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Antonio de Ferrariis, detto il Galateo, l’antico proverbio e la propaganda augustea
di Nazareno Valente
Degli altri colleghi storici Tucidide faceva di tutta un’erba un fascio considerandoli dei semplici logografi («λογογράφοι»), vale a dire narratori che miravano al diletto degli ascoltatori e non certo alla verità1 con l’unico intento, pertanto, di produrre belle storie da declamare in pubblico, senza preoccuparsi della loro fondatezza. Sebbene non l’affermasse esplicitamente, egli ci metteva nel mucchio persino Erodoto, che pure aveva limitato al massimo i facili abbellimenti dovuti a fantasiosi interventi divini, ma che probabilmente non s’era emancipato dalla consuetudine di leggere le proprie storie nelle pubbliche piazze. E, che così fosse, se ne ha una prova evidente in un passo in cui lo storico di Alicarnasso parla della Scizia.
Ce lo possiamo infatti immaginare a Thurii, sua città d’adozione2, che s’affacciava sulla costa occidentale del golfo di Taranto, mentre cerca di spiegare ai suoi concittadini una particolarità dell’estrema propaggine della Scizia e che, per semplificare, utilizza come esempio l’Attica. Poi, temendo che quest’ultima contrada non sia molto conosciuta a chi l’ascolta, ritiene utile ricorrere ad un altro esempio («δὲ ἄλλως δηλώσω») che ha il pregio di non porre problemi interpretativi ai Turini, ovverosia la terra della Iapigia in cui abitano a stretto contatto di gomito i loro più acerrimi nemici (i Tarantini) ed i loro tradizionali alleati (i Brindisini). O, per dirla con le stesse parole di Erodoto, la penisola che inizia dall’istmo che va dal porto di Brindisi a Taranto («ἐκ Βρεντεσίου λιμένος ἀποταμοίατο μέχρι Τάραντος3»).
Un passo stringato che non necessitava di ulteriori specificazioni, perché i Turini conoscevano perfettamente le due città ma al tempo stesso denso di significati, meritevoli di una descrizione a sé stante, se il nostro scopo non fosse circoscritto a decifrare un antico proverbio. In questa sede pare pertanto utile soffermarsi solo sugli aspetti funzionali alla nostra specifica trattazione.
Si può così rilevare che, quantunque entrambe le cittadine abbiano un porto rinomato, la sola Brindisi ne risulta di fatto caratterizzata, quasi che il porto fosse un’entità distinta dalla città. Erodoto specifica poi che si tratta di λιμήν che, in senso tecnico, è il termine portuale corrispondente al portus latino, con cui è definibile «uno specchio d’acqua chiuso naturalmente o artificialmente, accessibile dal mare, dove le navi possano rimanere sicure in caso di traversia4» e quindi con il requisito essenziale di costituire un sicuro ricovero nei momenti più tempestosi o di inattività invernali. Aspetto quest’ultimo di apprezzabile rilievo, considerato che a quel tempo si navigava quasi esclusivamente nelle belle stagioni.
In definitiva un porto d’eccellenza sin dal periodo classico dell’antichità greca e, pur tuttavia, nulla in confronto alla fama che acquisirà successivamente quando, a seguito della conquista romana, nella seconda metà del III secolo a.C. Brindisi diverrà colonia di diritto latino. Una fama che rivivrà negli scritti successivi pure nelle fasi di declino della città, così come avvenne nel De situ Iapygiae del Galateo.
Siamo all’inizio del XVI secolo, negli anni in cui l’impero ottomano, pur rivolgendo le sue attenzioni ad oriente, fa comunque sentire la propria nefasta presenza ad occidente, con rapide e feroci scorrerie che mettono in un stato di continua soggezione le città costiere. In assenza d’un governo forte, per i porti del basso adriatico l’unica difesa possibile è quella di precludere gli accessi alle rade, ed è per questo che il canale di collegamento al porto interno di Brindisi viene più volte ostruito, tanto che gli storici discutendo tra di loro lo qualificano «volgarmente… ciccato5». Eppure il Galateo6 giudica Brindisi città insigne «inclyta urbs» ed il suo porto famosissimo in tutto il mondo («toto terrarum orbe notissimus») tant’è che dà per coniato il proverbio: «tres esse in orbe portus: Iunii, Iulii et Brundusii», all’apparenza facile da tradurre ma dal significato alquanto oscuro (figura n. 1).
Letteralmente potremmo tradurlo così: “tre sono i porti al mondo: Giunio, Giulio e Brindisi” e non ci sarebbero problemi, qualora ai tre nomi corrispondessero altrettanti porti noti dell’antichità; cosa che, invece, sicuramente non è nel caso di Giunio. Osservato però che Iunius e Iulius sono anche i nomi dei mesi rispettivamente di giugno e di luglio, potremmo adottare quest’altra traduzione: “tre sono i porti al mondo: giugno, luglio e Brindisi”, che mostra l’ulteriore difetto di comparare entità tra loro inconfrontabili.
A tutta prima, quest’ultima soluzione pare la meno soddisfacente, ciò malgrado, i principali cronisti brindisini del XVII secolo la danno per sicura.
Secondo il Moricino, il porto di Brindisi viene comparato ai mesi di giugno e luglio «quasi che a dispetto della natura del mare tale sia quel Porto in ogni stagione, quale suol essere in tutto nelle Bonaccie di quei mesi di Giugno e, Luglio7».
E, sulla stessa lunghezza d’onda, gli fa eco il Della Monaca: «Quasi ch’à dispetto della naturalezza del mare tal sia quel Porto in ogni staggione, qual essere suole in tutto il tempo il Mare nelle bonaccie di quei mesi Giugno e, Luglio8».
In definitiva, come a dire che nel porto di Brindisi le navi sono sempre al sicuro, al pari di quando solcano il mare nelle bonacce dei mesi di giugno e luglio.
