuato dai colonizzatori greci. Un approccio che aveva una chiara impronta politica: far comprendere ai popoli conquistati che non si volevano deprimere i loro usi, i loro costumi e le loro più antiche tradizioni che, anzi, s’intendevano valorizzare.
Era il modo usuale d’agire dei Romani che concedevano ampio spazio gestionale alle città sottomesse, lasciandole libere di fare al proprio interno ciò che ritenevano meglio. Di là dai confini cittadini, però, non avevano più alcun potere, nel senso che non potevano avere una propria politica estera. Anche il dissidio più banale tra comunità vicine doveva essere infatti composto da un’autorità romana. E lo stesso avveniva per qualsiasi attività contrattuale, salvo gentile concessione di Roma.
Non fu pertanto a caso che, l’apparato augusteo, nel delineare un possibile scenario geografico delle popolazioni italiche, utilizzò in maniera diffusa i vocaboli indigeni.
La nostra terra fu quindi conosciuta nel mondo antico con il nome di Calabria9, che era il coronimo di derivazione locale creato dai nostri antenati, ed i popoli che vi abitavano venivano chiamati Calabri10 e Sallentini, anch’esse voci di origine autoctona.
In effetti occorre ricordare che quest’ultimo termine era privilegiato dagli storici e dai letterati latini che l’usavano in prevalenza anche per definire chi in effetti era più propriamente Calabro11. Sicché i Brindisini venivano, a volte, detti Sallentini, sebbene fossero in realtà Calabri.
In definitiva il termine in origine era di matrice indigena. E, nella traslitterazione in lingua greca, era stato reso con una lambda — corrispondente alla “l” latina — (Σαλεντῖνοi, Salentinoi), mentre in quella latina con una doppia lettera “l” (Sallentini).
Pertanto, constatato che il vocabolo è autoctono, il quesito può essere posto in questi termini: quale di queste due trascrizioni è più corrispondente alla voce originaria?
Già per il fatto stesso che i Romani, a differenza dei Greci più propensi a filtrare ed a modificare ogni cosa secondo il proprio metro di giudizio e le proprie convinzioni, fossero in genere rispettosi delle tradizioni dei popoli con cui venivano a contatto, indurrebbe a credere che la forma più fedele al termine originario sia quella latina. E quindi con una doppia “l”.
Si aggiungono poi due ulteriori considerazioni che avvalorano ancor più questa ipotesi.
Tra i tanti autori latini che impiegano il termine Sallentini ci sono pure Marco Porcio Catone12 e Cicerone13. Il primo un tradizionalista per antonomasia; il secondo un attento divulgatore delle forme linguistiche in uso. Entrambi pertanto, sia pure per motivi diversi, poco disposti ad impiegare un termine in maniera palesemente scorretta.
Ma quel che più conta è che quando il vocabolo s’impose veniva veicolato per lo più in forma orale, non certo in forma scritta.
Ora la doppia consonante viene espressa con un suono che, pur essendo singolo, è reso in modo più continuato e più lungo. Tuttavia, per chi ascolta, fare l’analisi dei suoni in determinate circostanze non è un’operazione del tutto banale, e questo a maggior ragione avviene quando gli interlocutori si esprimono in linguaggi diversi e magari la parola che si ascolta presenta delle difficoltà. Una di queste è insita nel suono allungato che si deve riconoscere per comprendere che si ha a che fare con una consonante doppia. Si pensi ad esempio ai Veneti, portati nel loro dialetto a non usare quasi mai le doppie, e che hanno qualche difficoltà a percepirne l’utilizzo anche nella lingua italiana che adoperano usualmente.
Un qualcosa del genere avviene anche per i Greci moderni che pronunciano le doppie in modo un po’ più prolungato ma mai continuato come facciamo noi. Per cui le consonanti doppie — e tra queste anche la lettera lambda (λ), come già detto corrispondente alla lettera latina “l” — sono da loro espresse come se fossero singole. Di conseguenza, ad esempio, il termine Ελλάδα (Elláda) lo pronunciano Eláda.
Ora è vero che non sappiamo se questa abitudine dei greci moderni possa essere attribuita pari pari a quelli del tempo antico, tuttavia non pare insensato ipotizzare che il Sallentini, pronunciato dai nostri avi, sia stato riportato oralmente dai Greci senza far sentire la doppia e di conseguenza traslitterato in lingua greca con una sola lambda. In pratica il termine originario Sallentini – contenente una doppia “l” – divenne traslitterato in greco Σαλεντῖνοi (Salentinoi), con una sola lettera lambda.
Mi pare, in definitiva, che ci sia più d’un motivo per credere che la forma latina sia quella più corrispondente al termine originario. E che, quindi, “Sallentini” sia l’interprete più fedele dell’antica espressione coniata dai nostri avi.
  Note
1 ERODOTO (V secolo a.C.), Storie, IV 99, 5.
2 NICANDRO DI COLOFONE (II secolo a.C.), conservato presso ANTONINO LIBERALE (…), Metamorfosi XXXI, fr. 47 Schneider.
3 POLIBIO (III secolo a.C. – II secolo A.C.), Le Storie, III 88, 3.
4 STRABONE (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Geografia, VI 3, 1.
5 Ibidem, VI 3, 1.
6 Ibidem, VI 3, 5.
7 Ibidem, VI 3, 1.
8 N. VALENTE, La penisola salentina nelle fonti narrative antiche, in Il delfino e la mezzaluna. Studi della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn. 6 – 7, Nardò 2018.
9 L’aspetto un po’ curioso è che molti cronisti brindisini – al pari dei redattori di Wikipedia – ritengono tuttora che Calabria è denominazione d’invenzione romana.
10 Altro aspetto curioso è che molti cronisti e storici brindisini affermano che i nostri progenitori erano Calabresi. Questo è l’etnico degli abitanti della Calabria attuale; gli abitanti della Calabria di epoca romana erano detti Calabri. Il termine Calabresi, infatti, neppure faceva parte del latino classico.
11 Per una più ampia analisi, si veda: VALENTE, La penisola salentina nelle fonti narrative antiche, pp. 104 e 105. Consultabile al link https://www.academia.edu/35875669/La_penisola_salentina_nelle_fonti_narrative_antiche
12 CATONE (III secolo a.C. – II secolo a.C.), De Agricultura, VI 1.
13 CICERONE (II secolo a.C. – I secolo a.C.), Pro Sesto Roscio Amerino, 132.
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frontedelblog · 4 years
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A Bergamo muore di coronavirus un ammalato (ufficiale) su cinque. E nessuno sa perché
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A Bergamo un malato di coronavirus su cinque muore. E sono solo le stime ufficiali. Le morti di Bergamo sono quasi un terzo di tutta la Lombardia. Ma accade solo qui. Perché c’è così tanta differenza con le altre province della regione?   Di Edoardo Montolli La Regione Lombardia, nella quotidiana diretta via Facebook in cui fornisce i bollettini dei contagi da coronavirus, non spiega mai quanti siano i morti per provincia. Non dice, in sostanza, dove, nella Lombardia, si muore di più. È una scelta che non ha molto senso nel momento in cui i decessi si contano a migliaia e dove ogni dato possibile deve essere comunicato alla popolazione. Tuttavia, due recenti articoli ci aiutano a capire di più su come e quanto si muoia a Bergamo, che non è più la provincia più colpita: al 30 marzo contava 8664 contagi, dietro Milano, che ne aveva 8674 e davanti a Brescia con 8212. Nemmeno Bergamo città è la più colpita: con 1088 contagi era la terza dietro Milano, con oltre 3500 e Brescia con 1249 contagi. Ma, come stiamo per vedere, questi dati stridono quando si parla di mortalità. I DUE ARTICOLI Il 26 marzo il quotidiano La Stampa pubblicava una lettera dell’ambasciatore russo Sergey Razov. Il diplomatico intendeva rispondere a due articoli allusivi sui presunti reali motivi dell’invio dei medici da Mosca a Bergamo. La querelle non c’interessa affatto. Importa però ciò che Razov sottolineava nella missiva riguardo la provincia orobica: «Com’è noto si tratta di una delle città del nord Italia con il maggior numero di infettati, dove sono già morte 1267 persone e 7072 restano positive». Evidentemente Razov si riferiva al giorno in cui ha preso carta e penna, ossia ai dati del 25 marzo. Ma al 25 marzo nella provincia di Bergamo non vi erano 7072 persone che “restavano positive” più 1267 morti. I decessi erano compresi nei 7072 contagi. Una differenza cruciale. Fatti due conti, significa che al 25 marzo i morti nella provincia di Bergamo costituivano il 17,9% dei contagiati. Una percentuale che lascia senza fiato. Soprattutto se si considera che, estrapolando i dati della provincia orobica, la mortalità nella Lombardia sarebbe per quel giorno risultata molto più bassa: non del 13,8%, ma del 12,6. Un punto e rotti percentuali in meno, che nel caso significano decine e decine di morti in meno, a stare bassi. Vuol dire che era proprio Bergamo a tenere il dato della mortalità alto. Purtroppo, questo scenario sinistro è il meno. Passano infatti quattro giorni e scopriamo che questi numeri sono aumentati ancora. E in maniera vertiginosa. Il Corriere della Sera pubblica i infatti dati del 29 marzo: a Bergamo, in totale ci sono 1878 morti. L’autorevolezza della fonte dei due articoli non è da mettere in discussione. I dati sui contagi sono ufficiali, perché li fornisce la Regione Lombardia stessa. UNO SU CINQUE MUORE Così, dal raffronto, scopriamo che a Bergamo, in quattro giorni, ci sono dunque stati altri 611 morti. E se guardiamo a questo punto i dati dei contagi della Lombardia al 29 marzo, ecco cosa si ricava: A Bergamo i morti non sono più nemmeno il 17,9% dei contagiati, ma il 22%: significa che in questa provincia più di un ammalato su cinque muore. I contagi di Bergamo costituiscono il 20% della Lombardia, ma i morti di Bergamo sono inspiegabilmente il 29,5% di tutta la regione, praticamente un terzo.  