Tumgik
#colloquio. ma questa è una storia triste
danilacobain · 2 years
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Selvatica - 55. Ultime parole
Come era vuota la sua casa senza Corinna. E gli sembrava un luogo estraneo, come se non gli appartenesse più, come se in tutto quel tempo fosse stata un'altra persona a viverci, non lui.
Si alzò dal letto che troppe volte nell'ultimo periodo aveva condiviso con lei. Le lenzuola stropicciate durante l'ennesima nottata insonne giacevano in un angolo, a occupare il posto di Corinna ormai freddo.
Era trascorsa più di una settimana dal loro ultimo incontro e Ante continuava a svegliarsi nel cuore della notte con una morsa che gli stringeva il petto e le ultime parole che la ragazza gli aveva rivolto che premevano sulle tempie.
Ti odio.
Non ho mai voluto niente da te, volevo solo te.
Addio.
Un'altra giornata di allenamento, a lavorare, correre, sudare. Un'altra giornata trascorsa tra gli amici, ad attendere notizie da parte di Dolokov e inventare scuse con se stesso per non averla ancora chiamata. Lei e solo lei nella sua testa stanca. Lei e solo lei nel suo cuore triste.
Insieme avevano tutto, una complicità da fare invidia, tutta la felicità del mondo. Corinna con le sue menzogne aveva gettato su di loro una densa nube scura dalla quale Ante non riusciva a uscire. Non vedeva al di là di essa, non riusciva più a scorgere la luce.
Attraversò le stanze silenziose buttandovi uno sguardo vacuo. Quella maledetta casa lo rendeva malinconico, non voleva più starci. Avrebbe cambiato appartamento il prima possibile.
***
Un pomeriggio intero in giro per Milano alla ricerca di una casa nuova, con Rade e Mario che si erano dimostrati molto più pazienti di lui. La giornata era stata calda e nel venticello si avvertiva l'arrivo della sera, l'orario dell'aperitivo. Ante fece un sorso dal bicchiere che aveva in mano, osservando un tizio che sorrideva e si avvicinava nella loro direzione.
Rade sembrava conoscerlo, si alzò in piedi e lo salutò stringendogli la mano. Era italiano ma parlava benissimo la loro lingua, un uomo molto elegante, i capelli corti e gli occhiali da vista.
«Dai, siedi con noi. Prendi qualcosa.» Rade gli fece spazio sul divanetto.
Qualche tavolo più in là, delle ragazze stavano guardando nella loro direzione, ridacchiavano e parlavano a bassa voce. Ante si spostò, dando loro le spalle.
«Vi ringrazio, ma sono solo di passaggio», rispose l'uomo, sorridendo. «Salutami tanto Isotta e dille di non dimenticarsi della mostra.»
«Mostra?» chiese Ante, improvvisamente interessato alla conversazione.
«Ah sì, voi non vi conoscete» Rade indicò sia lui che Mario. «Loro sono i miei compagni di squadra Ante e Mario.»
Mario alzò una mano e sorrise, Ante continuò a fissare l'uomo in attesa di una risposta.
«Molto piacere, sono Massimo Lamantini.»
«È un gallerista» aggiunse Rade.
«Un gallerista?» Forse doveva sembrare ritardato perché il tizio lo fissò per un secondo prima di rispondere.
«Sì, sì. Ho una galleria qui vicino. Siete invitati anche voi alla mia prossima mostra, venite insieme a Rade e Isotta.»
Ante si alzò in piedi. «Massimo, la mia...» Frenò la lingua prima di pronunciare la parola "ragazza" solo perché cominciò a sentire delle fortissime fitte al petto. «Una mia amica sta studiando per diventare una gallerista. Posso mandarla da te? Le fai un colloquio e magari la prendi a lavorare con te. È molto preparata e soprattutto ha tanta passione.»
«Ma certo.» Massimo tirò fuori dalla tasca un bigliettino da visita che porse a Ante. «Può venire quando vuole.»
Ante annuì e sorrise, gli strinse la mano in segno di ringraziamento. Poi si sedette di nuovo, guardando Mario e Rade che lo fissavano. Tornò serio. «Che c'è?»
Massimo si congedò e Ante passò il bigliettino a Rade. «Dallo a Corinna.»
Rade strabuzzò gli occhi. «Io?»
«Puoi farglielo dare da Isotta.»
«Ante, hai rotto il cazzo con questa storia» sbottò Mario, fulminandolo con lo sguardo. «Perché l'hai lasciata se continui a pensare a lei, a fare le cose per lei, a preoccuparti per lei? Non potete stare insieme? Sareste sicuramente più felici.»
Ante buttò fuori l'aria dal naso. «Mario, per favore. Non capisci che...»
«Ma per favore, cosa? Le stronzate si fanno nella vita, ok? E lei ne ha fatta una bella grossa, ma chiaramente tu sei ancora innamorato di lei e quindi perché non la perdoni?»
Lo fissò con sguardo di ghiaccio. «Non la voglio vedere, ok?»
Mario allargò le braccia, facendo una smorfia con la bocca. «Ok. Ma questo non è affar nostro.» Tolse il bigliettino da visita dalle mani di Rade e lo piazzò davanti a Ante. «Se tanto ci tieni, glielo porti tu.»
Rade si alzò in piedi, cercando di stemperare la tensione. «Va bene, ragazzi, va bene. Andiamo a casa?»
Ante e Mario si osservarono per un altro paio di secondi. «Sì.»
Aveva ragione, Ante la amava ancora tanto e non era riuscito a trattenersi quando aveva sentito che quell'uomo era un gallerista. Era un sogno di Corinna. Ante voleva solo vederla felice. Afferrò il bigliettino e lo ripose in tasca.
«Ante?»
Una ragazza lo stava chiamando. Ante si mosse verso l'uscita, senza neanche guardare.
«Chi è quella, la conosci?» Mario si accostò la lui.
Scosse la testa, «No, non guardarla. Fai finta di non aver sentito.»
«Ante? Ehi, non mi riconosci?»
Merda, ma chi diavolo era? Sollevò lo sguardo al cielo.
«Ante, mi sa che questa ti conosce piuttosto bene.» Rade sorrise.
Ante si voltò a guardare. Capelli neri e lisci, sguardo provocante e intenso. Ma certo, la conosceva eccome, era la coinquilina di Corinna.
«Ciao.»
Lei si avvicinò. «Ciao! Sono l'amica di Corinna, ti ricordi?»
Ante annuì. «Come sta?» Di nuovo non era riuscito a trattenersi dal chiedere di lei.
La ragazza sorrise. «Bene. Ora ha iniziato a lavorare al museo del Novecento, hai presente? Quello in Piazza Duomo. Non è proprio un lavoro, sta facendo il tirocinio per l'università. È tutta presa e sempre piena di cose da fare. Però... le manchi.»
Ante fissava Monica ma immaginava Corinna e come potesse essere felice in quel momento. Sapeva quanto adorava essere circondata dall'arte, sapeva quanto potesse essere importante per lei. Avrebbe tanto voluto che lo chiamasse, per condividere con lui quel momento. Invece il telefono era sempre rimasto silenzioso.
«Dove andate, ragazzi? Perché non vi unite a noi?» La voce della ragazza lo riportò nel locale. Lei gli fece l'occhiolino. «Tranquillo, non c'è Corinna.» Le riservò un'occhiata gelida, credeva che così lo avrebbe convinto a restare?
Mario fece un passo verso Monica. «Perché no.»
Ante si voltò di scatto verso Mario, aggrottando impercettibilmente la fronte. «Ce ne stavamo andando.»
Monica spostò lo sguardo tra i due, lasciandolo un po' di più su Mario. «Vabbè, se decidete di restare raggiungeteci.»
Ante aspettò che la ragazza si allontanasse, poi si rivolse a Mario. «Sei matto? Vuoi scoparti l'amica di Corinna?»
Rade ridacchiò e Mario alzò le spalle. «È attraente, no?»
Ante sorrise e scosse la testa. «Guarda che quella poi la devi pagare.»
Mario spalancò gli occhi e la bocca. «No... davvero?»
I tre risero insieme, Ante infilò le mani in tasca in cerca delle chiavi della macchina e le dita sfiorarono il cartoncino ruvido del bigliettino da visita. Tornò subito serio e sospirò.
«Io me ne vado, ci vediamo domani.»
Che doveva fare se non voleva vederla? Strinse il cartoncino nella mano mentre si dirigeva verso l'auto. Fu tentato di buttarlo, tanto sarebbe rimasto in quella tasca per sempre. Non sarebbe mai arrivato nelle mani di Corinna. Lei probabilmente stava ritrovando la sua felicità, non c'era bisogno di andare a disturbarla.
Non sarebbe andato da lei per sentirsi dire ancora quelle ultime parole che lo tormentavano.
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deathshallbenomore · 2 years
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comunque il migliore di oggi in assoluto il tizio che: io sono di *****. il viaggio per venire fin qui è lungo. e si suda tanto. se sudo mi dà fastidio indossare l’orologio da polso. pertanto, ecco il motivo per cui sto indossando un orologio da taschino, d’oro.
