Tumgik
#7 giugno 1912
aki1975 · 3 months
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Il romanzo moderno nasce (1615) con il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes che per ragioni formali (la prosa anziché i versi come nei romanzi cortesi), narrative (lo studio dei personaggi, l’ironia, l’assenza di motivi didascalici) e contenutistiche (il tramonto dei valori cavallereschi) supera la letteratura precedente, dall’epica dantesca alla novellistica, dalla poesia di Petrarca alla drammaturgia di Shakespeare.
Nel Settecento diventerà - di contro all’epica cavalleresca - la forma letteraria borghese per eccellenza raccontandone l’ascesa, i valori, le aspirazioni nazionalistiche, le contraddizioni fino a venire messa in discussione dalla crisi della Prima Guerra Mondiale da cui deriveranno opere che metteranno in luce l’assurdo, l’alienazione, l’assenza di linearità del flusso di coscienza. La Prima Guerra Mondiale, anticipata dal naufragio del Titanic (1912) rappresenta la fine dell’età dell’innocenza della società europea e il termine di quel periodo che ricade sotto il nome di Belle Epoque, Gilded Age, età umbertina e giolittiana.
Breve cronologia della Prima Guerra Mondiale:
- 28/6/1914: attentato di Sarajevo
- 2/8/1914: invasione tedesca del Belgio. L’Inghilterra dichiara guerra alla Germania
- 12/9/1914: inizia la guerra di trincea sul confine franco-tedesco
- primavera 1915: le truppe anglo-francesi sono sbarcate in Turchia per sconfiggere l’Impero Ottomano e ricongiungersi, attraverso i Dardanelli, all’alleato russo. Sono sconfitte a Gallipoli da Kemal Ataturk
- 24/5/1915: entrata in guerra dell’Italia
- luglio 1915: battaglia del Col di lana
- settembre 1915: i tedeschi hanno la peggio alla battaglia della Marna
- ottobre 1915: occupazione della cengia Martini
- febbraio 1916: guerra di logoramento sul Verdun
- aprile 1916: battaglia del Col di lana
- maggio 1916: Strafexpedition austriaca sull’Altopiano di Asiago
- 10/6/1916: Salandra sostituito da Boselli come primo ministro
- luglio 1916: battaglia della Somme
- 12/7/1916: Cesare Battisti e Filippo Filzi impiccati a Trento
- agosto 1916: conquista di Gorizia
- 7/9/1916: Wilson presidente degli USA
- 21/11/1916: Carlo I succede a Francesco Giuseppe
- aprile 1917: gli Stati Uniti entrano in guerra
- agosto 1917: avanzata della Bainsizza
- 24/10/1917: Caporetto
- 6/11/1917: Rivoluzione d’ottobre
- 8/11/1917: Diaz sostituisce Cadorna
- giugno 1918: battaglia del Piave
- 16/7/1918: lo zar Nicola II ucciso a Ekaterinenburg
- ottobre 1918: Vittorio Veneto
- 2/11/1918: affondamento della Viribus Unitis
- 21/1/1920: Trattato di Versailles
Le tappe fondamentali del romanzo:
1532: Gargantua e Pantagruel (Rabelais)
1554: Lazarillo de Tormes (anonimo), il più noto frai i romanzi picareschi
1615: Don Chisciotte (Cervantes), racconto ironico della fine dell'epoca cavalleresca dopo la battaglia di Lepanto (1571)
i romanzi borghesi e avventurosi:
1719: Robinson Crusoe (Defoe), in viaggio per arricchirsi, non per un'avventura cavalleresca
1722: Moll Flanders (Defoe)
1726: I viaggi di Gulliver (Swift), allegoria del colonialismo inglese
1740: Pamela (Richardson)
1749: Tom Jones (Fielding), trovatello come poi Oliver Twist (Dickens)
1813: Orgoglio e pregiudizio (Austen) la cui protagonista, Elisabeth Bennet, sfida le consuetudini sociali del tempo e intende sposarsi per amore
1847: Cime tempestose (Emily Bronte) con il tenebroso Heathcliff. Della stessa autrice Jane Eyre, orfana che trova l’indipendenza e l’amore
1869: Piccole donne (Alcott)
1887: Capitani coraggiosi (Kipling)
i romanzi romantici:
1796: Wilhelm Meister (Goethe), romanzo di formazione del tipico artista romantico alla ricerca della sua ispirazione e vocazione
i romanzi storici:
1819: Ivanhoe (Walter Scott)
1830: Il rosso e il nero (Stendhal) che segue le ambizioni di Julien Sorel
1836: La figlia del capitano (Puskin)
1839: La Certosa di Parma (Stendhal) in cui Fabrizio Del Dongo vive gli ideali napoleonici nell’Italia della Restaurazione
1842: I promessi sposi (Manzoni)
1844: Il Conte di Montecristo (Dumas) in cui Edmond Dantès, accusato di bonapartismo, consuma la sua vendetta
i romanzi naturalisti:
1838: Oliver Twist (Dickens)
1850: Comedie humaine (Balzac), il cui titolo fa il verso alla Divina Commedia, e David Copperfield (Dickens)
1851: Moby Dick (Melville)
1856: Madame Bovary (Flaubert), storia dei tradimenti di Emma, oppressa dalla vita borghese di provincia, che compie un adulterio e poi si suicida. E' il romanzo realista per eccellenza, in cui l'autore osserva freddamente la materia come nel successivo L'educazione sentimentale (1869).
1862: I miserabili (Hugo) con la generosità del protagonista, Jean Valjean
1869: Guerra e Pace (Tolstoj) in cui la storia delle guerre napoleoniche fa sfondo alle storie dei protagonisti. La storia, come un pendolo, si muove a prescindere dalla gesta dei singoli individui.
1873: Il ventre di Parigi (Zola), racconto della repressione di un repubblicano nel Secondo Impero di Napoleone III
1877: Anna Karenina (Tolstoj). La protagonista, aristocratica bella e infelice, si perde nell’amore per il conte Vronskij e si suicida.
"Le donne sono la principale pietra d'inciampo nell'attività dell'uomo"
1885: Germinale (Zola) ambientato fra la vita dei minatori. Il romanzo naturalista è frutto del pensiero positivista e della temperie darwiniana di fine XIX sec. L'autore è onnisciente e in modo oggettivo studia la società dei più umili che fino ad allora aveva assunto un ruolo comico e non tragico.
1889: Mastro Don Gesualdo (Verga), parte del ciclo dei vinti
i romanzi decadenti:
1884: Controcorrente (Huysmans) con al centro il disprezzo verso il mondo dell’aristocratico Des Esseintes
1889: Il piacere (D’Annunzio) e l’alter ego dell’autore Andrea Sperelli
1891: Il ritratto di Dorian Gray (Wilde)
1897: Dracula (Stocker)
i romanzi ascrivibili al "realismo simbolico":
1915: La metamorfosi (Kafka). Con la trasformazione di Gregor Samsa in insetto, inizia il realismo magico e l’indagine nella complessità della coscienza umana.
1926: Il Castello (Kafka), scontro fra l’oscura burocrazia e l’agrimensore K
1940: Il deserto dei tartari (Buzzati). Come Calvino e Pavese, Buzzati coniuga una scrittura precisa e dettagliata dei fatti alla volontà di raccontare valori universali.
1949 - La bella estate (Pavese). Nei racconti e nei romanzi di Pavese la campagna diventa il luogo della verità, anche crudele, in contrapposizione della finzione cittadina: si coglie in questa letteratura l'influenza della letteratura americana (Melville, Steinbeck) e della coppia mythos e logos da cui quest'ultima è costituita.
i romanzi modernisti:
1922: Ulisse (Joyce). Leopold Bloom non è l’eroe omerico, ma l’essere umano comune seguito nella sua quotidianità;
1923: La coscienza di Zeno (Svevo), un antieroe alle prese con la difficoltà di smettere di fumare;
1925: La Signora Dalloway (Woolf) con il flusso di coscienza della protagonista che sta organizzando una festa.
1926: Uno, nessuno, centomila (Pirandello)
i romanzi esistenzialisti:
1866: Delitto e castigo (Dostojevskij)
1869: L'idiota (Dostojevskij) il cui protagonista è un nobile decaduto ed inetto di fronte ai drammi della vita
"La bellezza salverà il mondo"
1938: La nausea (Sartre)
1942: Lo straniero (Camus)
1947: La peste (Camus)
altri romanzi del primo dopoguerra:
1924: La montagna incantata (Mann) in cui viene rappresentato, in un lussuoso sanatorio di Davos, il tramonto della Repubblica di Weimar uscita dal Trattato di Versailles. Segue la struttura del romanzo di formazione, ma prelude significativamente non alla pienezza della vita, ma al crogiuolo della Prima Guerra Mondiale.
1925: Il Grande Gatsby (Scott Fitzgerald)
1929: Niente di nuovo sul fronte occidentale (Remarque)
1932: Brave New World (Huxley)
1938: La cripta dei Cappuccini (Philip Roth), elegia della fine dell’impero austroungarico vista da una famiglia della piccola nobiltà slovena. Un anno sull’Altopiano (Lussu).
