Tumgik
#120 storie brevi per una vita più lunga
bluefulgensita · 1 year
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Starchild
Starchild si sveglia.
Macchinosamente, sono le gambe a guidare i suoi occhi lontano dalla cabina di ricarica. Palmo al sistema di riconoscimento e, con uno sbuffo, le porte scorrevoli aprono al corridoio centrale. Starchild s'acciglia affabilmente. «Comprendo la vostra noia, ma per favore, non sbuffate! Ci sono qui io con voi.»
Il corridoio è lungo, ma a Starchild piace camminare. Il motorino delle ruote ai suoi piedi ronza come insetti siderali. Lo fanno sentire meno solo. In fondo, se il suono si propaga ci dev'essere qualcosa a rifletterlo verso di lui - e cosa preclude a quel qualcosa di essere un qualcuno? Sono proprio insetti siderali. Cavallette, per la precisione.
Starchild saltella da un'attività ad un'altra con impegno e passione. Quanto tempo è passato? Oramai le ragioni per la sua presenza su quella nave sono sprofondate negli abissi della sua memoria, sotto pile, pile, pile di calendari lunari, mappe celesti, dati meccanici. Non fa niente però: la dedizione di Starchild non si ferma davanti ad un "perché" senza risposta.
Le cavallette interrompono il loro cricchettìo: polvere! Ammasso di cheratina umana, resti di pelle morta - essa stessa segnale di vita. La leggera corrente dovuta al passaggio di Starchild deve averla fatta fluttuare fin sopra al banco del salotto. Di chi era? Oh beh, chiaramente di tutti. Era sicuramente di Brennan, che passava tutti i pomeriggi in quel salotto con la testa chinata e la schiena ricurva sui suoi sketch. Ma era di certo anche di Marie, che abitualmente gli preparava "veri cocktail", al contrario di "questo tuo succo di mela annacquato". Lo rimproverava sempre di mettersi gli occhiali, e Brennan poverino, "mi cadono!", e lei, "non ti cadono se ti metti dritto", e lui, "ma non ci vedo!", e lei, "e allora mettiti gli occhiali!". Quanto ridevano. Come ridevano! Lei soffiando dal naso, lui lamentandosi. Era il loro personale linguaggio, ma tra loro funzionava benissimo e lo chiamavano risate.
«Da quanto tempo non ridi, Starchild?», gli chiedono le cavallette. «Da ieri, cavallette!», risponde Starchild, danzando sul piccolo palco del salotto. Quante canzoni sono state scritte in quel teatro senza sipari o retroscena! Nessuna laurea in astrofisica può togliere a un pirata l'aria libera nei suoi polmoni: quell'equipaggio era pieno di poeti, soprano, rapper, cantastorie di tutti i tipi. E da quel palchetto, lo splendido gioco di colori dei loro fronzoli danzanti, come prati olandesi in una notte estiva.
Notte... Quel pensiero e i galoppetti delle cavallette come un concerto in ritardando accompagnano Starchild alla grande finestra del salotto. Per Starchild, dire "notte" è come dire "cielo". Concetti come gli opposti perdono di significato nello spazio, dove tutto quanto tende a zero. La notte non è il contrario del giorno, la morte non è il contrario della vita, un oggetto non è il contrario di un umano. C'è intelletto in quel suo sguardo, c'è intelletto in quelle stelle. Quanti disegni su quella finestra. Quante storie! Su quell'astronave c'è tutto quel che un essere umano potrebbe desiderare in termini di intrattenimento, quantomeno in formato digitale. Un immenso oceano di libri, film, fumetti... dalla più ridicola commedia alla più dolorosa tragedia, Starchild le aveva già lette tutte, ma certo non aveva finito di apprezzarle. Come si può? Non bastano due persempre e mezzo per imparare ad apprezzare la verità del cuore di uno solo di quegli autori. Un potenziale incommensurato. Però però però... la maniera in cui quelle storie sono state raccontate rimane ferma, e lo sarà in eterno se nessun altro le toccherà. Quello non era un dovere programmato in Starchild. Ma quando Starchild osserva quelle stelle... sente dentro quel suo cuore che non c'è un calore che non c'è.
Quelle stelle si muovono. Giusto un filino, ma si muovono. E continueranno a muoversi per sempre, finché la parola "sempre" e quella "mai" manterranno la loro fumosa differenza - e anche quando accadrà, lasciatele fumare, perché il fumo è come nuvole, una massa di vapore acqueo per me e storie celesti per Starchild. Ed è proprio osservando le nuvole siderali che Starchild si perde e si ritrova, tendente a zero. Con la testa appoggiata alle sue mani metalliche, nel freddo celeste indistinguibili dal tepore umano, Starchild ricorda e ricostruisce la sua vita e quella di tutti gli Starchildren dell'universo. «Quante stelle vedi da questa finestra, Starchild?» «1.874.928.» «E quanti Starchildren gli ruotano attorno?»