sei così peculiare ti prego non rubarmi il posto ma intrattienimi per sempre
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gregor-samsung · 5 years
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Alcuni anni fa Marc, un bambino di dieci anni, è venuto in ospedale per un colloquio. Come accade spesso in questi casi, il bambino preoccupava molto le persone che lo circondavano. La famiglia si era decisa a chiedere un colloquio in seguito a un’esperienza negativa in una colonia di vacanze dove un certo comportamento, che fino a quel momento era passato più o meno inosservato, era “esploso”. Un lunedì mattina accolgo quindi questo bambino con i suoi genitori, visibilmente agitati (come la maggioranza dei genitori che accompagnano il figlio in un servizio di psichiatria, la loro angoscia è raddoppiata dalla paura implicita di essere giudicati: “Siamo dei bravi genitori? O saremo considerati delle persone che non hanno saputo educare i loro figli al punto che adesso, per il loro bene, la società dovrà occuparsi di loro?”). Mi raccontano che tutto è cominciato nella colonia di vacanze in cui Marc rifiutava di lavarsi nudo di fronte agli altri bambini. Poi Marc stesso mi spiega che, anche a casa, si fa la doccia vestito con una specie di camicione e che si insapona attraverso il sottile tessuto. Mi spiega poi che gli istruttori della colonia erano molto turbati per quello che raccontava. Marc aveva infatti spiegato, riprende la madre, di essere l’imperatore di un pianeta chiamato Orbuania e che, come imperatore di questo pianeta, veniva ogni giorno sulla terra in osservazione. Ma ogni notte lasciava il suo corpo e tornava nel suo pianeta dove riprendeva la sua normale vita di imperatore. A quel punto chiedo ai genitori se Marc avesse già parlato loro di tutto questo e rispondono che sì, naturalmente gliene aveva parlato. Marc aveva inoltre scritto una serie di quaderni in cui descriveva la vita di Orbuania, che aveva fatto leggere ai suoi insegnanti, i quali trovavano, come del resto i genitori, che sebbene il bambino fosse un po’ ossessionato dalla sua storia, rivelasse in fondo solo di possedere un’immaginazione un po’ troppo fervida. E’ necessario precisare che Marc aveva rivelato, nei vari test a cui era stato sottoposto in ospedale, un’intelligenza superiore alla media. E agli psicologi che gli avevano sottoposto i test aveva dichiarato di voler parlare del suo impero con qualcuno, ma che non voleva essere trattato “psicologicamente”. Gli ho chiesto perché. Dall’alto dei suoi dieci anni, mi ha risposto che gli psicologi sono persone che non capiscono nulla delle cose, che interpretano tutto e che lui invece desiderava parlare, ma in modo più complesso e profondo, con un adulto che non lo catalogasse. Non credevo alle mie orecchie: quel bambino mi stava dicendo che non voleva essere trattato come un sintomo. Mi diceva molto chiaramente che desiderava parlare, ma che quella conversazione non doveva cadere in un riduzionismo tecnico. Gli dissi immediatamente che io ero uno psicologo, ma che ero anche un filosofo, che la sua storia mi interessava molto e che desideravo parlare con lui anche se non capivo bene perché volesse parlare con qualcuno. Penso che all’inizio il desiderio di comunicare la sua visione delle cose nascesse da due ragioni ben distinte: da una parte, le persone reagivano male quando lui parlava del suo impero; e dall’altra, siccome in questa storia non tutto gli era completamente chiaro, l’opinione di qualcuno che non lo giudicasse gli era preziosa. Tale fu il nostro primo patto, che restò intatto per oltre dieci anni di lavoro comune e di amicizia reciproca. “Signor imperatore”, è così che ho cominciato molto presto a chiamarlo. Quell’appellativo è diventato il suo nome, o meglio il suo soprannome, che accettava con un certo piacere. E non ero il solo a chiamarlo così: le segretarie, vedendolo arrivare per la sua ora di discussione (non è mai stata una seduta), lo salutavano, senza alcun tono di scherno, dicendogli: “Buongiorno signor imperatore! Un po’ alla volta, Marc mi descriveva il suo pianeta. Parlavamo anche della difficoltà di vivere sulla Terra, una difficoltà che sotto molti aspetti ci accomunava — con lo svantaggio per me che io, contrariamente a lui, non sono imperatore neanche per qualche ora al giorno. Fin dai primi incontri ho chiesto a Marc cosa pensasse della realtà di Orbuania. Sviluppò a questo proposito una teoria che non è mai cambiata nel corso degli anni, anche se con il tempo si è affinata. Orbuania e le sue costellazioni, i pianeti che dipendevano dal suo impero e i suoi nemici esistevano davvero, ma non poteva dimostrarlo. Mi proponeva quindi di adottare, a proposito dell’esistenza del suo impero, la “scommessa di Pascal” riguardo all’esistenza di Dio. Si può immaginare il mio stupore (e non sarebbe stato l’ultimo!) quando udii una tale proposta uscire dalla bocca di un bambino di quell’età! La realtà di Orbuania non dipendeva da una credenza personale, ma dal grado di esistenza determinato dalla necessità che un tale oggetto esistesse... Qualche anno dopo, quando Marc cominciava ad avere il profilo del matematico che è oggi, ha partecipato come uditore ad alcune riunioni, da me coordinate, con due ricercatori (un matematico e un fisico), in vista della stesura di un libro ‘di logica matematica. Tra i soggetti che affrontavamo c’era il problema ontologico dello statuto di esistenza dell’oggetto della scienza. L’imperatore offriva il suo parere sui teoremi fondamentali di Gòdel e di Cohen, tra gli altri. E appena poteva ci dava notizie di Orbuania, cosa che incuriosiva al massimo, come si può immaginare, gli scienziati miei complici, assolutamente incapaci di definire ciò che “esiste” o meno, e perfino di saper dire più o meno cosa questa parola significhi. Un giorno ho vissuto un episodio piuttosto comico con l’imperatore. Era un pomeriggio d’estate e faceva molto caldo al Centro; quando Marc arrivò gli proposi di andare a bere qualcosa al bar, come facevamo abbastanza spesso. Al bar quando il cameriere viene a prendere l’ordinazione, chiedo a Marc: “E lei, cosa desidera, signor imperatore?”. Marc risponde e, quando il cameriere si allontana, mi dice in tono protettivo: “Vede, Benasayag, a me non dà nessun fastidio, ma se continua a chiamarmi ‘signor imperatore’ in pubblico, finiranno per pensare che lei è un po’ matto” — e accompagna l’affermazione con un gesto esplicito, puntando l’indice sulla tempia e facendolo ruotare su se stesso. Poco per volta imparavo a capire quando potevo chiamarlo signor imperatore. E lui da parte sua imparava, probabilmente insegnandolo a me, che non tutti sono in grado di capire le interessanti informazioni sul suo pianeta, per la semplice ragione che poche persone sono in grado di comprendere d’acchito i Pensieri di Pascal. Questa storia non deve farci dimenticare ciò che non è ancora stato detto, cioè che Marc non è mai stato medicalizzato, che non è mai stato ospedalizzato in un reparto di psichiatria, né etichettato e non è nemmeno mai rientrato in un programma di integrazione... Solo quando è entrato all’École normale supérieure, dopo aver fatto Matematica superiore e Matematica speciale, gli ho suggerito di dedicarsi alla ricerca anziché all’insegnamento e lui, condividendo il mio parere, ha seguito il mio consiglio. A un certo punto di questa storia con Marc, gli ho proposto di realizzare un breve filmato in cui lui avrebbe descritto il suo impero e spiegato i delicati meccanismi di quel mondo in cui i due sessi non si distinguevano per alcun segno esteriore, essendo entrambi identicamente “piatti”, in cui il partito maggioritario era misogino, in cui le donne (che lui era il solo a poter identificare) erano geneticamente inferiori agli uomini e in cui i membri di un partito anarchico venivano sovvenzionati come clown ufficiali dell’impero. Contrariamente a quanto si potrebbe credere, i racconti di Orbuania non assomigliavano affatto a un romanzo di fantascienza. L’imperatore mi informò piuttosto dettagliatamente, nel corso degli anni, sulla circolazione delle auto, sulle tasse, sull’educazione eccetera. E mi teneva informato sulle interminabili guerre e conflitti che il suo impero intratteneva con le colonie, perché il signor imperatore non era propriamente di sinistra... Marc era molto interessato a realizzare un documentario audiovisivo, a patto che fosse rispettata una condizione preliminare, ovvero che il film non fosse utilizzato come “materiale psichiatrico”. Il documentario poteva essere mostrato a filosofi, ad antropologi o ad altri intellettuali, ma in nessun caso a dei tecnici che non vi avrebbero riconosciuto altro che sintomi, cioè che non vi avrebbero visto, per usare le parole di Marc, “niente”.
Miguel Benasayag, Gérard Schmit, L'epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, 2004 [Libro elettronico]
[ Edizione originale: Les Passions tristes. Souffrance psychique et crise sociale, La Découverte, 2003 ]
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gloriabourne · 6 years
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The one where Ermal is a father
Ermal parcheggiò in doppia fila, davanti alla scuola di Libero. Probabilmente avrebbe trovato una multa al suo ritorno, ma in quel momento era l'ultimo dei suoi problemi.
Quando Fabrizio l'aveva chiamato, circa venti minuti prima, chiedendogli di andare a prendere Libero a scuola, Ermal aveva subito capito dal suo tono di voce che c'era qualcosa che non andava.
"Non lo so" aveva risposto Fabrizio sospirando. Poi aveva aggiunto: "M'ha chiamato la maestra. Dice che è successa una cosa oggi a scuola ma non mi ha spiegato niente di più. Io sono bloccato in studio, Giada sta accompagnando Anita al compleanno di una sua amichetta..."
Ermal aveva fermato il suo fiume di parole dicendogli di stare tranquillo, che ci sarebbe andato lui da Libero.
In fondo, Fabrizio era stato così gentile da ospitarlo a casa sua mentre si trovava a Roma per un evento. Il minimo che poteva fare era ricambiare il favore andando a prendere suo figlio a scuola.
Entrò all'interno dell'edificio ignorando le occhiate curiose degli altri genitori e si diresse a passo spedito lungo il corridoio, cercando la classe di Libero.
Rimase fermo sulla porta a guardare qualche secondo Libero, che se ne stava seduto al primo banco con lo sguardo basso, e la sua maestra, seduta alla cattedra davanti a lui.
"Salve" disse Ermal, entrando nell'aula timidamente.
Sembravano passati secoli dall'ultima volta in cui era stato in una scuola per qualcosa che non riguardasse il suo lavoro.
La maestra, una donna sulla cinquantina, alzò lo sguardo e sorrise. "Salve. Il padre di Libero mi ha avvertito che avrebbe mandato lei a prenderlo."
"È successo qualcosa?" chiese Ermal curioso, mentre Libero sbuffava continuando a tenere lo sguardo rivolto verso il basso.
La maestra sospirò gettando un'occhiata a Libero, poi rivolse l'attenzione a Ermal e disse: "Avrei preferito parlarne con i genitori. Anzi, sicuramente li contatterò per un colloquio. Ma, per farla breve, oggi c'è stato un litigio piuttosto intenso tra Libero e un suo compagno di classe."
"Che significa intenso?" chiese Ermal.
"Si sono spintonati durante l'ora di ginnastica e Libero ha detto delle parole che non mi sarei aspettata di sentire da un bambino della sua età" spiegò l'insegnante.
"Cioè?" disse Ermal guardando Libero, incerto se in quella situazione fosse più corretto continuare a parlare con l'insegnante o rivolgersi direttamente al bambino.
"Le parole precise sono state: brutto stronzo."
Ermal si passò una mano tra i capelli sospirando.
Non aveva la minima idea di come comportarsi, di cosa dire.
"Senta, so che non è suo figlio, ma non potevo chiudere un occhio questa volta. E visto che i genitori di Libero l'hanno autorizzata ad occuparsi di lui in loro assenza..." iniziò la maestra.