Un’interpretazione già di per sé in contrasto con la mentalità pratica degli antichi romani, poco inclini a fantasticherie così ardite in cui si confrontano i periodi migliori per navigare con i luoghi più idonei ad ospitare i navigli, e che in aggiunta non tiene conto di agosto, vale a dire del mese più favorevole per affrontare il mare. Vanno poi ricordate le consuetudini di quei tempi, che erano strettamente coerenti con le possibilità tecniche dell’epoca.
Come già in parte riportato, tranne rare eccezioni, si prendeva il mare solo nelle belle stagioni mentre in quelle cattive si trovava un buon porto dove ricoverare le navi. Le difese naturali o artificiali del portus erano infatti essenziali per proteggerle da eventuali mareggiate che potevano avere effetti devastanti su imbarcazioni la cui stazza era contenuta. A scanso di equivoci, esse venivano tirate a secco ed a volte protette pure da palizzate e fossati, per cui la bonaccia o la buona stagione non erano condizioni strettamente essenziali per la loro salvaguardia. Al contrario erano proprio le burrasche dei mesi estivi ad essere potenzialmente pericolose in quanto, sopraggiungendo improvvise e inaspettate, potevano comportare effetti disastrosi sulle galee ferme in rade non sufficientemente protette, tant’è che Svetonio9 riferisce come la flotta di Augusto fosse stata distrutta per ben due volte dalla tempesta, e non durante la brutta stagione ma per l’appunto nel bel mezzo dell’estate.
L’ingegnoso collegamento tra mesi dell’anno e porti fornisce perciò una chiave di lettura suggestiva – probabilmente conveniente a stimolare la fantasia e l’adattabilità dei social, dove in effetti impazza sino a trovare ospitalità in un godibile sketch satirico in cui un’analoga esegesi è fornita nientemeno che da Cesare Ottaviano Augusto10 – ma al tempo stesso improbabile. Certo è che essa non trova accoglimento al di fuori del ristretto ambito locale e, di conseguenza, conviene piuttosto considerare l’ipotesi più scontata, vale a dire che Iunius e Iulius siano molto più banalmente dei porti che non si è stati in grado di individuare.
Il Galateo scrisse il De situ Iapygiae in un periodo imprecisato tra il 1508 ed il 1511 ma non era più in vita quando il suo manoscritto fu stampato nel 1558, grazie al marchese di Oria, Giovanni Bernardino Bonifacio che se ne accollò le spese. In quegli anni non esistevano porti con il nome di Giunio e di Giulio però, ai patiti di antichità romane quest’ultimo toponimo avrebbe potuto dire qualcosa. Del porto Giulio aveva infatti riferito Svetonio nella parte dedicata a Cesare Ottaviano Augusto della sua “Vita dei Cesari”, quando menziona l’inaugurazione presso Baia di un «portum Iulium» creato artificialmente facendo penetrare il mare nei laghi Lucrino e Averno («inmisso in Lucrinum et Avernum lacum mari11»). La struttura portuale rendeva infatti comunicanti tra loro i laghi d’Averno e Lucrino, e quest’ultimo lago con il mare, previo taglio del cordone di sabbia che li separava (figura n. 2).
Voluto da Vipsanio Agrippa, amico e fedele collaboratore di Augusto, per contrastare le scorrerie sul Tirreno della flotta di Sesto Pompeo, il portus Iulius (o portus Iulii) iniziò ad operare nel 37 a.C. nei pressi del vecchio e rinomato porto di Puteoli, nell’ampia area dei Campi Flegrei, che venne così soppiantato da questo nuovo doppio bacino portuale. Si ipotizza che inizialmente avesse prevalenti funzioni militari, essendo stato preventivato l’allestimento d’un arsenale e di strutture idonee per addestrare gli schiavi liberati per inquadrarli tra i rematori, ma che in seguito divenne però scalo commerciale d’una certa importanza. In ogni caso, ricoprì un ruolo strategico di rilievo, se Agrippa decise di intitolarlo al futuro Augusto che, come conseguenza dell’adozione da parte di Cesare, aveva appunto modificato il proprio nome da Octavius a Iulius, e se altri storici lo citarono diffusamente nei loro scritti. Il porto meritò anche una menzione poetica da parte di Virgilio12 che l’elenca («Iulia… unda») tra le laboriose opere («operumque laborem») compiute dalla mano dell’uomo.
Come il porto di Brindisi, anche quello Giulio visse i suoi anni di gloria in concomitanza con l’impero romano e declinò con esso; solo che non si riprese mai più. Anzi scomparve addirittura dalla faccia della terra, a causa dei fenomeni naturali che investirono la regione flegrea modificandone la struttura morfologica. Dapprima, tra l’VIII ed il X secolo, fenomeni bradisismici fecero sì che il mare sommergesse il Lucrino che poi finì quasi per sparire nel 1538, a seguito dei movimenti tellurici che crearono in quel sito il Monte Nuovo.
Al tempo di Moricino e Della Monaca, il porto Giulio non esisteva pertanto più, e non ne era rimasta traccia, se non nelle fonti letterarie antiche. Solo i ritrovamenti archeologici del secolo scorso lo posero nuovamente in luce.
Non c’è quindi dubbio alcuno che lo “Iulii” del Galateo identifichi il porto Giulio, e non il mese di luglio come ipotizzato dai cronisti brindisini; di conseguenza anche Iunii è di sicuro un porto, e non un mese del nostro calendario. Il problema però in questo caso è che non c’è indizio, né possibile accenno nelle fonti letterarie, che diano modo di individuare una città portuale con un tale nome. Il che appare strano, se esso era così famoso da diventare proverbiale.
L’unica ipotesi formulabile appare a questo punto che il passo sia errato; cosa plausibile, considerate le lamentele espresse a volte «ai lettori» dai curatori delle opere del Galateo per le «grandissime difficoltà» incontrate nella traduzione «per la scorrezione dei testi13».