Scorporando i dati di Bergamo, la Lombardia avrebbe una mortalità molto più bassa del 15,5% che si ricava al 29 marzo, l’avrebbe addirittura del 13,7%. Perché allora solo a Bergamo si muore così tanto? Non è che il coronavirus sia diverso da una provincia all’altra. E neppure che a Bergamo ci fosse un picco di contagi enormemente diverso dalle altre aree lombarde. Nella provincia di Milano, il 29 marzo, c’erano appena 198 ammalati in meno e a Brescia 512 in meno. Anche il carico di malati sulla densità di popolazione non vedeva primeggiare la provincia orobica: a Cremona risultava 1 contagiato ogni 95 abitanti, a Lodi 1 su 111, a Bergamo 1 su 130. E allora a cosa si deve questa discrasia sul rapporto contagi – morti di Bergamo? A cosa è dovuta questa disomogeneità dei decessi con il resto della Lombardia? I FATTI Abbiamo riportato i racconti di chi sosteneva che a Bergamo le ambulanze, nei giorni peggiori, arrivassero anche dopo sette ore. E la testimonianza di un medico dell’ospedale Papa Giovanni che asseriva di dover ormai scegliere chi salvare. Così come quella di uno pneumologo del medesimo nosocomio, costretto a cercarsi da solo gli impianti per l’ossigeno in un’azienda di Levate il 7 marzo, a venti giorni dall’emergenza. E ancora le affermazioni decisamente tardive del sindaco di Bergamo Giorgio Gori secondo il quale i morti sarebbero molti di più, tanti spirati nei loro letti di casa. (QUI LE LORO STORIE). Sappiamo anche che al 29 marzo in terapia intensiva in Lombardia c’erano l’11,4% dei ricoverati, una percentuale sensibilmente più bassa rispetto alla media delle altre regioni italiane. Vuol dire che il problema vero in Lombardia ed evidentemente soprattutto a Bergamo, era ed è che troppa gente muore prima di arrivarci, all’intensiva. Oggi ci viene detto pure da un anestesista che tra chi si aggrava a casa ne muoiono 9 su 10 e che non esiste un protocollo collaudato per la terapia domiciliare: troppo spesso viene prescritto loro solo paracetamolo, la Tachipirina per intendersi. (QUI TROVATE L’INTERVISTA) E allora cos’è successo a Bergamo? E, fuori dai già mostruosi numeri ufficiali, quant’altra gente in più è morta in casa, senza mai ricevere nemmeno il tampone nella regione che si vanta di essere il fiore all’occhiello della sanità italiana? Perchè all’Agi  hanno parlato i sindaci di altre località della provincia falcidiate, devastate nel silenzio, senza nemmeno essere citate dai lugubri bollettini quotidiani della Protezione Civile. Ci sono paesi decimati senza un perché: ad Albino, al 29 marzo, 145 morti contro i 24 dell’anno scorso. Ma certificati da coronavirus solo 30. San Pellegrino Terme: 45 morti, di cui solo 11 ufficialmente per coronavirus. Nel 2019 i decessi erano stati 2. Scanzorosciate: 135 morti, 90 in più dell’anno scorso, dei quali non più di 20 ufficiali per coronavirus. Com’è morta tutta questa gente spirata in casa? Cos’è successo quando chiamavano il numero verde delle emergenze, il 1500 o il 112 chiedendo istruzioni o quantomeno un tampone? Perché è difficile credere che siano morte tutte di altre ragioni, così come è arduo ipotizzare che siano decedute in due ore dal primo colpo di tosse, no? E allora, qualcuno ce lo dovrà dire cos’è successo realmente a Bergamo dalla metà di febbraio ad oggi. E perché questo sia accaduto esclusivamente lì. Davvero, per tutte queste morti, si può dare esclusivamente la colpa al virus? Davvero dobbiamo tacere delle concause evidenti? Davvero nessuno è responsabile dell’abbandono di un’intera provincia da oltre un milione di abitanti? Davvero la gente di queste parti si deve accontentare di essere stata vittima di un destino atroce e dello sfortunato rimpallo di responsabilità tra Lombardia e Governo su chi dovesse cinturare i focolai di Alzano e Nembro, cosa peraltro mai avvenuta? Davvero l’arbitraria sospensione del diritto costituzionale alla salute avvenuta di fatto in terra orobica la dobbiamo solo ad un morbo? UN SILENZIO ASSORDANTE Perché purtroppo l’aria che si respira in questi giorni è quella di una dignitosa e composta rassegnazione da una parte e di un convinto mutismo dall’altra, tutti presi a comunicare centinaia di morti al giorno ormai come un fastidioso effetto collaterale, pronti a riaprire felici per il crollo dei contagi. Così, non vogliono polemiche gli espertoni che bollavano l’epidemia come una «forte influenza» (e che sono ancora in tv e sui giornali a propinarci sermoni senza vergogna) quando chiunque si fosse letto i rapporti cinesi su Wuhan sapeva che le cose non stavano affatto così. Non vuole polemiche il premier Giuseppe Conte, perché è facile criticare «con il senno di poi» e, citando Manzoni, afferma che «del senno del poi son piene le fosse». Anche se, a dire il vero, le fosse sono piene solo di cadaveri: su questo sito denunciavamo l’assenza completa di un’organizzazione e l’assenza delle mascherine obbligatorie negli ospedali il 22 febbraio, il giorno dopo il primo caso di Codogno, non a marzo inoltrato, non con il senno del poi. Il 26 febbraio pubblicavamo integralmente la lettera agghiacciante di due medici della zona rossa che denunciavano l’abbandono sanitario in cui versava tutta l’area. Il 26 febbraio, non con il senno del poi. Ed è pieno così di persone che testimoniavano il caos in diretta a Bergamo. Sara Agostinelli, bergamasca, su Facebook il 14 marzo: «Qui ci auto-curiamo, da soli, quando va bene riusciamo ad avere qualche indicazione telefonica, perché anche i medici di famiglia non ce la fanno a seguirci tutti. Le sirene non si fermano mai fuori dalla finestra, notte e giorno, e se chiami il 112 non riescono a risponderti prima di chissà quanto tempo. E ti portano in ospedale quando ormai sei grave. Perché non c’è posto. Perché non ce la fanno a curarci». Il 17 marzo, l’Ordine professioni infermieristiche di Bergamo: «A Bergamo si segnalano ogni giorno circa il 24-25% dei nuovi casi positivi di COVID-19 e si registra il 27% di tutti i decessi della Lombardia che si possono quantificare in una media di circa 50 al giorno». Il 22 marzo lo stesso Ordine denuncia in un comunicato inviato a Regioni e Governo lo «spaventoso» e «oltremodo disaramante ritardo» nella consegna dei dispositivi di protezione: «In Lombardia la soglia del tollerabile è stata ampiamente superata». E dato che gli studi cinesi che lo stesso Istituto Superiore di Sanità citava esclusivamente per i suoi raffronti per l’identikit delle vittime erano del 24 febbraio, stiamo parlando del “senno di prima”, di molto prima che venissero prese delle misure dall’esecutivo. Altro che citare Manzoni. E se li conoscevamo noi, questi studi, figuriamoci loro. Figuriamoci gli espertoni. Figuriamoci il Palazzo. Ma alla stessa data i politici di ogni schieramento giocavano a coniare slogan e invitavano a riaprire le attività in fretta mentre la loro gente moriva ad ogni minuto. Nemmeno loro vogliono polemiche. Non vuole polemiche il Governo, che era «pronto da mesi all’emergenza» e poi ha serenamente umiliato i medici e gli infermieri in trincea in Lombardia inviando mascherine di “carta igienica”. Non vuole polemiche la Regione che si vanta di aver raddoppiato le terapie intensive, anche se i lombardi e soprattutto i bergamaschi muoiono per la gran parte prima di entrarci. Non vogliono le polemiche esecutivo e Lombardia dopo che un nuovo ospedale da campo è stato fatto in sei giorni in Fiera a Bergamo. Anche se a realizzarlo, gratis, sono stati gli alpini e 250 artigiani volontari locali. Non vogliono polemiche tutti costoro proprio ora che gli accessi ai pronto soccorso sono diminuiti, anche se a Bergamo è morto più di un quinto dei malati ufficiali e un numero indefinito di persone al pronto soccorso non ci è mai arrivato perché è deceduto prima, senza alcuna assistenza né certificazione della malattia. E per lunga esperienza professionale so che tutti costoro non le vorranno nemmeno domani, le polemiche, dando dello sciacallo a chi alzerà la voce. Perché la politica e gli pseudointellettuali da salotto, analfabeti della vita reale e della sofferenza, si riempiono sempre la bocca di citazioni dotte e parole vuote, alla bisogna. Ma qui, si rasserenino pure, nessuno vuole polemiche. Qui si pretende giustizia. Edoardo Montolli Gli ultimi libri di Edoardo Montolli ** SPECIALE CORONAVIRUS – GUARDA ** Read the full article
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wdonnait · 5 years
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Casamassima, il paese azzurro in provincia di Bari
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Casamassima, il paese azzurro in provincia di Bari
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Casamassima è un borgo situato in provincia di Bari.
Ha quasi 20.000 abitanti ed è noto come paese azzurro per alcune faccende legate al passato. E nonostante sia un piccolo paese, ha molto da raccontare, poiché possiede un patrimonio storico e culturale non indifferente.
Scopriamo alcune curiosità e tutto quello che c’è da vedere a Casamassima!
Casamassima paese azzurro
Molti di voi si saranno chiesti: come mai questa località è conosciuta come il paese azzurro?