"Questa volta?"
"Non è la prima volta che succede."
  Se c'era una cosa che Ermal non era mai stato in grado di fare, era guidare in silenzio.
Era sempre stato abituato a chiacchierare con chi c'era in macchina con lui o semplicemente a canticchiare una canzone alla radio.
Ecco perché rimanere in totale silenzio, mentre Libero accanto a lui fissava il finestrino, lo stava rendendo nervoso.
Il fatto era che proprio non sapeva come comportarsi.
Avrebbe dovuto sgridarlo? Chiedergli perché l'aveva fatto? Fargli un discorso ispirato sul perché si era comportato male?
Nessuno di quei compiti spettava a lui.
Lui era semplicemente il fidanzato di suo padre - anzi agli occhi di Libero era un semplice un amico, visto che Fabrizio non gli aveva ancora detto di avere una relazione con Ermal - che era andato a prenderlo a scuola.
"Lo dirai a papà?" chiese Libero a un certo punto.
Ermal sospirò. "Sì. Tanto lo saprà dalla maestra prima o poi. E io non me la sento di nascondere le cose a tuo padre."
Libero rimase in silenzio per qualche secondo, mentre Ermal si fermava a un semaforo e gli rivolgeva un'occhiata curiosa.
C'era qualcosa che Libero non stava dicendo, qualcosa che stava tenendo nascosto su quella storia.
"Ti va di raccontarmi cos'è successo?" chiese Ermal mentre il semaforo diventava verde.
"Te l'ha già detto la maestra."
"Sì, ma io vorrei saperlo da te" rispose Ermal, probabilmente con un tono più brusco di quanto avrebbe voluto perché sentì Libero sbuffare.
"Libero..."
"Senti, tu non sei mio padre!" sbottò il bambino, cercando di chiudere la conversazione.
Ermal si ammutolì. In fondo, Libero aveva ragione.
Non era suo padre, non poteva permettersi di sgridarlo o di dire qualsiasi cosa su quella faccenda.
Quando arrivarono a casa, pochi minuti più tardi, Fabrizio non era ancora rientrato.
Ermal sospirò mentre lasciava le chiavi sul mobile dell'ingresso, consapevole che in mancanza di Fabrizio spettasse a lui dire qualcosa a Libero. Se non sgridarlo, almeno cercare di capire per quale motivo avesse agito in quel modo.
Libero, da parte sua, non aveva nessuna intenzione di parlare di ciò che era successo a scuola, tanto meno con Ermal.
Non aveva nulla contro di lui, anzi gli stava simpatico e vedeva quanto suo padre fosse felice ogni volta che erano insieme. Però se c'era qualcuno che doveva dire qualcosa su quella storia, dovevano essere suo padre o sua madre. Non Ermal.
"Hai ragione" disse Ermal a un certo punto, mentre si sedeva accanto a Libero sul divano.
"Su cosa?"
"Sul fatto che non sono tuo padre. Anzi, io non so nemmeno come si fa a fare il padre. Non ho avuto un buon esempio."
Libero si voltò verso di lui. "Non vai d'accordo con lui?"
"Diciamo che non si è comportato bene" rispose Ermal cercando di addolcire la situazione. Poi aggiunse: "Insomma, io non so come si fa il padre e non voglio cercare di farlo con te. Voglio solo capire che succede."
Libero si strinse nelle spalle. "Niente. Abbiamo litigato, stop."
"Vi siete spintonati. Hai detto delle cose che non avresti dovuto dire. I gesti e le parole, a volte fanno più male di quanto credi" disse Ermal.
Quella situazione lo stava facendo inevitabilmente ripensare alla sua infanzia.
Aveva riportato a galla i ricordi degli anni passati in Albania, con un padre che non l'aveva amato, un padre che era quasi riuscito a convincerlo che la violenza fosse una cosa normale.
Era stato fortunato a saper leggere lo sguardo di sua madre, a vedere oltre il sorriso che cercava di stamparsi in faccia nonostante tutto. Era stato bravo a leggerle dentro e a rendersi conto, anche se era solo un bambino, che c'era qualcosa di profondamente sbagliato in tutto quello.
E quando l'aveva capito, quando con l'ingenuità tipica di un bambino aveva affrontato suo padre sperando che le parole avrebbero potuto cambiare le cose, le botte erano arrivate anche per lui.
C'erano stati schiaffi, c'erano stati segni sulla pelle che aveva faticato a nascondere, c'erano state le parole di suo padre che lo avevano ferito più delle sue mani.
Sua madre lo aveva truccato un paio di volte - mettendogli il suo fondotinta per cercare di coprire i lividi - ma non aveva potuto fare nulla per le altre ferite, quelle che Ermal si portava nel cuore, quelle causate da un uomo che lo definiva nullità e che cercava di denigrarlo in qualsiasi modo.
Aveva impiegato anni per disfarsi degli incubi su suo padre, per avere una vita normale. Ma ciò che aveva vissuto lo aveva segnato e lo aveva portato a provare repulsione per qualsiasi tipo di violenza, mettendolo in difficoltà dovendo affrontare una discussione simile proprio con un bambino che mai avrebbe creduto potesse avere quei problemi.
"C'è una bambina nella mia classe che ha problemi a camminare" disse Libero improvvisamente.
Ermal aggrottò la fronte - domandandosi cosa c'entrasse con il loro discorso - ma non disse nulla.
"I nostri compagni la prendono in giro, ridono di lei... Oggi a ginnastica hanno iniziato a ridere perché lei non riusciva a fare un esercizio. Un mio compagno rideva più degli altri, così me la sono presa con lui" spiegò Libero tenendo lo sguardo basso.
"E l'hai spintonato e chiamato con quelle parole?"
Libero annuì senza alzare lo sguardo.
Si vergognava per quello che era successo, anche se era ancora convinto di averlo fatto per un buon motivo. Ripensandoci però forse avrebbe potuto evitare di alzare le mani o di insultare il suo compagno di classe. Forse avrebbe potuto semplicemente dire alla maestra cosa stava succedendo e non ci sarebbero stati problemi.
Ma in quel momento, aveva agito di istinto e proprio non ci aveva pensato.
Ermal gli strinse affettuosamente una spalla, tirandolo verso di sé in un goffo abbraccio.
"Va tutto bene, è tutto ok. Volevi solo difendere una tua compagna" cercò di rassicurarlo Ermal.
"Ma l'ho fatto nel modo sbagliato" mormorò Libero.
"Questo è vero" disse Ermal, cercando di nascondere gli occhi lucidi.
Le prime volte in cui era stato picchiato da suo padre, avevano tutte un'unica costante: suo padre che andava da lui e gli diceva che aveva solo cercato di dargli una lezione, anche se nel modo sbagliato.
Prometteva di non rifarlo più, diceva che se avesse dovuto dargli un'altra lezione non avrebbe più alzato le mani, ma poi lo faceva comunque.
Si scusava - a modo suo - e ammetteva di avere sbagliato, solo per poi comportarsi nello stesso modo appena qualche giorno più tardi.
Ermal avrebbe mentito se avesse detto che le parole di Libero non gli avevano ricordato quelle di suo padre. Ma sapeva anche che, per quanto quella situazione fosse simile a qualcosa che aveva vissuto, Libero non sarebbe mai stato come suo padre.
Lo strinse a sé ricacciando indietro le lacrime, mentre il bambino sollevava lo sguardo e lo fissava curioso.
"Perché piangi?"
Ermal si asciugò in fretta gli occhi e rispose: "Non sto piangendo."
"Non si dicono le bugie."
Ermal si lasciò scappare una risata di fronte a quella frase. "E va bene, sto piangendo. Ma è solo perché ho ripensato a una cosa triste che mi è successa quando avevo più o meno la tua età."
Erano ancora stretti in un abbraccio - con Libero che teneva il viso affondato nel petto di Ermal e il più grande che gli accarezzava i capelli - quando Fabrizio entrò in casa.
"Allora, che succede?" chiese entrando in salotto, per poi bloccarsi di fronte alla visione di Ermal con gli occhi lucidi abbracciato a Libero.
"Libero, potresti andare un po' in camera tua? Ci parlo io con papà" disse Ermal.
Il bambino annuì e uscì dal salotto mentre Fabrizio si sedeva accanto a Ermal.
"Che ha combinato?" chiese Fabrizio sospirando.
"La maestra l'ha visto mentre spintonava un compagno e lo chiamava brutto stronzo."
Fabrizio sgranò gli occhi. "Stai scherzando?"
Ermal scosse la testa. "No. La maestra ha detto che è successo altre volte. Non che alzasse le mani, ma che dicesse cose che non avrebbe dovuto dire."
"Ora mi sente..." iniziò a dire Fabrizio alzandosi dal divano.
Ermal lo fermò prendendogli il polso e costringendolo a sedersi nuovamente.
"Bizio, aspetta. L'ha fatto per difendere una sua compagna. Non voglio giustificarlo, ha fatto una cosa che non avrebbe dovuto fare. Però sa di avere sbagliato e si sente in colpa per quello che ha fatto."
Fabrizio si passò una mano sul volto, cercando di trascinare via la stanchezza accumulata nel corso della giornata e pensare in maniera più lucida, ma senza successo.
Come poteva pensare in modo lucido, sapendo che suo figlio aveva spintonato e insultato un coetaneo? Come poteva pensare in modo lucido, sentendosi in colpa per aver coinvolto Ermal in quella storia?
Proprio Ermal, che non tollerava la violenza in nessuna circostanza. Proprio Ermal, che la violenza l'aveva vissuta.
Da quando si conoscevano - e ancora di più da quando avevano iniziato a frequentarsi come più che amici - Fabrizio aveva sempre sentito un fortissimo senso di protezione verso Ermal.
Si sentiva responsabile per lui, sentiva il bisogno di dargli quella sicurezza che non aveva mai avuto da bambino, sentiva la necessità di fargli capire che con lui e con la sua famiglia sarebbe sempre stato al sicuro.
E poi però, era proprio la sua famiglia a far vacillare quell'equilibrio.
Improvvisamente, lo sguardo di Ermal mentre stringeva Libero, gli occhi lucidi e il leggero tremore che continuava ad avere alle mani acquistarono un senso.
"Stai bene?" chiese Fabrizio. Il tono di voce era basso e un po' incerto, ma arrivò forte e chiaro alle orecchie di Ermal.
Ermal annuì.
Fabrizio si avvicinò ulteriormente a Ermal, stringendolo a sé. "Non devi fare il duro. Puoi permetterti di essere debole quando sei con me."