Partendo pertanto dal presupposto che il Galateo (o qualche copista) ne abbia riportato in maniera imprecisa il nome, occorre cercare la città portuale, a quel tempo rinomata, la cui denominazione abbia maggiore assonanza con Iunii. Essendo le località di tal genere in numero limitato, la ricerca riconduce inequivocabilmente al portus Lunae che, tenendosi alla sinistra dell’allora ampia foce del fiume Magra, si affacciava ad est dell’attuale golfo di La Spezia, e che, in antichità aveva goduto di buona fama meritando pure le attenzioni del grande Ennio14 che invitava a visitarlo, perché ne valeva la pena («Lunai portus, est operae. cognoscite, cives»).
Naturale come quello brindisino, il porto di Luna fu probabilmente motivo di contesa tra gli Etruschi ed i Liguri, prima di giustificare le mire dei romani che, con questo scalo, ritennero di poter controllare le rotte dell’alto Tirreno.
La deduzione nel 177 a.C. d’una colonia di diritto romano (civium romanorum) nella città di Luna fu perciò un passo del tutto conseguente (figura n. 3). Tuttavia, il successivo declino della potenza cartaginese creò una situazione di diffusa tranquillità nella zona, che finì per limitare l’importanza della base militare lunense. Solo in periodo augusteo il porto riacquisì rinomanza, quando fu potenziato e trasformato a scalo commerciale per sfruttare appieno le potenzialità delle vicine cave di marmo il cui candore affascinava Roma e tutte le città italiane. Ed è proprio di questo periodo la descrizione più particolareggiata che le fonti letterarie ci hanno conservato.
Strabone15 ci informa infatti che la città di Luna non è grande mentre il porto è parecchio grande e assai bello, comprendendo più rade, tutte profonde («ὁ δὲ λιμὴν μέγιστός τε καὶ κάλλιστος, ἐν αὑτῷ περιέχων πλείους λιμένας ἀγχιβαθεῖς πάντας»), circondate da alte montagne dove ci sono cave di marmo bianco («μέταλλα δὲ λίθου λευκοῦ») utilizzato per gli edifici più insigni costruiti a Roma e nelle altre città.
Durante la stesura del De situ Iapygiae, il porto di Luna era però da secoli scomparso: il graduale interrimento, causato dai frammenti depositati dal Magra, l’avevano infatti reso paludoso e malarico, sino a costringere i suoi abitanti ad abbandonarlo per spostarsi nell’entroterra. Così non c’è da stupirsi troppo se, tra una copia e l’altra del passo implicato, la del tutto sconosciuta Lunae possa essere stata sostituita da Iunii, magari proprio perché termine ritenuto più in armonia con Iulii, anch’esso non più riconosciuto come scalo portuale.
Comunque siano andate le cose, la stesura originale del proverbio doveva essere la seguente: «tres esse in orbe portus: Lunae, Iulii et Brundusii» stabilendo in definitiva che i porti di Luna, di Giulio e di Brindisi erano gli unici al mondo degni d’essere considerati tali.
Questo almeno nella forma; nella sostanza il messaggio che si voleva veicolare era però forse ben altro.
La citazione del prezioso marmo bianco lunense riportata da Strabone fa infatti venire alla mente il noto passo in cui Svetonio16 riferisce che Augusto si vantava senza sottintesi di lasciare di marmo la città di Roma che aveva ricevuto di mattoni («marmoream se relinquere, quam latericiam accepisset»), facendoci così comprendere che la riorganizzazione del porto di Luna, e la conseguente notevole attività commerciale che vi era confluita, rientrava a pieno titolo nelle politiche economiche di ampio respiro che il princeps andava attuando. Lo stesso può dirsi a maggior ragione per il porto Giulio, creato praticamente dal nulla e che, come già riportato, Agrippa gli aveva persino intitolato perché ne rimanesse perenne memoria. Queste due imponenti iniziative rientravano pertanto, a dirla come il già citato verso di Virgilio, tra le «operumque laborem», vale a dire tra le opere esemplari che Augusto aveva compiuto per creare consenso. Il che fa sorgere il fondato sospetto che il proverbio facesse parte della minuziosa propaganda avviata da Mecenate, una specie di ministro della cultura e dell’informazione del governo augusteo, e che sia stato pertanto coniato ad arte per valorizzare i progetti portuali avviati in quel periodo.
In questa ottica anche la presenza nell’adagio del porto di Brindisi assume un significato diverso e ben più caratterizzante della sua del tutto ovvia notorietà.
Occorre infatti ricordare che il portus Brundusii rappresentava soprattutto una mirabile dimostrazione di opera compiuta dalla natura, come emerge ad esempio nei passi di Strabone17, quando lo qualifica porto spontaneo di grande pregio («εὐλίμενον»), oppure di Lucano18, quando lo descrive dotato di tutte quelle caratteristiche genuine che lo rendono approdo talmente sicuro che le imbarcazioni possono essere assicurate anche con una semplice tremula fune («ut tremulo starent contentae fune carinae»).
Nel proverbio il porto brindisino pare quindi piuttosto utilizzato come modello con cui confrontare i porti realizzati per mano dell’uomo.
A questo punto sembra evidente che, se nella forma il testo del proverbio stabiliva una semplice elencazione di porti importanti, nella sostanza intendeva far percepire che le attività promosse da Augusto sugli approdi portuali erano equiparabili alle migliori opere create dalla natura. In pratica, gli interventi compiuti per fare di Luna lo scalo commerciale che consentiva di sostituire nelle città al mattone il marmo e quelli eseguiti per realizzare dal nulla un bacino artificiale di sicuro ricovero, come avvenuto con il porto Giulio, erano paragonati all’approdo brindisino, ritenuto per l’appunto il portus per eccellenza.
Nella realtà, quindi, un riconoscimento di gran lunga superiore al banale accostamento alle «Bonaccie di quei mesi di Giugno e, Luglio» celebrato con convinta immaginazione dai cronisti brindisini.