La risposta è strettamente connessa al periodo seicentesco, quando l’Italia dovette affrontare il problema della peste. Secondo la leggenda, il duca Vaaz fece un voto per far sì che venne sconfitta.
Il suo desiderio si esaudì: così, la gente iniziò a credere che si trattò di un vero e proprio miracolo e che Vaaz avesse davvero aiutato Casamassima dall’epidemia mortale.
Pertanto, egli decise di dipingere il caseggiato a calce viva di azzurro, nei pressi dell’arco di via Santa Chiara, come gesto di riconoscimento. Molto probabilmente, il colore fa riferimento al mantello della Madonna.
Casamassima cosa vedere
Nel caso in cui doveste recarvi a Casamassima, sappiate che avrete la possibilità di visitare numerosi luoghi religiosi, come ad esempio il Monastero di Santa Chiara, l’Auditorium dell’Addolorata (noto anche come il Complesso delle Monacelle) e la Chiesa del Purgatorio.
Monastero di Santa Chiara
Esso è certamente una delle testimonianze storiche e religiose più importanti in assoluto.
Il monastero, è situato nel centro storico e risale al 1573, per opera Antonio Acquaviva d’Aragona. In realtà, all’inizio fu progettato come orfanotrofio: nel secolo successivo invece, divenne il Monastero delle Clarisse.
Sono tante le trasformazioni che ha subito nel corso della storia. Ad esempio, dalla fine dell’Ottocento cambiò la sua funzione in maniera repentina, passando da carcere a scuola, ma anche caserma dei Carabinieri cine-teatro.
Auditorium dell’Addolorata
Anche se rientra nella categoria luoghi religiosi, l’Auditorium dell’Addolorata è un’ex chiesa del XIX secolo, realizzata da Domenico Console in stile barocco.
Attualmente invece, (come suggerisce la denominazione) si tratta di un auditorium adibito alle presentazioni, ai concerti e ai convegni. Ciò che lo rende unico a livello architettonico è il suo campanile.
Allo stesso tempo, tra le vie del centro storico di Casamassima e in altre zone limitrofe è possibile scovare una serie di palazzi o comunque simboli legati ai secoli precedenti.
Tra i più importanti troviamo:
Il Palazzo Monacelle, strettamente interconnesso al convento
Porta Orologio, che rappresenta l’accesso principale al borgo (si trova in piazza Aldo Moro)
Palazzo Amenduni, un edificio risalente al XVII secolo e situato vicino via Castello
Palazzo Ducale Vaaz, ossia la residenza dei feudatari Vaaz
Inoltre, bisogna citare l’arco Madonna di Costantinopoli (situato in via Santa Chiara) in cui è presente il famoso affresco della madre di Gesù con il manto azzurro. Fu proprio quest’opera ad ispirare il duca nel dipingere il borgo di azzurro. Ma non è tutto, tra i monumenti che conservano ancora questo colore è impossibile non ricordare l’Arco delle Ombre. Secondo la leggenda, esso rappresentava la dimora dei fantasmi.
Questo perché all’epoca non c’era illuminazione e nel momento in cui si passeggiava con i lumi, era possibile osservare delle strane sagome.
Ovviamente, era un effetto dato in risposta alle candele ma i più superstiziosi pensavano che si trattasse della presenza dei fantasmi.
Casamassima centro storico
Il centro storico è certamente la parte più affascinante di Casamassima.
Camminando tra le vie del borgo azzurro, avrete modo di scoprire anche degli scorci particolari, come ad esempio via Paliodoro e Chiasso Bongustai.
Via Paliodoro è molto amata dai turisti, poiché presenta sia il famoso tocco di colore azzurro che una serie di case contadine restaurate ed abbellite con fiori e altri simboli della tradizione locale. Invece, per quanto riguarda Chiasso Bongustai, sappiamo che un tempo era la sede dell’antico forno del Duca.
Attualmente, risulta essere un’attrazione turistica e anch’essa è dipinta in azzurro. E’ molto suggestiva e proprio per tale motivo, si rivela uno dei posti più fotografati di Casamassima.
Oltre a queste due località, bisogna citare anche il Rione Scesciola.
Si tratta per l’appunto di rione contenente diverse casette, sia a piano terra che a piano rialzato. L’aspetto più affascinante riguarda la sua denominazione araba “Shawash’ala” (che sta per labirinto) e molto probabilmente fa pensare a delle invasioni storiche del passato.
Casamassima cucina
La cucina di Casamassima si ispira moltissimo a quella barese. Di conseguenza, visitando questo borgo avrete l’opportunità di assaggiare numerose specialità di origine contadina, semplici ma allo stesso tempo gustose.
Nei piatti locali è possibile percepire tutte quelle tradizioni che vanno avanti di generazione in generazione e che ci ricordano l’autenticità di una volta. Pertanto, tra i cibi che avrete modo di degustare a Casamassima, ci sono:
Patate, riso e cozze, uno dei piatti più noti di Bari
La burrata e il fallone di Gravina di Puglia (ossia un formaggio tipico)
Le orecchiette con le cime di rapa
Il calzone di cipolle ma anche di ricotta
I carciofi, sia fritti che al forno
La focaccia barese (semplice con pomodori a pezzi e origano)
La farinella, piatto a base di farina di orzo e ceci
Il pane, in particolar modo quello di Altamura
La pasta e cavoli
Le braciole, dette anche brasciole
E tanto altro ancora…
Casamassima e dintorni
Casamassima è un paese facilmente raggiungibile, sia con la macchina che con il bus.
Dista all’incirca un quarto d’ora dalla città di Bari e proprio per tale motivo, risulta ben collegato. Da Taranto invece, bisogna percorrere all’incirca 45 minuti d’auto.
A prescindere da tutte le località tipiche del borgo, Casamassima è molto frequentata per via di un grande centro commerciale, situato proprio all’ingresso. Ogni anno, tantissime persone si recano qui per fare spesa e shopping, specialmente durante il periodo natalizio.
Tuttavia, nei dintorni (oltre al capoluogo pugliese) si ha la possibilità di visitare una serie di paesi, come ad esempio Cellamare, Rutigliano, Adelfia, Triggiano, Mola di Bari, Turi e via dicendo.
Insomma, le attrazioni nei pressi di Casamassima non mancano affatto. Inoltre, risultano essere ideali per dei brevi giri turistici, ad esempio per un weekend fuori porta, all’insegna di storia, cultura e tradizioni.
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Scegliere una facoltà universitaria in Italia è molto diverso da quello che si trova nella comunità studyblr, naturalmente, perchè il nostro sistema scolastico è completamente diverso da quelli del resto del mondo. Le nostre materie, sia al liceo che all’università, sono diverse, e l’insegnamento è strutturato in tutt’altro modo. Per questo abbiamo pensato di creare una piccola guida, basata su quella che è la nostra esperienza, per questa scelta che mette la maggior parte dei maturandi italiani in crisi. 
1. Per prima cosa, è importante stabilire a quale ambito di studi si è interessati, all’ambito scientifico o umanistico. Naturalmente, ci sono anche molte altre opzioni, dall’ambito artistico a quello musicale. Ma, per quanto riguarda le università, queste sono le due ali principali. Ci sono tante scuole di tanti tipi, accademie e università, ed è fondamentale ricercare bene in tutti gli ambiti prima di volgersi verso un determinato interesse. Una volta trovato, è consigliabile andare a tutti gli open day possibili. Sia delle aree di vero e proprio interesse, sia di quelle facoltà su cui ci sono molti dubbi, perchè spesso vedere da vicino qualcosa può scaturire un interesse inaspettato. 
2. Un’altra cosa molto importante, sia che si cerchi una facoltà universitaria o un corso di accademia, è non fermarsi al nome, al titolo del corso di studi, ma controllare le materie che sono comprese in esso. Tutti noi, quando scorriamo l’elenco dei corsi proposti da una determinata sede, tendiamo a scartarne alcuni per il nome che sembra ricordare un ambito a cui non siamo affatto interessati. Invece, molto spesso dietro ai titoli dei corsi di studio si celano materie inaspettate e interessanti, per questo il nostro consiglio è quello di prendersi del tempo per visitare tutti i siti dei vari corsi e vedere quali materie sono incluse e quali specializzazioni concedono. Questo soprattutto se non si è ancora certi di quello che si vuole fare. 
3. Un’altra cosa che può aiutare a compiere una scelta universitaria, è la specialistica. Ci sono molte cose, molte materie particolari e studi diversificati e specifici che si possono fare con quella laurea magistrale che viene dopo il primo triennio, e se si trova una specialistica di grande interesse, allora forse può valere la pena di passare gli anni della laurea triennale a studiare qualcosa che piace meno in vista della magistrale perfetta. Altrimenti, si tratta semplicemente di un incentivo in più, un’ulteriore porta aperta sugli sbocchi futuri, qualcosa che può o non può aiutarci a decidere ma che è sempre utile considerare. Anche perchè poi, molto spesso, durante il triennio c’è la possibilità di scegliere un certo numero di corsi in base alla specializzazione che si vuole scegliere in seguito (se si desidera proseguire gli studi).
4. Un altro criterio di scelta, forse meno ortodosso, è la lista per esclusione. Quando ci sono tante ipotesi e nessuna certezza di scelta, può essere utile stilare una lista di tutte le facoltà interessanti, valutando sempre gli insegnamenti specifici proposti, e fare i relativi PRO/CONTRO. Cosa piace e non piace di una facoltà, cosa piace e non piace dell’ambiente o della sede in cui è fatta, cosa interessa o non interessa dello sbocco futuro che fornisce e quant’altro. A quel punto, si eliminano le facoltà con troppi contro, e si va per esclusione sulle rimanenti. Tra due, conviene ad esempio chiedersi quale delle due si preferisca, quale sarebbe più interessante studiare (e questa naturalmente è una scelta personalissima) e quindi chiedersi anche se e in che misura si è disposti ad accettare i fattori ‘’contro’’ del corso che si sarebbe scelto. 
