#*procede a stare due ore in piedi*
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voicesofatwistedmind · 6 years ago
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Cronache di un rientro
di Simone
PREFAZIONE A CURA DELL'AUTORE
Tutti i fatti e gli avvenimenti accaduti sono reali, nulla è stato inventato o distorto.
Eventuali insulti o diffamazioni verso pubblici ufficiali o compagnie varie sono egualmente reali e me ne assumo la completa responsabilità
PROLOGO
31/10 - O ingenuità. Per trascorrere una "Horror Movie Night" post allenamento di pallavolo, Simone lascia la sua borsa al padre che, rientrato in casa, la lascia vicino alla porta della camera del protagonista.
E le ginocchiere sono lì dentro, sudate ed al chiuso.
E ci rimarranno.
02/11- O distrazione. Durante una festa a tema trash per festeggiare il compleanno di un amico, Simone dimentica di avere addosso degli occhiali. Questi si rompono durante un gioco e simone tenta la riparazione con un collante extra-strong. Il prezioso ausilio alla vista sembra essere utilizzabile, ma lo studente è perfettamente a conoscenza della temporaneità e dell'instabilità della sua riparazione. Fanculo agli ottici che non fanno occhiali capaci di restistere agli urti.
È mattina, il tre di novembre. Simone viene svegliato - dopo tre ore o poco più di sonno - dalla soave musicalità della voce della madre che, con un tono che potrebbe sicuramente essere considerato fuori legge per i decibel utilizzati, irrompe nella mente del giovane ricordandogli che deve preparare la valigia.
Così lo studente si alza dal caldo letto e scende in cucina, scalda il latte e prende le sue Gocciole. Ma la vita decide di giocargli un brutto scherzo, e la sorella aveva lasciato un biscotto, uno, nella confezione.
Il giovane non demorde e decide dunque di allietare la sua mattina con i Pan di Stelle. Ma nulla va nel verso giusto, ed ecco che anche nel pacco della Mulino Bianco alloggiano solo due biscotti.
In preda alla rabbia, Simone decide di mangiarsi tre pacchetti di wafer lasciandone uno solo in ogni confezione: vi sarà da monito.
Soddisfatto della sua vendetta, il ragazzo inizia a preparare la valigia: vestiti, libri, chiavi, giubbetti, cardigan, libri, altri libri, beauty case, scarpe, tutto in valigia. Arriva il momento di inserire nel leggerissimo scrigno anche gli utili alla pallavolo. Un brivido gelido percorre la schiena di Simone. Le ginocchiere sono ancora in borsa. Le estrae. Odorano di morte ed epidemia. Dopo averle inserite in un sacchetto, a sua volta inserito in un altro - e così via per altre quattro o cinque volte, nel tentativo di attenuare la puzza - mette anche quelle in valigia.
Tutto pronto.
[...]
Prima di partire, alle quattordici e quindici circa, il viaggiatore decide di prepararsi un panino da mangiare per cena: ciauscolo e galbanino, squisito. Provate, o lettori, ad indovinare dove è quel panino?
Esatto, in frigorifero. A casa. Nelle Marche.
[...]
Si parte finalmente. Il parcheggio più vicino alla pensilina di partenza degli autobus è a circa un chilometro.
Non importa, con la sua valigia di circa 32 chilogrammi sarà solo una passeggiata. Se non fosse che la strada è in discesa.
Arrivato alla pensilina, la disastrosa scoperta.
L'autobus è pieno.
"Ma tu prenoti sempre i biglietti prima, di che ti preoccupi?"
Avete ragione, lettori, lui aveva prenotato in anticipo il suo posto. E infatti lo aveva. Ma capirete che, dall'alto del suo metro e novantasei, un posto con accanto una ragazza in stampelle che - ovviamente - necessita di stare larga, può essere scomodo. Estremamente scomodo.
Ma il viaggio inizia e procede tranquillo fino a L'Aquila, tralasciando all'ilarità dei lettori alcuni momenti in cui Simone ha rischiato la sterilità a causa di movimenti poco femminili della ragazza che lo costringevano a chiudere le gambe in maniera rapida. A L'Aquila, durante la sosta, inizia la sventura: è bel tempo, l'ingenuo scende a maniche corte e va in autogrill per utilizzare il bagno. Nel bagno degli uomini c'è una fila insolita presto spiegata: funziona solo una delle cinque cabine. Ma ci sono gli orinatoi a muro e il giovane ha necessità fisiologiche urgenti e decide di utilizzarne uno, per realizzare dopo pochi istanti perché pochissime persone li utilizzavano. La privacy di quelle cose era inesistente, dato che la distanza tra uno e l'altro era di circa cinque centimetri e non c'erano divisori. Ma fa nulla, siamo tutti uomini e non ha di che vergognarsi. Finisce, si lava ed esce. Diluvia.
E ricordate come era uscito il giovane? Sì, a maniche corte.
[...]
Durante il viaggio la menomata continua con i suoi graziosissimi movimenti e si addormenta a bocca spalancata. Sbava sulla t-shirt di Simone. Che gioia.
Autobus di merda, perché minchia non distanziate di qualche centimetro i sedili? Vi odio.
[...]
Con un'ora e quindici minuti di ritardo dovuto al traffico ed agli allagamenti, il corteo giunge alla capitale.
Dopo aver aiutato la menomata - pensate la magnanimità - il giovane raccoglie la sua valigia (altresì definibile incudine, dato il peso) e il suo zaino della tortura e gioisce come un toro nel giorno della monta: ha smesso di piovere.
Breve illusione, tempo due minuti e ricomincia. Simone si sente come se il toro di prima fosse stato castrato a sorpresa proprio quel giorno.
Lo studente decide di andare alla fermata del bus, sapendo che potrebbe prenderne ben quattrocper tornare a casa.
Uno, due, cinque, dieci minuti. Non c'è ombra di un bus. Preso dallo sconforto, il giovane decide di fumarsi una sigaretta e quindi va a comprare il tabacco. Apre il tabacco, comincia a rollare. Passa un autobus non di linea ad una velocità inumana e tocca una pozzanghera, tutti saltano indietro e un ragazzo, ignaro della presenza del giovane alle sue spalle, urta il tabacco, che cade.
Contro ogni legge della fisica, il tabacco cade con l'apertura rivota verso il basso. Cade aul bagnato. Il suo portafogli piange la perdita di sei euro.
Ma dio santo, Winston carissima, cazzo ti costa mettere una minchia di chiusura su quel tabacco?
Dopo pochi istanti di imprecazioni e dopo essersi fumato la sua sigaretta, Simone decide che il bus non passerà e opta per cercare una soluzione. Con le sue mitiche abilità di fast decision making corre verso la metro. Ingenuo.
L'abbonamento era stato ricaricato la mattina stessa, per cui si attiva il giorno seguente. Decide allora di aspettare un dipendente ATAC del gabbiotto per spiegare la situazione e farai aprire il cancello.
In quegli undici minuti di attesa passano cinque treni.
Finalmente arriva il dipendente che, dopo la meritatissima pausa di venticinque minuti seguente ai quattro minuti di sfiancante lavoro a candy crush, decide di far entrare il povero disgraziato. Deve avergli proprio fatto pena.