                  1 Tucidide (V secolo a.C. – IV secolo a.C.), La guerra del Peloponneso, I 21, 1.
2 Erodoto era nato ad Alicarnasso ma, avendo partecipato alla fondazione della colonia panellenica di Thurii, ne acquisì la cittadinanza.
3 Erodoto (V secolo a.C.), Storie, IV 99, 5.
4 G. Uggeri, La terminologia portuale e la documentazione dell’itinerarium Antonini, in Studi Italiani di Filologia Classica, N.S. XL, 1-2, pp. 225-254, Felice Le Monnier, Firenze, 1968, p. 241.
5 G. Antonini, La Lucania, Forni Editore, Sala Bolognese, 1984, ristampa dell’edizione Tomberli, 1794, p. 188.
6 Galateo, De Situ Iapygiae, per Petrum Pernam, Basileae, 1558, p. 63.
7 G.M. moricino, Dell’antichità e vicissitudine della città di Brindisi, manoscritto ms_D12, Biblioteca pubblica arcivescovile “A. De Leo”, Brindisi, 14v.
8 A. della monaca, Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi, Pietro Micheli, Lecce, 1674, p. 30.
9 Svetonio (I secolo a.C.), Vita dei Cesari – Augusto, II 16, 1.
10 Tindilo: satira brindisina, Cesare Augusto imperatore, Brindisi, 2016.
11 Svetonio, cit., II 16, 2.
12 Virgilio (I secolo a.C.), Georgiche, II 154-163.
13 La Iapigia e varii opuscoli di Antonio de Ferrariis detto il Galateo, (collana diretta da Salvatore Grande), Tipografia Garibaldi, Lecce 1867, vol. I, p. I.
14 Ennio (III secolo a.C. – II secolo a.C.), Annali I, in persio (I secolo d.C.), Satire VI 9.
15 Strabone (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Geografia, V 2, 5.
16 Svetonio, cit., II 28,5.
17 Strabone, cit., VI 3, 6.
18 Lucano (I secolo d.C.), Farsaglia, II 608-621.
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rinascimento segreto Pesaro e Urbino
Le citta' di Urbino, Pesaro e Fano rendono omaggio al Rinascimento promuovendo una grande mostra a cura di Vittorio Sgarbi allestita dal 13 aprile al 3 settembre in tre sedi: Palazzo Ducale, Sale del Castellare, a Urbino; Museo Archeologico e Pinacoteca del Palazzo Malatestiano, Sala Morganti, a Fano; Musei Civici di Palazzo Mosca a Pesaro. La mostra e' promossa da Comune di Urbino, Comune di Pesaro e Comune di Fano, con il patrocinio e contributo della Regione Marche, dell'Assessorato alla Cultura della Provincia di Pesaro e Urbino e dell'Anci Marche. La produzione e' affidata a Sistema Museo (partner Marche multiservizi).Nelle tre sedi sono esposte oltre ottanta opere, tra dipinti e sculture, disegni e oggetti d'arte dall'inizio del Quattrocento alla meta' del Cinquecento, di proprieta' di fondazioni bancarie, istituzioni e collezionisti privati con l'obiettivo di valorizzare, come indica il titolo stesso, un patrimonio artistico quasi sconosciuto (perche' non esposto nei musei pubblici), e al contempo creare un dialogo con le opere rinascimentali presenti sul territorio. Il curatore Vittorio Sgarbi: «Rinascimento segreto e' una mostra difficile. C'e' una complessita' di ricerca sia delle opere che degli autori che rende questa mostra di livello sofisticato. Accanto a Raffaello e Perugino, si possono ammirare tanti artisti che ancora si muovono nell'anonimato, conquiste della ricerca critica recente o artisti pur conclamati ma ancora oggetto di studio. Tutte le scuole del Rinascimento italiano sono raccolte nella mostra di Urbino, il settore veneziano e' ospitato a Pesaro, connesso alla grande Pala del Bellini. Nella sezione di Fano, con riferimento alla grande tradizione romana, si mostrano le sculture, che raccontano meglio il collegamento con l'arte plastica del mondo antico, insieme a ceramiche ed oreficeria. Questo Rinascimento segreto, nel suo percorso d'insieme, diventa cosi' per il visitatore un Rinascimento rivelato».Oltre a maestri di scuola marchigiana (Giacomo di Nicola da Recanati, Giovanni Antonio da Pesaro), sono stati selezionati capolavori inediti o ancora poco noti di artisti rappresentativi delle principali scuole pittoriche della penisola: toscana (Piero del Pollaiolo, Francesco di Giorgio Martini, Benvenuto Cellini, Pontormo, Baccio Bandinelli, Matteo Civitali, Agostino di Duccio, Desiderio da Settignano, Antonio Rossellino, Giovan Francesco Rustici); veneta (Bonifacio de' Pitati, Giovanni Bonconsiglio detto Marescalco, Marco Bello, Filippo da Verona); ferrarese (Maestro di Casa Pendaglia, Maestro delle Anconette ferraresi, Antonio Cicognara, Benvenuto Tisi detto Garofalo, Dosso Dossi, Ludovico Mazzolino, Giovanni Battista Benvenuti detto Ortolano); lombarda (Antonio de Carro, Gasparo Cairano, Agostino de Fondulis, Giovanni Agostino da Lodi, Cesare Magni, Defendente Ferrari, Gaudenzio Ferrari); emiliana e romagnola (Maestro di Castrocaro, Giovanni Francesco da Rimini, Bernardino da Tossignano, Severo da Ravenna, Marco Palmezzano, Bartolomeo Ramenghi detto il Bagnacavallo, Girolamo Marchesi detto da Cotignola, Francesco Zaganelli, Antonio da Crevalcore, Parmigianino, Giacomo e Giulio Francia, Amico Aspertini); umbra, adriatica e centroitaliana (Paolo da Visso, Nicolo' di Liberatore detto l'Alunno, Raffaello, Perugino, Giulio Romano, Giovan Francesco Penni, Liberale da Verona, Cola dell'Amatrice). Non c'e', probabilmente, nella storia umana e