5. In tutto questo, naturalmente, la cosa più importante è seguire il proprio interesse. Chiedersi cosa si  vorrebbe studiare per piacere personale, cosa si vorrebbe studiare per un ipotetico lavoro futuro che interesserebbe fare o per una data specialistica che si vorrebbe seguire. Ci sono delle facoltà generali, che danno la possibilità di studiare un po’ di tutto, ad esempio Storia o Scienze Politiche, Filosofia, Lettere. Hanno dentro molti corsi di vario ambito, e queste nello specifico si comprendono un po’ tutte, così da dare allo studente una preparazione generale e da permettergli di scegliere una successiva specialistica fra molte più opzioni. E’ infatti una scelta abbastanza comune tra quegli studenti che non sono affatto certi di quello che vogliono studiare, ma si tratta di facoltà altrettanto valide per coloro che invece hanno un interesse specifico.
6. Attenzione ai test d’ingresso. Molte facoltà sono a numero chiuso e richiedono un test per entrare (quando si fa domanda per una di queste facoltà con i posti ristretti, è sempre bene tenere pronto un piano B, una seconda opzione nel caso in cui non si venisse ammessi). Ci sono test d’ingresso selettivi, per cui è possibile prepararsi tramite quiz online o manuali generalmente specificati sul sito, che danno anche un’idea più o meno veritiera su quello che ci aspetta in facoltà, e test di auto-valutazione fatti più per formalità, per selezionare un minimo le iscrizioni. In ogni caso, è sempre meglio provare a fare 30 test di 30 facoltà diverse con la possibilità di venire presi o non presi, piuttosto che non tentare neanche e farsi scoraggiare in partenza. Abbiate fiducia nelle vostre capacità e passioni! 
7. Un’altra questione ancora, è quella della località di una determinata facoltà universitaria. Non in tutte le città sono presenti tutti gli studi, e non in tutte le università sono presenti le stesse facoltà con le stesse opzioni. Naturalmente studiare fuori sede è un grosso impegno - anche economico - ma può valerne la pena se trova la nostra passione in un’università fuori porta. Questo significa anche controllare le opzioni di studio all’estero, che spesso sono differenti e in alcuni ambiti più ampliate delle nostre, e in seguito valutare le possibilità economiche e sociali per farlo. Ma, in generale, sapere se si tratterebbe di studiare vicino a casa o no è un fattore che può influire molto sulla nostra scelta. 
8. Qualsiasi cosa tu abbia studiato alle superiori, è davvero difficile che ti precluda qualche facoltà. Quindi, anche se hai studiato in una scuola che non c’entrava assolutamente niente con quello che ora ti interessa fare, non esitare ad informarti, ad andare agli open day e se lo desideri davvero anche ad iscriverti, perchè l’università ti fornirà le conoscenze richieste per conseguire la sua laurea. L’importante, è sempre fare ciò che ami. Anche se dovesse significare imporsi e andare contro ai desideri della famiglia, la scelta universitaria è importante e personale, l’università occuperà diversi anni della nostra vita - alcuni dei più importanti, aggiungerei - ed è necessario scegliere qualcosa che ci piace fare, o comunque qualcosa che ci apra le porte su quello che vogliamo fare. Siate sinceri con voi stessi.
Sappiamo bene quanto questa scelta sia difficile, perchè non tutti cresciamo con un sogno specifico che ci portiamo dietro fin da piccoli, tipo quelli che ‘’voglio fare il dottore’’ e poi a 18 anni vogliono ancora fare il dottore e si iscrivono a medicina. Per questo abbiamo voluto creare questa piccola guida, perchè neanche per noi è stato semplice. Qualsiasi cosa vogliate fare, vi auguriamo di riuscirci. E, se non ne avete proprio idea, prendetevi il vostro tempo per capirlo, perchè il mondo va di fretta, è vero, ma ognuno ha i propri tempi per fare le cose, per capirle e quant’altro, ed è importante ascoltare le proprie necessità. 
In ogni caso, una volta fatta la vostra scelta, qui trovate anche i nostri consigli per quanto riguarda l’inizio dell’università, la preparazione pratica.  Vi auguriamo buona fortuna!  how-to-get-away-with-study
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tmnotizie · 4 years
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SANT’ELPIDIO A MARE – Nella bozza di Decreto Rilancio su cui sta lavorando il Governo è prevista l’istituzione di un Fondo da 100 milioni di euro “…per il ristoro parziale dei Comuni a fronte delle minori entrate derivanti dalla mancata riscossione dell’imposta di soggiorno in conseguenza dell’adozione delle misure di contenimento del Covid-19”. In merito a tale riflessione il sindaco di Sant’Elpidio a Mare Alessio Terrenzi, interviene contestando i criteri scelti per l’assegnazione dei fondi che, di fatto, discrimina tanti comuni.
“Nulla da dire in merito alle intenzioni in quanto ritengo più che giusto che i Comuni che vedano diminuire l’afflusso di turisti e, di conseguenza, il minor apporto economico legato a tale settore, vengano sostenuti. Quello che non trovo giusto – dice Terrenzi – anche stavolta, come avvenuto con altre previsioni ad esempio quella per l’acquisto delle bici, è il criterio usato per la distribuzione dei fondi che, di fatto, privilegia chi ha inserito l’imposta di soggiorno.
Già quell’imposta, a differenza dei Comuni che in precedenza non l’hanno adottata, per loro ha rappresentato un introito: ora vengono anche rimborsati per tale mancato introito.  Vogliamo parlare dei Comuni della costa? Un Comune come Porto San Giorgio, che ha scelto di non gravare nè sui turisti nè sulle strutture ricettive non applicando l’imposta di soggiorno, non ha le stesse perdite degli altri Comuni costieri che, invece, l’imposta l’hanno applicata? Non verranno a mancare gli introiti dovuti al turismo?
E gli altri Comuni, mi chiedo, quelli che pur non avendo introdotto l’imposta di soggiorno, ma che sono comunque attrattive turistiche e, quest’anno, per effetto del Covid-19 vedranno sicuramente ridotto il flusso dei turisti, non meritano di essere sostenuti allo stesso modo degli altri? Nel Fermano i Comuni che hanno applicato l’imposta di soggiorno si contano sulle dita di una mano ma sappiamo tutti quanto il nostro territorio provinciale sia ricco dal punto di vista turistico di località turistiche meritevoli di attenzioni. Il turismo non è solo mare: sono i borghi storici, le montagne, i centri ricchi di arte, di musei…
Anche il Comune di Sant’Elpidio a Mare, al pari di quelli della montagna, vanta importanti risorse turistiche pur senza applicare l’imposta di soggiorno (e già, questa, è una scelta importante in una situazione ordinaria, in quanto si tratta di Comuni che hanno deciso di non gravare sulle tasche dei turisti con una tassazione) e non credo che sia opportuno che venga ulteriormente penalizzato, così come tutti gli altri, restando fuori dalla previsione di misure economiche a sostegno del turismo. Non viene applicato un trattamento equo e si creano Comuni di serie A e di serie B, cosa che non reputo affatto opportuna.
Se estendiamo questa valutazione a livello Regionale e Nazionale il numero dei Comuni che restano fuori da questa previsione aumenta a dismisura: un trattamento di questo tipo, in questa fase così delicata per tutte le località turistiche – abbiano esse applicato l’imposta di soggiorno oppure no – mi sembra del tutto inopportuno”.
Una riflessione, quella di Terrenzi, di cui rende partecipe il senatore Francesco Verducci in modo tale da potersi adoperare, nell’esercizio della sua attività in Senato “…affinchè la previsione venga rivista e modulata in modo tale da andare realmente incontro a tutte le realtà turistiche di cui la nostra bella Italia è ricca. Senza distinzioni”, conclude Terrenzi.