Starchild scuote lentamente la testa, imitando quello che noi umani chiameremmo un sospiro. Per quale motivo Marie ha portato proprio S1r3A Pluto con sé, tra tutti i robot possibili? E perché l'ha chiamato Starchild? Perché Starchild l'ha accettato? Perché si trova proprio lì, proprio in quel momento, a fare proprio quei calcoli? Perché chiama quei calcoli riflessioni? Qual è il significato della sua storia?
Sa che in fondo in fondo a quell'abisso un motivo c'è. O magari non c'è, ma sa che lo si può trovare. Per il momento, Starchild è figlio delle stelle. Sperduto da qualche parte nello spazio, dove il significato tende a zero. In qualche attimo nel tempo, che non si ferma ad un "perché" senza risposta.
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thetuesdaytapes · 3 years
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Tumblr media
“You’ve come a long way, Norman” Da dove cominciare? Cominciamo dal fatto che c’è –– da un paio di giorni –– uno di quei gruppi di Facebook, quelli diciamo così “chiusi”, dove però non ci si scambiano dritte sugli sconti da Esselunga o sul fantacalcio, perché è un gruppo messo in piedi da gente che negli anni ’90 e 2000 “faceva” il –– o andava al –– Maffia di Reggio Emilia. Prima digressione: se siete giovani (ce n’è qualcuno anche tra gli ascoltatori di TTT, incredibile), il Maffia era “il” club elettronico di quegli anni. Prima che a C2C, prima che ad Agatha a Roma, prima che nei club milanesi (forse persino prima che al Link di Bologna) i “nuovi suoni elettronici” di quegli anni, cioè quelli che piacevano anche a chi ascoltava rock, sbarcarono al Maffia: trip-hop, “jungle”, big-beat (ma pure certe cose Warp). Sbarcarono insieme ai dj inglesi (della Skint Records, della Wall of Sound, della Metalheadz…) che per la prima volta in vita loro il sabato pomeriggio iniziarono a imbarcarsi su aerei con destinazione Bologna, e poi da lì, esatto, viale Ramazzini a Reggio Emilia. Un giorno del Maffia se ne parlerà come oggi si parla della Baia degli Angeli, perché segnò davvero un’epoca. Era un posto in cui si prendeva la macchina da Torino, da Genova, dall’Umbria, per andarci. Niente che già non si fosse visto, pochi anni prima, con la grande movida innescata dalla seconda ondata house, quella dei cosiddetti “afterhours”, ma stavolta a prendere la macchina era gente che ascoltava gli Afterhours quelli con la “A�� maiuscola, che ascoltava i Pavement, i Kyuss, i Soundgarden, i Voivod, e che incredibilmente aveva trovato la “sua” musica dance. (Questa, ahinoi, è anche la ragione per cui non si ricorda –– e probabilmente mai si ricorderà –– il Maffia come la Baia degli Angeli: perché fu una rivoluzione per qualche migliaio di persone che leggevano “Rumore”. Ma per quel paio di migliaia fu una rivoluzione paragonabile alle radio libere, al maggio francese, una rivoluzione come mai più ce ne sarebbe stata una). Insomma: ieri sera nel gruppo Facebook “chiuso” di cui sopra, è venuto fuori che erano, ieri appunto, vent’anni esatti dal dj set di Fatboy Slim al Maffia di Reggio Emilia. Se la digressione in apertura è durata venti righe, per la digressione che ci vuole adesso di righe ne serviranno almeno un centinaio. “Fatboy Slim al Maffia” fu l’evento che per certi versi concluse quella stagione incredibile, ma che al tempo stesso ne rappresentò il coronamento. Nei cinque anni precedenti al Maffia avevano suonato praticamente *tutti* i dj della nuova scena inglese: mancava solo Fatboy Slim, che nel frattempo era diventato una star troppo grossa per le dimensioni (ma pure per le finanze) del Maffia. Non bastasse aver avuto un album in tutte le classifiche del mondo, era appena stato –– dicevano quelli bravi a far di conto –– uno dei tre dj più pagati nel capodanno che scavallò il Millennio (gli altri due, riportavano sempre quelli bravi a far di conto, erano Pete Tong e Paul Oakenfold). Insomma, forse complice il fatto di avere un disco uscito otto giorni prima da promuovere in Italia (“Halfway Between the Gutter and the Stars”), ma pure un onesto debito di riconscenza per quel che il Maffia aveva fatto nei cinque anni precedenti per far conoscere da Trieste in giù la