nella sua espressione attraverso l'arte, momento pio' alto e fervido d'invenzioni di quello che va dalla meta' del Quattrocento alla meta' del Cinquecento, da Piero della Francesca a Pontormo. A Firenze, e non solo a Firenze, ma a Venezia, a Ferrara, nelle Marche, in Sicilia, in Sardegna, in Friuli, in Lombardia, gli artisti danno vita a quello che e' stato chiamato, con azzeccata definizione, Rinascimento. Anche prima di quegli anni l'arte era stata sublime, ma Piero della Francesca la arricchisce di una intelligenza che trasforma la pittura in pensiero, in teorema, ben oltre le esigenze devozionali. Davanti alla sua Flagellazione non e' pio' sufficiente l'iconografia religiosa, e cosi' davanti alla Annunciata di Antonello da Messina, alla Tempesta di Giorgione, all'Amor sacro e Amor profano di Tiziano, alla Deposizione di Cristo di Pontormo. Di anno in anno appaiono capolavori sempre pio' sorprendenti. Tra 1470 e 1475 la creativita' dei pittori e degli scultori raggiunge vette inattingibili; ma sara' cosi', di quinquennio in quinquennio, fino alla meta' del Cinquecento. Sono gli anni di Mantegna, Cosme' Tura, Botticelli, Leonardo, di Raffaello, di Michelangelo, ma anche di Giovanni Bellini, di Lorenzo Lotto, di Tiziano, di Correggio, di Parmigianino. Sono gli anni delle meraviglie, gli anni in cui l'artista si sfida, in un continuo superamento di se stesso. Titolo: Rinascimento segretoSedi: Urbino, Palazzo Ducale, Sale del Castellare; Fano, Museo Archeologico e Pinacoteca del Palazzo Malatestiano, Sala Morganti; Pesaro, Palazzo Mosca, Musei CiviciDurata: 13 aprile 3 settembre 2017Orari di apertura: Urbino da martedi' a domenica e festivi 10/18, chiuso lunedi' non festivo; Pesaro e Fano da martedi' a domenica e festivi 10/13 16/19, chiuso lunedi' non festivo. Le biglietterie chiudono mezz'ora prima. E' possibile prenotare l'apertura straordinaria per visite riservate.Tariffe: biglietto unico per le tre sedi di mostra: intero 10 euro; ridotto 6 euro (gruppi min. 15 persone, da 19 a 25 anni, possessori di tessera Fai, Touring Club Italiano, Coop Alleanza 3.0 e precedenti Adriatica, Nordest, Estense); omaggio fino a 18 anni, soci Icom, giornalisti muniti di regolare tesserino, disabili e la persona che li accompagna. Con il biglietto di mostra si accede anche alle collezioni museali di Pesaro e Fano.Visite guidate: gruppi 80 euro (fino a 25 persone); scuole 60 euro (per le scuole di Fano, Pesaro e Urbino € 50); in lingua 100 euro. Sede di Urbino: visite guidate individuali (sabato, domenica e festivi ore 11 e 16) 4 euro a persona. Visita guidata 3 sedi 180 euro, scuole 150 euro, in lingua 250 euro. Tariffe personalizzate per visite mostra + citta' e per visite in esclusiva al di fuori dell'orario di apertura al pubblico.Info e prenotazioni: Pesaro - Palazzo Mosca, Musei Civici https://www.ipertop.it/rinascimento-segreto-4294003216.htm?utm_medium=tumblr
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Araldica carmelitana a Nardò (Lecce)
di Marcello Semeraro
Ripropongo in questa sede la versione integrale del mio saggio sull’iconografia araldica dei Carmelitani Calzati di Nardò, apparso sul volume Decor Carmeli. Il convento, la chiesa e la confraternita del Carmine di Nardò, a cura di Marcello Gaballo (Mario Congedo editore, Galatina 2017, pp. 259-264).
  ARALDICA CARMELITANA A NARDÒ
LO STEMMA CARMELITANO: ORIGINE E SVILUPPI
L’uso degli stemmi da parte dei membri della Chiesa risale alla prima metà del Duecento, un secolo dopo la comparsa delle prime armi in ambito militare e cavalleresco. Questo ritardo si spiega facilmente se si considera che il sistema araldico primitivo si elaborò interamente al di fuori dell’influenza di Roma, la quale in un primo momento si dimostrò refrattaria all’utilizzo di emblemi profani legati a guerre e tornei. Fu solo col prevalere di un più generico significato di distinzione sociale che l’uso degli stemmi troverà piena giustificazione negli ambienti ecclesiastici, soprattutto per via della sua utilità nei sigilli[1]. L’iniziale avversione della Chiesa nei confronti delle armi cadde quindi nel momento in cui esse persero il loro carattere esclusivamente militare, diffondendosi, tra il XIII e il XIV secolo, a tutte le classi e le categorie sociali. I vescovi furono i primi a fare uso di stemmi (ca. 1220-1230), seguiti dai canonici e dai chierici secolari (ca. 1260), dagli abati e, verso la fine del Duecento, dai cardinali[2]. Quanto ai papi, il primo a utilizzare uno stemma fu Niccolò III (1277-1280), ma è con Bonifacio VIII (1294-1303) che tale uso divenne sistematico[3]. Le comunità ecclesiastiche fecero lo stesso a partire dal XIV secolo: ordini religiosi, abbazie, priorati, conventi e case religiose faranno via via un uso sempre maggiore di emblemi araldici, con le dovute differenze, a seconda del particolare ordine e delle regioni di appartenenza[4]. Anche i Carmelitani si dotarono di proprie insegne araldiche, tuttora innalzate dagli appartenenti a due distinti ordini religiosi: i Carmelitani dell’antica osservanza (o Calzati) e i Carmelitani Scalzi (o Teresiani) (figg. 1 e 2).