Arriva dunque alla banchina: prossimo treno tra sette minuti. Serio?
No, ovviamente no. Passa dopo nove. NOVE MINUTI. prima, in undici minuti ne erano passati cinque.
Arriva la metro che, come al solito, odora di pipì e sudore (che vi costa deodorarvi?)
Dopo due sole fermate, l'instancabile scende. Policlinico, può prendere il tram e tornare a casa.
Potrebbe.
Venticinque minuti sotto la pioggia e nessuna ombra di un tram o un bus che va verso casa sua ma, ovviamente, tre tram che vanno nella direzione opposta.
Oramai zuppo e disperato, con le lacrime agli occhi che ai confondevano con le gocca di pioggia, decide di incamminarsi a piedi, per venti minuti, sotto la pioggia battente.
Dopo tre minuti di marcia passa un tram. Poi un altro ed un bus. Un altro bus ed altri due tram a seguire.
Capite cosa intende il futuro medico, quando dice che la vita lo vuol vedere arrabbiato.
(ndr - Appello alla Atac. SI PUÒ AVERE UNA MINCHIA DI SCHERMO CHE TI SEGNA TRA QUANTO PASSA IL FOTTUTO BUS DIO BONO?)
Grondante d'acqua arriva al portone di casa ed apre lo zaino.
Non ci sono le chiavi. Panico.
Dopo cinque minuti di panico in cui, sotto l'acqua, Simone scoperchia il suo peso sulle spalle, ha un pessimo ricordo. Andate all'inizio del racconto, e leggete. Leggete dove sono le chiavi.
Esatto.
In valigia.
Spalanca quindi la sua valigia sotto al diluvio universale e chiaramente le chiavi sono sotto ad ogni vestito possibile.
Chiude la valigia e passa un'automobile. Vi lascio immaginare cosa possa essere successo. MA MAREMMA MAIALA COSA VI COSTA ANDARE A 30 KM/H QUANDO PIOVE VICINO ALLE POZZANGHERE ANZICHÉ FAR LA DOCCIA A NOI POVERI PEDONI?
Entro nel portone. Non c'è l'ascensore. Tre piani di scale. Gioia.
EPILOGO
3/11, ore 21:30
Simone è nudo, sul letto. Nudo perché non ha alcun vestito non bagnato. E probabilmente ha la bronchite. È sull'orlo di una crisi isterica e sta patendo i morsi della fame in quanto non mangia dall'ora di pranzo.
Morite tutti, lavoratori dei trasporti di Roma.
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elbafishingblog · 7 years ago
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Long distance feeder fishing
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Vi possono essere diverse ragioni per cui l’azione di pesca debba svolgersi a lunga distanza da riva. Al di là del motivo per il quale decidiamo di spingere così lontano il nostro sistema pescante ciò che importa realmente è come farlo nel modo corretto, coniugando la distanza alla massima precisione possibile. Avrebbe infatti poco senso un’azione di pesca svolta in long range se poi disperdessimo la pasturazione. In questo articolo, che troverete anche nella prossima newsletter, spieghiamo le basi del feeder fishing sulla lunga distanza concentrandoci sulle attrezzature, la tecnica di lancio e il doppio sistema di controllo dato dal clippaggio in bobina associato al nodo di stop.
La canna
Una feeder rod da 13 piedi consente lanci a lunga distanza con una notevole precisione. Sceglieremo un modello da long cast, con anelli maggiorati, così che il filo nel suo passaggio incontri minor resistenza. Si tratta di canne con una potenza di lancio massima che si attesta intorno ai centro grammi, benché zavorre di quel peso non sono quasi mai necessarie per raggiungere la lunga distanza ed è sempre buona regola stare abbastanza al di sotto rispetto a quanto dichiarato dal produttore.
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I “grossi pesi” sono più utili a tenere la corrente che ad andare lontano. Con un’attrezzatura giusta e bilanciata si possono raggiungere tranquillamente i settanta-ottanta metri senza dover forzare gran che.
Il mulinello
Il mulinello è di taglia 4000-5000. La bobina larga facilita la fuoriuscita del filo riducendo gli attriti e migliora il recupero. Viene caricato con un braid abbastanza sottile (0.10 max 0.14 mm, quindi sulle 10-12 lbs) cui si associa uno shock leader dello 0.25 (circa 10lbs). Pochi giri di mulinello (10-12 metri per una 13 piedi) sono sufficienti. Lo shock leader non serve a proteggere dallo stress del lancio (avendo il nylon un carico di rottura pari o addirittura inferiore a quello del braid) ma a conferire una certa quota di elasticità sia nella prima fase del lancio che nella gestione del recupero del pesce. I primi 10-12 metri di filo sono inoltre quelli più a contatto con il fondo e più soggetti ad abrasione.
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Sceglieremo quindi un nylon con particolare resistenza, come lo sono oramai quasi tutti quelli da feeder. Il braid, in virtù del minor diametro, consente di raggiungere distanze maggiori e di avere una trasmissione più rapida delle mangiate (come una maggior prontezza nella risposta). Occhio all’imbobinamento, che sia preciso e non lasci troppo margine con il bordo della bobina.
La montatura
Nella maggior parte dei casi la semplicità paga sempre ed il free running rig rappresenta la soluzione più adottata. Facile da realizzare, efficace in quasi tutti gli scenari e in grado di garantire la salvaguardia del pesce in caso di rotture. Vi sono moltissimi modi per realizzarlo e ne abbiamo parlato a più riprese sia sul blog che in newsletter. Vediamone qui uno con qualche piccolo accorgimento.
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Una feeder bead (girella con moschettone dotata di perlina) viene fatta scorrere sullo shock leader, seguita da uno stopper in gomma. Il capo libero dello shock leader viene brillato per una lunghezza di qualche centimetro superiore alla distanza tra feeder bead e polo inferiore del pasturatore connesso. In altre parole la brillatura deve terminare più in basso così da svolgere adeguatamente la sua funzione antitangle. Si includa nell’asola della brillatura una microgirella con sgancio rapido e si preveda la presenza di un piccolo gommino in silicone che andrà a coprire l’asola e buona parte della microgirella.
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In questo modo lo sgancio rapido rimane perfettamente in asse senza tuttavia pregiudicare la possibilità di rotazione dell’attacco e quindi la risoluzione di possibili torsioni del terminale. Un secondo tubicino in silicone assicurerà che il terminale rimanga collegato alla sgancio e, ancora un volta, perfettamente in asse pur potendo comunque ruotare.
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Nella pesca con il bigattino il pasturatore sarà rappresentato da un blockend particolarmente aerodinamico. Con sfarinati ed altri elementi si opterà per dei cage feeders da long range (con o senza guaina e con piombo alla base). In acque ferme e non particolarmente profonde si utilizzano pasturatori intorno ai 40-50 grammi.