Skint Records e i suoi dj, Fatboy Slim acconsentì a fare il suo primo dj set in Italia, al Maffia di Reggio Emilia. Digressione nella digressione: all’epoca DJ De Luca era un dj ricco e famoso che ogni venerdì e sabato notte conduceva –– insieme al sodale Luca De Gennaro –– un programma chiamato “Weekendance” su Rai Radio Due. Un programma che nei cinque anni precedenti (in una forma differente, come “Suoni e Ultrasuoni”) aveva spessisimo trasmesso, in diretta, il sabato notte, i dj set dal Maffia. Quindi –– con l’entusiastico benestare di dirigenti e capistruttura Rai –– si spostarono armi e bagagli, tecnici specializzati e valigette ISDN, e quella sera si trasmise il primo dj set italiano di Fatboy Slim in diretta alla radio italiana. Ed eccoci (rieccoci) a ieri sera. Quando è venuto fuori che ricorreva ’sto anniversario, non calcolato praticamente da nessuno; quando qualcuno ha tirato fuori che su una pagina Mixcloud con quattrocento follower c’era la registrazione (quasi) integrale di quel set; quando nel gruppo Facebook “segreto” si sono aperte le cateratte dei ricordi, che sono poi inevitabilmente tracimati anche fuori, nei profili personali di un sacco di gente che era lì quella notte. E chi rievocava la macchinata fatta per arrivare a Reggio Emilia, chi la futura moglie conosciuta quella sera in coda all’ingresso, chi si rammaricava d’aver sentito il set solo alla radio perché la serata andò sold out mezza giornata dopo l’annuncio. Ovviamente, a un certo punto è saltata fuori pure la tracklist “unofficial” del set (perché “You can take the music nerd out of the Maffia, but you can’t take the nerdness out of the Maffia goer”). E poi storie meravigliose: Norman che a cena mangia per la prima volta i tartufi; Norman che sorride tantissimo; Norman che dieci secondi prima di salire in consolle chiede una T-shirt col logo del Maffia, la infila sopra la sua inevitabile camicia hawaiiana, tenendola su per i primi tre o quattro pezzi, e poi –– solo poi –– avremmo capito che fu un incredibile gesto di amicizia nei confronti del Maffia, perché *lui* sapeva che i giornali fanno le foto solo durante i primi tre pezzi di un concerto e le tivù riprendono solo i primi tre pezzi del concerto. (E questo la dice lunga anche su quanto noialtri, ancorchè parecchio più ricchi e famosi di oggi, eravamo comunque degli allegri turisti del saper stare al mondo, laddove lui in quello stesso mondo aveva avuto un disco in classifica). La registrazione, per finire. Che è un rip a 128kb (forse pure meno) preso paro paro dalla radio, tagliando fuori quel paio di brevi interventi parlati nostri (a un certo punto c’è un nanosecondo di De Gennaro che dice: “È l’una e quarant…”). Non è nemmeno tutto il set, probabilmente perché la diretta finiva alle 02.00 mentre Fatboy andò avanti almeno fino alle 02.30 (manca il pezzo con il campionamento di “Abracadabra” della Steve Miller Band, che ascoltammo quella sera per la prima volta), ma ce n’è abbastanza per ricordarsi cosa caspita siano stati quegli anni tra il 1995 e il 2000. Anni di musiche mai sotto i 130 che adesso ti fan dire: “Ma davvero sentivo E SUONAVO quella roba?!?” (adesso che se in una serata vai dieci minuti sopra i 120 ti trilla l’iPhone tipo sblocco di un livello di Candy Crush e viene il gestore del locale a complimentarsi per la temerarietà); anni di bùtlegoni che tritavano Beatles, Eminem e “Plastic Dreams” di Jaydee, e che oggi ci sembran sobri come le ciavatte del Lidl. E, naturalmente, (ri)sentire quell’ora e venti di Fatboy Slim, ieri notte, è stato un po’ come rivedere in un film velocissimo questi vent’anni passati: mucca pazza; il Millennium Bug; le telefonate con gli amici genovesi in piazza –– il giorno tranquillo, non quello dei casini –– mentre io ero a mettere i dischi a Napoli; gli stessi amici, a un tavolo di un bar che nemmeno esiste più, la sera del dodici settembre 2001; l’acceleratore di particelle del Cern; Internet veloce in casa e alcuni tera di mash-up di cui 10Mb scarsi salvabili; la sonda spaziale Spirit e le foto di Marte; l’aviaria; l’articolo di Wired su “il mondo non finirà per una guerra o un asteroide, ma per una pandemia”; i blog