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purpleavenuecupcake · 5 years
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Libia, Haftar si schiera contro le politiche razziste di Salvini e chiede aiuto all'Ue
Khalifa Haftar ha sensibilizzato  l’Unione europea a “porre fine alla politica razzista del ministro dell’Interno, Matteo Salvini”: è quanto si legge in un comunicato diffuso nella notte dalla Sala delle operazioni aeree dell’Lna. La notizia è riportata dall'agenzia di stampa italiana Nova. Le milizie di Haftar negano ogni responsabilità del raid aereo che nella notte tra martedì e mercoledì ha colpito il centro di detenzione di migranti di Tajoura, causando almeno 44 morti e 130 feriti. I dati sono stati forniti dalla Missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil). Haftar ha addossato la colpa, invece, al Governo di accordo nazionale (Gna) guidato da Fayez al Sarraj. Lo scorso primo luglio, il ministro dell'Interno italiano aveva incontrato Sarraj a Milano per un colloquio privato. Questa visita avrebbe dato il pretesto a Haftar di accusare Salvini: “la ragione principale dell'accumulo di migranti nella regione occidentale della Libia è causata dai respingimenti nel Mar Mediterraneo “rimettono questi migranti nelle mani degli stessi trafficanti da cui sono fuggiti” in quella che viene definita come “una palese violazione delle regole di base dei diritti umani e dei valori umani”. Il ministro Salvini, ieri, aveva apertamente accusato il generale Haftar del massacro di Tajoura. "Spero che la comunità internazionale si svegli. La responsabilità è di Haftar, è un atto criminale. Mi auguro che non ci sia più nessuno, e non cito i francesi, che per interesse economico e commerciale sostiene qualcuno che bombarda obiettivi civili. Se la comunità internazionale non interviene adesso, a sostegno di un governo legittimamente riconosciuto dall'Onu, mi domando che cos'altro bisogna aspettare". La stessa Comunità internazionale, secondo l’Lna, dovrebbe invece attivarsi per “salvare i migranti illegali dalla morsa delle milizie criminali della Libia occidentale”, che utilizzano il traffico di esseri umani “per realizzare profitti con i paesi interessati al dossier dell’immigrazione”. Il Governo di accordo nazionale sostenuto dalle Nazioni Unite, aggiunge la nota, “continua a ricevere aiuti esterni con il pretesto della lotta alle migrazioni illegali e riempie le tasche dei ladri e dei trafficanti di esseri umani”. A gestire i centri di detenzione sarebbero “gli stessi trafficanti e gli stessi leader delle milizie che traggono profitto dalla tratta di esseri umani, via terra e via mare, sotto il nome di lotta alle migrazioni illegali; sono le stesse persone che sottopongono questi migranti a schiavitù e lavoro forzato”, prosegue la nota dell’Lna. La responsabilità del raid aereo di Tajoura “ricade pienamente sul Consiglio presidenziale”, si legge nel comunicato. “Estendiamo le nostre profonde condoglianze alle famiglie delle vittime e auguriamo una pronta guarigione ai feriti. Il Consiglio presidenziale incostituzionale, che ha concluso accordi sbagliati sulla questione dell'immigrazione, è pienamente responsabile della tragedia dei migranti illegali ammassati in rifugi non adatti agli esseri umani e gestiti da assassini, criminali e trafficanti. Il centro di detenzione di Tajoura “non è mai stato nella lista degli obiettivi” dell’Lna e “nessun’arma è stata mai utilizzata per colpire la struttura”, aggiunge il comunicato. “La Sala operativa dell'Aeronautica dispone di un database altamente sofisticato con le coordinate e le posizioni di tutti i rifugi, i centri di detenzione e le prigioni collocate nell'elenco dei siti vietati in qualsiasi circostanza, anche se utilizzati dal nemico come siti per operazioni ostili. Questo si basa sulla nostra convinzione che i migranti siano solo ostaggi nelle mani di queste bande; sono vittime di politiche spregevoli, come il resto del nostro popolo”, prosegue ancora il comunicato. L’esercito di Haftar ha quindi accusato gli aerei da guerra partiti "da Misurata o dall’aeroporto di Mitiga" di aver bombardato il centro di detenzione di Tajoura. “I tempi dell'incidente coincidono esattamente con le sortite di aerei ostili decollati sia dalla base aerea di Mitiga e che dall’Accademia di Misurata. Questi aerei da guerra hanno effettuato almeno un raid all'incirca nello stesso periodo nella città di Tajoura. Non sappiamo dove siano state effettuate le altre sortite. Tutte le prove suggeriscono che una grande quantità di munizioni è esplosa nel vicino sito della milizia Al Daman, 15 minuti prima del bombardamento del centro”, si legge ancora nella nota. Le forze di Haftar hanno accusato la missione di sostegno delle Nazioni Unite (Unsmil) in Libia di “pregiudizi” Il riferimento è alle accuse di omicidi extragiudiziali dei feriti di Haftar compiuti dalle forze affiliate al Consiglio presidenziale nell’ospedale di Gharian, città libica situata 80 chilometri a sud di Tripoli recentemente riconquistata dal Governo di accordo nazionale (Gna) riconosciuto dall’Onu: "“Condanniamo la politica dei doppi standard praticata dall’Unsmil, guidata da Ghassan Salamé, e le sue accuse secondo cui il raid è stato compiuto deliberatamente dalle nostre forze. La posizione dell’Unsmil è pienamente coerente con quella del Consiglio presidenziale incostituzionale, mentre chiude un occhio sul massacro di Gharian che Salamé considera ‘un importante sviluppo’ per le milizie di Skhirat (località del Marocco dove è nato il Consiglio presidenziale nel dicembre 2015) in una dichiarazione rilasciata il giorno dopo il massacro”. Read the full article
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entertheblackcircle · 6 years
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Forza maggiore di Robert Ostlund
Una coppia con due figli trascorre una settimana bianca in un albergo di una località sciistica. Ostlund non si perde in preamboli. Ci mostra una Vacanza, che scorre nella pura normalità.
Poi una telecamera fissa e distante, quasi fosse la registrazione a circuito chiuso dell'albergo, li riprende mentre pranzano su un terrazzo.
All'improvviso una slavina si stacca dal fianco della montagna. Le persone presenti se ne accorgono, subito prendono i telefonini e girano un video. La valanga appare lontana e controllata, e offre uno spettacolo meraviglioso...
Passano appena quattro cinque secondi. E' veramente questione di un attimo. Tutti si rendono conto che la neve si avvicina pericolosamente e li sta per travolgere. C'è chi si blocca, chi capisce prima, e chi dopo. Chi fugge e chi rimane impietrito.
Il padre è tra quelli che istintivamente si defilano. La madre resta immobile, come i figli, ma fa quasi da scudo per proteggerli.
Una gran nuvola di nevischio avvolge tutto, poco dopo si dirada.
Solo un grande spavento, nessuno si è fatto male.
Ecco, sappiamo in che direzione si muove il film.
Ci mostra le diverse reazioni di fronte a un fatto assolutamente fuori dall'ordinario. Una coppia, apparentemente stabile e felice, viene messa alla prova da un evento potenzialmente tragico: si tratta di una sorta di prova generale, simile ad una esercitazione dei vigili del fuoco.
Una prova generale che potrebbe, a detta di qualcuno, dimostrare quello che siamo veramente, la nostra essenza ultima. Dire una volta per tutte se possediamo quel coraggio e quell'altruismo che ci inducono a proteggere i nostri cari a qualsiasi costo, anche della vita.
La coppia riprende la sua attività di vacanza, normalmente, come se nulla fosse accaduto, ma è solo apparenza.
La moglie cova un rancore tremendo. Si intuisce fin da subito che è profondamente delusa dal marito, forse in modo irrevocabile. Resta imbronciata. Si isola.
Poi pretende una sorta di chiarimento. Il marito la porta in corridoio per non fare assistere i bambini a una discussione che si annuncia piena di tensione. O almeno così ce la aspettiamo.
In realtà i due si accordano per un Finiamola qui, non è successo niente.
Ed ecco che la magia di Forza maggiore si scatena: Inizia un gioco di rabbie trattenute, sguardi, sfoghi, esplosioni d'ira.
Frequentano altre coppie. Ci vengono mostrati frammenti di conversazioni, poi all'improvviso la moglie inizia la sua vendetta personale, e annuncia il fatto agli amici, coinvolgendoli.
E' l'imbarazzo più totale. Ciò che rende unico il film  è che il disagio è trasmesso allo spettatore. Traumaticamente. Vediamo la scena e ci prende una morsa allo stomaco. Aiutano in questo gli attori, straordinari, credibili, che instillano in noi la loro stessa incredulità.
Da questo momento in poi il film è un crescendo di tensione. Un succedersi di eventi, più interiori che altro, espressi sempre attraverso impercettibili sfumature.
E' un film minimale, in cui molti dei pensieri li si possono soltanto immaginare.
Spesso, contemporaneamente ai vari personaggi chiamati in causa, a nostra volta coinvolti, ci chiediamo quanto il comportamento del marito sia stato sbagliato oppure addirittura grave o imperdonabile.
Istintivamente in ognuno si scatena un dibattito profondamente etico.
Non dirò altro. Il finale, che potrebbe ribaltare la prospettiva, è secondo me di una raffinatezza unica nel suo genere, dice tutto, senza dire nulla, con un immagine di una forza straordinaria.
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pangeanews · 5 years
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“Accetta la possibilità che un male incrini il tuo universo di certezze e lascia che passi”. Riflessioni su Apocalisse, Big Crunch, Ming lo Spietato e Coronavirus
17 marzo 2020, ore 00.00
173.344 di casi nel mondo, 6.610 morti.
7.700.000.000 di anime sulla Terra.
Non è la salute. È la paura di perderla. È l’onda anomala emotiva. Abbiamo visto troppi film postapocalittici scadenti.
Nell’antichità si aspettava con timore la fine del mondo, accompagnata da uno squillo di trombe, come il momento della resa dei conti. I chiliasti erano uniti nel terrore misto alla speranza del millenario regno di Dio e la Gerusalemme celeste. La scienza oggi ci suggerisce invece che la possibile fine naturale del nostro pianeta sarà a miliardi di anni di qui a venire e un ipotetico Big Crunch, che determinerà la cessazione dell’universo intero, ancora più in là nel tempo, avvenimenti con una giustificazione scientifica che di fatto azzera qualsiasi folkloristica previsione fatta di cavalieri con la trombetta e angeli e giardini con vergini saltellanti, sorgenti d’acqua fresca e pacificazione dello spirito. Certo, esistono innumerevoli e affascinanti teorie scientifiche sul destino dell’universo, tutte lì in bell’attesa di prova sperimentale, dall’idea di universo ecpirotico a quella di inflazione eterna, dalla teoria delle bolle e dell’universo oscillante alla morte termica dell’universo, al multiverso e tutto quello che vi pare. Invece, dopo l’Apocalisse nella tradizione giudaica, cristiana e islamica, si attuerà la fine escatologica del mondo, le anime saranno smistate, i misteri disvelati. Qui la prova sperimentale non è richiesta. Insomma alla fine sapremo finalmente della natura del paradiso e dei misteri divini e del destino degli uomini. Ma non sulla Terra, perché la Terra non ci sarà più. Per tutti, uomini di fede e di scienza, la Terra non ci sarà più. Per quelli di fede qualcosa di nuovo e migliore ci attende, dove non ci lasceremo vanamente gonfiare la mente carnale. Dio nel giudizio universale finalmente darà a chi se lo merita un bel destino e agli altri l’inferno. Dal purgatorio, quella località dove albergano i defunti ancora in attesa di una sentenza, si uscirà e si verrà giudicati, probabilmente senza un processo equo. Per quelli di scienza, per contro, ci sono il nulla o teorie indimostrate, tanto bizzarre quanto quelle della fede.