1939: Furore (Steinbeck), ambientato durante la Grande Depressione del primo dopoguerra
1967: Il Maestro e Margherita (Bulgakov). Pubblicato postumo, rappresenta una metafore della dittatura di Stalin (il diavolo) e della libertà dello scrittore ("i manoscritti non bruciano").
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accadde...oggi: nel 1912 nasce Margherita Zoebeli
accadde…oggi: nel 1912 nasce Margherita Zoebeli
Margherita Zoebeli (Zurigo, 7 giugno 1912 – Rimini, 25 febbraio 1996) è stata un’educatrice e pedagogista svizzera. Lavorò in un primo tempo in tutta Europa con lo scopo di aiutare le famiglie di operai o le famiglie in fuga dalle guerre. Si trasferì poi in Italia, in particolare a Rimini, dove nel 1946 fondò e a lungo diresse il villaggio del CEIS (Centro educativo italo-svizzero).
Margherita…
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sabato sábado 27 giugno junio
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pangeanews · 4 years
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T.E. Lawrence: il decalogo per sabotare le condizioni ostili e vincere le avversità
Dopo aver girato la Francia in cerca di castelli, certo, forse, che la regalità non ha tempo e che la ricerca del Graal è lecita, ovunque, sempre, T.E. Lawrence, è il 1909, vaga per la Siria ottomana, studiando le rocche crociate. Torna in UK con uno studio sui Castelli dei crociati (recentemente ripubblicato da Castelvecchi) e una predilezione quasi profetica per il Medio Oriente. In ogni caso, dal 1910 comincia a scavare a Karkemis, sull’Eufrate, poi è a Beirut, ad Aleppo, nel 1912 a Tarkan, in una necropoli egiziana. All’epoca tra archeologo e agente in terra straniera la distanza è minima, si scovano i reperti del passato vigilando sugli interessi di oggi: Lawrence conosce in Egitto Gertrude Bell, archeologa, grande esperta di mondi arabi e ottomani, autentica stratega della “rivolta araba”. Arruolato tra le fila della British Army con il compito di mappare il deserto del Negev, alle dipendenze dell’ufficio del Cairo, Lawrence, che credeva a Erodoto non meno che a Churchill, iniziò così la sua azione in Arabia. Nel 1916, dopo una serie di rapporti speciali, è proprio lui a essere incaricato di affiancare lo Sceriffo Hussein durante la rivolta. Il resto è storia, pardon, mito e letteratura: la guerriglia contro gli ottomani, la presa di Aqaba, nell’estate del 1917, le azioni di sabotaggio, la conquista di Dar’a, l’ingresso a Damasco, il 4 ottobre del 1918. Quando T.E. Lawrence non era ancora “Lawrence d’Arabia” – lo sarebbe diventato nel 1918 in seguito al servizio del giornalista e attore americano Lowell Thomas, che fiutò ‘la storia’ – né il grande, oceanico scrittore dei Sette pilastro della saggezza, il 20 agosto del 1917, su “The Arab Bulletin”, T.E. Lawrence scrisse alcuni “articoli”, o meglio, “regole” utili per operare in territorio straniero, tra gli arabi. Sono giorni e mesi importanti per Lawrence. In giugno compie alcune ricognizioni in incognito nel nord della Siria e nell’Hawran – per l’inglese la vittoria passa attraverso una meticolosa mappatura del luogo alieno. A fine mese, Aqaba, dopo un paio di battaglie, è presa: il 6 luglio Lawrence passa il Sinai e Suez per chiedere aiuto inglese nel consolidare la conquista. Tra settembre e ottobre compie alcune scorribande lungo la ferrovia dell’Hegiaz, dando alla guerra ‘partigiana’ un valore autentico. Gli arabi lo chiamano ‘Lawrence il demonio’. Al netto del momento ‘particolare’, in verità, Lawrence detta consigli generali per vincere un nemico ostile e per convincere amici sospettosi. Ad esempio: adottare i costumi degli alleati, studiare i loro modi e metodi, mai abbassare la guardia, far credere di soccombere mentre si reagisce, preferire la pazienza alla violenza, fare di un disagio una situazione di forza, mai abbattersi. Insomma, le regole per vincere le resistenze dei capi sono le stesse che possono servirci per avere ragione di ogni giorno.
***
Le note seguenti sono espresse in forma di regola per maggiore chiarezza. Sono, tuttavia, le mie personali conclusioni a cui sono giunto, gradualmente, operando nell’Hegiaz, ora messe su carta come cavalli da guerra per principianti negli eserciti arabi. Sono destinati a essere applicati tra i beduini; cittadini o siriani richiedono un trattamento completamente diverso. Ovviamente, non sono adatti alle necessità di qualsiasi persona né vanno applicati invariabilmente a seconda delle situazioni particolari. Mobilitare gli arabi dell’Hegiaz è un’arte, non una scienza, con diverse eccezioni e senza regole certe.
1. Nelle prime settimane, procedi con cautela. Un inizio errato è difficile da espiare, e gli arabi fondano i propri giudizi su aspetti esterni che ignoriamo. Quando hai conquistato la cerchia interna di una tribù, puoi fare ciò che vuoi di te stesso, con loro.
2. Apprendi tutto ciò che puoi sul tuo Sceriffo (Ashraf) e sui beduini. Conosci le famiglie, i clan, le tribù; gli amici e in nemici, i pozzi, le colline, le strade. Fai tutto ciò ascoltando, tramite una indagine indiretta. Non fare domande. Impara a parlare il loro dialetto arabo, non il tuo. Fino a quando non sei in grado di comprendere le loro allusioni, evita di implicarti in una conversazione. Sii rigido, all’inizio.
3. Tratta solo con il comandante dell’esercito, con il gruppo in cui presti servizio. Non dare ordini a nessuno, riserva istruzioni e consigli al comandante. Il tuo compito è consigliare. Fagli capire che questa è la tua concezione del dovere: eseguire i piani comuni, condivisi.
4. Conquista e mantieni la fiducia del tuo leader. Rafforza il suo prestigio a spese del tuo prima degli altri quando puoi. Non rifiutare i compiti che potrebbe proporti, ma assicurati che in prima istanza ti vengano affidati in privato. Approvali sempre, e dopo le lodi, modificali in modo insensibile, facendo sì che ogni suggerimento sembri provenire da lui, finché non sia allineato alle tue opinioni. Quando raggiungi questo punto, tienilo saldo, conferma le tue idee, spingile in avanti, con fermezza, ma segretamente, in modo che nessun altro (e mai troppo chiaramente) sia consapevole del tuo lavoro.
5. Rimani in contatto con il leader nel modo più costante e discreto possibile. Vivi con lui, affinché nell’ora dei pasti e nelle udienze tu sia nella sua tenda. Le visite formali per dare consigli non sono così buone quanto i discorsi occasionali, dove l’attenzione è meno vigile. Quando gli sceicchi stranieri fanno ingresso per giurare fedeltà e offrire servigi, esci dalla tenda. Se la nostra impressione resta quella di stranieri in confidenza dello Sceriffo, gli Arabi ci saranno ostili.
6. Evita rapporti stretti con i subordinati durante la spedizione. Il rapporto continuo con loro ti renderà impossibile non andare al di là delle istruzioni del capo, date su tuo consiglio: in questo modo, rivelerai la debolezza della sua posizione e distruggerai completamente la tua.
7. Tratta i sottoposti con leggerezza. In questo modo ti manterrai sopra il loro livello. Tratta il tuo capo con rispetto. Lui ricambierà i tuoi modi e sarete eguali. La precedenza è importante tra gli arabi, devi ottenerla.
8. La tua posizione ideale: presente ma invisibile. Non essere né troppo intimo né prevaricante o serio. Evita di essere identificato troppo a lungo con uno sceicco, anche se è il capo. Il tuo lavoro ti obbliga a essere al di sopra delle gelosie e perderai prestigio se ti leghi troppo strettamente a un clan e alle sue inevitabili faide. Vendette di sangue e rivalità locali costituiscono l’unico principio di unità tra gli Arabi.
9. Sviluppare la concezione degli Sceriffi come naturale aristocrazia tra gli Arabi. Le gelosie intertribali rendono impossibile a qualsiasi sceicco di raggiungere una posizione di comando, l’unica speranza di unione tra gli arabi nomadi è che l’ashraf sia universalmente riconosciuta come classe dirigente. Gli Sceriffi sono per metà cittadini, per metà nomadi, e hanno l’istinto al comando. Il mero merito e il denaro non sono sufficienti: la venerazione araba per il pedigree e per il Profeta dà speranza al successo dell’ashraf.
10. Gli stranieri e i cristiani non sono popolari in Arabia. Per quanto amichevole possa essere il tuo atteggiamento, ricorda che lavori su fondamenta di sabbia. Agita uno Sceriffo davanti a te e nascondi la tua mente, la tua persona. Se ci riesci, avrai centinaia di miglia di paese e migliaia di uomini ai tuoi ordini.