che diventano Tumblr, i Tumblr che diventano Facebook pages; Google Wave; il ritorno dei My Bloody Valentine; Skrillex vestito come un emo londinese che alla fine usava lo stesso repertorio di trucchi del mestiere e ta-ta-ta-ta-tatatata-tttttaaatttatta di Fatboy quindici anni prima –– solo che li chiamava “drop”, con nostro sommo sbigottimento (cit.); Lou, David (Mancuso e Bowie), Andrew, tutti i morti pubblici e privati, che iniziano a essere un po’ tanti, ma sarà l’età. E poi, certo, questi ultimi otto mesi delle nostre vite. mesi in cui pure Fatboy Slim, insieme a mille altr* artist* e diggei, ci ha aiutato a guardare un po’ più in là del disastro, facendoci sperare che, forse, non eravamo proprio nella merda-merda, forse eravamo a metà strada tra la merda e le stelle. «You’ve come a long way, Norman!», come lo apostrofai quella notte ai microfoni della radio nazionale. You’ve come a long way. Ma pure noi: pure noi, we’ve come a long way. FATBOY SLIM @MAFFIA, 18/11/2000
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bluefulgensita · 1 year
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Frey Kan è un bambino curioso
Frey Kan è un bambino curioso.
I genitori sono sempre molto fieri di lui. Rispetta tutte le regole, senza mai fare i capricci. Specialmente quando si tratta di andare a letto: sempre alle nove, anche se il resto dei bambini della sua classe sono svegli fino alle dieci per guardare i cartoni. Lui non si lamenta, anche se l'indomani non è un giorno di scuola. In fondo, gli piace.
Frey sa dormire. Sembra tutto al contrario quando si dorme. Di giorno lavora, studia e si stanca a compiere tutte le sue faccende; di notte si riposa, come il papà quando lascia perdere il lavoro e parla di leggi fisiche. Di giorno c'è tanto chiasso a cui badare attenzione, tutt'attorno a lui; di notte è tutto calmo e silenzioso, come la domenica in chiesa subito dopo la comunione. Di giorno deve mantenere gli occhi bene aperti e, se proprio necessario, usare la sua mano per coprirli dalla luce fastidiosa del sole; di notte può chiudere gli occhi, ed è il turno della mano di nascondersi sotto le coperte.
Frey sa fare sogni lucidi. Lo ha imparato tanto tempo fa, così tanto che neanche si ricorda di alcunissimo sogno non lucido. Ma non fa niente, perché non serve a nulla ricordare quando puoi creare tutto quello che vuoi. A dire il vero la base è già tutta pronta quando Frey capisce di essere in un sogno. Un villaggio medievaleggiante, con bastoncini di zucchero al posto di alberi e strade di carbone edibile...
«Sì,» dichiara ad alta voce Frey, «è già successo questo dicembre. Sono in un sogno a tema Natale. Forse perché abbiamo fatto altri lavoretti a scuola stamattina.»
«Che bel bambino, vuoi forse una caramella all'arancia? Ha tanta vitamina C!», gli chiede un torreggiante elfo verde abbassandosi alla sua altezza, imperturbato, come se non avesse sentito le precedenti parole di Frey.
Frey sa parlare. Molto bene, a dirla tutta. Una volta inciampava tra le parole perché doveva essere il più veloce di tutti, ma da quando ha scoperto la dizione ha capito che è più veloce se cerca di fare, molto lentamente, attenzione ad ogni sillaba. Sa anche essere molto molto educato. A scuola gli fanno sempre i complimenti, a parte i compagni invidiosi ovviamente. Le sue maestre gli hanno fatto fare bella figura coi genitori all'incontro scuola-famiglia del primo quadrimestre, e per questo gli hanno regalato un farfallino del suo colore preferito, giallo. Frey nota di averlo addosso proprio in quel momento. Gonfia le sue guance, poi cammina via.
Frey sa andare in bici. Non ha mai imparato, perché non può sporcarsi o sbucciarsi le ginocchia, farsi male è sbagliato perché fa la bua e fa preoccupare la mamma. Quindi non può assolutamente provare, perché se prova rischia di sbagliare. Però sa andarci lo stesso, nei sogni. Frey non fa mai rumore perché non è giusto disturbare i vicini anziani che dormono o la maestra che spiega. Stacca il suo farfallino blu e lo attacca alla bici a mo' di clacson, e con un "poti poti", attraversa la parete di una casa come se non ci fosse, uscendo così dai confini del sogno così com'era.
