Tumgik
#Clara Coïsson
gregor-samsung · 5 years
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Che cosa ci fosse per colazione, lei non lo diceva, ma era facile indovinarlo: patate lesse o minestra di patate o cascia d'orzo (altre granaglie non si potevano trovare, quell'anno, a Torfoprodukt, ma anche l'orzo si faceva fatica a procurarselo perché era il cibo più a buon mercato per i maiali e la gente lo comperava a sacchi). Non sempre la cascia era salata a dovere, spesso era bruciata e, dopo il pasto, sul palato e sulle gengive restava una patina e lo stomaco bruciava. Ma la colpa non era di Matrjona: a Torfoprodukt non c'era il burro, la margarina andava a ruba, e liberamente vendevano soltanto grasso artificiale. E poi la stufa russa, come mi accorsi, non è adatta a preparare il cibo: la roba cuoce nascosta alla cuciniera e il calore giunge alla pentola da varie parti in modo diseguale. Ma ai nostri antenati s'è tramandata dall'età della pietra perché, una volta ben accesa di primo mattino, mantiene in sé caldi per tutta la giornata il foraggio e il beverone per le bestie, il cibo e l'acqua per l'uomo. E sopra ci si dorme in un bel tepore. Io mangiavo docilmente tutto quello che m'era stato preparato, mettevo da parte con pazienza quel che mi capitava di trovare nel cibo: un capello, un pezzetto di torba, la zampina d'uno scarafaggio. Non mi bastava l'animo di rimproverare Matrjona. In fondo lei mi aveva avvertito: — Se non so far niente, neppure da mangiare, come ti contento? — Grazie, dicevo io con assoluta sincerità. — Di che? Della roba vostra? — mi disarmava lei con un sorriso radioso. E guardandomi ingenuamente coi suoi occhi d'un azzurro slavato, chiedeva: — E per la sera che cosa vi preparo? Mangiavo due volte al giorno, come al fronte. Che cosa potevo ordinare per la sera? Sempre lo stesso: patate o minestra di patate. Mi ero rassegnato a questo, perché la vita mi aveva insegnato a non trovare nel cibo il senso dell'esistenza quotidiana. Mi era piú caro quel sorriso del suo volto tondeggiante che, quando potei finalmente comperarmi una macchina fotografica, cercai invano di afferrare. Vedendo su di sé il freddo occhio dell'obiettivo, Matrjona assumeva un'espressione forzata o insolitamente severa. Soltanto una volta la fotografai mentre sorrideva, guardandomi dalla finestra nella via.
Aleksandr Solženicyn, Una giornata di Ivan Denisovič - La casa di Matrjona - Alla stazione, (traduzioni di Raffaello Uboldi, Vittorio Strada, Clara Coïsson; collana Gli struzzi, n°17), Einaudi, 1971; pp. 182-84. 
[ Edizione originale: Матрёнин двор, Novy Mir, 1963 ]
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jennyhanniver · 8 years
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Ognuno muore solo
di Hans Fallada  Un romanzo sulla resistenza e sulla disperazione nella Germania sotto la doppia angoscia del nazismo e della guerra. Basato su una storia vera è la rielaborazione letteraria dell’inchiesta della Gestapo che portò alla decapitazione due coniugi berlinesi di mezz’età accusati di avere diffuso materiale anti-nazista. «Il libro più importante che sia mai stato scritto sulla resistenza tedesca al nazismo» (Primo Levi). Ognuno muore solo (uscito nel 1947) è basato su una storia vera, rielaborazione letteraria dell’inchiesta della Gestapo che portò alla decapitazione due coniugi berlinesi di mezz’età. Hans Fallada, massimo autore del neorealismo weimariano, ormai alcolizzato, dipendente da farmaci, ripetutamente incarcerato e rinchiuso in istituti psichiatrici, ricevette l’incartamento da autorità della ricostruzione e scrisse l’opera nel tardo 1946, in ventiquattro giorni, appena prima di morire. Eppure, questo ritratto raggelante, della Germania sotto la doppia angoscia del nazismo e della guerra, è rimasto dimenticato a lungo e vive solo oggi una nuova stagione anche grazie alla trionfale scoperta e pubblicazione in America. Ciò, malgrado possegga, oltre il valore letterario e storico, tutte le qualità che assicurano un’esperienza di lettura toccante. La tensione livida, paragonata al primo Le Carré. L’azione corale di un gran numero di personaggi mai stereotipati, benché più istintivamente gran parte di loro ispirerebbe o repulsione disgustata o eroico entusiasmo. La trasfigurazione, nel racconto oggettivo privo di ogni espressionismo, dell’esperienza ambientale di chi, forse unico tra gli scrittori antinazisti già affermati, non emigrò mai, continuando a respirare il potere totale hitleriano. Una spietata caccia all’uomo, con tanto di bandierine sulle carte, guidata da investigatori