11. Aggrappati al tuo senso dell’umorismo. Ne avrai bisogno ogni giorno. Un’ironia asciutta è quella più utile, che raddoppierà la tua influenza sui capi. Il rimprovero, se avvolto in un sorriso, agisce più a lungo e in profondità di un discorso violento. Il potere della mimica e della parodia è prezioso, ma usalo con parsimonia perché la saggezza è più dignitosa dello humour. Non far ridere uno Sceriffo se non tra Sceriffi.
12. Non mettere mai le mani su un Arabo: ti degradi. Potresti pensare, in questo modo, di aumentare il rispetto esteriore verso di te, ma ciò che hai fatto edifica un muro tra te e il loro io interiore. È difficile tacere quando le cose vengono fatte male, ma meno perdi la pazienza, maggiore sarà il tuo vantaggio.
13. Sebbene siano difficili da guidare, i beduini non sono difficili da dirigere: se hai la pazienza di sopportarli. Meno evidenti sono le tue interferenze, maggiore sarà la tua influenza.
14. Non cercare di far troppo con le tue mani. Meglio un lavoro tollerabile compiuto dagli Arabi di uno tuo, pur perfetto. È la loro guerra, tu devi aiutarli non vincere per loro. In verità, nelle ambigue condizioni dell’Arabia il tuo lavoro pratico non risulta così buono come credi.
15. Se puoi, senza essere troppo generoso, prevedi dei regali. Un regalo azzeccato è spesso efficace per conquistare uno sceicco sospettoso. Non ricevere mai regali senza ricambiare, non lasciare che ti chiedano cose o servigi: l’avidità farà credere loro che sei soltanto una vacca da mungere.
16. Il travestimento non è consigliabile. Sei un ufficiale britannico e cristiano. Allo stesso tempo, indossare vestiti arabi quando si è con una tribù ti permetterà di acquistare la loro fiducia, di essere in intimità con loro. Tuttavia, non ti concederanno nulla di speciale se ti vesti come loro. Le violazioni delle norme imputate a uno straniero non ti sono condonate in abiti arabi. Sarai come un attore in un teatro straniero, recitando la parte per giorni, notti, mesi, senza tregua, verso una incerta posta in gioco. Il successo completo – quando gli arabi dimenticano la tua estraneità, parlano con naturalezza, considerandoti uno di loro – è forse ottenibile solo con il carattere.
17. Se indossi abiti arabi, indossa i migliori. Gli abiti sono importanti tra le tribù e devi indossare quelli appropriati, per apparire a tuo agio.
18. Se indossi abiti arabi, vai fino in fondo. Lascia amici e usanze inglesi, ripiega sulle abitudini arabe. Alla pari con loro, è possibile per l’europeo vincere l’arabo: siamo più ostinati nell’azione e ci mettiamo più cuore. Eppure: la fatica di vivere e pensare in una lingua straniera e compresa a metà, il cibo inatteso, i vestiti strani, la completa perdita della privacy e della quiete, l’impossibilità, per mesi e mesi, di allentare l’attenzione, producono sulle ordinarie difficoltà una tensione più forte.
19. Le discussioni religiose saranno frequenti. Con i beduini, l’Islam è un elemento onnipervasivo e c’è poco riguardo verso l’esterno. La religione è parte della natura, per loro, quanto il sonno o il cibo.
20. Se l’obbiettivo è buono (un bottino) i beduini attaccheranno come demoni, sono splendidi avventurieri, la loro mobilità è un vantaggio, e i cacciatori di gazzelle sono ottimi tiratori. Se c’è prospettiva di saccheggio, vincerai. Non sprecare i beduini – non sopportano le perdite – attaccando le trincee o difendendo una posizione, perché non possono stare fermi. Non giocare in sicurezza.
21. L’allusione è più efficace di una chiara esposizione logica: non amano le espressioni troppo concise. Le loro menti funzionano come le nostre, ma con premesse diverse. Non c’è nulla di irragionevole, incomprensibile, imperscrutabile nell’arabo.
22. Evita di parlare liberamente con le donne. È argomento complesso, come la religione: le loro norme sono così diverse dalle nostre che l’innocua azione di uno straniero può apparire loro sfrenata.
23. L’inizio e il termine del segreto per trattare con gli arabi è osservarli, incessantemente. Stai sempre in guardia, non dire mai una cosa inutile; osserva te stesso e i tuoi compagni tutto il tempo; ascolta ciò che accade, interpreta quello che succede sotto la superficie; leggi il loro carattere, scopri i loro gusti e le loro debolezze e tieni tutto per te. Il tuo successo sarà propiziato dalla quantità di sforzo mentale che dedicherai ad esso.
Thomas Edward Lawrence 
*In copertina: T.E. Lawrence nel 1935, fotografato nello Yorkshire da R.G. Sims; è febbraio, il grande avventuriero e scrittore sarebbe morto tre mesi dopo
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lospeakerscorner · 5 years
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di Stanislao Scognamiglio
Si sente spesso parlare di personaggi di Portici per nascita o d’elezione dei quali si sta perdendo la memoria … Ritengo perciò doveroso ravvivarne memoria fornendo un breve profilo biografico tratto dal mio inedito Diario; avvenimenti, cose, fenomeni, uomini, vicende.  Portici e Vesuvio dalle origini a oggi, con il conforto di Autori di ogni tempo.
Marco De Gregorio è nato a Resina, l’attuale Ercolano, in provincia di Napoli, il 12 marzo 1829, da Francesco de Gregorio e da Elisabetta Beato.
Dopo il 1850, iscrittosi all’Accademia di Belle Arti di Napoli, ha frequentato «… i corsi di pittura del maestro C. Guerra», studiando soprattutto la pittura storica.
Durante l’anno 1851, alunno dell’Accademia, ha esposto alla mostra borbonica, un’opera a soggetto storico-biblico: Mosè che difende le donzelle ebree.
Conseguito il diploma in pittura, dalla vicina Resina, giovane pittore, si è trasferito a Portici.
Nel 1853, lasciando il soggetto storico-biblico, che ha caratterizzato la sua prima produzione, ha realizzato «… un’opera più moderna, Nello studio del pittore».
Nel 1859, nuovamente presente alla mostra borbonica, ha esposto Galileo Galilei e un Ritratto di un uffiziale dello Stato Maggiore dell’esercito in grande uniforme.
Nella casa studio, allestita in alcune stanze dell’ex palazzo reale porticese, nel 1858, ha ospitato il pittore paesaggista napoletano Federico Rossano (Napoli, 31 agosto 1835 – ivi, 5 maggio 1912 ).
Assieme all’ospite ha avviato un sodalizio pittorico e ad altri amici pittori, quali: il pittore pugliese Giuseppe Gaetano De Nittis (Barletta, Bari, 25 febbraio 1846 – Saint-Germain-en-Laye, in Francia, 21 agosto 1884), il pittore e scultore toscano Adriano Cecioni (Fontebuona, Firenze, 26 luglio 1936 – Firenze, 23 maggio 1886), ha avviato un sodalizio pittorico.
Il gruppo, rifacendosi al concetto di macchia e contrapponendosi al romanticismo dell’artista napoletano Domenico Morelli (Napoli, 7 luglio 1823 – Napoli, 13 agosto 1901) e al realismo del maestro abruzzese Filippo Palizzi (Vasto, 16 giugno 1818 – Napoli, 11 settembre 1899), ha dato vita a un nuovo movimento artistico.
Al neomovimento, identificato come Scuola di Resina o Scuola di Portici, dall’accademico Domenico Morelli ironicamente definita Repubblica di Portici, presto si sono uniti vari artisti, tra i quali: lo scultore Raffaele Belliazzi (Napoli, 9 dicembre 1835 – ivi, 23 maggio 1917), i pittori Alceste Campriani (Terni, 11 febbraio 1848 – Lucca, 27 ottobre 1933), Antonino Leto (Monreale, 14 giugno 1844 – Capri, 31 maggio 1913), Eduardo Dalbono (Napoli, 10 dicembre 1841 – ivi, 23 agosto 1915).
Di ideali repubblicani radicali, nel 1860, si è unito ai garibaldini e ha combattuto al Volturno.
Nel 1868, è divenuto socio della Promotrice di Belle arti di Napoli.
Nel 1869, si è recato in Egitto:
Durante i tre anni di permanenza nel paese nordafricano, ha dipinto «… quadri che danno una chiara immagine di quel paese».
Tra l’altro, su commissione del vicerè egiziano, ha dipinto anche un sipario per il nuovo teatro del Cairo.
Il suo lavoro gli ha procurato tale successo da essere invitato a rimanere come direttore della scenografia dello stesso teatro cairota.
Per quanto allettato dall’offerta dell’incarico di direttore, ha preferito tornare in Italia.
Nel 1871, quindi, ritornato a Napoli, ha ripreso la guida della Scuola di Portici che, tuttavia, si avviava al suo declino.
Ridotto in stato di miseria, ha tentato «… di lanciarsi su un mercato diverso da quello napoletano, troppo angusto».
Consigliato da Andrea Cecioni ad allargare il raggio di mercato, ha preso contatti con il mercante francese Adolphe Goupil (Parigi, in Francia, 1 marzo 1806 – Saint-Martin-aux-Chrartrains, 9 maggio 1893).