"Lo so. Ma sto bene, davvero. Ho parlato con Libero, l'ho guardato mentre mi spiegava cos'era successo. È davvero pentito per avere reagito così, anche se l'ha fatto per un motivo."
"Non avrebbe dovuto farlo. Non è così che io e Giada l'abbiamo cresciuto."
Ermal gli accarezzò delicatamente una guancia sorridendo. "Sempre ad addossarti il peso del mondo, eh."
"Che vuoi dire?" chiese Fabrizio confuso.
"Ti stai prendendo colpe che non hai. Tu e Giada avete fatto un lavoro splendido con Libero e Anita. Sono due bambini svegli, educati, socievoli... E ok, magari a volte fanno delle cose che non dovrebbero fare. Ma chi non lo fa? Tutti sbagliano, Bizio. L'importante è rendersene conto" disse Ermal.
Fabrizio sorrise.
Ancora non capiva cosa avesse fatto per meritarsi una persona come Ermal al suo fianco.
"T'ho mai detto che ti amo? T'ho mai detto che non so come farei senza di te?" disse Fabrizio con lo sguardo fisso negli occhi di Ermal.
"Tutti i giorni. Ma non mi offendo se lo dici ancora."
  Quando Giada aveva riaccompagnato Anita a casa di Fabrizio e aveva saputo cos'era successo, Libero si era beccato l'ennesima ramanzina della giornata e una punizione non da poco.
Ma, a differenza di tutte le altre volte in cui i genitori lo sgridavano per qualcosa e lui cercava di ribattere, era rimasto in silenzio.
"Sicuro che va bene se resta qui? So che i bambini dovrebbero stare con te in questi giorni, ma magari preferisci..." iniziò a dire Giada, ma Fabrizio la bloccò quasi subito.
"Giadì, i bambini restano. Non ti preoccupare."
Ermal non poté fare a meno di notare lo sguardo preoccupato che Giada gli aveva rivolto.
Certo, era felice che in quella famiglia si preoccupassero tutti così tanto per lui, ma non c'era bisogno di trattarlo con i guanti di velluto ogni volta che c'era di mezzo quell'argomento.
"D'accordo. Se ci sono problemi chiamami" disse lei prima di uscire di casa.
Quando Fabrizio richiuse la porta e tornò in salotto, Ermal era accasciato sul divano e stava passando velocemente da un canale all'altro senza soffermarsi davvero su niente.
Si sedette accanto a lui e abbandonò la testa sulla sua spalla, mentre sentiva il corpo di Ermal rilassarsi accanto al suo.
"Andiamo a dormire?" disse Fabrizio dopo qualche minuto.
Ermal annuì e spese il televisore, mentre Fabrizio si alzava dal divano.
Ermal era ancora seduto quando si accorse che Libero era entrato nella stanza.
"Tutto bene, Lì?" chiese Fabrizio, sorpreso di vederlo ancora sveglio.
Libero annuì e poi si diresse a passo svelto verso Ermal, buttandosi letteralmente tra le sue braccia.
Ermal lo strinse a sé mentre lanciava uno sguardo sorpreso a Fabrizio, senza capire per quale motivo Libero si stesse comportando in quel modo.
"Stai bene?" chiese Ermal abbassando lo sguardo verso Libero.
Il bambino annuì, poi sollevò lo sguardo e disse: "Non è vero che non sei capace a fare il padre. Con me sei bravo."
Poi, senza aggiungere altro, sciolse l'abbraccio e corse in camera sua.
Ermal rimase seduto sul divano, gli occhi lucidi per la seconda volta in quella giornata - sempre a causa di Libero - e lo sguardo di Fabrizio puntato su di sé.
"Hai detto a Libero che non sei in grado di fare il padre?" chiese Fabrizio curioso.
Non sapeva se sentirsi più stupito perché Ermal - la persona che più di ogni altro si inteneriva di fronte ai bambini - fosse convinto di non saper fare il padre, oppure se sentirsi leggermente geloso perché il suo fidanzato aveva scelto di confessare una cosa così intima e personale a suo figlio piuttosto che a lui.
Ermal si strinse nelle spalle. "Non ho figli, quindi è ovvio che io non sappia fare il padre. E non ho avuto un grande esempio, quindi..."
"Quando Anita si è beccata l'influenza, sei stato vicino a lei tutta la notte per assicurarti che non le salisse troppo la febbre. Oggi, quando Libero aveva bisogno di qualcuno che gli spiegasse i suoi errori, tu eri lì. Sei un padre anche se geneticamente non sono figli tuoi. Lo sai, vero?"
Sì, lo sapeva anche se prima di quel momento non se n'era mai reso conto davvero.
Quando lui e Silvia si erano lasciati - e ancora di più quando si era reso conto di essere innamorato di Fabrizio - la prospettiva di diventare padre era svanita.
Non che per Ermal fosse davvero un problema.
Si era autoconvinto di non essere pronto a fare il padre, di non esserne in grado. E poi, avere Fabrizio era più che sufficiente. Non aveva bisogno di altro.
E invece in quel momento, seduto sul divano e con le parole di Libero ancora nelle orecchie, Ermal si rese conto che Fabrizio gli aveva dato qualcosa che nemmeno lui pensava di desiderare così tanto.
Gli aveva dato una famiglia. Gli aveva dato due figli, che pur non essendo davvero suoi erano diventati parte di lui. Gli aveva dato l'amore, la gioia, i regali scartati tutti insieme la mattina di Natale, i pranzi in famiglia. E poi gli aveva dato anche la responsabilità di andare a prendere i suoi figli a scuola, l'autorità di sgridarli se facevano qualcosa di sbagliato e il permesso di metterli in punizione, anche se Ermal non l'aveva mai fatto.
Gli aveva lasciato abbastanza spazio per ritagliarsi dei momenti con i bambini, degli attimi solo per loro, come leggere la favola della buonanotte ad Anita o guardare i film dei supereroi con Libero.
Ed Ermal non ci aveva mai fatto caso. In tutto quel tempo, non si era mai reso conto di essere entrato così tanto nella vita di Fabrizio e di quei due bambini al punto da comportarsi come si sarebbe effettivamente comportato un padre.
Sollevò lo sguardo osservando Fabrizio - che tendeva una mano verso di lui mentre gli chiedeva di andare a dormire - e sorrise.
Era solo grazie a Fabrizio se la sua vita era diventata improvvisamente perfetta.
Afferrò la sua mano e si alzò dal divano, sentendo un familiare brivido lungo la schiena mentre le dita di Fabrizio si intrecciavano con le sue.
"Grazie" mormorò mentre seguiva il più grande in camera da letto.
"Per cosa?"
"Per tutto. Per la nostra canzone, Sanremo, l'Eurovision... Ma soprattutto grazie per i baci, le carezze, le nottate passate al telefono. E grazie per avermi reso un padre."
Fabrizio sorrise avvicinandosi a Ermal e sfiorandogli le labbra in un bacio appena accennato. "Grazie a te per essere il padre che i miei figli meritano."
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thecatcherinthemind · 6 years
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Una storia senza titolo
Quarta parte
“Ero partito di giovedì per risparmiare sul volo” iniziò il ragazzo “perché pensavo di fare una scelta furba. Quando poi mi accorsi che dal sito chiedevano il doppio del costo del biglietto in tasse mi ero sentito un idiota. Però dovevo per forza partire, perché un mio amico si sarebbe laureato in medicina e ci aveva invitati. Io mi sentivo a disagio perché ero l’unico rimasto che doveva ancora laurearsi, sai no, quella sensazione di essere indietro rispetto a tutti quelli che ti circondano?”
“Sì, ho presente” rispose Liz “anche se nel mio caso sono stata io la prima a dare inizio al ciclo delle lauree”
“Ah bene, eri l’amica infame. Il primo a laurearsi è sempre un po’ invidiato e detestato dal gruppo, mi spiace darti questa notizia Liz”
“Lo immaginavo già, caro tizio di cui non conosco il nome perché continua a fare il misterioso” rispose lei “però mi fa piacere che tu ricordi il mio”.
“Mi chiamo Joe” disse lui “ma puoi anche dimenticarlo e chiamarmi come vuoi, tanto non mi fa molta differenza” aggiunse con fare disinvolto e un po’ altezzoso.
“Okay allora procedi, Jennifer” lo sfidò Liz. Se cercava di mostrarsi un uomo al di sopra dei concetti sociali o delle norme del buon costume, stava sbagliano target. Lei era sempre riuscita a cavare sangue da una rapa e a farsi rispettare da tutti, specialmente da coloro che partivano coi peggiori auspici nei suoi confronti.
Joe rise alla risposta della ragazza, apprezzava quel tipo di sarcasmo. “E in cosa ti saresti laureata? Sentiamo”
“Stai insinuando che io stia mentendo? Che motivo avrei di farlo?”
“No no stai serena, non insinuo nulla. Ero solo curioso”
“Ingegneria aerospaziale, al politecnico. Laurea con lode e bacio accademico”
“Veramente?” chiese Joe, strabuzzando gli occhi. Non pensava di avere al suo fianco un genio dell’ingegneria “è per questo che eri così interessata alla storia di mio padre e dei voli?”
“No, assolutamente, io sono una frana in matematica e in analisi. Sono laureata in Lettere classiche con specialistica da bibliotecaria” lo spiazzò Liz. “E comunque volevo sapere di tuo padre solo perché cercavo il nesso col mio computer, cosa che tra l’altro mi aspetto da questa storia della valigia”
Joe era rimasto sconvolto, però era molto divertito “Sei strana...” accennò, poi proseguì. “In pratica avevo messo in valigia i vestiti per la cerimonia di laurea ed ero partito con addosso una maglia e un paio di jeans”
“Che armadio variegato! Indossi i jeans pure ora” lo interruppe Liz “almeno erano jeans diversi?”, ormai si sentiva abbastanza in confidenza.
“No, li ho tenuti sempre addosso per ricordo. Sia mai che una sconosciuta su un volo mi chiedesse questa cosa e io non avessi addosso il mio costume di scena”. La sua risposta rivelava che fosse avvezzo al sarcasmo. “Ad ogni modo” continuò “mi avevano perso la valigia con dentro i vestiti per la cerimonia e io ero andato in crisi. All’inizio non volevo crederci perché queste cose capitano sempre agli altri”
“Capitano sempre a quelli seduti al tuo fianco...”
“Allora mi sa che oggi tocca a te” rispose lui. A quelle parole Liz si fece preoccupata in volto “No aspetta” cercò di rimediare Joe “facciamo oggi che tocca al tipo accanto a me”
“Ma accanto a te non c’è nessuno”
“Appunto, è un giorno fortunato oggi”
“Quindi che è successo? Cioè come l’hai recuperata?”