Tecnica di lancio
A differenza di altre discipline la tecnica di lancio, per quanto importantissima, non è particolarmente complicata. Può esserlo descriverla a parole (c’è il rischio di non capirsi) pertanto rimandiamo ai vari video online che mostrano l’azione di pesca dei più affermati agonisti per farsi un’idea molto precisa. Notate come lo sguardo sia diretto verso lo spot, come la canna venga tenuta con le due mani, posizionata esattamente sopra la spalla e il movimento coordinato delle braccia durante la prima fase di lancio. Poi come venga frenato l’impatto del feeder sull’acqua (si veda How to Cast a Feeder on Commercials). Molti pescatori lanciano da seduti ma solo perché operano sulla corta o media distanza. Nella pesca a lunga distanza si lancia stando in piedi, con le gambe ed il bacino ben fermi e lasciando il movimento alle braccia e alla parte superiore del tronco (si veda Long Distance Feeder Fishing with Tackle Guru Adam Rooney). Un aspetto molto importante è la lunghezza del “drop”, ovvero la distanza tra l’apicale del tip e il feeder prima del lancio. La giusta misura è pari a circa 1/3 della lunghezza della canna o poco più, pertanto utilizzando una 13 piedi il drop ottimale è di 4,5-5 piedi (sul metro e mezzo). Corrisponde al punto di innesto del sottovetta sul fusto più una decina di centimetri. Altra considerazione da fare riguarda il momento del rilascio del filo: se il movimento coordinato delle due braccia è corretto il rilascio avviene quando la mano che tiene il calcio della canna tocca il petto e questa si trova a puntare circa le ore 11 di un orologio immaginario (con le 12 che si trovano esattamente sopra la testa del pescatore) con il tip indirizzato verso lo spot. Intendiamoci, poi con l’esperienza si tende ad avere molta più libertà con i movimenti, ma per iniziare sono indicazioni fondamentali.
Precisione
Se la posizione è sempre la stessa, la tecnica è corretta, il drop sempre uguale e così la forza impressa, già abbiamo assicurato una discreta precisione al lancio. Ma non basta, Generalmente non amo molto clippare il filo in bobina ma oltre un certo limite diventa necessario, specie quando si ha di fronte una grande distesa di acqua e pochi o nessun punto di riferimento. In mare, sulla media distanza, un nodo di stop sul filo in bobina appare come valida soluzione alternativa. Se il lancio è tuttavia piuttosto energico e il filo scorre molto velocemente è possibile però che il nodo sfugga rapidamente al controllo visivo, determinando una certa imprecisione. Si potrà pensare che basti recuperare fino a portare il nodo nella stessa posizione ma così facendo si perde buona parte della pastura. Una delle soluzioni possibili è utilizzarli entrambi.
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Si procede dunque in questo modo. Al primo lancio, come il feeder tocca l’acqua si clippa il filo in bobina e si realizza un nodo di stop posizionandolo vicino alla porzione di filo clippato. A questo punto si recupera, si innesca, si carica il feeder e si lancia nuovamente alla distanza fissata con il clippaggio. Chiuso l’archetto si rimuove il filo dalla clip. Se non si hanno mangiate o si ferra una preda di piccole dimensioni inseriamo di nuovo il filo nella clip prima di recuperare. Se dovessimo invece avere una partenza di un pesce di taglia possiamo gestirlo al meglio avendo il filo libero in bobina. Al lancio successivo sarà il nodo di stop a consentirci di individuare dove clippare nuovamente la distanza. Può sembrare laborioso, ma è solo questione di prenderci la mano.
Considerazioni finali
Del “long-range feeder” abbiamo parlato nella newsletter/rivista n.1 del 2017. L’uso del trecciato in mare e ovunque il rischio di abrasione sia particolarmente alto va valutato caso per caso anche se la resistenza dei braid moderni è molto aumentata. Pescando con lenza madre in nylon, per poter raggiungere agevolmente certe distanze con pesi non esagerati occorre scendere di diametro fino allo 0.18-0.20. In questo caso lo shock leader dello 0.25 svolge anche la funzione protettiva per la quale è noto. Il nodo di giunzione più indicato, che non staremo a descrivere di nuovo, è l’Improved Albright (Alberto) a sette spire sia discendenti che ascendenti. La pesca a lunga distanza si complica leggermente in presenza di correnti che richiedono una certa pancia di filo (metodo bow) in quanto clippare il filo nel punto di impatto rende impossibile lasciare ulteriore filo libero in corrente. Il doppio sistema di riferimento (nodo di stop più clip) qui risulta particolarmente utile e aiuta inoltre a misurare in “canne” la pancia di filo. Di questo e altro parleremo più nel dettaglio nella prossima newsletter.
Testo e foto: Franco Checchi
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pangeanews · 7 years ago
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“Quando si corre si è davvero tutti uguali: attendi la sofferenza che precede la gioia del traguardo”: ecco che cos’è la Maratona di New York, la sfida più dura, la più bella
Parte oggi la Maratona di New York, la più partecipata al mondo, la più suggestiva, che si compie la prima domenica di novembre, dal 1970. Tra i grandi vincitori, Bill Rodgers e Alberto Salazar, i super atleti del Kenya, ma anche, negli Ottanta, i ‘nostri’ Orlando Pizzolato e Gianni Poli. Di fatto, però, soprattutto, la New York Road Runners è un rito, l’altare dove la democrazia si fa sprezzo del dolore, pazienza, muscoli tesi verso la gloria. L’esercizio fisico non ammette retorica mefistofelica: vince chi, in quel regime di tempo, è il più bravo. Cinque anni fa, Fabio Mariani, architetto che ha fatto del correre una forma di lirica, ha partecipato alla Maratona più bella del mondo. Correva insieme al San Patrignano Running Team, che oggi si appresta a correre ancora, nell’indimenticabile scenografia di NY. Questo il suo reportage.