tanto tecnicamente capaci quanto irrazionalmente mossi da un fanatismo assurdamente sproporzionato agli scopi. E probabilmente le ragioni dell’oblio e della riscoperta stanno appunto nel fatto che è un romanzo sulla resistenza. Un romanzo sulla resistenza e sulla disperazione. Contrastante, quindi, con il luogo comune di un Hitler che non conobbe oppositori tra la gente ordinaria, unita nella colpa collettiva. Fallada racconta di poveri eroi. Anna e Otto Quangel, lui caporeparto lei casalinga, come tutti i loro pari soli e addormentati e poco prima ancora abbagliati dal Führer, conoscono un risveglio dopo la notizia della morte del figlio al fronte, e cominciano a riempire alcuni caseggiati della loro Berlino con cartoline vergate in modo incerto di appelli ingenui di ribellione. Lo fanno per comportarsi con decenza fino alla fine, ben sapendo che morranno e sicuri che nel vicino incontreranno più facilmente il delatore. L’autore li illumina, scorgendo in loro una specie di coscienza della nazione, rappresentata dai tanti volti intorno, espressioni di un popolo spaccato in due, chi odia e opprime e chi è sepolto nella sua paura. Da oggi nelle sale cinematografiche italiane il film di Vincent Pérez "Lettere da Berlino" tratto da questo libro. Titolo: Ognuno muore solo Autore: Hans Fallada Editore: Sellerio N° pagine: 752 Genere: romanzo Costo cartaceo: 16,00 Costo ebook: 9,99 EAN: 9788838925108 Traduzione dal tedesco: Clara Coïsson Titolo originale: Jeder stirbt für sich allein   Click to Post
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gregor-samsung · 5 years
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Oltre Matrjona e me nell'isba vivevano anche un gatto, i topi e gli scarafaggi. Il gatto era vecchio e, cosa piú importante, zoppo. Matrjona lo aveva raccolto per pietà e la bestia s'era assuefatta. Camminava sulle quattro zampe, ma zoppicava assai: aveva riguardo d'una zampa che era malata. Quando saltava dalla stufa sul pavimento, il rumore non era soffice come quello d'ogni gatto, ma un forte colpo simultaneo di tre zampe: tup!, un colpo cosi forte che non mi ci abituai subito e mi faceva sussultare. Era il gatto che posava in una volta tre zampe per preservare la quarta. Ma nell'isba c'erano i topi non perché il gatto zoppo non riuscisse ad averne ragione: come un lampo esso balzava nell'angolo, alla caccia, e ne usciva reggendoli tra i denti. I topi erano inaccessibili al gatto perché una volta, ai bei tempi, l'isba di Matrjona era stata tappezzata di una rugosa carta verdastra, e non d'uno strato solo ma di cinque. I fogli s'erano incollati bene tra di loro, ma in molti punti s'erano staccati dalla parete, formando una sorta di pelle interna all'isba. Fra le travi dell'isba e la pelle della tappezzeria i topi avevano costruito i loro passaggi e frusciavano insolenti, correndo lungo di essi e sotto il soffitto. Il gatto seguiva con rabbia quel loro fruscio, ma non poteva farci niente. A volte il gatto mangiava anche gli scarafaggi, ma poi stava male. L'unica cosa che gli scarafaggi rispettassero era la linea del tramezzo che divideva la bocca della stufa russa e la cucina dalla parte buona dell'isba. Fin lí non arrivavano. Però nella cucina di notte brulicavano e se, a sera tarda, andando a ber dell'acqua, accendevo la luce, il pavimento e la panca grande e persino la parete erano quasi interamente bruni e si muovevano. Nel gabinetto di chimica presi una volta del borace e, mescolatolo con della pasta, spargemmo quel veleno. Gli scarafaggi diminuirono, ma Matrjona temeva d'attossicare anche il gatto. Smettemmo di spargere il veleno e gli scarafaggi si moltiplicarono di nuovo. Di notte, quando Matrjona oramai dormiva ed io lavoravo seduto al mio tavolo, il rado rapido fru fru dei topi sotto la tappezzeria era coperto dal fruscio compatto, unito, ininterrotto, come il rumore lontano d'un oceano, degli scarafaggi oltre il tramezzo. Ma io mi abituai perché in esso non c'era alcunché di malvagio, non c'era menzogna. Quel loro fruscio era la loro vita. Mi abituai anche alla bella ragazza grossolana del manifesto che dalla parete mi tendeva eternamente Belinskij, Panfjorov e una pila d'altri libri, ma taceva. Mi abituai a tutto ciò che c'era nell'isba di Matrjona.
Aleksandr Solženicyn, Una giornata di Ivan Denisovič - La casa di Matrjona - Alla stazione, (traduzioni di Raffaello Uboldi, Vittorio Strada, Clara Coïsson; collana Gli struzzi, n°17), Einaudi, 1971; pp. 180-81.
[ Edizione originale: Матрёнин двор, Novy Mir, 1963 ]
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