“Con l’amarezza addosso e con centosettanta euro in meno in tasca”
“Costa così tanto far recuperare una valigia?!”
“No, costa così tanto procurarsi un vestito elegante ed un paio di scarpe per una cerimonia di laurea in Spagna, ecco cosa. E mi sono persino accontentato di un vestito grigio, quando è un colore che considero deprimente e triste. So che è strano, ma in molti abbiamo un colore che odiamo profondamente”
Liz sorrise, pensando al proprio odio per il colore verde. Era strano trovare qualcun altro che la pensasse come lei, solitamente le persone hanno il colore preferito, ma lui era diverso dagli altri e loro due erano fin troppo simili. Un brivido le percosse la schiena, ma lasciò spazio alla curiosità.
“Ecco, il mio arcinemico è il grigio. Che schifezza quel completo, se ci penso avrei preferito che perdessero me in aeroporto anziché i vestiti”
“Ma poi come è andata a finire?”
“Sono riuscito a recuperarla, ma la parte assurda è che dentro mancava una scarpa. Io sono sicurissimo di averla messa, perché ho avvolto le scarpe in due tessuti protettivi separatamente, ma ricordo di averle sistemate con le suole che si toccavano, sotto un asciugamano e accanto al beauty case”
“Viaggi col beauty case? Io lo trovo scomodissimo, come fai?”
“Basta metterlo nella valigia, come fai tu a trovarlo scomodo?”
“Non c’è mai posto, il beauty implica di dover trovare uno spazio fisso perché è grosso”
“E scusa, dove metti le cose che ti servono?”
“In valigia” rispose Liz, esprimendo in volto l’ovvietà della risposta.
“In valigia sparse?”
“No, nelle tasche interne”
“Tasche interne? Ma che valigie usi?”
“Valigie normalissime, che significa che valigie usi? Mica devo avere piccole valigette nella valigia grande, altrimenti mi porto in giro una matriosca, non un bagaglio”
“E come trovi le cose, scusa?”
“Aprendo le cerniere”
“Tu sei strana forte...” disse Joe scuotendo la testa.
“Ah io sono strana? Non tu che imbarchi una scarpa sola?” disse Liz ridendo.
“Ma te l’ho detto, io ho messo il paio in valigia, me ne hanno rubata solo una!”
“E questa sarebbe la storia incredibile?”
“Ti sembra normale che io apra una valigia e ci ritrovi una sola scarpa? Cioè il fermacravatta era ancora lì ma la scarpa no”
“Il fermacravatta?!” esclamò Liz  “Ma dove vivi? E soprattutto quando? In che epoca?”
“Nella stessa in cui evidentemente era più appetibile una scarpa sinistra, che ti devo dire?” rispose con voce rassegnata ma divertita.
La voce del comandante avvertì della velocità di volo e della quota. Mancava meno di un quarto d’ora all’arrivo e dovevano prepararsi all’atterraggio.
“Che fortuna, nessuna turbolenza!” esternò una signora dietro di loro.
“Signora stia zitta che qui porta sfiga a tutti” rispose da davanti un uomo, con la voce forte e ben udibile. Ci furono risate generali, qualcuno esclamò “ecco, adesso cadiamo!”, un altro rispose “ma cadesse tua sorella” e in poco tempo si sentì un vociare generale, seguito da urla e fischi.
La ragazza dagli occhi di ghiaccio dovette intervenire per calmare gli animi, spiegando che la situazione fosse più che sicura e che il pilota avesse decennale esperienza,ma qualcuno pensò bene di affidare le sue speranze a chi poteva garantire più salvezza del giovane uomo alla guida: “Padre nostro” iniziò un uomo seduto dietro Joe “che sei nei cieli” aggiunse la moglie al suo fianco; la preghiera continuò nell’alternanza di battute tra i coniugi, come se stessero recitando una parte in un telefilm.
Nel frattempo LIz e Joe cercavano di non ridere, ma erano visibilmente divertiti. Si scambiavano occhiate di complicità e con dei gesti, il più possibile segreti al resto dei viaggiatori, indicavano le persone più assurde che prendevano parola. Un uomo iniziò persino a criticare il governo per le manovre sull’educazione, ma i due erano troppo presi dalle proprie risate per capire da dove quel discorso fosse partito. 
“Ma è sempre così viaggiare soli in aereo?” chiese Liz, appena il caos fu placato.
“Che ne so” Joe stava ancora ridendo ”io di solito metto la musica o leggo, è la prima volta che mi ritrovo con le orecchie libere”
“Seriamente hai sempre la musica nelle orecchie?”
“Sì, è una mia deformazione professionale”
“Ma senti come parli, manco fossi un bassista di fama mondiale” iniziò a schernirlo Liz “Un progetto underground, una cosa tra amici. Ma cammina, che ancora un po’ parli solo di musica”. Joe sembrava divertito da quelle parole, lei continuò “e poi, vorrei capire, oltre a giudicare la gente dall’ordine della valigia e ad ascoltare musica cosa fai nella vita?”
“Assolutamente nulla di interessante, dottoressa. Dopo la laurea in economia pensavo di continuare gli studi magistrali in economia bancaria, ma ho lasciato perdere e ho cercato un lavoro”
“Beh ottimo, che lavoro fai?”
“Sono disoccupato, altrimenti non sarei su questo aereo”
Liz non capiva, quindi chiese ulteriori chiarimenti “Cioè siamo tutti disoccupati qui sopra? Mi stai dicendo che siamo stati selezionati per un folle reality show sulla gente che va in crisi in aereo per cose random?” aggiunse, cercando di portare il discorso su un argomento divertente.
“No” rispose lui serio “intendo dire che sto andando a un colloquio di lavoro, perché il mio curriculum sembrava interessante per un’azienda che mi ha selezionato online. Ho passato la selezione, superato i primi step e il colloquio conoscitivo su internet e adesso vogliono vedermi”
“Su internet?”
“Adesso si usano tantissimo le piattaforme, anche per il lavoro”
“Ed eri vestito come adesso? Cioè jeans e maglione sgualcito?”
“No, avevo la giacca. Infatti in valigia ho messo il cambio...”
“Sempre che arrivi tutto a destinazione stavolta” aggiunse Liz.
“Stavolta mi sono fatto furbo e ho legato le scarpe insieme, avvolgendole in un sacchetto di stoffa. Almeno se devono prenderne solo una, avranno vita difficile”
“Il fermacravatta l’hai messo?”
“Spiritosa...”
“No, davvero. Ad un colloquio ha senso, sempre che tu non stia facendo domanda per fare il cuoco o il cameriere, a quel punto tienilo solo come portafortuna in tasca”
“Sicuro con una laurea in economia non mi sposto in aereo per fare un colloquio da cameriere” disse Joe. Poi sospirò e aggiunse “ancora non sono arrivato a tanto e posso permettermi di evitarlo, per ora”.
Il segnale delle cinture si accese e l’aereo iniziò la fase di atterraggio. Erano trascorse oltre due ore, ma sembravano passati pochi minuti talmente il viaggio era stato piacevole. Liz osservò la terraferma dal finestrino, ammirando l’immensità di un lago che ricopriva gran parte del paesaggio, la bellezza dei grattacieli che sembravano piccoli quadrati su una cartina geografica; sentiva il cambiamento di pressione, che le faceva percepire il mondo come ovattato.
Una volta atterrati, i due rimasero seduti e lasciarono defluire la massa. Joe recuperò lo zaino e prese il bagaglio di Liz, aiutandola a uscire dal suo posto in fondo alla fila; furono gli ultimi a scendere dall’aereo. Continuarono a parlare per qualche minuto finché non passarono davanti alla toilette. “Perdonami” disse Liz “ma devo andare assolutamente in bagno e mi sembra scortese dirti di aspettarmi. Direi che ci dobbiamo salutare”. 
“Se il tuo problema è farmi aspettare, non preoccuparti; se invece vuoi che ci salutiamo, apprezzo la tua gentilezza nel non mandarmi a quel paese e accetto di buongrado il tuo addio”
“No no figurati” cercò di giustificarsi lei “anzi, mi farebbe piacere fare ancora due chiacchiere. Se non ti sembra assurdo attendere fuori dal bagno, allora ti chiedo qualche minuto di pazienza”
“Allora ne approfitto e vado anche io. Ci vediamo qui fuori a breve”
“Perfetto”
(fine quarta parte)
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allecram-me · 7 years
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Cinque anni al mondo
Giorni che chiamarli densi è dire poco. Qualche minuto fa mia madre è entrata nella mia stanza sventolando un foglio A4 mezzo ingiallito. Scritto a macchina e con una serie di errori corretti a penna, è datato al giorno del mio primo compleanno; il titolo: – LA NIPOTE MARCELLA –. Mio nonno paterno scriveva un sacco di cose, a quanto pare, gli piaceva tenere traccia degli eventi, sia di quelli personali sia di quelli collettivi, non importava se interessassero l’intera nazione o soltanto la sua comunità. Con la famiglia di mio padre non ho coltivato esattamente un buon rapporto: sono sempre stata convinta che non mi somigliassero affatto - leggi: di non somigliare affatto a loro. In questo foglio mio nonno descrive la festa, la sicurezza con la quale ho spento le mie prime candeline, la famiglia unita come non l’ho mai potuta ricordare. Da quel foglio io emergo come una persona amata, in un clima d’amore. 
Mio nonno paterno è morto quando avevo tre anni, non ricordo nulla di lui. Mi hanno detto che eravamo molto legati, che giocavamo insieme per ore ed ore e che lui stravedeva per me. Io non lo so davvero, ho smesso di omaggiare una figura che non conosco; l’ho fatto per un po’ da piccola, quando quel che rimaneva della sua famiglia mi ha insegnato l’espressione dolcemente triste da sfoggiare quando si parlava di lui. Oggi mi sentirei stupida nel parlarne, quel modo di pensarlo e quell’espressione significano poco per me, soprattutto perché di quella famiglia in festa non resta davvero più nulla e sono ormai anni che mi dico che l’unica vera eredità di cui mi abbiano fatto lascito è quella che io giudico una poco velata propensione alla pazzia. 