*** Il popolo delle maratone Surrealizza la hall dell’hotel Hilton Gruppetti colorati chiacchieranti Singole figure sfreccianti Tra i lucidi marmi riflessi Di corpi allunganti Di muscoli tesi Inguainati in strette tute Aderenti attillate Sprizzanti energia colorata Tra marmi e lucidi ottoni riflessi da specchi lindi. Avvocati commercialisti imprenditori operai impiegati professori commesse casalinghe giudici top runner. Tutti divi in divisa Con le scarpe troppo grandi e colorate Dimagriti o dimagrandi Tutti in attesa trepidante Di uno sguardo del mondo. Ecco come si presenta la hall dell’Hotel Hilton Manhattan la mattina della maratona verso le 5.00. Noi quattro del team Carim, siamo parte della coreografia. Per Enrico e Arturo è la prima volta a NY, sono ben preparati e motivati possono stare sotto le 2 ore e 50 minuti; per Gianluca è la seconda NY, è un podista evoluto molto forte si aspetta un tempo intorno alle 2 ore e 25 minuti, che lo porterebbe a chiudere alle spalle dei primissimi; Massimo (Torso per gli amici triatleti) come Gianluca del resto è un’istituzione dello sport di endurance a Rimini, purtroppo NY non gli porta fortuna e si trova impossibilitato a partecipare alla maratona per la seconda volta a causa di un infortunio dell’ultim’ora; io sono al rientro dopo un anno senza maratone, ho come obiettivo di chiudere intorno alle 3 ore. Siamo in fila per prendere la colazione take away. ‘The queue’, la fila appunto un elemento ricorrente e paradossale che accompagna il viaggio da Rimini verso NY: coda in autostrada, code all’aeroporto, code all’immigration, code alla partenza della maratona. Ma non importa la mente del maratoneta è forgiata alla pazienza, sa attendere senza agitarsi, l’arrivo della sofferenza che precede la gioia dell’arrivo al traguardo, una catarsi quotidiana, un mantra lungo quarantaduemilacentonovantacinquemetri. Preso il pacchettino con la colazione saliamo sul pullman che ci porterà alla partenza a Staten Island distante quaranta chilometri circa dall’hotel e quindi dall’arrivo della maratona. Siamo insieme agli atleti del San Patrignano Running Team allenato dal mitico Dott. Rosa e dal suo staff, tutti in viaggio verso la stessa meta verso lo stesso destino. Quando si corre si è veramente tutti uguali, le nostre storie personali, le nostre vite, sono sostituite da un’unica incredibile metafora, quella della maratona, “oltre il traguardo” recita infatti il motto dei ragazzi di Sanpa. Il trasferimento è lungo e ognuno mette in atto i propri riti propiziatori: assunzione di calorie, controllo dell’abbigliamento (ho il numero ben attaccato alla maglietta?), utilizzo di vaselina nelle parti a rischio abrasioni (inguine, capezzoli, ascelle, piedi). Con noi c’è anche il dott. Huber del Marathon Center che ci ha seguito nella preparazione, e che correrà circa 20 miglia facendo da ‘lepre’ ad Arturo ed Enrico; infatti Huber oltre ad essere un preparatore è lui stesso un forte atleta. Sul pullman con grande pazienza e professionalità risponde alle domande dell’ultima ora e dispensa consigli rasserenanti. Arrivati al check point veniamo sottoposti nuovamente ai controlli di sicurezza e ci mischiamo al popolo dei 50.000 ‘eletti’. Non so per quale motivo ma per un momento mi sono sentito come quegli immigrati che sbarcati dalle navi venivano ammassati nell’Isola di Ellis Island, con la speranza di diventare cittadini statunitensi, di rendere reali i loro sogni le loro speranze, di iniziare in un nuovo mondo una nuova vita. Il paesaggio che si presenta prima di entrare ai cancelli della partenza (corral) è surreale: un immenso prato dove  muri di wc in plastica affiancati delimitano gli spazi destinati ai maratoneti in funzione del numero di pettorale e del colore della linea di partenza. Non è facile gestire la partenza di 50.000 atleti con i piedi ansiosi di mordere l’asfalto. Per questo motivo la partenza avviene in tre punti diversi (line) distinti dai colori verde arancione e blu, a più riprese (wave), ogni 20 minuti circa partono dieci-quindicimila persone. Noi quattro siamo tutti nella blue line nella prima wave in corral (recinti) diversi in funzione dei tempi dichiarati. non sono ancora le otto di mattina fa freddo, non ci sono ripari al chiuso, per fortuna siamo ben coperti con felpe e vecchie tute da ginnastica. È tradizione infatti gettare strato dopo strato gli indumenti pesanti prima dello start ai margini della strada, indumenti che saranno raccolti da volontari e dati agli homeless della città. Sono le 8.40 la paura maggiore è quella di non riuscire a ‘liberarsi’ prima della partenza. Faccio la fila per andare al bagno, l’autoparlante annuncia l’imminente chiusura dei cancelli per la prima onda. Corro verso il mio corral; ci siamo, stretti l’uno contro l’altro ci muoviamo lentamente verso la linea di partenza. Ci si guarda, ci si annusa, si trova sempre un connazionale col quale scambiare qualche parola nell’attesa dello start. Si sente lo speaker annunciare i nomi dei top runner, poi l’inno nazionale americano, e mentre la tensione sale alle stelle  arriva lo sparo. Si parte tutti insieme ma ognuno con in mente un suo ritmo un obiettivo, tutti consapevoli che per quanto ci si sia preparati la maratona è sempre un salto nel buio, per percorrerla tutta ci vogliono contemporaneamente gambe, mente e cuore. Il percorso è splendido ma durissimo, si parte da Staten Island in salita per attraversare il ponte da Verrazzano e si arriva in salita a Central Park, attraversando tutti i distretti di New York City, da Brooklyn con i suoi quartieri affollati e festosi, al silenzioso quartiere Ebraico, a Manhattan con i suoi lussuosi grattacieli, al  Bronx, sospinti da un tifo da stadio e da un calore umano che onestamente non ci si aspetta dagli abitanti di una metropoli. Ma come si dice NY non è una città come le altre NY è NY e basta! La mia maratona purtroppo è contraddistinta sin dall’inizio da un fastidio alla coscia destra (una piccola contrattura al bicipite femorale non ancora guarita, in una maratona può rivelarsi invalidante al punto da costringere al ritiro), che mi costringe da subito ad un’estrema prudenza nella gestione dell’ampiezza della falcata. In questi casi è la mente che soccorre il corpo, ‘non ci sono problemi’ mi dico ‘il dolore non esiste basta pensare ad altro’, infatti dopo le prime due miglia, inizio a ‘concedere qualche hi five’ ai bambini che sporgono dalle transenne tra le braccia dei genitori, e a godermi la musica che proviene dai numerosi gruppi musicali disseminati per tutto il percorso. La gara procede. Verso il settimo miglio incontro un ragazzo siciliano con la maglia tricolore, molto attento al cronometro. È alla sua prima maratona, insieme arriviamo fino al ventesimo miglio. Mi sento bene ho fatto una gara prudente fino ad ora, inizio a spingere un poco di più ma come rendo più dinamica la mia corsa si ripresenta il dolore alla coscia, gestisco, porto pazienza, nonostante tutto sono costantemente in sorpasso su altri atleti in crisi, mi basta. Il percorso sale e scende fino ad arrivare a Central Park che ci accoglie con i suoi splendidi alberi dalle chiome dipinte dei colori d’autunno. Ormai è fatta, entro sul rettilineo finale salutando il pubblico che affolla le tribune, ci sono anche le mie tre donne: mia moglie e le mie figlie. Taglio il traguardo (3.02) tra le foglie spazzate dal vento godendomi ogni istante. Dovrei essere felice ed infatti lo sono ma di nuovo la stessa sensazione provata alla partenza, mi fa sentire per un attimo come le foglie che mi circondano. Passata la finish line, l’organizzazione perfetta, quasi militare della maratona, torna a prendere il sopravvento su ogni tentativo di epico romanticismo, diventiamo per