*
La trasformazione del mondo, perché poi è di questo che nell’Apocalisse si tratta, è l’avvenimento che la religione prevede non prima che tutti i segni si siano rivelati, e questi segni sono tra i più indecifrabili di tutte le scritture, ma siccome il testo va interpretato, il simbolismo in esso contenuto deve essere compreso all’interno del contesto storico-letterario e sociale nel quale è stato scritto: oggi molto pragmaticamente lo consideriamo semplicemente il frutto del suo tempo, e non ci riguarda. E la scienza prevede la fine di tutto fra miliardi di anni e quindi neanche questo ci riguarda, perché per la scienza siamo qui da troppo poco tempo e tra miliardi di anni probabilmente saremo già bell’e che spariti, proprio come per acciacco siamo arrivati. Nella cultura di massa contemporanea il mondo invece mica finisce, solo rischia di finire, anzi, rischia semmai l’umanità, perché è cattiva e il mondo lo tratta male. Il mondo pop, o mondo contemporaneo, quello della gente, hic et nunc, è minacciato adesso e si devasterà tra poco, molto più presto di quel che siamo capaci a sopportare, per via di un complotto malvagio, un terrorista senza scrupoli, di scimmie che si umanizzano e ci schiavizzano, degli alieni o di un virus, ma resterà, e i pochi, molto pochi, sopravvissuti lo percorreremo sbandati e miserabili, dando sfogo alle peggiori porcherie di cui come uomini siamo capaci, in un paesaggio senza legge e senza morale. Questa cosa ci fa più paura dell’Apocalisse, o del Big Crunch, perché è adesso, imminente nella nostra letteratura quotidiana, nelle nostre vicende ecoinsostenibili, bucozoniste, fukushiane e virulente ed esclude la possibilità di salvezza per i buoni di spirito. Il male coglierà tutti, indistintamente, indipendentemente dalla qualità delle loro azioni nel tempo in cui il mondo era aggiustato. Unica speranza pop è l’eroico eroe che godrà della redenzione universale, dell’apocastasi come forma di pessimismo rassicurante. Sopravviverà e costituirà il germoglio palingenetico e abiterà sulla Terra desolata e sarà suo, dell’eroico eroe, il compito di ricostruire un mondo felice, ripopolarlo.
*
Ma nella realtà sembra non esserci un eroico eroe pronto per noi adesso. Siamo in preda al panico perché impreparati e terrorizzati di perdere la nostra misera vita. Non quella degli anziani infetti, già sfiancati dai mali che naturalmente sfibrano col passare degli anni il corpo consumato di ciascuno. Quello è solo lo spauracchio che ci ricorda l’inconsistenza della carne. Vedere i numeri dei morti, guardare gli anziani morire ci fa rabbrividire, ma muoiono sempre e non ci piace guardare e ora siamo costretti a leggerli quei numeri, che appaiono in ogni dove, non c’è scampo, respice post te, hominem te memento. Non guardiamo in faccia il sole perché sappiamo che ci accecherà, non guardiamo in faccia la morte perché ci dà la consapevolezza della caducità e questa consapevolezza vanifica ogni desiderio vitale, ogni arte, ogni progresso, azzera l’idea d’azione, ci pone in mesta attesa dell’ineluttabile.
*
Perché allora questi numeri rimbalzano così ferocemente nonostante l’istinto, ora che ve n’è occasione? Forse per la perversa voglia di essere ascoltati, seguiti, di essere primi a dire le cose per poi rinfacciarle a tutti gli altri? Te l’avevo detto come magra consolazione? Oso dare la responsabilità ai quindici minuti di notorietà che oggi sono di fatto un inalienabile diritto. E per tirare in ballo il signor Eco, mi sento d’affermare che la rete non ha solo aperto i cancelli a quelli che prima avevano solo il bar come platea – che sarebbe cosa sacrosanta perdìo, se ne facesse una ragione, ma chi cazzo si credeva d’essere? – ma anche limato a lamina sottile e liscia il pensiero cosiddetto alto, che ormai gareggia zoppo e gregario contro una girandola vorticante di opinioni tanto fantasiose quanto deleterie, ma perde e perderà perché è il mondo moderno e oggi viviamo così. Cane mangia cane. Click mangia click.
*
Transeat. Non vuol certo dire metti la testa sotto la sabbia. Non vuol neanche dire non fare nessuna cosa, vuol dire letteralmente lascia che scorra, implicitamente, accetta. Accetta la possibilità che un male, per oggi oltretutto di media caratura, incrini il tuo universo di certezze e lascia che passi. Canta transeat Francesco de Gregori, quando prega Gesù bambino che la guerra “sia pulita come una ferita piccina picciò, che sia breve come un fiocco di neve e fa che si porti via la malamorte e la malattia, fa che duri poco e che sia come un gioco”
*.
Oggi, figli legittimi e orgoglioni della cultura della scienza, desideriamo, anzi, esigiamo di poter dilatare il nostro tempo, contrastare la fine del mondo, che essa avvenga attraverso una piaga o una catastrofe ambientale, un morbo terrificante o addirittura per l’avvento di qualcosa di deleterio venuto da lontano, dallo spazio. Allora moltiplichiamo gli eroici eroi moderni, da Flash Gordon che sconfigge il malvagio Ming del pianeta Mongo che con la Terra ci vuole solo giocherellare prima di annientarla, come certi bambini dan fuoco ai formicai, a Bruce Willis/Harry S. Stamper che ferma un meteorite o Greta della valle del vento, che però da qualche giorno lotta solo online. Il professor Burioni è il nostro paladino della scienza. Nuovo guru, e gli eroici infermieri, angeli del nostro destino, indefesse truppe delle sale di rianimazione, i suoi soldati, e crediamo nelle sue e di altri come lui parole senza spesso comprenderne il significato, ma chi del resto nell’antichità capiva il linguaggio criptico dei teosofi? La fede nella scienza ci fa credere di poter contrastare qualsiasi male.
*
Attenzione però: non è sfiducia nella scienza la mia. Sono perfettamente a mio agio con l’idea di vaccinare le persone, di curarle come si può, dell’uomo sulla luna e della Terra sferica, del fatto che mangiamo male e scoreggiando troppo facciamo gas che bucano l’atmosfera. Mi diverte altresì l’idea della meccanica quantistica come disciplina speculativa, non lontana dalla speculazione filosofica. L’indimostrato non è ancora di nostro appannaggio, forse non lo sarà mai o forse tra pochi minuti, ma è nella nostra natura cercare di fare luce su ciò che non conosciamo. Investire le nostre risorse per spingerci laddove nessun uomo è mai arrivato prima. È nella nostra natura lottare per sopravvivere. Il punto è stabilire che armi sono le più opportune per affrontare la lotta. Siamo nelle mani del dictator, gli è stato conferito summum imperium, tiene le redini e impone il sacrificio per il bene comune, chiede una nuova “giornata della fede”. Oro alla Patria!
*
Transeat dice Boris Johnson e viene dileggiato.
Nei prossimi mesi sapremo se nel Regno Unito saranno morte tante persone quante nel resto del mondo o enormemente di più.
Allora sapremo se il nostro sforzo di contrastare la morte è stato vano oppure efficace.
E se il mondo ci sarà ancora.
Ah, no, dimenticavo: il mondo ci sarà ancora e lo ripopoleranno gli eroici eroi.
Pietro Geranzani
P.S. Leggo fra le notizie della settimana che è morto a Milano, con il coronavirus nel sangue, l’illustre architetto Vittorio Gregotti, RIP. Aveva 92 anni ed era ricoverato per una polmonite.
Ora mi chiedo: è morto di coronavirus o di novantaduite?
*Le opere che corredano l’articolo sono di Pietro Geranzani
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pangeanews · 5 years
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“Se sono perduto io, allora, chi può essere salvato?”. Il capolavoro di Patrick White, il Nobel misconosciuto (ed elogio del suo traduttore, il grande poeta Piero Jahier)
La ‘novità’ più interessante degli ultimi mesi editoriali l’ha pubblicata Mondadori. Si tratta di un romanzo di sessant’anni fa – 1957, per la precisione – pubblicato in Italia da Einaudi nel 1965 e riproposto – al netto di qualche inevitabile correzione – pari pari, oggi, nella traduzione letteraria e sgargiante di Piero Jahier. Il romanzo s’intitola Voss, dal nome del protagonista, in Italia fu edito come L’esploratore, a questo giro hanno sintetizzato in L’esploratore Voss. Il romanzo è stato scritto – nonostante il cognome – da un oscuro australiano, uno dei Nobel per la letteratura più misconosciuti della storia: lui si chiama Patrick White, Voss è un capolavoro. (In ambito editoriale, insomma, c’è poco da speculare, basta ‘vedere’ ciò che già c’è, curare il giardino).
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Che fosse ‘difficile’ lo sapeva anche lui – un uomo difficile che scrive in modo difficile. Thomas Keneally, nell’intro pubblicata in questa edizione Mondadori, recupera alcune parole di White (“Sono un romanziere antiquato, che quasi nessuno legge, o se lo fanno, la maggior parte dei lettori non capisce di cosa sto parlando. Certo, vorrei non aver mai scritto L’esploratore, che ha l’aria di diventare una condanna per tutti, come l’albatro ucciso dal vecchio marinaio”), convincendoci che quel romanzo, sgargiante, burrascoso, gnostico, è l’Everest di un genio. “Ecco qui, dunque, l’albatro di White, un uccello che conserva la propria vitalità prodigiosa e irradia luce dalle sue ali”. Naturalmente, l’oscuro White non può che essermi simpatico.