Improvvisamente, però, inizio a pensare che ci sia qualcosa che mi è sfuggito per tutto questo tempo, qualcosa che mi sfugge sempre a causa di questo mio maledetto bias all’autocommiserazione e della mia propensione costante a pensarmi minuscola. Magari per il fatto che lunedì ho illustrato la mia presentazione al corso e mi hanno definita carismatica, o forse perché in questa settimana non c’è stata una sola lezione durante la quale, per un motivo o per un altro, io non mi sia trovata a dovermi alzare per rimanere in piedi davanti alla cattedra e parlare convogliando l’attenzione generale. Un'attività del tutto inaspettata, ieri, mi ha vista dover condurre una chiacchierata di presentazione con un tizio a me completamente sconosciuto, al termine della quale - con nostra grande sorpresa - ci è stato chiesto di presentarci a vicenda, scambiandoci i ruoli. Ho parlato con quel ragazzo solo per quindici minuti, con naturalezza ed in maniera come al solito franca, e lui poi ha detto delle cose davvero meravigliose di me. Il genere di cose, sono sicura, che dicevano di mio nonno, le cose che hanno sempre raccontato a me di lui. Lo stesso genere di cose che mi sento dire con frequenza variabile da più o meno una vita, le cose sulle quali sarebbe semplice e giusto farmi forza, piuttosto che annaspare ancora in questo continuo bisogno di ridefinizione del mio valore e di quello delle cose che faccio.
Lui se n’è andato ancora, comunque. Lui è il mio lui, non lo sconosciuto dell’altro giorno. L’ho mandato io via, certo, ma è stato soltanto perché lui non ha potuto riuscirci da solo. Lo sappiamo entrambi, l’abbiamo reso tristemente esplicito. Nei cinque infiniti anni passati insieme, anche i suoi occhi mi hanno sempre dipinta come una indiscutibile meraviglia, eppure a quanto pare nemmeno questo mi è servito. Mio nonno che parla della mia crescita caratterizzata da grazia e simpatia è altrettanto lontano, non lo conosco. I miei colleghi di corso, i professori, il barista di fiducia, le persone con le quali parlo: tutto questo rimandarmi un’immagine di bene non mi porta comunque nulla. E’ una bellezza che, se esiste, va sprecata. Di questi presunti talenti, a quanto si vede, io non so farmene nulla.
Oggi al laboratorio sul colloquio clinico c’è stata l’apoteosi. Per la prima volta in vita mia ho accettato di improvvisare, sono andata al centro del cerchio con due miei amici ed ho fatto la mia parte, ho dato corpo alla storia che avevamo iniziato ad inventare: il tratteggio iniziale - ad un certo punto tu fai questo, deve capirsi quest’altro, ecc - è diventato fatto nei miei gesti, e nelle poche parole che ho scelto di pronunciare. E’ andata davvero bene, ho percepito la partecipazione di tutti, i loro occhi scottavano sulla mia pelle e le emozioni che mi rimandavano erano lo specchio delle mie. Non pensavo avrei avuto mai il coraggio di arrivare a tanto.
Nel ruolo che mi era stato assegnato, ero una bambina di cinque anni. Quello che posso fare, la bellezza che si trova ad un passo dai miei vecchi ed autoimposti limiti: terrificante.  A mio nonno essere brillante e stimato sarà servito a qualcosa?
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edenlyeden · 4 years
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.       📽️  𝐩𝐞𝐧𝐬𝐢𝐞𝐯𝐞           #𝖽𝖺𝗇𝗀𝖾𝗋𝗈𝗎𝗌𝗁𝗉𝗋𝗉𝗀                     ⤸         Che Eden Ambrose fosse una bambina particolare si era capito dal giorno in cui era nata, quando con un singolo urlo nemmeno troppo definito zittì il nido pieno di mocciosi piagnucolanti.  «  Ella es realmente especial.  »  commentò papà Martin, gli occhi pronti a riversare cascate di lacrime per la gioia di aver per figlia un frugoletto - che, per la cronaca, in quel momento stava cercando di mangiarsi un piede - tanto eccezionale.   «  Ha Mercurio in Leone, la sua loquacità è incisiva — questa ne è la prova: una "parola" e 𝙗𝙖𝙢, zitti tutti.  »  aggiunse mamma Leah, il naso schiacciato contro il vetro. Doveva essere un buffo spettacolo, vista dal lato opposto.  «  Probabilmente sarà una buona leader.  »   «  Secondo me, sarà soltanto una 𝘳𝘰𝘮𝘱𝘪𝘤𝘢𝘻𝘻𝘰.  »   Il corridoio del piccolo ospedale congolese si riempì delle risate della famiglia, inconsapevole di quanta verità fosse stata appena professata con quella battuta da papà Aurelius: ma questa è un'altra storia, perché qui preme raccontare di quanto siano state anticipatrici le parole del primo genitore.   Eden Ambrose cominciò a capire di essere diversa quando aveva all'incirca quattro anni, e non perché, terribilmente affamata, fece levitare fino alla sua personcina il pacco di biscotti che papà Hugh aveva nascosto in alto: sapeva da tempo che con buonissima probabilità anche lei avrebbe potuto compiere magie mirabolanti esattamente come due dei suoi papà, le mamme e Layla (divertente l'episodio in cui fece esplodere la tazza del bagno perché vuoi metterla a paragone col vasino a forma di occamy?! Lei lo avrebbe usato per sempre, i genitori erano così stupidi a credere che avrebbe apprezzato il cambiamento senza alcun drama), quindi non ne era affatto sconvolta; ma arrivare a sentire emozioni così contrastanti da farle venire voglia di rifugiarsi nella casetta sull'albero completamente da sola?! Decisamente preoccupante, soprattutto perché non riusciva a spiegarsi che cosa le stesse succedendo: Layla era triste, Olivia arrabbiata per chissà che cosa e Violet un concentrato di spensieratezza e adorazione per il nuovo pony appena arrivato a casa; Eden, dal canto suo, percepiva tutte le sensazioni sopraccitate 𝘢𝘻𝘻𝘶𝘧𝘧𝘢𝘳𝘴𝘪 in lei così ardentemente da alienarla, lasciandole come proprio soltanto il desiderio di scappare. Mamma Ester ci mise poco a trovarla, rannicchiata sul fianco destro a passare compulsivamente tra pollice e indice la leggera stoffa della canottiera verde menta: non parlarono dell'accaduto, perlomeno per quel pomeriggio, e la donna si limitò ad accogliere la testa della figlia sulle proprie gambe per accarezzarne i capelli scuri.   Eden Ambrose apprese di essere 𝘥𝘢𝘷𝘷𝘦𝘳𝘰 diversa soltanto qualche anno dopo, però, quando tutta quell'apparente calma che aveva conquistato con tempo e fatica svanì e lei fu in grado di 𝘴𝘦𝘯𝘵𝘪𝘳𝘦 di nuovo, in un modo del tutto diverso. Si dice che, quando qualcuno a cui vuoi davvero bene soffre, quel dolore diventi anche tuo; 𝘭𝘦𝘵𝘵𝘦𝘳𝘢𝘭𝘮𝘦𝘯𝘵𝘦, in questo caso: abbracciò Lorcan e, nel momento in cui le loro guance si toccarono, la sofferenza per la perdita del nonno, la convinzione di esserne il colpevole pian piano trasmigrarono in Eden. Quel che lei ancora non sapeva è che, allo stesso tempo, una sensazione di tepore e ristoro si impadroniva momentaneamente del giovane Scamander, rendendogli difficile sottrarsi a quel contatto nonostante la neonata paura causatagli dal trauma subito.   Seppe dare un nome a ciò che le accadeva dopo qualche mese e qualche ricerca svolta col supporto della famiglia, quando arrivò a colloquio con Dedalus Goldstein, il primo magipsicologo ad aver analizzato il potere di cui la natura aveva deciso di farle dono: 𝙀𝙢𝙥𝙖𝙩𝙞𝙖, si chiamava, ed era così raro da conteggiare soltanto tre - compresa lei - portatori viventi. Gli altri due, di gran lunga più avanti con gli anni, erano finiti con l'impazzire e il cercare più volte la morte — dato rassicurante, senza dubbio alcuno.   «  Bada bene di non abusarne:  »  l'ammonì durante uno degli ultimi incontri, quando ormai la ragazzina padroneggiava bene sia il proprio scudo psichico sia la connessione con un eventuale individuo bersaglio al quale alterare lo stato d'animo. Tolse gli occhiali e la osservò con l'aria di chi stava per svelare un grave segreto, dal quale poteva persino dipendere la vita di qualcuno.  «  È tanto utile quanto pericoloso. Potrebbe sembrare semplice, talvolta persino divertente, specialmente quando vuoi strappare qualche permesso ai tuoi genitori o coprire qualche marachella, ma un eccesso di sensazioni, soprattutto quelle negative, può condurti alla disperazione in un battito di ciglia. Non abbassare le tue difese, non farti carico delle emozioni che non ti competono soltanto perché desideri di fare del bene: una volta sprofondata nell'oblio, è difficile, se non impossibile, tornare indietro.  »      Parole che non ha mai rivelato a nessuno, parole che silenzia ogni volta che 𝘴𝘤𝘦𝘨𝘭𝘪𝘦 di afferrare, condividere, nullificare il parassita che si nutre del benessere dei suoi affetti. E che per questo merita di essere preso a calci nel culo: perché Eden Ambrose dice di essere distratta, poco incline alle sdolcinatezze, di non prendere niente sul serio, ma farebbe davvero qualsiasi cosa per le persone che ama. E rischiare la propria salute mentale non fa eccezione.