Fig.1
Fig. 2
  Sulle origini dell’arma carmelitana non si hanno riferimenti cronologici certi. Quel che sappiamo è che l’insegna vanta una lunga storia, attestata sin dalla prima metà del XV secolo[5]. In origine i frati portarono uno scudo “di tanè, cappato di bianco (d’argento)”[6], composizione che rappresenta l’araldizzazione dell’abito carmelitano, formato dalla cappa bianca aperta sull’abito di colore tanè (marrone rossiccio)[7]. Questo fenomeno di araldizzazione dell’abito si ritrova, del resto, anche nello stemma innalzato dall’Ordine dei Frati Predicatori (Domenicani), nel quale però il cappato rappresenta la cappa nera aperta sull’abito bianco[8]. Il più antico esemplare a noi noto di stemma carmelitano si trova su un sigillo ogivale usato intorno al 1430 dal Capitolo Generale dell’Ordine (fig. 3).
Fig.3
  Il campo mostra la Vergine in trono – un tipo assai ricorrente nella sfragistica carmelitana, che perdurerà fino al XVIII secolo – dentro un edicola tardo-gotica e in basso un frate genuflesso, affiancato da due scudi: quello dell’Ordine, accollato a un pastorale posto in palo, e quello di famiglia[9]; attorno la legenda SIGILLUM COMMUNE CAPITULI GENERALIS CARMELITARUM. Un altro sigillo ogivale, datato 1478 e pubblicato dal Bascapè, ha il campo suddiviso in tre piani: in alto un sole raggiante, al centro l’Annunciazione, in basso un frate affiancato da due scudetti cappati dell’Ordine[10]. Nel corso dei tempo, tuttavia, questa forma grafica primitiva conobbe numerosi sviluppi e varianti, in linea con una tendenza riscontrabile anche in altri stemmi di ordini religiosi. Lo studio delle testimonianze araldiche dimostra che l’evoluzione dell’insegna carmelitana può essere fatta risalre al XVI secolo. Sul frontespizio del Jardín espiritual di Pedro de Padilla, pubblicato a Madrid nel 1585, si trova inciso uno scudo cappato che reca per la prima volta, nelle due metà del campo, tre stelle dell’uno nell’altro[11], figure allusive alla Vergine Maria e ai profeti Elia ed Eliseo (fig. 4).
Fig. 4
  Lo scudo è timbrato da una corona, formata da un cerchio rialzato da tre fioroni e da sei perle poste a trifoglio e diademato da un arco di dodici stelle: chiaro riferimento alla corona della “donna vestita di sole” di biblica memoria (cfr. Ap 12, 1). L’uso di questo tipo di corona quale timbro dello scudo è documentato già alcuni anni prima, come si vede nell’incisione presente sul frontespizio delle Costituzioni del 1573[12].
Nel 1595 furono pubblicati i decreti per i Carmelitani di Spagna e Portogallo, dove si trova inciso uno scudo ovale[13], timbrato da una corona con cinque fioroni alternati a quattro perle, dalla quale esce come cimiero un braccio sinistro impugnante una spada fiammeggiante; sopra, un cartiglio svolazzante reca il motto Zelo zelatus sum pro Domino Deo exercituum (“Ardo di zelo per il Signore Dio degli eserciti”) (fig. 5).
Fig. 5
  La spada e il motto alludono, chiaramente, al profeta Elia (cfr. 1Re 19, 10). Nei secoli seguenti, questa rappresentazione completa dell’arma carmelitana, costituita dallo scudo e dalle sue ornamentazioni esterne, godette, pur tra varianti, di una certa fortuna. La riforma dell’Ordine, avvenuta nella seconda metà del Cinquecento per opera di Santa Teresa d’Ávila e di San Giovanni della Croce, ebbe conseguenze anche dal punto di vista araldico.
I Carmelitani Scalzi, infatti, si differenziarono dai Calzati aggiungendo una crocetta[14] sulla sommità del triangolo, probabilmente per “denotare la vita più penitente che essi menano osservando la primitiva regola”[15]. Ne troviamo un esempio antico sul frontespizio dei Privilegia Sacrae Congregationis Fratrum Regulam primitivam Ordinis B. Mariae de Monte Carmeli profitentium, qui Discalceati nuncupantur, opera edita a Madrid nel 1591 (fig. 6).
Fig. 6
  Come si vede nell’illustrazione, la modifica operata dagli Scalzi, una sorta di brisura[16] araldica nel senso lato del termine, riguardò solo il contenuto dello scudo, lasciando inalterate le ornamentazioni esterne, vale a dire la corona nimbata, il cimiero e il motto eliani. A poco a poco il triangolo della partizione prese la forma di un monte stilizzato, probabilmente per effetto di una diversa interpretazione attribuita al cappato, considerato come rappresentazione simbolica del biblico Monte Carmelo – al quale le origini dell’Ordine sono ricondotte – piuttosto che come araldizzazione dell’abito religioso.
Una forma particolare di stemma fu poi quella adottata in epoca moderna dalla Congregazione Mantovana, dal Camine Maggiore di Napoli e, più in generale, dai Calzati delle Province del Sud Italia, che si caratterizza per l’aggiunta, nella metà inferiore del campo, di un ramo di palma e di giglio – attributi iconografici di S. Angelo di Sicilia e S. Alberto di Trapani, i primi due canonizzati dell’Ordine – spesso infilati in una corona e talora uscenti da un monte di tre cime all’italiana[17] (figg. 7, 8)[18].