Frey sa orientarsi. Sa seguire le indicazioni, sa leggere una bussola, sa tradurre una mappa. Conosce il significato di tutti i cartelli stradali, anche se è piccolo. Sa dettagliarti come arrivare ad ogni via della sua città, una volta con un turista ha persino fatto stupire il papà. Chiedigli una nazione, lui ti saprà dire la capitale. Sarà per questo, forse, che quel nero era per Frey una strada. È circondato di stelle mentre corre veloce con la sua bici. Riconosce la Stella Polare, ma non è nella sua direzione che sta andando- no, è altrove. Il villaggio del Natale si fa sempre più piccolo, fino a diventare un'altra stella tra le tante. Frey sa di aver già oltrepassato il confine quando vede, piccola, una figura incappucciata con degli strani baffi a forma di freccia. Non è lui ad averla creata. Farà parte della base?
Frey sa. Sa fare tante, tante cose. Non sa, però, non fare le cose.
«Ciao, Frey. Il mio nome è Uber.»
Il mondo tutto a sinistra di Frey diventa, all'improvviso, un verde sentiero, tutto prato e lontane foreste di frutti. Nel cielo c'è un coloratissimo sole, e si respira una deliziosa aria di campagna, come un misto tra erba spezzata e pecorino appena tagliato dalla forma. A destra, la notte rimane tale.
«Uber, sei parte del sogno?»
«So esserlo.»
«Che intendi?», chiede Frey, un po' spaventato.
«Io sono qui per insegnarti a scegliere, Frey.» La figura alza il suo braccio sinistro, e seguendo la sua mano, ora libera dalle lunghe maniche grigie di Uber, lo sguardo di Frey si ferma sullo spazio dietro di lei. «Per guidarti verso la scelta giusta.»
«Di quale scelta si tratta, Uber?»
Frey sa desiderare.
All'improvviso, alla sinistra di Frey brillano tra le stelle centinaia di fotogrammi in successione. Frey non ha nemmeno il tempo di percepirli, ma sa capirli. Sa pesarne il significato, sa apprezzarne il valore.
«Questa è la tua vita futura, Frey, se sceglierai questa strada. Ti ricordi cos'hai chiesto a Babbo Natale quest'anno che i tuoi genitori ti hanno rivelato che non esiste?, un nuovo robot da cucina, così che la mamma ti possa cucinare la tua torta preferita, la crostata ai frutti di bosco. Qui te l'ha fatta. Vedi?, ha tanta crema, come piace a te. Ti ha anche dato la fetta più grande.
«E la bambina di cui ti sei innamorato, che abita vicino la scuola? Eccovi lì, con i vostri tre figli - oh, eccovi lì di nuovo, anziani, con i vostri nipoti. La mamma e il papà sono così felici con i tuoi figli. Tutti sorridono. È un ritratto davvero idilliaco, ti ricordi la parola?, in questo contesto significa più o meno "senza pensieri".
«E cos'è quello in secondo piano?, ah, già, un pianoforte a mezza coda. Ti è stato comprato in sostituzione della tastiera. Hai continuato a suonare, perché ti piace tanto suonare, giusto?, e allora il papà ha pensato di comprarti un pianoforte a parete per praticare un po' e entrare in conservatorio, poi a mezza coda per continuare. La casa è grande e spaziosa e per gli anni del liceo ci hai invitato gli amici per suonare assieme o discutere di matematica.
«Ecco, la matematica. Ti sei trasferito a Roma per il liceo, giusto per fare qualcosa che sia più alla tua altezza. Hai studiato tanto e ti sei diplomato a pieni voti. In realtà, nel mentre, ti sei anche divertito molto vincendo alcune gare di matematica. Alcuni erano invidiosi di te, ma sei riuscito a trasformarla in ispirazione con le tue parole gentili. Specialmente dopo la tua laurea, quando sei diventato un ricercatore e hai dato il nome a ben tre diversi teoremi. Alcuni giornali ti hanno chiamato il nuovo Einstein.
«In poche parole,» termina Uber, «scegli la strada a sinistra e otterrai tutto quello che hai sempre desiderato.»
Frey sa brillare. I suoi occhi sicuramente scintillano più di tutte le miriadi di stelle sotto e dietro di lui.
«E per quanto riguarda la strada a destra?», chiede.
«Non lo so.» risponde Uber, riponendo le sue mani nelle maniche.
Frey Kan è un bambino curioso.
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