Però, il suo «…  temperamento poco incline al compromesso gli impedì di piegarsi supinamente alle esigenze del mercato e così non riuscì ad avere in vita quella fortuna che arrise al De Nittis».
Sollecitato da Adriano Cecioni «… a frequentare di tanto in tanto l’ambiente fiorentino, dove del resto aveva avuto modo di farsi conoscere, ancor giovane, all’Esposizione nazionale del 1861, insieme all’inseparabile amico Rossano», nel 1872, si è portato a Firenze.
Nella città gigliata, ha stretto rapporti con i pittori facenti parte del gruppo dei Macchiaioli.
La sua pittura si distingueva per una visione sobria e severa, quasi arcaica.
Dal 1861, fino alla sua morte, eccetto negli anni che vanno dal 1868 al 1871, ha partecipato a quasi tutte le esposizioni indette dalla Promotrice di Belle Arti di Napoli.
Casa rossa a Portici
A soli quarantacinque anni, il pittore Marco De Gregorio muore a Resina, il 16 febbraio 1876, «... consunto da una grave forma di tisi tracheale e da una misera vita di stenti».
Portici lo ricorda intitolando al suo nome alla strada, anticamente detta via Gravina, a Bellavista.
Tra le più celebri sue opere, molte delle quali, purtroppo, sono andate disperse, si ricordano:
Veduta di Porta Grande dall’interno del parco di Capodimonte nota con i titoli errati di Casina nel bosco di Portici oppure Nei giardini reali a Portici – Museo Nazionale di Capodimonte di Napoli
Veduta di Casacalenda – Museo Nazionale di Capodimonte di Napoli;
La fine di un uomo di principî;
Festa al villaggio;
Mercato arabo – Galleria dell’Accademia di Belle Arti di Napoli;
Fumatori di oppio – Palazzo Reale di Napoli:;
Ragazzi egiziani – Museo Nazionale di San Martino di Napoli;
Zappatore – Museo Nazionale di Capodimonte di Napoli;
Capri – Galleria di Arte Moderna di Firenze;
La morte del prete – Museo nazionale di San Martino di Napoli;
La passeggiata del prete – Museo Nazionale di San Martino di Napoli.
Strada di Resina – Collezione privata di Milano;
Contadino di Somma – Museo Nazionale di Capodimonte di Napoli;
La Favorita a Portici.
Preti in funzione, nota anche con il titolo Processione – Collezione Lubrano di Napoli,
I racconti del nonno – Galleria Mediterranea di Napoli;
Nella villa – Pinacoteca dell’Amministrazione provinciale di  Napoli;
Nel parco di Portici
Colazione in giardino – Museo Nazionale di San Martino di Napoli;
Berretto rosso;
La guglia di Fanzago;
In terrazza – Galleria Mediterranea di Napoli;
Paesaggio campano – Galleria Mediterranea di Napoli.
Profili precedenti 1
Profili precedenti 2
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Figli di Portici famosi: il pittore Marco De Gregorio di Stanislao Scognamiglio Si sente spesso parlare di personaggi di Portici per nascita o d’elezione dei quali si sta perdendo la memoria ...
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tepasport · 7 years
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Tantissimi Auguri al Mitico Francesco Vincenzi (Bagnolo Mella, 30 settembre 1956) Esordì con l' A.C. Milan nel 1974 in Serie A, disputando in quella stagione solo Cesena-Milan 1-0 del 10 febbraio 1974. Nel 1974 passò al Monza 1912, in Serie C, dove disputò 25 gare segnando 10 reti. Nell'estate del 1975 ritornò al Milan, disputando due stagioni (non da titolare) e sommando 19 presenze e 8 gol. Nel 1977/78 si trasferì al Lanerossi Vicenza, con cui arrivò al secondo posto in campionato, ma nel quale risultò chiuso nel suo ruolo da Paolo Rossi, riuscendo a totalizzare solo 10 presenze, tutte da subentrante, senza reti. L'anno dopo passò al Bologna Fc 1909, che si salvò all'ultima giornata dalla retrocessione in Serie B. Nell'estate del 1979 ritornò al Monza, in Serie B, dove disputò una buona annata con 24 gare e 10 gol. Nel 1980 tornò nuovamente al Milan, retrocesso d'ufficio in Serie B per il calcio scommesse. In B, Vincenzi fece la sua parte nella immediata promozione, contribuendo con 10 reti in 25 presenze. Passò poi al Brescia Calcio, appena retrocesso in B, con cui giocò 25 gare e segnò 7 reti. L'anno dopo Mario Frustalupi lo volle alla US PISTOIESE 1921: 35 gare (titolare inamovibile) e 15 reti, ma gli arancioni mancarono la seconda promozione in A. Nel 1983 passò all' AS Roma, con 11 presenze e 5 gol e la conquista della finale di Coppa dei Campioni all'Olimpico contro il Liverpool, che però non giocò. Vinse la Coppa Italia a 30 anni, disputò 3 stagioni con Ascoli Picchio FC 1898 SpA, con una retrocessione (1984-85) e una promozione (1985-86), per un totale di 77 presenze e 28 gol. Dopo una stagione in B con l' U.S. Lecce (32 gare e 8 gol), si trasferì al Barletta Calcio fino al giugno del 1990. Nell'estate del 1990 restò senza contratto, ma a ottobre fu ingaggiato dal Como Calcio 1907 di Bersellini, recentemente retrocesso in Serie C1. I 20 gol realizzati insieme a Loris Pradella consentirono ai lariani di disputare lo spareggio per l'accesso in Serie B, perso 1-2 contro il Venezia, dove sbagliò un rigore al 78º minuto (parato da Bosaglia). A fine campionato, mentre Pradella venne riconfermato, terminò il contratto annuale di Vincenzi, che però, a 35 anni, non voleva ancora smettere, firmando così per il Varese Calcio . Pochi giorni dopo la fine del campionato, a 36 anni, Vincenzi diede l'addio al calcio, dopo 19 stagioni e oltre 450 partite disputate nei campionati professionistici: 150 presenze e 50 reti in Serie A, 350 presenze e 90 reti in Serie B. In carriera realizzò in totale 190 reti ... ⚽️ C'ero anch'io … http://www.tepasport.it/ 🇮🇹 Made in Italy dal 1952
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Giorgio Caproni. Nacque a Livorno il 7 gennaio 1912, secondogenito di Attilio, ragioniere, e di Anna Picchi, sarta e ricamatrice. La città portuale toscana si iscrisse nel mondo dei suoi ricordi più antichi, nella mitica luce delle origini e degli affetti primigeni, trasfigurati, attorno alle figure dei genitori, in un coefficiente poetico sentimentale e metricamente impeccabile. Esemplari di questa idealizzazione furono i Versi livornesi, concepiti dopo la morte della madre e pubblicati nel suo libro più fine e popolare, Il seme del piangere (Milano 1959). LE FIGURE DEI GENITORI Anna Picchi era nata a Livorno nel 1894, da Gaetano e da Fosca Bottini. Impiegata sin da ragazza nel magazzino Cigni, rinomata casa di moda livornese, dopo il matrimonio continuò a lavorare come sarta in laboratori che attrezzava in casa. Amava suonare la chitarra, frequentare i circoli cittadini e ballare. Morì a Palermo il 15 febbraio 1950 e fu sepolta nel cimitero di S. Orsola presso il fiume Oreto. Meno fertili poeticamente ma non meno intensi furono i rapporti di Caproni con il padre che la domenica lo guidava, mano nella mano, in compagnia del fratello Pier Francesco, di lui maggiore di due anni, in lunghe passeggiate presso le livornesi piane degli Archi a spiare il ritorno dei cacciatori di lepri. Oppure, durante le vacanze estive, organizzava le gite a San Biagio, nelle campagne dell’Alta Maremma, nella tenuta di Cecco, un allevatore e domatore di cavalli che segnò in modo indelebile la sua personalità. «Lontano dalla mal’aria,/ domerò la mia vita/ come domavi le tue cavalle/ ombrose,/ tutte slanci ed inutili corse» (A Cecco, in L'Opera in versi, 1998, p. 9). Attilio lavorava in una ditta di importazione del caffè e si occupava dell’amministrazione del teatro Avvalorati di Livorno. Dopo aver partecipato alla prima guerra mondiale, rimasto disoccupato per il fallimento della ditta livornese dei Colombo, fu assunto dall’azienda conserviera Eugenio Cardini situata a Genova nel palazzo Doria. Suonava il violino e il mandolino e amava leggere la poesia italiana delle origini e la Commedia, che acquistava in edicola nell’edizione in dispense pubblicata dalla casa editrice Nardini di Firenze con le illustrazioni di Gustave Doré. Morì a Bari il 21 febbraio 1956. L'infanzia di Caproni fu condizionata