gli organizzatori solo il numero che indossiamo. I volontari ci convogliano lungo un percorso obbligato: mantellina sponsorizzata di carta stagnola sulle spalle; medaglia al collo; foto di rito; sacca con bevande e alimenti post-gara; percorso interminabile tra decine e decine di furgoni marroni per arrivare a recuperare la sacca che contiene il cambio che avevamo consegnato alla partenza. Lungo il tragitto incontro Loris del running team di San Patrignano, insieme, con il tipico passo lento e caracollante di chi ha appena corso la maratona, percorriamo il tragitto verso l’hotel. Non parliamo solo della gara, parliamo di noi delle nostre vite, di fatti personali di paure e speranze, come se ci conoscessimo da tempo, siamo complici. Sopportare la fatica, il dolore, attraverso l’impegno costante accomunano, rendono la corsa non solo uno sport ma un’arte, una disciplina nella vita; per dirla con le parole di Haruki Murakami: “La fatica è una realtà inevitabile, mentre la possibilità di farcela o meno è a esclusiva discrezione di ogni individuo. Credo che queste parole riassumano alla perfezione la natura di quell’evento sportivo che si chiama maratona”. Fabio Mariani 2013.11.03 NY Marathon
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ginevra-malcolm · 8 years ago
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Chapter 68 - Palafitta dei Sogni, Matairie and Lake View
Ginevra
Arriva davanti la casa sul lago in macchina, la macchina di Aeryn che, con Dorian, hanno stabilito che aveva necessità di essere accompagnata. Scende e dopo aver salutato i due, attraversa la ferrovia e raggiunge il pontile. Si è data tempo di fare un'altra doccia, di cambiarsi, di parlare con Aeryn ... eppure i postumi del rave si vedono tutti. Indossa un abito corto e ampio, con maniche lunghe anch'esse ampie. Lo sfondo dell'abito è nero, ma la parte bassa della gonna, come quella delle maniche, ha decorazioni colorate. Ai piedi ha gli anfibi allacciati per bene e i capelli sono sciolti. Percorre il pontile fino al cancello. Estrae le chiavi dalla borsa che ha a tracollo e supera quel primo sbarramento. Lo richiude con cura alle sue spalle e procede fino alla scala che sale lentamente. Si muove lentamente in generale, per evitare giramenti di testa. Arrivata alla porta di casa, attende qualche momento prima di entrare. Appoggia la fronte sul legno, socchiudendo gli occhi. Non è incerta se entrare o meno, entrerà di certo, solo che non sa ancora come si comporterà, cosa deve fare. Non ne ha proprio idea e in qualche modo ne è terrorizzata. Alla fine entra e si chiude la porta alle spalle, si libera della borsa che appoggia a terra di fianco la porta. Tutto in silenzio.
Malcolm
Dall’esterno della casa si può vedere bene qualche luce accesa. Malcolm sta aspettando dentro, sta girovagando per la casa, nell’attesa ansiogena di Ginevra e di quello che verrà, è terrorizzato di non riuscirci, è terrorizzato da parecchie cose, di bloccarsi per la vergogna appena la vede ad esempio. Essendo da solo, mentre cammina avanti e indietro per la casa in modo piuttosto frenetico, può fare finta che un dialogo fra parti di se stesso sia del tutto normale. Non lo sostiene ad alta voce solo perché questo lo renderebbe concreto e sarebbe pazzia, ma nella sua mente c’è molto affollamento. Si è fatto una doccia e si è dato una sistemata, ha smaltito del tutto la sbronza colossale che si è procurato, fino a non molte ore fa era uno straccio e non vuole farlo vedere. Indossa un completo scuro, una camicia bianca, la cravatta verde con la trama di righine bianche disposte a rete. Non ha sentito la macchina, troppo distante, né i passi di Ginevra sul pontile, ma sente la porta aprirsi e si blocca in quel suo camminare compulsivo, deglutisce nervosamente, dice a sé stesso – in mente – le esatte cose che deve fare. Stare calmo, respirare, andare da lei. Ed è quello che fa, sebbene a pugni stretti come a catalizzare lo stress lì. Quindi compare a vista di Ginevra, teso ma si impegna a non esserlo, la occhieggia in modo forse un po’ furtivo ma cerca di sostenere il contatto visivo. Pare titubante ad avvicinarsi, espira: «Sei venuta…» annota in tono più tranquillo e sollevato, rendendosi poi di quanto appaia stupido sottolineare l’ovvietà, stende un mezzo sorriso che tradisce il nervosismo. Deglutisce, in ogni passo avanti che fa c’è l’attesa di sapere e capire come sia giusto approcciarsi. «Grazie» commenta «di essere tornata..» precisa subito dopo. Cerca di avvicinarsi con più decisione, andandole incontro.
Ginevra
E' rimasta ferma, con le spalle alla porta, come se un solo passo in avanti conducesse al baratro, in quei secondi prima che lui le compaia davanti ha riflettuto se muoversi, non ha idea di dove sia Malcolm e quindi è rimasta lì, per non dover attraversare la casa, cercando. Ha delle domande chiuse nella borsa, scritte in quella lettera, non sa se dovrà rispondere o solo tacere, e rispondere cosa. Quando lo vede sorride, o crede di farlo, nella spontaneità solita con cui le nascono i sorrisi. Non si muove ancora, solo lo guarda e quando lui sottolinea quell'ovvietà risponde stupendosi di sentire la propria voce «lo faccio sempre...» parole che arrivano alle labbra prima ancora che se ne renda conto, uno di quei pensieri sfuggiti alla fila forse o solo ai suoi filtri così sottili e deboli che le fanno dire molte cose che altri terrebbero celate. E' un movimento unico e breve quello con cui scuote il capo al suo ringraziamento, non è lì per fargli una cortesia che necessita, quindi, di ringraziamento. E' lì perché non può farne a meno. Lui si muove con più decisione verso di lei e il suo stomaco diventa quello di Alice che precipita nella tana del bianconiglio e istintivamente porta le mani ad appoggiarsi proprio lì, sullo stomaco. Solo un attimo perchè poi stacca la schiena dalla porta e si muove verso di lui, incerta. E' un incertezza che non riguarda Malcolm, lei è lì perché vuole essere lì, ma se sei sul Titanic, in alto mare, che affonda, sono i primi passi a mancare dell’equilibrio necessario a muoversi, i successivi acquistano sicurezza... ma lei si ferma dopo quei primi passi a darsi il tempo di riequilibrarsi.
Malcolm
“Lo faccio sempre” si sente dire e lui automaticamente annuisce, lentamente, con cognizione di causa. «Però non è scontato.» le risponde, con altrettanta cognizione e serietà. Per questo, perché il perdono non è mai scontato, la ringrazia. Mentre il giornalista va da lei con un po’ più di decisione, eppure comunque con cautela, la vede muoversi con un’incertezza fisica e insomma, ha notato l’aria e l’aspetto un po’ stropicciati. La vede fermarsi per riacquistare l’equilibrio, si ferma anche lui, accigliandosi un po’: «Stai bene?» domanda, forse vagamente allarmato. Ha il cuore in gola, a prescindere, motivo per cui il tono è basso, un po’ roco. Si schiarisce la voce, tentando di rimandare l’organo pulsante nella sua sede naturale, metaforicamente parlando. «Hai mangiato?» chiede ancora, cercando di capire perché stia in quel modo, forse un calo di zuccheri. «Hai bevuto?» aggiunge, ma sta parlando d’impulso e scuote il capo: «No, scusa… Insomma… questo sono io che… mi sto preoccupando…» gesticola un momento, annegando fra le sue stesse parole del tutto istintive, praticamente pensieri ad alta voce. Ed appare goffo, nello spiegare le sue intenzioni, forse perché gli vengono in mente quelle parole di Ginevra sul non essere sua amica barra figlia barra sorella barra animale domestico. Scuote il capo con disapprovazione, di nuovo, ed inspira, chiudendo e stringendo le labbra, per poi tornare ad avvicinarsi a lei, impacciato nel raggiungerla e nel cercare di toccarla come per sostenerla, per un braccio, per un fianco.