Fig. 7
Fig. 8
  Le varianti a cui andò incontro l’insegna nel corso del tempo furono molteplici e riguardarono sia il contenuto dello scudo che le sue ornamentazioni esterne[19]. La corona, ad esempio, non compare in tutti gli stemmi e non sempre da essa esce il braccio d’Elia impugnante la spada. Anche il motto Zelo zelatus sum pro Domino Deo exercituum non è di uso costante. Gli smalti della metà inferiore del campo sono il tanè o il nero, ma vi sono casi eccezionali in cui esso è d’azzurro. Nel Settecento, al posto del cimiero col braccio di Elia, apparve sporadicamente un monogramma mariano dentro un sole raggiante. In linea generale si può sostenere che lo sviluppo grafico dello stemma è stato vario, condizionato, da una parte, dall’aggiunta di figure allusive alle origini e ai santi patroni dell’Ordine, e, dall’altra, da altri fattori propri della creazione artistica, quali il capriccio degli esecutori o il gusto del tempo.
L’arma carmelitana può anche comparire come quarto di religione all’interno dello scudo, dov’è associata, mediante una partizione (soprattutto il partito), all’arma (personale o familiare) dell’ecclesiastico proveniente da tale Ordine (fig. 9).
Fig. 9
L’uso del partito, in particolare, è documentato sin dal XVII secolo negli stemmi dei priori generali e dei Carmelitani divenuti cardinali o vescovi. Talora, l’insegna dell’Ordine è posta su uno scudetto, come si vede nello stemma del cardinale Joaquín Lluch y Garriga (†1882, O.C.D.) e in altri esempi[20]. Le suore del Secondo Ordine carmelitano, infine, portano le medesime insegne dei rispettivi ordini maschili[21].
  GLI STEMMI DEI CARMELITANI CALZATI DI NARDÒ
L’arrivo dei Carmelitani dell’antica osservanza a Nardò risale al 1568, come già trattato da diversi autori in questo lavoro. Dai documenti d’archivio risulta, infatti, che in quell’anno ai frati, rappresentati da Crisostomo Romano di Mesagne, con il beneplacito del vescovo Giovan Battista Acquaviva d’Aragona e del duca Giovan Bernardino II Acquaviva, fu assegnata provvisoriamente la chiesa dell’Annunziata, dimorando in un primitivo e ridotto insediamento che avrebbero ampliato negli anni seguenti. Alla fine del XVI secolo è databile l’esemplare araldico più antico giunto fino a noi, scolpito sulla facciata dell’ex convento (fig. 10).
Fig. 10 (foto Lino Rosponi)
  All’interno di uno scudo appuntato, col lato superiore sagomato a due punte, è rappresentato un monte[22] stilizzato e acuminato, accompagnato, nel cantone destro del capo, da una cometa di sette raggi (più la coda), ondeggiante in banda. Lo scudo è timbrato da una corona costituita da un cerchio gemmato di stelle, sostenente fioroni oggi quasi del tutto abrasi. La composizione araldica è posta su un medaglione circolare, attorno al quale corre la scritta INSIGNE CARMELI VEXILLUM. L’uso del termine “vexillum” con riferimento allo stemma carmelitano non è certo una novità (fig. 5) e si riferisce probabilmente all’origine vessillare dell’insegna dell’Ordine[23].
Come ho già ricordato sopra, fu solo alla fine del Cinquecento che lo stemma carmelitano assunse la forma col cappato (variamente interpretato) e le tre stelle, che sarebbe poi diventata classica (figg. 4 e 5). L’esemplare litico neretino si rivela, da questo punto di vista, una testimonianza di notevole interesse perché mostra una variante insolita nell’evoluzione dell’iconografia araldica dell’Ordine, ascrivibile a una fase transizione dello stemma dalla versione primitiva a quello classica. Probabilmente seicentesca è, invece, l’arma affrescata sulla volta dell’ingresso dell’ex convento (fig. 11), riconducibile alla variante con i rami di palma e di giglio, decussati e uscenti da una corona, usata in epoca moderna nel Meridione d’Italia (figg. 7, 8)[24].
Fig. 11 (foto Lino Rosponi)
  Lo scudo, di foggia semirotonda e con contorno a cartoccio, timbrato da una corona con cinque fioroni e quattro perle, appare ingentilito, ai lati, da un cordone di tanè terminante con due nappe e, al di sotto della punta, da un cherubino; il tutto è circondato da un serto di alloro. Alla stessa tipologia appartengono due altri esemplari presenti nell’ex convento. Uno di questi è dipinto sul trono su cui è assisa la Vergine nell’affresco della Madonna del Carmelo e reca uno scudo sagomato e accartocciato, timbrato da una corona all’antica[25] (fig. 12).
Fig. 12 (foto Lino Rosponi)
  L’altro si trova scolpito sulla volta del salone al pianterreno, racchiuso da uno scudo semirotondo e accartocciato, timbrato da una corona con perle sostenute da punte (fig. 13).
Fig. 13 (foto Paolo Giuri)
  Nella chiesa della Beata Vergine Maria del Carmelo (in origine chiesa dell’Annunziata) si conservano altri tre esemplari che invece rispecchiano, seppur con varianti, l’iconografia classica dello stemma dei Carmelitani Calzati. Il primo è raffigurato su una lastra marmorea che in origine copriva l’accesso della sepoltura dei frati e che attualmente si trova come pezzo erratico in un deposito della chiesa (fig. 14).
Fig. 14 (foto Lino Rosponi)
  Tale lastra mostra al centro l’emblema dei Calzati, racchiuso da uno scudo ovale e accartocciato, timbrato da una corona rialzata da cinque fioroni, alternati a quattro perle, sostenute da altrettante punte. Il secondo esemplare è uno stemma ligneo che fa bella mostra di sé sul fastigio dell’edicola centrale del coro (fig. 15).
Fig. 15 (foto Lino Rosponi)
  Uno scudo sagomato e accartocciato, dalla foggia tipicamente settecentesca, timbrato da una corona di cui resta solo il cerchio, contiene un’irregolare rappresentazione dell’arma dei Calzati, così blasonabile: “troncato in scaglione di tanè e di…?, a tre stelle di otto raggi d’oro”[26].