dalle difficili condizioni economiche in cui la famiglia precipitò dopo il richiamo in guerra del padre e i tumulti sociali e politici che prepararono l’avvento del fascismo. Da un’elegante palazzina di corso Amedeo (ove Giorgio era nato), presto dovettero trasferirsi nella popolare via Palestro in un appartamento dove conobbero i disagi della coabitazione forzata con una coppia di lontani parenti, Itala e Pilade Bagni. Nel 1922, dopo la nascita della terzogenita Marcella e una breve sosta a La Spezia, si trasferirono a Genova dove continuò la ridda dei traslochi: da via S. Martino a via Michele Novaro, da via Bernardo Strozzi a piazza Leopardi. Se Livorno era stata la simbolica città della madre, Genova rappresentò per Caproni il luogo della formazione umana e culturale: «Genova sono io. Sono io che sono 'fatto' di Genova» (��Era così bello parlare»…, 2004, p. 107). Ma segnò anche l'inevitabile epilogo della infanzia: «Genova della Spezia./ Infanzia che si screzia./ Genova di Livorno,/ partenza senza ritorno» (Litania, in L'Opera in versi, 1998, p. 178). SCUOLA, MUSICA E POESIA Iniziati gli studi elementari presso le suore dell’Istituto del Sacro Cuore, li proseguì nella scuola comunale del Gigante, «un quartieraccio» di Livorno («Era così bello parlare»…, 2004, p. 81) e li completò a Genova, nella scuola Pier Maria Canevari. Si iscrisse quindi alla scuola tecnica Antoniotto Usodimare, contemporaneamente dedicandosi, incoraggiato dal padre, allo studio del violino. A 13 anni si diplomò in composizione all’istituto musicale Giuseppe Verdi, in salita S. Caterina. Di giorno si esercitava su corali a quattro voci prima pescando le parole da Poliziano, Tasso, Rinuccini, poi provvedendovi di testa sua. Di notte suonava il violino nell’orchestrina di un dopolavoro. A 18 anni, dovendo contribuire al magro bilancio famigliare, accettò l’incarico di fattorino presso lo studio legale dell'avvocato Colli in via XX settembre. Alla fine, con una sofferta decisione, rinunciò agli studi musicali. La musica tuttavia restò in lui viva per sempre, quasi come una controprova all'armonia intrinseca alla poesia. Il classicismo dissonante di Stravinskij fu riversato nel pathos esclamativo dei sonetti sperimentati negli anni Quaranta e la sua passione per il melodramma romantico influenzò la struttura delle ultime raccolte. Il franco cacciatore (Milano 1982) prese il titolo dall’omonima opera di Carl Maria von Weber, mentre Il conte di Kevenhüller (ibid. 1986), titolo scelto «per il suo sapore operettistico» fu diviso in tre sezioni: Il Libretto, La Musica e Altre cadenze (v. Apparato critico, in L'Opera in versi, 1998, pp. 1627 s.). Nei lavori preparatori della raccolta postuma Res amissa (Milano 1991) alcune poesie furono scandite in sillabe e trascritte direttamente sui righi di uno spartito musicale. Sempre di più la poesia occupava i suoi giorni e la sua mente. Già con i compagni di studio del violino e in particolare con l’amico Adelio Ciucci, «in quella brulla Piazza Martinez» dove si recava ogni giorno dalla sua casa di S. Martino, aveva scoperto in «disordinate e infatuate letture» la poesia moderna, contrapposta, «con una boria scusata soltanto dall’età», alla poesia insegnata a scuola (Un ricordo un debito, in La Fiera letteraria, 28 giugno 1959). Nel 1932 inviò i suoi primi versi ad Adriano Grande, direttore della rivista genovese Circoli, che li rifiutò. Pochi mesi dopo, portando dentro di sé «una specie di minima antologia del cuore» composta da Ungaretti, Montale, Saba, Sbarbaro, se ne andò «a far da cappellone» nel 42° reggimento fanteria di stanza a Sanremo, dove rimase dal settembre 1933 all’agosto 1934 (Attorno al 1930, in Il Caffè politico e letterario, IV [1956], febbraio, pp. 13 s.). Maturò nelle lunghe ore di guardia molti fra i nostalgici idilli dai contorni stilnovistici che sarebbero confluiti nella sua prima plaquette: Come un’allegoria (Genova 1936). Avendo perso tempo con il servizio militare, si preparò agli esami delle magistrali privatamente, supportato da un professore di larghe vedute, l’antifascista Alfredo Poggi che lo introdusse alla riflessione filosofica. Per conto suo lesse Agostino, Kierkegaard e scoprì lo scetticismo leopardiano di Giuseppe Rensi. Approfondì Dante e i classici italiani, appassionandosi soprattutto agli autori latini, non solo Catullo, Virgilio, Lucrezio, ma anche Cesare e Minucio Felice. Si diplomò nel 1935, al cospetto di una commissione presieduta da Ugo Spirito. MAESTRO ELEMENTARE E POETA S’iscrisse quindi all’istituto superiore di magistero di Torino ma a soli 23 anni prese servizio come maestro elementare a Rovegno, «un adorabile paesino montano» dell’Alta Val Trebbia, situato al 54° chilometro della statale numero 45 tra Genova e Piacenza (Due inediti di Giovanni Boine, in La Fiera letteraria, 6 settembre 1959). Cominciava una faticosa carriera che si protrasse dal dicembre 1935 al dicembre 1973: una scelta professionale quasi obbligata e tuttavia mai rinnegata, anzi stoicamente difesa dalle accuse che scaturivano dall’«ignoranza» presuntuosa dei tecnici ministeriali (I due analfabetismi, in Il Caffè…, III [1955], luglio-agosto, pp. 14 s.). La frazione Loco di Rovegno divenne la sua 'piccola patria', snodo e paesaggio chiave di un destino. Nel marzo 1936 la sua fidanzata Olga Franzoni, una ragazza genovese che lo aveva seguito nonostante la salute precaria, morì di setticemia poco prima delle nozze. Travolto dallo choc, sprofondò in una grave crisi psicologica. Al poeta Carlo Betocchi, primo recensore di Come un’allegoria, con il quale intrecciò dal 1936 al 1986 uno splendido diario epistolare, il 7 aprile 1937 confessò la tentazione di farla finita con la poesia: «Forse tutto il mio mondo era legato a quella che se n’è andata. Forse su lei poggiava tutta la mia certezza» (Una poesia indimenticabile..., 2007, p. 64). Fu quello il primo dei suoi innumerevoli congedi. Nell’anno scolastico 1936-37 insegnò ad Arenzano, cittadina della Riviera di Ponente e a Casorate Primo, in provincia di Pavia. Superò la crisi del 1937 grazie a una ragazza di Loco, Rosa Rettagliata che sposò nella chiesina del suo villaggio nell’agosto 1938, dopo aver pubblicato la sua seconda plaquette, Ballo a Fontanigorda (Genova 1938). Da allora trascorse tutte le sue estati in Val Trebbia nella casa della moglie. Olga Franzoni e Rosa, indicata anche con il nome di Rina, inizialmente si sovrapposero nell’immaginario caproniano, per divergere poi radicalmente fino a incarnare i due opposti poli di un'antitesi. Il fantasma della fidanzata defunta lo perseguitò con l’effigie di una stagione sensuale e illusoria rappresentata nella gesticolazione sonora dei Sonetti dell’anniversario confluiti in Cronistoria (Firenze 1943). Nel poemetto Le biciclette, pubblicato dapprima nelle Stanze della funicolare (Roma 1952) e poi nella raccolta complessiva Il passaggio d’Enea (Firenze 1956), il suo ricordo, velato dal travestimento ariostesco di Alcina, divenne la perturbante icona del «tempo ormai diviso» dalla guerra (Le biciclette, in L'Opera in versi, 1998, p. 128). All’inverso Rina «dalle iridi grandi e azzurre e così delicatamente silenziose» (Alta Val Trebbia, in Augustea, 31 agosto 1939) incarnava le gioie e le angustie dell’amore coniugale sia in pace sia in guerra e fu spesso celebrata come il tenace strumento della vita che continua. «Se il mondo prende colore/ e vita, lo devo a te, amore» (A Rina, II, in L'Opera in versi, 1998, p . 