Ginevra
Annuisce alla sua prima domanda e sta per rispondere, ma seguono le altre che la lasciano quindi a labbra leggermente dischiuse in quell'intenzione interrotta in attesa e infine gli dice solo, a confermare che sta bene «sono stata ad un rave» e questo dovrebbe spiegare tutto. Lo dice come fosse la cosa più normale al mondo, in fin dei conti, no, lui non è mica suo padre che ora può rimproverarla, chiuderla in camera, buttare la chiave, blindare la finestra, insomma tutte quelle cose che un padre farebbe a sentirsi dire una cosa del genere. Non riprendersi a muoversi però, lascia che sia lui ad avvicinarsi «Va tutto bene» e non è chiaro se si riferisca a se stessa o a un tutto universale di due vite che continuano ad avvicinarsi e collidere come due parti di un ingranaggio che non riescono a incastrarsi tra loro. Non rifiuta quel contatto, seppur non sembra ritenere di avere necessità di un sostegno, resta tuttavia ferma ancora «Vuoi...» abbassa lo sguardo «vuoi delle risposte» non è esattamente una domanda, ma ne ha l'intenzione e quindi quella leggera inflessione che lascia le parole a metà tra il chiedere e l'affermare.
Malcolm
Nel sentire che è stata ad un rave schiude un attimo le labbra, poi le stringe di nuovo e deglutisce, focalizza il pensiero su un rave, e la prima cosa a cui pensa è che sa cosa si faceva ai rave dei suoi tempi, anni 60 e 70, figli dei fiori, Woodstock, male assoluto, tabù infrangibile nella sua famiglia ultra-conservatrice. Ma i rave di oggi? Boh. «Hm… ok…» dice un po’ a disagio, ma non arrabbiato. Più che altro confuso, non ha bene la dimensione di cosa può aver fatto Ginevra: bevuto? Si è drogata? Ha fatto sesso selvaggio? Non gli importa. Dopo qualche attimo di silenzio aggiunge, come a dirle che va bene perché anche lui ha avuto una condotta tutt’altro che irreprensibile, sono pari insomma: «Sono stato da solo e … ubriaco...» confida imbarazzato, abbassando per alcuni istanti lo sguardo. Nei suoi standard questo è altrettanto “illegale” che essere stati ad un rave, capiamolo: la cosa potrebbe essere davvero comica, tanto più perché lui è terribilmente serio nel paragone. Annuisce al fatto che vada tutto bene, se ne convince, e si avvicina a lei, raggiungendola per darle un goffo aiuto. E sembra non sapere come maneggiare quella donna ora, non sa da dove partire, il sesso gli fa paura e cerca di concentrarsi su una lista di pensieri che ha proprio buttato giù nero su bianco, automotivazionali. Cose da pazzi, letteralmente. A quella affermazione/domanda, resta un momento in silenzio: «No..» soggiunge «Sei venuta, è già una risposta.» nel senso di una risposta sufficiente. Dopo un attimo aggiunge: «Non necessariamente, non ora. Se e quando vorrai.» precisa, perché le lascia la libertà di esprimersi eventualmente. Tira su col naso nervosamente, per poi sbuffare un mezzo sorriso: «Avevo preparato del vino» una cosa romantica «ma non è una buona idea.» concorda con sé stesso. Lui è stato ubriaco, lei non è in condizioni di bere. Cerca di appoggiarsi meglio a lei, fisicamente: prova ad essere da una parte di galante accompagnamento, dall’altra di farla accostare a lui, tenendo le mani sui suoi fianchi. Primo pensiero in lista: sono nella loro casa, isolati dal resto del mondo, se fai sesso nessuno verrà a saperlo, nessuno sta giudicando. Prova a fermarla, dolcemente, prova ad avvicinarsi per baciarla. Cerca di non piangere.
Ginevra
«mh» annuendo appena sentendo ciò che ha fatto «beh, si... anche io...» perché insomma, a parte quelle migliaia di persone che si radunano appositamente, a un rave, uno è da solo in fin dei conti. Ascolta poi il resto con lo sguardo abbassato ancora, fin quando sente del vino. Le fa corrugare la fronte «no...?» essere una buona idea, vorrebbe confermare che no, non lo è, ma come mai le sfugge così, interrogativo? In certo senso si sente anche lei incredibilmente impacciata, non va bene, non pensa che vada bene. Si ferma e non si muove quando lui si avvicina per baciarla, non si allontana di certo, ma nemmeno va incontro al suo gesto. Non sa bene cose fare in quella situazione e può lasciare tutto ai tempi e ai modi di qualcun altro. Non che lo faccia a cuor leggero, perché lei non è così, non ha questa cautela solitamente.
Malcolm
Assente alle prime parole, lasciando cadere lì il discorso delle rispettive “autodistruzioni”. Nel sentire quel monosillabo interrogativo a proposito del vino, si fa indeciso e a sua volta chiede: «Lo è?» una buona idea. «Voglio dire… siamo stati ubriachi…» dice con una certa tensione e in modo impacciato, a cercare di spiegare perché la ritiene una cattiva idea. «Però… se vuoi… insomma è lì, il vino» commenta, lasciandole scelta. Alla fine un po’ di vino non ammazzerà nessuno dei due si suppone. Comunque poi cerca di baciarla e riesce a percepire dopo un po’ che questa Ginevra non corrisponde a quella che diceva di volergli strappare i vestiti di dosso. Continua a baciarla però, con le mani appoggiate sui suoi fianchi che scivolano verso la schiena, e solo alla fine si stacca un po’ da lei, pur restando ad occhi chiusi a qualche millimetro dalle sue labbra. Deglutisce e sussurra: «Per favore, non aver paura» lui a lei, ecco. Possiamo interpretarla come un “ho già abbastanza paura io per entrambi”. «I-i-io sto provando…» abbozza, goffamente. Quanto si sente inadeguato. Vorrebbe non parlare più ma mentre cerca le sue labbra di nuovo e alza una  mano fino al collo di Ginevra, aggiunge sussurrandole addosso: «Ti prego.. fai quello che vuoi… sono qui…» dice in una vera e propria supplica, per tornare a baciarla, dandole qualche frazione di secondo per decidere di essere se stessa.