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Di Australia sappiamo quasi nulla – tolta Nicole Kidman, che però è nata a Honolulu, Nemo, i canguri e Russel Crowe. Picnic ad Hanging Rock, di Peter Weir, può essere un ottimo incipit, La riva fatale di Robert Hughes è un libro necessario, ma L’esploratore Voss è il romanzo fondamentale, una specie di Esodo, scritto con il brio linguistico di un Joyce disidratato dalle pietre, disgregato di luci. La complessità di Patrick White è speculare a quella di Les Murray, solo che il primo è un severo gnostico l’altro un gaudente cristiano.
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Johann Ulrich Voss è un tedesco, eroe dell’espatrio, folle Artù senza terra e con una landa di pietre per Graal, che va per il deserto d’Australia, in una specie di catabasi, di espiazione. L’unica persona che lo svela, che lo ama, che ne comprende il carisma sotto l’occhio allucinato dall’ambizione, in quell’esaurito Ottocento, è Laura Trevelyan: “Lei è così enorme e brutto… La potrei paragonare a qualche deserto con rocce, rocce di pregiudizi e, sì, anche di odi. Lei è così isolato. È per questo che è affascinato dalla prospettiva di località desertiche nelle quali potrà trovare la sua situazione naturale o meglio, glorificata. Lei, a volte, ha qualche parola gentile e un po’ di poesia per gli altri, che presto si rendono conto di quanto si erano illusi. Lei si prende tutto”.
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L’Australia ti evangelizza alla rinuncia, alla deriva tra incubi e perduti, dice il romanzo. La scrittura ha solidità di poema (“Ormai l’erba alta era quasi secca, cosicché ne usciva un sospiro più tagliente quando il vento soffiava… Tutto il giorno cavalli e bestiame nuotavano attraverso questo mare d’erba. Tutta la notte gli animali si satollavano di rugiada e d’erba, ma nei sogni degli uomini onde di erba e onde di sonno diventavano presto un’unica cosa. I cani acciambellati entro ricoveri d’erba tremavano e arricciavano il pelo mentre galleggiavano sui loro sogni”), ed è una malia prodigiosa, serrato round di incanti. Tutti, in fondo, vogliamo perderci, situarci tra gli aborigeni, che qualcuno, un estraneo, ci detti sulla schiena il tatuaggio capace di crittografare il destino, l’evidenza di un futuro.
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Uomo difficile, White, nel 1973, non andò a ritirare il Nobel che gli era stato assegnato. Inviò un amico, l’artista Sidney Nolan. I dotti camerieri di lassù non lesinarono di sottolineare che “Patrick White è un autore piuttosto difficile non solo per le idee e i problemi che immette nei suoi libri, ma anche per l’inusuale combinazione di qualità epiche e poetiche della scrittura”. Nella nota biografica scritta per un volume collettivo sui premi Nobel, White ricorda la genesi di Voss. “Nel 1940 ebbi l’incarico di ufficiale dell’intelligence dell’aereonautica militare, nonostante la mia completa ignoranza in merito. Dopo alcune settimane da capogiro tra i papaveri della RAF, fui inviato a zigzagare tra Groenlandia e Azzorre, in una nave mercantile di Liverpool, zeppa di ufficiali dell’intelligence grezzi quanto me. La parte che ho giocato durante la guerra è stata piuttosto insignificante. Gran parte del tempo lo ho speso in avanzate e ritirate nei deserti, in tende piene di polvere – oppure in quell’altro deserto, il quartier generale. Ho visto quasi tutti i paesi del Medio Oriente. Bombe e colpi di mitraglia, occasionali, avrebbero dovuto riportarmi alla realtà, ma la rendevano ancora più remota. Non potevo scrivere, ma è in quel contesto, nel deserto occidentale egiziano, che ho concepito l’idea di scrivere un romanzo su un megalomane tedesco, un esploratore nell’Australia del XIX secolo”.
*
Dopo la guerra, White, che aveva studiato in Inghilterra, prediligendo il vagabondaggio, ritornò in Australia, “acquistai una fattoria nei dintorni di Sydney: durante la guerra avevo pensato con nostalgia al paesaggio australiano. La nostalgia, il cimitero di Londra e l’ignobile desiderio di riempirmi la pancia, mi hanno spinto a bruciare i ponti europei”. Fuori dal mondo, Patrick White fonda, di fatto, la tradizione del romanzo australiano ‘moderno’, con libri, da The Aunt’s Story a The Tree of Man e Voss, più letti altrove che nel suo paese. “I miei libri, ben accolti in Inghilterra e in Usa, erano trattati con disprezzo e incredulità in Australia… Voss, per i critici australiani, era ‘mistico, ambiguo, oscuro’; un giornale pubblicò una recensione dal titolo eloquente, ‘Il romanzo più illeggibile d’Australia’”. Figlio di proprietari terrieri, White lotta per diventare scrittore – “Essere un artista era impensabile. Come tutti i miei parenti, ero destinato alla terra” – l’asma, di cui soffre fin da piccolo, gli consente tanta solitudine, ricoveri e laute e inattese letture. Anche in Italia, pur ornato del Nobel, Patrick White è un autore pubblicato in modo disordinato, letto pochissimo.
*
Arroccata nell’attesa, Laura a un certo punto si esaspera. “Ma sapere non è guarire. Era assediata da ogni genere di cupe disperazioni, che potevano diventare ossessioni. Se sono perduta io, allora, chi può essere salvato? era abbastanza egocentrica da chiedersi. Desiderava immensamente scontare le colpe altrui”. Un romanzo bellissimo, crudo – i lampi lirici saranno ripresi da scrittori come Cormac McCarthy – da assumere più che leggere.
*
Alle spalle di Patrick White, inevitabile parentesi, c’è il suo traduttore, Piero Jahier, che condivide la stessa bulimia d’oblio. Traduttore di genio, perfino ‘spericolato’, Jahier ha raffinato la lingua di Graham Greene e di Joseph Conrad e di Robert Louis Stevenson, ma ha tradotto anche Murasaki Shikibu, per Bompiani, la gran dama del romanzo nipponico – su pentagramma inglese, però – e il Chin P’ing Mei, il “Romanzo cinese del secolo XVI”. Per lo più, Jahier, affratellato ai ‘vociani’, fu poeta, e grande, del primo Novecento. “Figlio di un pastore valdese, Jahier nacque nel 1884 a Genova, dove il padre era venuto per esercitare il suo ministero, finendo poi suicida per essersi reso colpevole di adulterio. Il figlio del pastore che non aveva potuto perdonarsi il proprio peccato recava nel sangue la tradizione calvinista dei suoi avi e il senso della realtà povera ma dignitosissima dei luoghi d’origine, quella Val Chisone aperta sul Piemonte”, scrive Elio Gioanola. Sostanzialmente, Jahier fu poeta intorno alla Grande Guerra – un secolo fa esce il bellissimo Ragazzo – continuando a meditare i suoi versi – per Vallecchi, nel 1964, cura l’opera smilza delle sue Poesie, morirà due anni dopo – ispirati, anche per misura narrativa, a Walt Whitman, Paul Claudel, Charles Péguy, costruendo una “esperienza estremamente originale, quasi unica in Italia” (Gioanola), “consegnando di se stesso un’immagine invariata di alta fedeltà” (Mengaldo). Bisognerebbe ripescare pure lui, sarebbe un’altra ‘novità’. (d.b.)
**
L’angelo verderame che benedice la vallata e nella nebbia ha tanto aspettato è lui che stamani ha suonato adunata è lui che ha annunziato:
Uscite! perché la terra è riferma e sicura traspare cielo alle crune dei campanili e le montagne livide accendono di rosa di benedizione
Uscite, perché le frane sono tutte colate è finita la vita sicura e sulla panna di neve si posa il lampo arancione
Ingommino le gemme, rosseggino i broccoletti dell’uva e tutti gli occhiolini dei fiori riscoppino nel seccume
Si schiuda il bozzolo nero alla trave e la farfalla tenera galleggi ancora sul fiato.
Scotete nel vento il lenzolo malato e risperate guarigione scarcerate la bestia e l’aratro e riprendete affezione.
Piero Jahier
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Forza maggiore di Robert Ostlund
Una coppia con due figli trascorre una settimana bianca in un albergo di una località sciistica. Ostlund non si perde in preamboli. Ci mostra una Vacanza, che scorre nella pura normalità.
Poi una telecamera fissa e distante, quasi fosse la registrazione a circuito chiuso dell'albergo, li riprende mentre pranzano su un terrazzo.
All'improvviso una slavina si stacca dal fianco della montagna. Le persone presenti se ne accorgono, subito prendono i telefonini e girano un video. La valanga appare lontana e controllata, e offre uno spettacolo meraviglioso...
Passano appena quattro cinque secondi. E' veramente questione di un attimo. Tutti si rendono conto che la neve si avvicina pericolosamente e li sta per travolgere. C'è chi si blocca, chi capisce prima, e chi dopo. Chi fugge e chi rimane impietrito.
Il padre è tra quelli che istintivamente si defilano. La madre resta immobile, come i figli, ma fa quasi da scudo per proteggerli.
Una gran nuvola di nevischio avvolge tutto, poco dopo si dirada.
Solo un grande spavento, nessuno si è fatto male.
Ecco, sappiamo in che direzione si muove il film.
Ci mostra le diverse reazioni di fronte a un fatto assolutamente fuori dall'ordinario. Una coppia, apparentemente stabile e felice, viene messa alla prova da un evento potenzialmente tragico: si tratta di una sorta di prova generale, simile ad una esercitazione dei vigili del fuoco.