911). LA GUERRA Si trasferì a Roma il 1° novembre 1938. Ottenuto un posto di maestro di prima categoria, prese servizio nella scuola Giovanni Pascoli a Trastevere. Ma il suo primo soggiorno romano durò poco: con l’entrata in guerra dell’Italia, nella primavera del 1939 venne richiamato alle armi e rispedito a Genova, presso il distretto di Sturla. Nel giugno 1940 fu inviato tra i monti dell’estrema frontiera occidentale a combattere la fulminea campagna di Francia, raccontata nel diario di guerra Giorni aperti. Itinerario di un reggimento dal fronte occidentale ai confini orientali (Roma 1942). Quella esperienza che molti anni dopo avrebbe stigmatizzato come «un capolavoro di insensatezza» (C. D’Amicis, Caproni, in l’Unità, 21 agosto 1995), pur non annullando del tutto gli accenni celebrativi al vigente regime presenti in alcuni articoli pubblicati nella rivista Augustea tra il 1938 e il 1940, vi aveva però spalancato profonde crepe. Da Mentone fu dislocato ai confini orientali, a Vittorio Veneto, e tra il 1940 e il 1942 cominciò un periodo di continui spostamenti, tra Genova, la Val Trebbia, Roma e varie altre località dell’Italia centro-settentrionale, come Udine, Pisa, Assisi, Foligno, Tarquinia e Subiaco. A Roma tornava ancora volentieri. La capitale infatti lo attirava, anzi lo «abbagliava» (Cronologia, in L'Opera in versi,, 1998, p. LV) con le vestigia e le rovine di un glorioso passato, dietro cui però scorgeva un retroscena luttuoso e magniloquente in cui il giovane provinciale si aggirava smarrito. Sin dal primo momento risolutore fu l’incontro con Libero Bigiaretti, narratore e intraprendente giornalista il quale gli aprì le porte dell’ambiente letterario e artistico legato all’editore romano Luigi De Luca, che gli pubblicò Finzioni (Roma 1941): raccolta lapidariamente definita dal ventinovenne poeta «l’epitaffio della mia gioventù» (Una poesia indimenticabile..., 2007, p. 65). Tramite Piero Bargellini entrò in contatto con Enrico Vallecchi, il prestigioso editore degli ermetici fiorentini che, dopo qualche esitazione, accettò di pubblicare Cronistoria, in cui, a una scelta delle poesie giovanili, si aggiungeva un sostanzioso nucleo di composizioni scritte nel 1942 durante i suoi coatti vagabondaggi. L’armistizio dell’8 settembre 1943 lo sorprese a Loco, in congedo provvisorio presso la famiglia dei genitori della moglie, accanto a Rina e ai due figli ancora piccoli: Silvana nata nel maggio 1939 e Attilio Mauro nel giugno 1941. Ripugnandogli l'idea di unirsi alle brigate della Repubblica di Salò, entrò nella resistenza partigiana attiva in Val Trebbia, pur svolgendo, in qualità di commissario del Comune di Rovegno, compiti quasi esclusivamente civili, come l’approvvigionamento del cibo e la riorganizzazione della scuola. Le scene di orrore di quei tragici 19 mesi, le violenze praticate dai mongoli alleati dei tedeschi sulla popolazione inerme, gli dettarono, accanto agli struggenti racconti della sua saga partigiana, tra i quali lo splendido Il labirinto (L'Opera in versi, 2008, pp. 138-164), i suoi versi più cupi e chiusi: I lamenti composti tra il 1944 e il 1947, raccolti nella sezione Gli anni tedeschi de Il passaggio d’Enea. Da allora in poi i monti della Val Trebbia gli offrirono il paesaggio più idoneo alla rappresentazione della guerra via via sempre più allegorica, dopo la svolta metafisica della sua poetica evidente in Acciaio, sezione centrale de Il muro della terra (Milano 1975). ROMA: ANGOSCE E AMICIZIE Nell’ottobre 1945 tornò a Roma, dove fino al 1949 trascorse «interminabili inverni di angoscia», abitando da solo prima a via Merulana, poi al quartiere Prati, poi ancora presso il cavaliere Domenico Gazzillo che gli affittava una camera della sua casa al n. 40 di via Goffredo Mameli, in Trastevere, ov'era situata anche la scuola presso cui aveva ripreso l'insegnamento (Frammenti di un diario (1948-1949), 1995, p. 44). Infine si trasferì a Monteverde, in viale Quattro Venti 31, in una piccola casa Incis, senza caloriferi e proprio «dirimpetto al lussuoso appartamento» di via Giacinto Carini dove, abbandonando Parma, era andato ad abitare Attilio Bertolucci (Una poesia indimenticabile..., 2007, p. 364). Nel 1951 passò alla scuola Francesco Crispi per rimanervi sino al pensionamento. Non bastandogli il risicato stipendio di maestro correggeva le bozze nella «benedetta e dannata tipografia Tumminelli» (ibid., p. 74). Nella Roma del dopoguerra riprese i rapporti con Bigiaretti, divenuto direttore dell’ufficio stampa dell’Olivetti di Ivrea: a lui dedicò Le biciclette, scritto nel 1947 per le Olimpiadi della poesia di Londra, in cui si premiavano testi letterari ispirati allo sport. Rivide Giorgio Bassani, in cui si era imbattuto durante il servizio militare a Sanremo. Nel 1949 pubblicò su Botteghe oscure, La funivia, primo abbozzo, subito tradotto in inglese da William Weaver, del poemetto Stanze della funicolare, nucleo fondante del libro stampato con lo stesso titolo da De Luca nel 1951. Grazie al critico fiorentino Ferruccio Ulivi nel 1950, pochi giorni dopo la morte della madre, conobbe di persona Betocchi, che a Roma alloggiava in via Soana vicino a piazza Tuscolo e la domenica riceveva volentieri gli amici. Caproni vi si recava spesso, da solo o insieme a Pasolini e Bertolucci. Betocchi si dimostrò un amico attento e generoso e più volte lo invitò alla rassegna radiofonica L’Approdo, commissionandogli tra l’altro i copioni, oggi perduti, di due puntate sulla Riviera ligure, la famosa rivista fondata e diretta da Mario e Angelo Silvio Novaro. Andate in onda il 29 novembre e il 20 dicembre 1954 furono poi sviluppate in una serie di articoli sulla cosiddetta linea ligustica nella poesia novecentesca italiana apparsi sulla Fiera letteraria nel 1956 e sul Corriere mercantile nel 1959. Con il tempo aveva imbastito nuove amicizie: Giacomo Debenedetti lo pregò di aiutare il figlio Antonio per l’esame di ammissione alle scuole medie nell'anno scolastico 1946-47, e Pier Paolo Pasolini, fortunosamente sbarcato a Roma con la madre Susanna nel 1950, per qualche anno gli fece visita quasi ogni giorno instaurando uno scambio critico vicendevolmente proficuo. Determinante fu anche l’incontro con Bertolucci che – dal Seme del piangere in poi – avrebbe patrocinato il suo approdo alla Garzanti, per di più cercando di fargli ottenere dal ministero della Pubblica Istruzione un periodo di congedo dall’insegnamento. Il tentativo fallì a causa del suo carattere fiero e indipendente. Per lo stesso motivo non accettò mai un impiego stabile alla Rai, mentre dal 1966 al 1972, come consulente editoriale della Rizzoli, esaminò i manoscritti di testi narrativi inediti, italiani e francesi. Dal 1958, anno in cui Betocchi assunse l’incarico di redattore della trasmissione ribattezzata L’Approdo letterario, si moltiplicarono le letture radiofoniche delle sue poesie che trovavano spazio sulle pagine dell’omonima rivista durata fino al 1977. Nell’estate del 1959 a Spotorno fu presentato dal poeta ligure Angelo Barile all’amatissimo Camillo Sbarbaro con cui mantenne sporadici, ma saldissimi rapporti. Sempre di più al lavoro poetico affiancò il mestiere del traduttore e del giornalista letterario. La politica attiva, nel senso militante del termine, non lo interessò mai fino in fondo. Vicino al Partito socialista italiano (PSI) nel 1945, non negò la sua firma ad alcuni dei più significativi giornali della sinistra, tra i quali Avanti!, l’Unità, Italia socialista,Il Politecnico, Il Lavoro nuovo, Vie nuove e Mondo operaio di cui diresse la pagina letteraria. Nel 1948 si unì al I Congresso internazionale degli intellettuali per la pace tenuto a Breslavia in Polonia. In quell’occasione fece visita ad Auschwitz e ne rimase fortemente scosso. Ma negli anni Sessanta, al culmine della ripresa economica della nuova Italia consumistica, non tardò a esprimere la sua delusione e a deplorare le inadempienze dei politici nei confronti delle speranze del dopoguerra. Esemplare l’invettiva intitolata Lorsignori, una feroce requisitoria consegnata insieme al poemetto Lamento (o boria) del preticello deriso a Cesare Vivaldi per un’antologia di versi satirici («Han la testa sul collo,/ dicon loro. Di pollo./ I piedi sulla terra./ lavoran per la pace/ preparando la guerra» (Vivaldi, 1964, p. 127).