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.             ╰ 𝐩𝐞𝐧𝐬𝐢𝐞𝐯𝐞!                 🔗 #𝖽𝖺𝗇𝗀𝖾𝗋𝗈𝗎𝗌𝗁𝗉𝗋𝗉𝗀                         ・・・         Che Eden Ambrose fosse una bambina particolare si era capito dal giorno in cui era nata, quando con un singolo urlo nemmeno troppo definito zittì il nido pieno di mocciosi piangenti.  «  Ella es realmente especial.  »  commentò papà Martin, gli occhi pronti a riversare cascate di lacrime per la gioia di aver per figlia un frugoletto - che, per la cronaca, in quel momento stava cercando di mangiarsi un piede - tanto eccezionale.   «  Ha Mercurio in Leone, la sua loquacità è incisiva — questa ne è la prova: una "parola" e 𝙗𝙖𝙢, zitti tutti.  »  aggiunse mamma Leah, il naso schiacciato contro il vetro. Doveva essere un buffo spettacolo, vista dal lato opposto.  «  Probabilmente sarà una buona leader.  »   «  Secondo me, sarà soltanto una 𝘳𝘰𝘮𝘱𝘪𝘤𝘢𝘻𝘻𝘰.  »   Il corridoio del piccolo ospedale congolese si riempì delle risate della famiglia, inconsapevole di quanta verità fosse stata appena professata con quella battuta da papà Aurelius: ma questa è un'altra storia, perché qui preme raccontare di quanto siano state anticipatrici le parole del primo genitore.   Eden Ambrose cominciò a capire di essere diversa quando aveva all'incirca quattro anni, e non perché, terribilmente affamata, fece levitare fino alla sua personcina il pacco di biscotti che papà Hugh aveva nascosto in alto: sapeva da tempo che con buonissima probabilità anche lei avrebbe potuto compiere magie mirabolanti esattamente come due dei suoi papà, le mamme e Layla (divertente l'episodio in cui fece esplodere la tazza del bagno perché vuoi metterla a paragone col vasino a forma di occamy?! Lei lo avrebbe usato per sempre, i genitori erano così stupidi a credere che avrebbe apprezzato il cambiamento senza alcun drama), quindi non ne era affatto sconvolta; ma arrivare a sentire emozioni così contrastanti da farle venire voglia di rifugiarsi nella casetta sull'albero completamente da sola?! Decisamente preoccupante, soprattutto perché non riusciva a spiegarsi che cosa le stesse succedendo: Layla era triste, Olivia arrabbiata per chissà che cosa e Violet un concentrato di spensieratezza e adorazione per il nuovo pony appena arrivato a casa; Eden, dal canto suo, percepiva tutte le sensazioni sopraccitate 𝘢𝘻𝘻𝘶𝘧𝘧𝘢𝘳𝘴𝘪 in lei così ardentemente da alienarla, lasciandole come proprio soltanto il desiderio di scappare. Mamma Ester ci mise poco a trovarla, rannicchiata sul fianco destro a passare compulsivamente tra pollice e indice la leggera stoffa della canottiera verde menta: non parlarono dell'accaduto, perlomeno per quel pomeriggio, e la donna si limitò ad accogliere la testa della figlia sulle proprie gambe per accarezzarne i capelli scuri.   Eden Ambrose apprese di essere 𝘥𝘢𝘷𝘷𝘦𝘳𝘰 diversa soltanto qualche anno dopo, però, quando tutta quell'apparente calma che aveva conquistato con tempo e fatica svanì e lei fu in grado di 𝘴𝘦𝘯𝘵𝘪𝘳𝘦 di nuovo, in un modo del tutto diverso. Si dice che, quando qualcuno a cui vuoi davvero bene soffre, quel dolore diventi anche tuo; 𝘭𝘦𝘵𝘵𝘦𝘳𝘢𝘭𝘮𝘦𝘯𝘵𝘦, in questo caso: abbracciò Lorcan e, nel momento in cui le loro guance si toccarono, la sofferenza per la perdita del nonno, la convinzione di esserne il colpevole pian piano trasmigrarono in Eden. Quel che lei ancora non sapeva è che, allo stesso tempo, una sensazione di tepore e ristoro si impadroniva momentaneamente del giovane Scamander, rendendogli difficile sottrarsi a quel contatto nonostante la neonata paura causatagli dal trauma subito.   Seppe dare un nome a ciò che le accadeva dopo qualche mese e qualche ricerca svolta col supporto della famiglia, quando arrivò a colloquio con Dedalus Goldstein, il primo magipsicologo ad aver analizzato il potere di cui la natura aveva deciso di farle dono: 𝙀𝙢𝙥𝙖𝙩𝙞𝙖, si chiamava, ed era così raro da conteggiare soltanto tre - compresa lei - portatori viventi. Gli altri due, di gran lunga più avanti con gli anni, erano finiti con l'impazzire e il cercare più volte la morte — dato rassicurante, senza dubbio alcuno.   «  Bada bene di non abusarne:  »  l'ammonì durante uno degli ultimi incontri, quando ormai la ragazzina padroneggiava bene sia il proprio scudo psichico sia la connessione con un eventuale individuo bersaglio al quale alterare lo stato d'animo. Tolse gli occhiali e la osservò con l'aria di chi stava per svelare un grave segreto, dal quale poteva persino dipendere la vita di qualcuno.  «  È tanto utile quanto pericoloso. Potrebbe sembrare semplice, talvolta persino divertente, specialmente quando vuoi strappare qualche permesso ai tuoi genitori o coprire qualche marachella, ma un eccesso di sensazioni, specialmente quelle negative, può condurti alla disperazione in un battito di ciglia. Non abbassare le tue difese, non farti carico delle emozioni che non ti competono soltanto perché desideri di fare del bene: una volta sprofondata nell'oblio, è difficile, se non impossibile, tornare indietro.  »      Parole che non ha mai rivelato a nessuno, parole che silenzia ogni volta che 𝘴𝘤𝘦𝘨𝘭𝘪𝘦 di afferrare, condividere, nullificare il parassita che si nutre del benessere dei suoi affetti. È che per questo merita di essere preso a calci nel culo: perché Eden Ambrose dice di essere distratta, poco incline alle sdolcinatezze, di non prendere niente sul serio, ma farebbe davvero qualsiasi cosa per le persone che ama. E rischiare la propria salute mentale non fa eccezione.
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viaggiatricepigra · 8 years
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Cinquanta sfumature di....orrore!
Avvertenza! Massacrerò il film. Non me ne frega nulla se per voi è il capolavoro assoluto, la storia d'amore più bella del mondo..... 
fa cagare! Come pellicola e (sopratutto) come contenuti. E ne parlerò in questi termini, senza filtri, quindi: Sappiatelo! 
Se volete discutere, contattatemi e lo farò volentieri. 
Ma polemiche sterili nei commenti non ne voglio, 
perchè più di "Ma sei tu che non lo capisci, lei lo ama" non sapete argomentare.
Ps. Se davvero credete sia amore, fatevi vedere da qualcuno di bravo!
Detto ciò, non mi scaglio contro chi ha un cervello e lo guarda anche con occhio critico, perchè i gusti sono gusti...ma di partenza non doveva essere proprio girato o almeno modificato in moltissime parti, perchè nelle mani di chi è influenzabile o giovane poi può finir male. 
Stalking e possessività non sono sinonimi di amore, nessuno guarisce magicamente e nessuno cambia per nessuno. Mai.
Punto.
Visto il "leggero bombardamento" sotto san Valentino per il secondo capitolo di questa  (inutile) trilogia, mi sono detta: Mah si, guardiamo il primo! Tanto non sarà peggio del libro (errore!).... Mi farò qualche risata (grande errore!). Così l'altra sera mi sono messa a vedere uno dei film più lunghi, noiosi e...insulsi che abbia visto. Si, devo essere masochista! Perché "dovevo" resistere fino alla fine (anche se ammetto che quando mancava mezz'ora ho iniziato a saltare e andare avanti alcune scene in cui non succedeva nulla) 
Iniziamo dalla presentazione dei due personaggi: più banale di così si muore, il parallelismo di lui bello-bello e lei "bruttina" con dei capelli che ti chiedi se sia una brutta parrucca (tagliata anche male) e se li pettini almeno una volta in tutto il film.
Non so se sia il doppiaggio italiano (e no! Non lo riguardo in lingua originale!) ma ogni volta che lei apre bocca la vuoi prendere a sberle. Sussurra, non parla. 
Per.Tutto.Il.Cazzo.Di.Film. È insopportabile. Se l'attrice è stata davvero così brava da riportare sullo schermo un personaggio così insulso, inutile, stupido, e darne tutte le sue "sfumature" merita un Oscar. 
Altrimenti se non ha recitato....aiutatela! 
  Lui....boh! Ha la stessa espressione per tutto il film! Penso non sia un problema per certo pubblico perché compensa togliendosi i vestiti in quasi ogni scena. 
Bella mossa regista, distrarre con l'inganno dallo schifo proponendo sesso facile....ma almeno fosse bel sesso! Si sono impegnati, ma i montaggi diventano sempre più ridicoli verso la fine....
Grazie a Dio che non fai porno, ma una piccola consulenza non avrebbe fatto male. 
Inizio Ma ritorniamo alla storia, che mi sto perdendo. Questo essere entra nell'enorme "Grey House" (o come cavolo si chiama il suo palazzo) e si trova davanti una schiera di bionde assistenti robot, che la terrorizzano. 
Ovvio, è vestita malissimo e nelle scene appena successive va in università vestita molto meglio: "tesoro", perché?!? Ok che devi fare la piccola innocente brutta anatroccola ma....porca miseria! 
Un po' di amor proprio? No?! 
Persino quella de "Il Diavolo Veste Prada" che si presenta in un ambiente di moda è conciata meglio!
Quanto avrei voluto Miranda con il suo sguardo spietato a distruggerla....
Va beh, deve intervistarlo ma (il genio) non ha mai letto le domande che deve fargli. 
E questa fa l'università....e sarebbe pure una intelligente! Ok, devi sostituire la tua amica, ma per evitare una figura di merda, provarle a casa? Sei così sicura?! Stendiamo un velo pietoso quando lui le regala una matita "Grey" che inizia a morricchiare e passarla sulle labbra risvegliando magicamente interesse in lui, che inizierà a fargli da stalker e il nostro anatroccolo ci casca come una pera cotta!
Ferramenta Ovviamente la nostra Ana è triste e sconsolata, non vedrà più il suo Christian...ma un giorno lo trova nel posto dove lavora. Una ferramenta. Esatto! Ma lei vive nelle nuvolette, è il destino e non importa se compra ciò che farebbe impallidire Dexter, lei sogna....
Vanno a bere qualcosa e non importa se lui le apre la merendina come ad una bimba di 3 anni e le ordini "mangia" mentre pretende i dettagli della sua vita  (quante volte va al bagno no?), ma qualcosa disturba il "povero" Chris, che scappa via perché lui non la merita, deve starle lontano (tutto ciò accarezzandole la faccia, che lei sembra venirgli tra le dita....boh) Qui dovrebbe scattare il primo campanello d'allarme: uno sconosciuto "per caso" si trova dove lavori, forse forse tanto caso non è...se poi è straricco, qualcosa puzza.
La sbronza Dopo questo tira e molla la coinquilina la porta a divertirsi con gli amici. Lei sbronza marcia va in bagno e in quei 5 minuti in cui la perdono di vista lo chiama:"Pappappero sono ubriaca, tu sei scemo ad ordinarmi le cose, non sono un cagnolino" Fatela bere! Se un po' di alcool le fa funzionare il cervello, Fatela bere sempre! Ovviamente lui la stalkera e in tempo zero è al locale. Come diavolo ha fatto? Neanche la CIA traccia così i narcotrafficanti, scappa! Invece no. Nel frattempo il suo "migliore amico" ci prova, palese ma lei è scema, e deve intervenire lui a separarli. Allarme numero due! Poi ti riporta a casa e l'amica gli da il permesso (lei no). Enorme allarme! Primo: che amica di merda hai? Secondo: ma vai a casa con uno che non conosci?