Ginevra
Il vino, ritiene, può essere in fondo una buona idea per aiutare a sciogliere qualche tensione, ma può attendere qualche minuto per quel bacio che ricambia anche se con quella cautela che certo non le è propria. «Non ho paura» risponde con le labbra che sfiorano quelle di Malcolm tanto sono vicini e va a cercare di nuovo le sue labbra con una sorta di impeto ora che viene però quasi subito trattenuto e prova a farsi indietro, senza staccarsi completamente da lui, ma arretrando con il busto e abbassando il viso «no» dice chiudendo gli occhi e immediatamente si affretta a spiegare quel rifiuto a fare ciò che vuole «non voglio.» porta le mani sulla sua schiena mentre lo dice, di fatto per trattenerlo temendo che lui possa allontanarsi da lei, quindi prosegue «non voglio che tu debba fare qualcosa solo perché ti senti obbligato da me a farla» scuote appena il capo cercando comunque di dargli poco spazio di reazione prima che lei abbia terminato «devi... » si corregge «dovresti desiderarlo, tanto da non avere alcuna paura, da non avere nemmeno modo di pensare alla paura» abbassa lo sguardo di nuovo, con la fronte che va a corrugarsi leggermente, perché le costa molta fatica dire quanto sta dicendo, non perché non lo pensi giusto, ma perché lei invece quel desiderio ce l'ha già «non renderlo un programma, in agenda, da portare a termine» non c'è un rimprovero sotteso a quelle parole, sta solo dicendo come pensa dovrebbe essere, senza che l'ideazione del programma possa condurre ad ansie e paure e ragionamenti e perché tutto sia «più semplice e spontaneo» le sfugge, in un fil di voce, da quei suoi pensieri.
Malcolm
Anche lui più o meno parla e la bacia nello stesso tempo, ed è qualcosa che gli piace, che baciarsi e parlare siano una cosa sola, tutto è più semplice. Sorride vagamente a quell’impeto altrui che sente e che lascia fluire e che ricambia un po’, fino a che lei non si trattiene rispondendogli. Arretra un po’ anche lui, anche se non si stacca da Ginevra, resta accostato a lei senza manifestare alcuna intenzione di allontanarsi che non sia quel poco per riaprire gli occhi su di lei. Scuote il capo alle prime parole, sul sentirsi obbligato: «No.. n-n-non..» ma non dice niente di concreto anche perché Ginevra riprende subito e lui la fa parlare. Annuisce a lei, con convinzione, e poi sbuffa un sorriso nervoso e vagamente imbarazzato nel sentire che non deve essere un programma. Non perché il suo sia effettivamente un programma in agenda da portare a termine, quanto perché solitamente lui funziona proprio così. La semplicità e la spontaneità sono parole che ricorrono raramente nella sua natura. La osserva e a quelle ultime parole sfuggite, la sente così bella che a sua volta sussurra: «Ti amo.» una sorta di promemoria che non si stancherà mai di ricordarle. E cercando di tirarla nuovamente a sé, prova a spiegare, a voce bassa: «Io lo desidero. Davvero. Solo che non so come… come fare. Ho paura di sbagliare, tutto qui, di essere troppo poco o di fallire.» confida a lei senza timore. «Aiutami a trovare il modo. Fai quello che vuoi.» le chiede nuovamente, alla luce di una migliore spiegazione dei fatti. «Poi verrà da sé…» mormora, mentre torna a cercare le sue labbra, di stemperare la tensione e lasciarsi andare per lei, per loro.
Ginevra
Lo ascolta e non potrebbe fare altrimenti così concentrata su di lui come è. Combatte una batteglia interiore tra ciò che lei desidera e ciò avverte da Malcolm, la paura che lui stesso confessa di avere, ma quando lui si avvicina nuovamente a cercare le sue labbra è davvero solo un istante brevissimo quello che la vede incerta, incapace ancora stabilire quale parte abbia vinto quella battaglia, l'istante dopo è dimenticata, come se non fosse mai nemmeno avvenuta e lo bacia con sicurezza. Allontana le mani dalla sua schiena per appoggiarle sul suo petto e farle salire fino alle spalle, sotto la giacca, la spinge indietro per toglierla, senza smettere di baciarlo con baci brevemente interrotti solo nelle necessità di quei movimenti. Tolta la giacca, accarezza con forza le sue spalle e le sue braccia sulla stoffa della camicia, quasi volesse davvero strapparla, torna ad allontanare il viso dal suo per andare a sciogliere il nodo della cravatta con lo sguardo che solo brevemente si rivolge a quanto sta facendo, ma resta principalmente sul viso del giornalista.
Malcolm
Si lascia guidare da Ginevra, dalla sua ritrovata sicurezza di cui si compiace perché gli dà a sua volta una dimensione. Si dona a lei, ricambiando un po’ quella decisione, ripetendosi in testa che va tutto bene, che è tutto giusto, che il passato deve stare fuori da quel momento, fino a che la paura svanisce ed emerge la tenerezza e la timidezza nel desiderio, che sono cose ben diverse dalla paura. Resta ad occhi chiusi, la bacia con una crescente “avidità” che sente nascere dentro. Come se unirsi anche fisicamente fosse una parte ora essenziale della felicità, l’ultimo tassello per completarsi. Il corpo abbandona via via la tensione o meglio la cambia con quella tensione rivolta solo a Ginevra. Stacca le mani da lei per lasciare che gli tolga la giacca, si lascia accarezzare e con delicatezza, mentre continua a cercare le sue labbra, anche solo sfiorandole con una specie di insaziabile richiamo, la aiuta a sciogliere il nodo della cravatta, così da ritrovare le mani di Ginevra fra le proprie. Forse nel fare tutto questo la spingerà, o quanto meno la condurrà, con delicatezza verso la parete, facendola arretrare.
Ginevra
Sfiora le mani di Malcolm nello sciogliere il nodo della cravatta mentre arretra quasi inconsapevolmente sospinta da lui. Lo bacia quasi con urgenza mentre le mani vanno a sbottonare la camicia, senza calma, senza cautele di sorta, quasi temesse di essere interrotta da un momento all'altro. Sbottonata la camicia porta le mani sul suo petto per accarezzare la pelle nuda. Sfila via la cravatta dal colletto della camicia, tenendola da uno dei due capi, arrotolando il tessuto alla mano quasi fosse una corda a cui doversi tenere. La tiene lì, in mano, anche mentre continua ad accarezzarlo con prepotenza e con quell'ansia di venir fermata che la fa agire con fretta, ma non senza cura nei gesti che compie. Cerca di liberarlo anche dalla camicia mentre abbandona le sue labbra solo per scendere a baciargli il collo. Le mani scivolano verso la cintura dei pantaloni, sfiora con la punta delle dita la pelle nel farlo, ma non è certo delicatezza quella che si può percepire in questo gesto. Ha dimenticato, o completamente accantonato, il pensiero dei timori di Malcolm.