Una prova generale che potrebbe, a detta di qualcuno, dimostrare quello che siamo veramente, la nostra essenza ultima. Dire una volta per tutte se possediamo quel coraggio e quell'altruismo che ci inducono a proteggere i nostri cari a qualsiasi costo, anche della vita.
La coppia riprende la sua attività di vacanza, normalmente, come se nulla fosse accaduto, ma è solo apparenza.
La moglie cova un rancore tremendo. Si intuisce fin da subito che è profondamente delusa dal marito, forse in modo irrevocabile. Resta imbronciata. Si isola.
Poi pretende una sorta di chiarimento. Il marito la porta in corridoio per non fare assistere i bambini a una discussione che si annuncia piena di tensione. O almeno così ce la aspettiamo.
In realtà i due si accordano per un Finiamola qui, non è successo niente.
Ed ecco che la magia di Forza maggiore si scatena: Inizia un gioco di rabbie trattenute, sguardi, sfoghi, esplosioni d'ira.
Frequentano altre coppie. Ci vengono mostrati frammenti di conversazioni, poi all'improvviso la moglie inizia la sua vendetta personale, e annuncia il fatto agli amici, coinvolgendoli.
E' l'imbarazzo più totale. Ciò che rende unico il film  è che il disagio è trasmesso allo spettatore. Traumaticamente. Vediamo la scena e ci prende una morsa allo stomaco. Aiutano in questo gli attori, straordinari, credibili, che instillano in noi la loro stessa incredulità.
Da questo momento in poi il film è un crescendo di tensione. Un succedersi di eventi, più interiori che altro, espressi sempre attraverso impercettibili sfumature.
E' un film minimale, in cui molti dei pensieri li si possono soltanto immaginare.
Spesso, contemporaneamente ai vari personaggi chiamati in causa, a nostra volta coinvolti, ci chiediamo quanto il comportamento del marito sia stato sbagliato oppure addirittura grave o imperdonabile.
Istintivamente in ognuno si scatena un dibattito profondamente etico.
Non dirò altro. Il finale, che potrebbe ribaltare la prospettiva, è secondo me di una raffinatezza unica nel suo genere, dice tutto, senza dire nulla, con un immagine di una forza straordinaria
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CASTILIONUM INSIGNIA: alla riscoperta di Donato Castiglione e della sua antica famiglia
Donato Castiglione, detto l’Argentario.
  di Marcello Semeraro
Donato Castiglione, detto l’Argentario, medico, filosofo e umanista vissuto fra il XVI e il XVII secolo, è uno dei tanti personaggi illustri della storia di Oria. Qui nacque, probabilmente fra il 1530 e il 1540. Conosciamo il nome del padre (Mariano) e quello del fratello (Giulio Cesare). Non ancora ventenne, si recò a Napoli per studiare medicina, disciplina nella quale egli divenne espertissimo e che si prodigò ad insegnare al suo rientro ad Oria.
Uomo dottissimo e versatile, la sua preparazione e sua fama erano tali che gli valsero la nomina a precettore “in tutte le dottrine” di Alessandro Mattei, conte di Pamariggi, e di altri signori del reame napoletano. Dopo la morte di Quinto Mario Corrado (1475) – il grande umanista oritano del quale l’Argentario fu allievo e parente – fu chiamato a sostituirlo alla guida del Seminario di Oria, ma, stando a quanto scrive il Matarrelli Pagano, “per essere di differente professione non vi fece profitto che si ne sperava”. Ci è ignota la data del suo decesso, ma sappiamo che morì ad Oria, ottuagenario.
Fra i suoi scritti più noti va annoverato il De coelo uritano, un’opera in tre libri che purtroppo è andata perduta, nella quale il Castiglione disquisì di storia, topografia, clima e salubrità del territorio oritano. Scrisse inoltre gli argumenta del De Lingua Latina e del De Copia Latini Sermonis di Quinto Mario Corrado, con cui ebbe altresì un’intensa corrispondenza epistolare, ben testimoniata dalle lettere presenti nell’Epistolarum libri VIII.
Della sua famiglia e delle sue origini si sa pochissimo. Le uniche informazioni sono quelle riportate dallo storico Domenico Tommaso Albanese (*1638 †1685) in una pagina del suo celebre manoscritto intitolato Historia Dell’antichità d’Oria Città della Provincia di Terra d’Otranto. “La famiglia de’ Castiglioni assai antica e nobile in Oria, originaria della Francia sin dal tempo di Carlo primo d’Angiò che da Argentona, città della Francia donde si partì, lasciato il primitivo cognome de’ Castiglioni hoggi si dice degli Argentoni si come appare da un’iscrizione posta sotto le armi et imprese nel loro palaggio in Oria”. Ai  tempi in cui lo storico oritano scrisse la sua opera, questa famiglia era quasi estinta, “non vi essendo rimasti che alcun pochi, li quali fanno la loro Stanza nel villaggio, over Castello di Erchie, ove possedono molti loro poderi”.
Grazie agli studi di Pasquale Spina sulla toponomastica oritana, siamo riusciti a localizzare il luogo dove anticamente sorgeva il palazzo di famiglia del quale parla l’Albanese. Si tratta dell’edificio ubicato fra via Milizia (l’antica via Santa Lucia) e vico Barletta,  attualmente di proprietà di Mario Sartorio. Fortunatamente il palazzo, nonostante i rimaneggiamenti e i cambi di proprietà a cui è stato soggetto nel corso dei secoli, conserva ancora intatte le “armi et imprese” e l’epigrafe descritte dall’Albanese, che appaiono murate sulla parete della terrazza del primo piano.
Lo scudo presenta una foggia ovale accartocciata ed è racchiuso in una lastra rettangolare delimitata da una cornice modanata, al di sotto della quale compare un’iscrizione in lettere capitali che recita così:  CASTILIONUM INSIGNIA / QUIBUS  AB ARGENTONA/  GALLIARUM URBE UT MI / GRARUNT ARGENTONI / BUS COGNOMEN  FUIT.
Fig. 2. Oria, particolare dello stemma Castiglione/Argentone murato sulla parete della terrazza del primo piano dell’abitazione ubicata fra via Milizia e Vico Barletta.
  Lo stemma reca un’aquila monocipite, al volo abbassato e coronata (fig. 2). Un esemplare simile, ma di dimensioni minori e in uno stato di conservazione non ottimale, è invece scolpito sulla parete del piccolo giardino del primo piano, sempre all’interno di uno scudo ovale munito di cartocci (fig. 3).
Fig. 3 – Oria, particolare dello stemma murato sulla parete del giardino del primo piano dell’abitazione posta fra via Milizia e vico Barletta.
  Diversamente da quanto dovette essere in origine, questi manufatti si presentano oggi privi di indicazioni cromatiche e costituiscono le uniche attestazioni a noi note dell’arma alzata da questa famiglia, il cui nome, è bene precisarlo, non va confuso con quello di altre famiglie omonime, ma dotate di stemmi diversi. Circa la cronologia d’esecuzione dei manufatti in esame, l’analisi storico-araldica ha evidenziato fattezze stilistiche riconducibili a un periodo compreso fra seconda metà del XVI  e la prima metà del XVII secolo. Alcuni atti notarili riportati da Pasquale Spina mostrano che in quel lasso di tempo il palazzo appartenne effettivamente a Donato Castiglione e ai suoi discendenti, perlomeno fino al 1656 (terminus ante quem per la datazione degli stemmi e dell’epigrafe), quando Tomasina e Isabella Argentone vendettero l’edificio, che all’epoca era costituto da “una casa a volta con tre terrazze e scala in pietra”.
Come abbiamo visto, l’epigrafe e il passo tratto dall’Albanese accennano al passaggio del cognome di famiglia da quello primitivo (Castiglione) a quello derivato dal toponimo francese (Argentone). L’analisi delle fonti scritte coeve mostra che, finché visse, Donato Castiglione venne individuato ora con la forma cognonimale primitiva, ora con quella toponimica, mentre quest’ultima caratterizzò i suoi discendenti ed è rimasta ancora oggi in un toponimo rurale di Oria. Pasquale Spina ha individuato in Argenton-sur-Creuse, un comune francese situato nel dipartimento dell’Indre, nella regione Centre-Val de Loire, la località di origine della famiglia, ma questa ipotesi è tutta da dimostrare, anche alla luce dell’abbondanza di toponimi simili riscontrabili in Francia (Argenton-Château, Argenton-l’Église, Argenton-Notre-Dame ecc.).
Nel 1899 una delibera del consiglio comunale dedicò a Donato Castiglione due strade (una via e un vico), la cui denominazione si conserva ancora oggi. Da allora, tante cose sono cambiate e oggi presso le nuove generazioni la memoria dell’Argentario, della sua famiglia e della sua dimora sembra essersi persa.
Anche la storigrafia locale, se si eccettua il lodevole contributo di Pasquale Spina, non è da meno. L’auspicio è che questa indagine stimoli la curiosità di qualcuno e, magari, dia avvio a nuove e più approfondite ricerche.
BIBLIOGRAFIA
T. Albanese, Historia Dell’antichità d’Oria Città della Provincia di Terra d’Otranto. Raccolta da molti antichi e moderni Geografi, ed Historici Dal Filosofo e Medico Domenico Tomaso Albanese della stessa Città, nella quale anco si descrive l’origine di molti luoghi spettanti alla sua Diocesi, Brindisi, Biblioteca pubblica arcivescovile A. De Leo, Manoscritti, ms_D/15, 1750.
Amorosi, A. Casale, F. Marciano, Famiglie nobili del Regno di Napoli in uno stemmario seicentesco inedito, Roma 2011.
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Matarrelli Pagano, Raccolta di notizie patrie dell’antica città di Oria nella Messapia, Oria 1976.
Spina, Oria, strade vecchie, nomi nuovi, strade nuove, nomi vecchi, Oria 2003.
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