Il risveglio Il giorno dopo apre gli occhi e si ritrova in una camera mai vista. Con abiti non suoi addosso. Trova sul comodino delle pillole ed un bicchiere con scritto "Mangiami" "Bevimi", che Alice scansati proprio. ....e lei? Butta giù tutto!!!! Ma che diavolo ti dice la testa? Potrebbe essere qualunque cosa?!?
Lui torna, le ordina di mangiare e se ne esce con una frase del tipo "se fossi mia (e fossi stata ubriaca) non saresti riuscita a sederti per una settimana" Ma questa inquietante minaccia passa in secondo piano perché si toglie la maglietta e lei si disconnette ancora di più dalla realtà.
"Sono vergine" Dopo non so più che scena, tornano a casa di lui e le fa firmare un  contratto di segretezza, perché l'avvocato lo pretende (e capiremo a breve il perché) e lei se ne esce con "quindi ora farai l'amore con me?" Tipo cucciolo bisognoso di coccole.
E lui, con sguardo truce:"Io non faccio l'amore. Io scopo. Forte" Eccitazione, dove sei? 
La mia è scappata a vomitare in bagno.
Visto che non ci arriva che non è "normale", (lui la prende con la manina) le mostra la camera dei giochini e inizia a spiegarle la sua versione del sesso, ovvero dovrebbe essere il BDSM ma non ha NULLA a che fare con quella pratica molto intima e profonda. È un narcisista e maniaco del controllo. Punto.
Le chiede che limiti ha, per capire se potrebbe reggere nel suo mondo e lei pare non abbia mai neanche baciato nessuno. Quando capisce che è vergine, lui cosa fa? La porta a letto e fanno l'amore!
Scusami, ma se non vivi il sesso se non estremo, cosa stai facendo? Sei scemo! Un egoista del cazzo che pretende la sua verginità e basta. 
Almeno la scena è ben girata. Non molto erotica, ho visto pubblicità più stimolanti, ma almeno fatta bene.
Il contratto
Lui le regala un computer nuovissimo, perchè il suo non funziona più, chiedendole di indagare per bene riguardo il contratto, se avesse dubbi. 
Ma oltre alle pratiche sessuali lui vuole in controllo assoluto sulla sua vita: le dice da che medico deve andare per prendere i contraccettivi che lui le ordinerà; che dieta dovrà seguire; che allenamenti dovrà fare; in che orari dovrà andare a casa sua;..... E' pazzo, stop!
  In ogni caso, lei "pretende" un colloquio di "lavoro" per parlarne con lui in ufficio. 
Lei parte forte e determinata, si siedono e lei inizia a mettere in chiaro cosa potrebbe fare e cosa no. 
Fin quì tutto ok, ma c'è uno scambio di battute che (giuro) mi volevo mettere le mani nei capelli.
Lei gli dice di andare a pagina X e dove c'è scritto fisting vaginale e anale di cancellarlo. 
Poi gli fa voltare pagina e dice una cosa come: "Spiegami cosa vuol dire dilatatore anale"
....scusa?!?
Sai cosa vuol dire fisting e non dilatatore?!? 
Sei seria???
Non ci arrivi neanche facendo 2+2?!?
Ma hai giocato a solitario col pc nuovo, visto che le immagini delle donnine legate (a quanto pare l'unica ricerca che ha fatto) ti hanno spaventato?
Comunque alla fin fine lui deve revisionare il contratto per farglielo firmare, le fa delle proposte (neanche tanto osè) e lei....scappa.
Ovviamente poi la storia va a cazzo!
Non ha un senso logico perchè lui vuole che lei firmi, lei non sa cosa fare e lui....ci fa sesso ad ogni occasione per spignerla a firmare! 
Molestie? Stolking? 
Nooooo, è innamorato! Non vuole la sua vagina...ops! Farfallina....
Vi parlo di alcune scene che sono allucinanti. 
Che ci fai nel mio appartamento?
Eh si, ad un certo punto la nostra Ana rientra a casa e si trova Grey che tranquillamente la attende con champagne e roba varia.....ma cazzo, scappa! 
Stanno suonando non più le campanelle, ma allarmi e forti. 
Te lo ritrovi in casa, e la reazione? 
Legami e facciamo sesso....
La macchina
Perchè lei è povera, deve esserlo o non sarebbe vero amore, quindi gira con una cosa talmente vecchia che neanche i miei nonni avrebbero avuto come prima auto e che credo gli costi più in benzina e sistemazioni varie che a cambiarla. Ma sappiamo quanto sia intelligente.
Christian che ci tiene a lei, dopo la sua laurea, le regala un'auto nuova di zecca!
E quella vecchia? L'ha venduta.
Ora, la reazione normale sarebbe shock e rabbia. Come si permette di rubare e vendere l'auto di un'altra persona?
Invece no! Cuoricini, perchè è premuroso...ma vaff.....
ANZI! 
Lui si offende perchè lei alza gli occhi al cielo e quindi deve essere punita.
Ma lei (scema come un piccione) non capisce che non deve ridere, e si becca qualche leggera sculacciata sul culo. Ovviamente va in brodo di giuggiole.
Ne ho viste di peggiori e forti sui bambini dispettosi in giro, che neanche hanno dato soddisfazione alle mamme di piangere o fare versi, e questa per una carezza a momenti viene.....
Fantasy proprio.
Comuqnue persino la coinquilina quando Ana torna a casa e vede le chiavi le dice di stare attenta e andarci coi suoi tempi, la versione addolcita di "che cazzo stai facendo?".
  Altro sesso inutile 
Esatto, perchè nonostante lei abbia detto chiaramente che non voglia essere appesa, lui la appende!
Mi pare logico, tanto lei non è una persona che meriti rispetto e che vada ascoltata. 
Non ha ancora firmato il contratto, quindi non ci sono taboo, evvai! 
Bendiamola e leghiamola al soffitto! 
Lasciamo stare le varie scene in cui la benda e sfiorandola con oggetti vari, da una piuma al frustino, lei sembra venire ad ogni tocco. Potrebbe anche con, non lo so, prenderla a sberle con un pesce (vero! Non pensate subuto male...) e lei godrebbe lo stesso. Più che lui, lei ha qualche perversione nascosta che non vuole rivelare, così si spiegherebbe perchè non ha filato nessuno negli anni e perchè si comporta come una ninfomane legata e costretta a non toccarsi per mesi.
E' insopportabile: ansima sempre tantissimo!
Non è normale. Io mi preoccuperei per la sua salute.
Ok che sei vergine, che ogni cosa è "sexy", che ogni tocco è "hot", ma ci sono limiti, non puoi ansimare per TUTTO! 
"Mostrami cosa vuoi"
E siamo alla fine! Perchè quando lei gli chiede di aprirsi e lui non vuole...e mi fermo un attimo a difenderlo. Solo perchè tu (Ana) elenchi la tua intera vita ad uno sconosciuto e gli permetti di farti di tutto, non è che debba necessariamente essere reciproco. 
Ma il genio si rovina con le sue mani rispondendole con una stronzata enorme, tipo "Tu non mi capisci, io ho cinquanta sfumature di oscurità dentro di me"
Tipo adolescente in crisi ormonale che litiga coi genitori. Ecco, uguale!
Così lei lo sfida a mostrargli quanto possa essere estremo.
E quì mi sono cadute le braccia. Se questo è estremo....no, non voglio neanche finire la frase.
Comunque, lui la porta nella stanza. La appoggia ad un tavolo e la stende a novanta, nuda. 
Le dice che le darà sei frustate (con una cinghia) e lei dovrà contarle. 
Dopo tutto ciò, in cui vediamo lui a disagio (e ben venga! Non è consensuale, solo i serial killer provano piacere ad imporre violenza), lei si alza e piange intimandolo di non toccarla perchè "è troppo".
Sei frustate? 
Ripeto: SEI FRUSTATE? 
Con l'oggetto più innoquo nella stanza (che sembra un sexy shop per quanti gadget ci siano)? 
Sei seria?!?!?
Ti sarai letta minimo trenta pagine di contratto (maniacale) e ti sciocchi dopo quello?
No, non stai bene....cosa ci fai lì?!
Ma finalmente giungiamo quasi alla fine di questo abominio! 
Perchè lei dopo la scenetta isterica NON VA VIA. Resta nella sua cameretta (perchè lui non dorme con le donne con cui va a letto....ovviamente tranne lei: eh, l'ammmooreee) e quando lui arriva, gli dice che si è innamorata (cosa che si capisce dalla prima scenetta) e che ora non lo vuole rivedere mai più (per le sei sculacciate, non per i mille altri giocattoli...potevi dargliele prima, così ci risparmiavamo due ore di nulla assoluto). 
Ma fermi un momento: se ti ha sconvolto tanto, perchè cavolo dormi da lui? 
Scappa a casa tua, vai via, corri lontano. No. 
Scema è e scema resta, altrimenti lo avrebbe preso a calci già solo quando toccava la sua merendina sul tavolo al bar!
Finisce con un orribile montaggio di loro "devastati" dalla rottura (o almeno lei piange, lui ha sempre la stessa espressione e fissa il vuoto....boh!) con "i momenti più belli della loro love story" in dissolvenza tra le loro scene. Che fantasia!
E poi arrivano i titoli di coda e mio grido interiore di gioia per essere sopravvissuta a tutto ciò!
   Altro che Horror. Altro che B Movie. 
Questo è un film che terrorizza davvero, nella sua stupidità dilagante e banalità allarmante!
Parla di BDSM senza conoscerlo, tratta la violenza, la possessività e lo stalking come dimostrazioni d'amore....no, non si salva nulla. 
Non è nemmeno minimamente erotico, per quanto mi riguarda. 
Si, hanno fatto delle scene nudi, e quindi? 
Ciò non implica sensualità visto che lei ansima come un San Bernardo e lui ha lo guardo da cernia in ogni scena. 
Si, so che c'è un seguito e non vorrei vederlo, ma sono masochista e può darsi che un giorno lo farò e, temo, che le mie reazioni saranno uguali.
Eh si, ho letto i libri...e sono riusciti a peggiorarli! 
Cosa che temevo impossibile...
A presto, ma con film decisamente migliori!!! (potete trovare questo post anche su loscaffaledelleswappine.blogspot.it)
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