Malcolm
La segue fedelmente, prestandosi senza riserve ai ritmi della compagna, anche se li trova incalzanti, se ne accorge ma in un primo momento non obietta nulla. Anche perché il desiderio altrui lo conforta, gli fa capire che a sua volta sta andando bene. La bacia anche lui, in modo più passionale, a volte dentro di lui emergono “voci” accusatorie,  che tacita esprimendo più intensità nel bacio, più rabbia, come se volesse soffocarle approfondendo fisicamente il rapporto con Ginevra. Lei probabilmente avrà la sensazione di un maggiore coinvolgimento, proprio per questo motivo, perché canalizza in lei quello che non vuole sentire in se stesso, quei fantasmi che, abbassate del tutto le proprie barriere, assumono forme inquietanti. Ma non prevalgono, non stasera. La fa arretrare finché lei non sentirà la parete dietro di sé e nel frattempo le permette di sbottonare la camicia, mentre lui a sua volta posa le mani sul suo collo e, via via, scende con forza, aderente alla sua pelle, fino alle spalle che cerca di scoprire liberandole una alla volta dal vestito. «Ehi.. sono qui, sono qui» biascica, ansimando un po’, come a ricordarle che non va da nessuna parte, che non scapperà e non si ritrarrà. E che quindi non c’è bisogno che abbia quella fretta, anche se lui stesso pare ricambiarla. Anzi, la sua non è fretta, è decisione, è rabbia, è istinto sfogato e sublimato in un approccio finalmente fisico. Se è riuscito a svincolare le sue spalle dal vestito che dovrebbe quindi lasciarla scoperta, prova a baciarle il collo e ad abbracciarla con le mani sulla schiena, aggrappate.
Ginevra
Ed effettivamente non può immaginare le voci accusatorie di Malcolm, sono qualcosa di così distante da ogni suo modo di essere che può a malapena arrivare a capire le sue difficoltà, figurarsi se così a fondo. Non risponde alle sue parole, ma avvicina le labbra alle sue per baciarlo con passione per quel "sono qui". Stacca le mani da lui per favorirlo in quel far scivolare il vestito che, però, ha una zip sulla schiena, la scollatura ampie permette di liberare una spalla, ma non l'altra ed è lei stessa che porta le mani dietro la propria schiena per aprire il vestito quel tanto che basta a lasciarlo cadere. Non trapela da lei alcun imbarazzo, non c'è per lei alcuna difficoltà nel perdere il vestito davanti a lui, nonostante sia la prima volta. C'è naturalezza nel suo muoversi, nei gesti che compie, nel modo in cui lo guarda o si lascia guardare, nel modo in cui lo accarezza. Nessuna forma di pudore e a ciò non si affiancano remore sul giudizio, che non teme, perché non rientra nei suoi canoni mentali l'idea che qualcosa possa essere giudicato per questo. Sposta i piedi per liberarsi del vestito caduto a terra, non che non sia mai capitato di inciampare nei propri abiti in momenti del genere, ma che non accada proprio stasera!
Malcolm
Ricambia i suoi baci e la sua passione, con la sua che pur avvertendosi è in qualche modo pudica, misurata. La aiuta a togliere il vestito e neppure lui si scandalizza della nudità altrui. Ha più problemi con la propria, per quanto non abbia alcun difetto fisico, forse qualche cicatrice qua e là, più o meno vecchia, ma cose di poco conto. La osserva con affetto e con tenerezza, dandole e dandosi tempo per fare tutto con calma. Faranno l’amore, prima forse contro la parete e poi spostandosi nella stanza da letto. E’ sul letto che si ritroveranno dopo un po’ di buon sesso, uno addosso all’altra, forse un po’ stanchi. Almeno Malcolm respira più profondamente per l’attività e comunque cerca di tenerla abbracciata a sé. «Va tutto bene?» le domanda, come se nulla fosse accaduto, il tono è basso, quasi sussurrato, lo sguardo rivolto un po’ a lei e un po’ all’ambiente relativamente nuovo. Oltre la stanza c’è il lago e c’è il silenzio.
Ginevra
Sta appoggiata a lui, con le gambe intrecciate alle sue, in quel letto nuovo che è loro; gli occhi chiusi seppur non sta certo dormendo. Le cicatrici più evidenti, anche perché recenti le ha sulle spalle, quella della freccia che ha ucciso John Doe, da una parte, quella di un morso dai denti affilati, dall'altra. Sorride alla sua domanda «Va tutto bene» risponde, un semplice "si" sarebbe forse troppo poco. Apre gli occhi e si scosta, solo il necessario a guardarlo e gli ripete la stessa domanda «Va tutto bene?» con la mano che sale a sfiorare il viso di Malcolm con la punta delle dita: l'arcata sopraccigliare, la tempia, lo zigomo.
Malcolm
Anche lui ha la cicatrice recente del morso ricevuto alle paludi, ma essendo al polpaccio non è affatto evidente. La accarezza un po’ dove le mani finiscono nell’abbraccio, sulla schiena o sui fianchi, la accarezza lievemente come a coccolarla, in un gesto ripetitivo e delicato che dà sicurezza per lo meno a lui. Ha potuto vedere le sue cicatrici ed anche ora le osserva, adesso che lei ha gli occhi chiusi. Annuisce vagamente alla sua risposta e quando è lui ad averla di rimando, le dà un’occhiata neutra ma affettuosa, rapida, per poi voltare un po’ il capo verso il corpo di Ginevra per darle un altro bacio dove meglio riesce, ma guarda altrove come se cercasse di ricordare qualcosa. Si lascia sfiorare ed accarezzare, respira piano e per tutta risposta dice: «Nuda sei semplice come una delle tue mani, liscia, terrestre, minima, rotonda, trasparente, hai linee di luna, sentieri di mela» e cerca di dirlo baciandola ancora delicatamente, quasi sfiorando il corpo altrui. «nuda sei sottile come il chicco di grano nudo. Nuda sei azzurra come la notte a Cuba, hai vitigni e stelle fra i capelli, gialla come l’estate in una chiesa d’oro.» e sorride, innamorato e divertito nello stesso tempo, mentre soffia queste parole sulla pelle di Ginevra.
Ginevra
Gli sorride a quelle parole, si sposta per cercare le sue labbra per un bacio delicato stavolta «più di tutti i momenti, ti amo quando sorridi», sottolinea quel più a indicare il non solo, l'aumentare di qualcosa già intenso; frappone poi tra le loro labbra le dita che appoggia su quelle di Malcom per accarezzarle. Sorride di nuovo, più apertamente «e quello sembrava un carnale Neruda» cerca di riappoggiarsi a lui stringendolo «restiamo così..» c'è un tono di invito nella voce a trascorrere la notte abbracciati e nudi. Non si staccherà da lui durante la notte, ma prima dell'alba tornerà a baciarlo, per svegliarlo accarezzando la sua pelle con il languore del risveglio e con la chiara intenzione di fare di nuovo l'amore con lui. Preparerà poi la colazione, foss'anche un semplice caffè, con la sua camicia addosso.
Malcolm
Dapprima annuisce serio alle parole di Ginevra e mentre la bacia sulle labbra altrettanto delicatamente, le risponde: «Ah io ancora non ho capito come fai ad amarmi. Per cui… mi fido» il tono è vagamente scherzoso. Si gode quei contatti, riscopre l’intimità dopo molto tempo, quando ormai non ci credeva più. Annuisce anche quando Ginevra riconosce Neruda e poi la stringe a sé, accettando implicitamente il suo invito. «Dormiamo un po’, ne abbiamo bisogno entrambi.» dice. La notte forse non sarà così serena per lui, non riposerà molto, benché non si stacchi mai da lei e si lasci svegliare così presto, per fare di nuovo l’amore e poi colazione in terrazza. Il loro primo mattino sul lago.
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