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Grigi, svanisce il sogno serie B
Il Parma torna in Serie B, il sogno dell’Alessandria svanisce nel torrido pomeriggio di giugno, al cospetto della squadra di D’Aversa che meritatamente vince la gara e ottiene la promozione nella cadetteria. L’Alessandria praticamente non scende mai in campo, la tenuta del Parma, del campo, è perfetta al cospetto di un Alessandria che sbaglia il più possibile senza mai impensierire Frattali. Le colpe sono da spartite con i meriti dei vincitori: ma dagli sconfitti ci si aspettava qualcosa in più senza neanche un tiro nello specchio della porta di Frattali. I grigi hanno sofferto soprattutto sulle fasce, sempre raddoppiati dalle ale emiliane; ed è proprio da un errore di posizione di Gozzi che arriva il primo gol del Parma con Calaiò che gli sfugge e riesce a mettere in area per il colpo di testa di Scavone, per tutto il primo tempo l’Alessandria non si vede. Dopo un timido tentativo di ripresa all’inizio del secondo tempo, ecco il gol che chiude la sfida: è il 66' il secondo gol del Parma: azione prolungata e confusa, nata da un cross di Giorgino e da un tiro rimpallato di Scavone. Dopo una serie di batti e ribatti Vannucchi salva su Nocciolini ma la palla sbatte sulla testa della punta crociata e si insacca lemme lemme in rete. Da qui in poi non accade più niente a parte il rosso a Gozzi. Niente da fare neanche quest’anno. Parma in divisa bianca con la croce blu, pantaloncini, bianchi. Alessandria in completo rosso. Alessandria che attaccherà da sinistra verso destra rispetto al nostro punto di osservazione. Primi cinque minuti statici, le squadre si studiano molto ma nessuna delle due prende l’iniziativa della manovra. Al 7' prova Gonzalez, da fuori area, ma la mira è imprecisa. Al 9' Marras recupera palla sulla fascia destra, si inserisce Gonzalez ma il suo assist è impreciso. All’11’ il vantaggio del Parma: palla in profondità per Calaiò che sfugge alla marcatura di Gozzi, palla in mezzo per Scavone che di testa porta in vantaggio gli emiliani. Al 18' tiro di Branca, dal limite, parata a terra di Frattali. Al 18' azione sulla destra del Prma: Baraye vince un contrasto e serve in area Calaiò, sinistro dell’attaccante, respinta di Vannucchi. Al 20' ancora Parma: cross di Nocciolini e Vannucchi smanaccia la palla. Al 23' Calaiò per Nocciolini e conclusione bloccata da Vannucchi. Al 50' tiro di Fischnaller, palla fuori. Al 66' il secondo gol del Parma: azione prolungata e confusa, nata da un cross di Giorgino e da un tiro rimpallato di Scavone. Dopo una serie di batti e ribatti Vannucchi salva su Nocciolini ma la palla sbatte sulla testa della punta crociata e si insacca lemme lemme in rete. Al 70' palla gol per l’Alessandria ma il colpo di testa di Sosa, su cross di Celjak, termina alto sopra la traversa. Al 77' Barlocco scende sulla fascia e fa partire il cross ma Fischnaller colpisce di testa a lato. Al 78' palla persa da Sosa con Baraye che ruba palla, si accentra e conclude ma Vannucchi respinge. PARMA – ALESSANDRIA 2-0 S.S. PARMA CALCIO 1913 SRL (4-3-3): Frattali; Iacopini, Lucarelli, Di Cesare, Mazzocchi, Scavone, Scozzarella [65. Giorgino], Munari; Baraye [84. Edera], Calaiò, Nocciolini [73. Coly]. A disp: Zommers, Saporetti, Mastaj, Garufo, Sinigaglia, Nunzella, Ricci, Simonetti, Messina. All: Roberto D’Aversa. U.S. ALESSANDRIA CALCIO 1912 (4-4-2): Vannucchi, Celjak [70, Evacuo], Sosa, Gozzi, Barlocco; Marras, Cazzola, Branca, Nicco [Iocolano64.]; Gonzalez, Fischnaller [85. Piccolo]. A disp: La Gorga, Manfrin, Mezavilla, Piana, Rosso, Gjura, Nava. All: Pillon Giuseppe Arbitro: Giua (Olbia) [Imperiale, Capaldo] Iv Uomo: Fourneau Note: Espulsi: Faggiano (Dir. Spor.Parma)Ammoniti: 38. Branca [A]; 68. Scavone [P]; 74. Barlocco [A] Angoli: 4-7 Recuperi: 1 + 5 http://dlvr.it/PNCvjH
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pangeanews · 5 years
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“Joyce era un genio. Come Mussolini”. La verità sul caso Pound
I fatti sono semplici. Nel 1913 Ezra Pound diventa il segretario particolare di William Butler Yeats. In quel cottage immerso nel Sussex ‘Ez’ ispira l’ultima fase della lirica di Yeats: lo inoltra ai misteri del teatro giapponese Nō, gli spiega il ‘modernismo’, ne galvanizza la poesia austera, classica. Parlando di poesia – nel 1908, in una tipografia veneziana, Antonini, Pound si paga cento copie del suo primo libro di liriche, A Lume Spento, l’anno prima, nel 1912, pubblica Ripostes – “Yeats si ricordò di un giovane scrittore irlandese di nome James Joyce autore di alcune raffinate poesie liriche. A Yeats, una di queste era rimasta impressa. Joyce viveva a Trieste. Perché non scrivergli? Pound gli scrisse subito” (Forrest Read). Buon Natale James! Il 15 dicembre 1913 Pound scrive la prima di parecchie lettere a Joyce: “Gentile signore, Yeats mi ha parlato dei suoi scritti. Collaboro in maniera informale con un paio di riviste giovani e squattrinate…”. Due settimane dopo, il giorno di Santo Stefano, Pound si fa più esplicito: “Gentile Mr Joyce, Yeats ha appena trovato la sua «Odo un esercito» e siamo rimasti entrambi molto colpiti. Questa è una lettera d’affari da parte mia e di complimenti da parte sua. Le chiedo di autorizzarmi a usare la poesia nella mia antologia di imagisti…”. Da allora Pound diviene “l’infaticabile sostenitore” dell’opera di Joyce.
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Sostenitore nella visione letteraria di Pound – che si fa carico dell’intero ‘modernismo’, dell’intera letteratura anglofona del suo tempo – significa: trovare editori, scrivere saggi, difendere dai detrattori, procacciare denaro ai suoi. Nel 1916 a Harriet Monroe, fondatrice di “Poetry”, a cui ha spedito alcune poesie di Joyce: “Riesce a pagarlo subito?… Si tratta di uno scrittore da sostenere. E per via della guerra ha già perso il lavoro a Trieste (quest’ultima NON è una motivazione di carattere estetico)… È una vergogna che non abbia guadagnato nulla dai suoi libri fino ad ora”.
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Nel maggio 1918 su “The Future”: “A Portrait di Joyce è acquisito alla letteratura; per alcune persone è diventato quasi una Bibbia della prosa… Se per artisti come James Joyce il prezzo è troppo grave, è l’artista stesso che paga, e se veramente Armageddon ci ha insegnato qualcosa, dovrebbe averci insegnato a detestare le mezze verità, e coloro che le dicono in letteratura”. Proprio quell’anno, su ispirazione di Pound, “The Little Review” comincia a pubblicare, a puntate, l’Ulisse di Joyce. Si tratta di un evento. Il numero di marzo, vol. V, No. 11, firmato da Margaret Anderson e da Ezra Pound come Foreign Editor dedica l’apertura all’Episode I di Ulysses (“Stately, plump Buck Mulligan came from the stairhead, bearing a bowl of lather on wich a mirror and a razor lay crossed…”). In quel numero leggendario figurano anche le Imagery Letters di Wyndham Lewis, un saggio di Pound (The Classics “Escape”), un articolo di Ford Madox Ford. Si ha la percezione di ammirare l’antro vulcanico della letteratura ‘del futuro’.
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Nel 1920 la rivista, come si sa, è costretta a bloccare le pubblicazioni dell’Ulisse, sotto processo per oscenità. L’episodio ‘incriminato’ è il tredicesimo, “Nausicaa”. Pound restò letteralmente stordito da “Ciclopi”. Così ne scrive a John Quinn: “L’ultimo capitolo ms. di Joyce forse la cosa migliore che ha fatto… Parodia degli stili, un espediente preso in prestito da Rabelais, ma mai fatto meglio… Il nostro James è un grrrand’uomo”. Nel giugno del 1922 Pound ‘lancia’ l’Ulisse con un lungo saggio su “The Dial”, dall’incipit roboante, “Tutti gli uomini dovrebbero ‘unirsi a lodare Ulysses’; coloro che non lo faranno, potranno accontentarsi di un posto negli ordini intellettuali inferiori”.
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Anche quando i grandi facevano fatica a scorgere la grandezza di Ulisse – a Virginia Woolf quelle sconcezze shakespeariane non garbavano, per fortuna T.S. Eliot, che s’apprestava a diventare il gran chierico della letteratura anglofona, benediva il ‘metodo mitico’ di JJ – Pound lavorava osannando Joyce. Questi sono i fatti. Nitidi, semplici, banali. Alla luce dei fatti, mi sembra, così, un poco fuorviante l’introduzione di Enrico Terrinoni – straordinario traduttore del Finnegans Wake per Mondadori, insieme a Fabio Pedone – alle Lettere a James Joyce di Pound, libro invero bellissimo, edito da il Saggiatore. Fin da subito, Terrinoni butta il sodalizio tra Pound-Joyce in politica, sbilanciando la natura del loro rapporto intellettuale (“Se un redivivo Joyce avesse fatto una passeggiata, di recente, per le vie di Bologna, avrebbe sorriso come ho sorriso io nel leggere una curiosa scritta su un muro, simile a quella del Libro di Daniele ma assai meno misterica: «+ CASE – POUND»”, proseguendo, “Joyce da tempo era scettico anche riguardo alle posizioni politiche di Pound, come a quelle di Wyndham Lewis d’altro canto, al punto che, sempre nelle lettere private, li accostò entrambi non soltanto a Mussolini, ma anche a Hitler”). Pur sottolineando che “Joyce stimava Pound, gli doveva molto, quasi tutto”, di fatto l’intro di Terrinoni fa l’effetto di una pernacchia a Pound – accusato di essere fascista e di non aver capito Finngans Wake – e di una medaglia a Joyce, più lungimirante in campo politico. Ciò che scrive Terrinoni è vero, buono, giusto: ma… perché tirare sempre in ballo i fervori politici di Pound? Perché l’ansia costante di stare dalla parte dei buoni, per non essere appestati dal virus poundiano?
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Agli esagitati non va giù il discorso di Pound In memoria di James Joyce pronunciato nel 1941 alla radio italiana. “Con Gente di Dublino e il Ritratto e Ulisse, la posizione di Joyce è sicura. E Ulisse primeggia tra i «grandi romanzi». Dall’Asino d’oro fino a Gargantua, Don Chisciotte, Bouvard e Pécuchet”, dice Pound. Poi, accennando al ‘genio’ di Joyce fa una sterzata micidiale: “Come scrittore mi sono dato a tutti e a nessuno. In quanto critico ho osservato per 30 anni uomini dotati d’insolito genio, senza limitare il mio campo d’osservazione solo agli scrittori. Il genio può esistere in ogni tipo di attività. Quanto al genio di Mussolini e di Hitler non sono io il solo a osservarlo”. Joyce un genio quanto Hitler e Mussolini: come è possibile? Cerchiamo di moderare l’estro ideologico. S’intende genio per carattere naturale, energia primigenia. Indubbiamente Mussolini e Hitler sono geniali (a differenza di Stalin, che si colloca all’interno di una sequela dell’idea). Allo stesso tempo, siamo certi che siano geni malvagi, ma cosa importa in questo contesto? Le stramberie di Pound sono usate per lapidarlo 47 anni dopo la sua morte. Piuttosto, immagino quelli che ascoltavano la radio, la voce terrosa del poeta che si dilunga in una disanima letteraria intorno a Joyce e all’Ulisse, con quell’augurio, memorabile, “In breve, questo romanzo non venne scritto per privare la gente della voglia di vivere. E Joyce non aveva tale abitudine nemmeno in privato, quando non aveva la chiesa tra i piedi. Possa il suo spirito incontrarsi con quello di Rabelais a Chinon e possano i bicchieri non essere mai vuoti. Era un grande scrittore, e aveva anche una bella voce da tenore, fatta per cantare Blarney Castle me darlint, o la Frau in Amsterdam, e fino a una certa età riusciva a far vibrare il lampadario come una ragazzina”.
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Secondo me, nessuno ha onorato il genio di Joyce con tale ardore e tale lungimiranza (per altro, salvando dall’incomprensione pure “Finnegans”, benché non lo capisse: “Un uomo che ha scritto tre capolavori ha diritto alla sperimentazione”). E poi, non bisogna dimenticare che per Pound l’opera è Storia e il poeta è uno che opera nella Storia – per questo genio può essere un poeta come un dittatore, conta l’individualità, cocktail tra Emerson e Carlyle. Cambierà opinione – o quasi – dopo i lustri in carcere, che lo raffinano nel silenzio.
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Va detta una cosa, visto che la buttiamo sempre in politica parlando di Pound. Nel 1941 “Pound si prepara a tornare in America. Il suo paese non è ancora in guerra, tuttavia al consolato americano a Roma gli viene limitata la validità del passaporto ed egli viene definito ‘uno pseudoamericano’. Interrompe i discorsi alla radio italiana quando l’America entra ufficialmente in guerra (Pearl Harbor, 7 dicembre 1941). Essendo stato ostacolato, a lui e alla sua famiglia, il rimpatrio sull’ultimo convoglio diplomatico, resta in Italia e riprende i suoi discorsi alla radio, stabilendo il principio che ‘libertà di parola, senza libertà di parola alla radio, equivale a zero’” (così la Cronologia nel ‘Meridiano’ Mondadori poundiano a cura di Mary de Rachewiltz). Nel 1941 Pound, che potrà essere un idiota politico, un lirico cretino, vuole tornare in patria – e la patria glielo impedisce. Il resto è noto. Se la testimonianza della figlia di Pound vi pare partigiana, ecco quanto scrive Piero Sanavio (quello che ha studiato i Cantos prima di tutti, che ha fatto visita a Pound al manicomio criminale di Washington e capì che il poeta “di politica non capiva nulla”) nell’introduzione ai Radiodiscorsi editi dalle Edizioni del Girasole (Ravenna, 1998). “La collaborazione di Pound con la radio fascista iniziò prima che gli Stati Uniti entrassero in guerra. Continuò dopo l’attacco di Pearl Harbour, a conseguenza del rifiuto, da parte di un’autorità consolare americana a Roma di concedergli il visto per ritornare in patria. Pound aveva già in tasca i biglietti per un passaggio nell’ultimo convoglio diplomatico che il governo americano aveva messo a disposizione dei cittadini che intendessero rimpatriare. Messo in condizioni, da un rappresentante del suo paese, di restare in territorio nemico per la durata della guerra, Pound dopo qualche esitazione riprese le trasmissioni da Radio Roma”.
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Il tassello centrale di questa storia bastarda è l’articolo, che fa storia, di Richard H. Rovere, The Question of Ezra Pound, pubblicato il primo settembre del 1957 su “Esquire”. “Il governo, se lo desiderasse, potrebbe agire non solo per ragioni di giustizia, ma di generosità. Invece, è restato a guardare mentre personaggi piuttosto laidi, inviati in Germania, Italia e Giappone, veri criminali di guerra, ora godono di grande rispetto. L’identità criminale di Pound è tanto irrisoria per la storia quanto è grande la sua poesia”. Lo zenit toccato da Rovere – “ancora nel 1942 il poeta tentò di imbarcarsi sull’ultimo treno diplomatico che avrebbe portato i cittadini americani da Roma verso Lisbona. Gli fu impedito. Non gli restò che restare a Rapallo” – porta alla fatale domande, che da Rovere passa a Sanavio, “Se Pound fu messo nelle condizioni di non poter rimpatriare dalle autorità del suo paese, l’arresto e l’accusa di tradimento erano costituzionali?”. Come si sa, il governo, di fronte all’inchiesta di Rovere, tirò fuori l’abito buono e rilasciò Pound, nell’aprile del 1958.
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Che palle, anche quando si parla di letteratura, con Pound, si finisce sempre a sprecarsi in vaniloqui politici. (d.b.)
*In copertina: James Joyce con il nipote, Stephen James, nel 1934
L'articolo “Joyce era un genio. Come Mussolini”. La verità sul caso Pound proviene da Pangea.
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tepasport · 7 years
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Tantissimi auguri al mitico Lamberto Leonardi (Roma, 8 giugno 1939) Cresciuto nell' AS Roma, dove gli affibbiarono il soprannome di "Cicala", esordì in serie A con la maglia giallorossa il 7 maggio 1959 contro la SPAL poi venne ceduto al Cosenza Calcio in Serie C. Prima di tornare a Roma, giocò due anni in B con l' A.C. PRATO e il Modena Football Club 1912. In giallorosso giocò ancora per quattro stagioni, dal 1962 al 1966, totalizzando 74 presenze e 5 reti. Nel 1966 si trasferì a Varese Calcio e con i biancorossi ottenne la promozione in serie A, facendo coppia in attacco con il giovanissimo Pietro Anastasi e mettendo a segno 11 reti in 33 partite. Con la squadra del commendator Giovanni Borghi, nella quale, nel frattempo, era arrivato il libero Armando Picchi dall'Inter, giocherà nella massima serie ancora due stagioni, segnando 9 volte in 53 partite. Nella stagione 1969-70 passa alla Juventus dove ritrova l'amico Anastasi. Dopo un avvio disastroso ed il conseguente allontanamento dell'allenatore argentino Carniglia, sotto la guida di Ercole Rabitti, i bianconeri rimontano posizioni su posizioni fino a contendere sino alla fine lo scudetto al Cagliari di Gigi Riva. In campionato Leonardi scese in campo 28 volte mettendo a segno 5 reti, mentre in coppa delle Fiere realizzò 2 gol in 4 partite, ma i bianconeri furono eliminati già al secondo turno dall'Hertha Berlino. Per la Juventus la stagione successiva fu quella del grande ringiovanimento: tornano dal prestito Causio e Bettega, arrivano da Roma Capello, Spinosi e Landini ed il trentenne Leonardi, insieme a Leoncini, venne ceduto all' Atalanta Bergamasca Calcio in serie B. Ottenuta subito la promozione in A, nel 1971-72 contribuì con 2 gol alla salvezza degli orobici prima di chiudere la carriera da professionista con il Mantova in Serie B. Decide poi di disputare un'ultima stagione in serie D a Benevento dando una grossa mano per la promozione in serie C. Da calciatore professionista in campionato, nell'arco di 16 anni compresi tra il 1957 ed il 1973, ha collezionato 315 presenze e 40 reti ... ⚽️ C'ero anch'io ... http://www.tepasport.it/ 🇮🇹 Made in Italy dal 1952
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