Chiude questa carrellata di stemmi l’esemplare che decora un drappo rosso conservato fra gli arredi sacri della chiesa[27]. L’insegna è contenuta in uno scudo sannitico accartocciato, munito di una punta nel lato superiore e timbrato da una corona all’antica (fig. 16).
Fig. 16 (foto Lino Rosponi)
  In conclusione, in base alle testimonianze superstiti si può affermare che la rappresentazione dello stemma innalzato dai Calzati di Nardò seguì, pur tra varianti, l’evoluzione dell’iconografia araldica dell’Ordine, caratterizzata dalla progressiva aggiunta sul cappato originario di figure e simboli allusivi agli ispiratori e ai santi patroni dell’Ordine. Se letti correttamente e in senso diacronico, gli esemplari neretini mostrano tre diverse fasi evolutive nella conformazione dell’insegna, che vanno dallo sviluppo della forma primitiva (fig. 10) alla forma classica (figg. 14, 15 e 16), passando attraverso la variante seicentesca adoperata nel Sud Italia (figg. 11, 12 e 13).
Riprodotti su supporti di vario tipo, questi stemmi furono impiegati dai frati con la duplice funzione di segni di appartenenza all’Ordine e motivi decorativi. Malgrado il notevole numero di varianti, i Calzati si riconobbero tutti nella propria insegna, professando orgogliosamente per mezzo di essa la propria fede e la propria appartenenza all’Ordine, con l’intento di trasmettere questo patrimonio ideale alle future generazioni. Sta a noi, dunque, decifrane il contenuto e diffonderne il messaggio: è questo, in fondo, l’obiettivo che il presente contributo, scevro da qualunque pretesta di esaustività, si propone di raggiungere.
  [1] B. B. Heim, L’araldica nella Chiesa Cattolica. Origini, usi, legislazione, Città del Vaticano 2000, pp. 23-24; M. Pastoureau, Le nom et l’armoirie. Histoire et géographie des armes parlantes dans l’Occident médiéval, in “L’identità genealogica e araldica. Fonti, metodologie, interdisciplinarità, prospettive”, Atti del XXIII Congresso internazionale di scienze genealogica e araldica (Torino, 1998), Roma 2000, pp. 78-79.
[2] M. Pastoureau, Medioevo simbolico, Bari 2014, pp. 201-202; E. Bouyé, Les armoiries pontificales à la fin du XIII siècle: construction d’une campagne de communication, in “Médiévales”, 44 (2003), pp. 173-198.
[3] Sulle origini dell’araldica papale, v. Bouyé, Les armoiries pontificales cit., pp. 173-198; Heim, L’araldica cit., p. 100.
[4] A. Cordero Lanza di Montezemolo, A. Pompili, Manuale di araldica ecclesiastica nella Chiesa Cattolica, Città del Vaticano 2014, pp. 17-18.
[5] Le fonti per lo studio dell’arma carmelitana antica sono costituite essenzialmente dai sigilli. Sulla sfragistica e sull’araldica carmelitane, v. G.C. Bascapè, Sigillografia: il sigillo nella diplomatica, nel diritto, nella storia, nell’arte, II, Milano 1969, pp. 180-186.
[6] Nel blasone il termine cappato designa una partizione formata da due linee curve o rette che partono dal centro del capo e terminano ognuna al centro dei fianchi dello scudo. Come vedremo, nel corso del tempo il cappato carmelitano venne reso in maniera diversa, fino ad assumere la forma di un troncato in scaglione o di un monte stilizzato.
[7] Tuttavia, negli stemmi disegnati e stampati il colore tanè, che non fa parte dei sette smalti convenzionali del blasone (oro, argento, rosso, azzurro, verde, nero e porpora), diventa spesso nero. Il Ménestrier, il più autorevole araldista dell’Ancien Régime, a proposito dello stemma carmelitano così scrive: “L’Ordre des Carmes porte un escu tanè ou noir, chappé ou mantelé d’argent, pour representer les couleurs de leur habit”. C.F. Ménestrier, Les recherches du blason. Seconde partie de l’usage des armoiries, Paris 1673, p. 182. L’uso di una formula bicroma negli abiti religiosi fu introdotto intorno al 1220 dai Domenicani (saio bianco e mantello nero, presentati come i colori della purezza e dell’austerità) e fu ripreso dagli stessi Carmelitani e da alcuni ordini monastici (Celestini, Bernardini, ecc.). Su tale questione, v. Pastoureau, Medioevo simbolico cit., p. 140.
[8] Sull’insegna domenicana e sulle sue varianti, v. Bascapè, Sigillografia cit., pp. 203-205.
[9] Nei sigilli ecclesiastici, l’uso di associare, ai lati della figura del religioso, due scudi (quello del vescovado, dell’abbazia o dell’ordine, da un lato, e quello familiare, dall’altro) è riscontrabile a partire dal XIV secolo. A. Coulon, Éléments de sigillographie ecclésiastique française, in “Revue d’histoire de l’Église de France”, 18 (1932), pp. 178-179.
[10] Bascapè, Sigillografia cit., tav. XXXI, n. 3.
[11] Si dice di più figure che, poste in campi contigui di smalti diversi, assumono lo smalto del campo opposto. Le stelle sono invece due nell’esemplare inciso sul frontespizio delle Costituzioni del 1573, pubblicato dal Bascapè. Cfr. ivi, tav. XXXII, n. 7.
[12] V. supra, nota 11.
[13] Si noti la presenza, attorno allo scudo, di una bordura composta, formata da triangoli alternati di nero e di bianco (d’argento), ripetizione degli smalti del cappato. Questo tipo di bordura è simile a quella che compare nello stemma domenicano, del tipo con la croce gigliata.
[14] La provincia di Sicilia poneva, invece, un altro tipo di croce, quella gerosolimitana, potenziata e accantonata da quattro crocette, il cui uso è attestato anche per i Carmelitani di Malta. G. Zamagni, Il valore del simbolo: stemmi, simboli, insegne e imprese degli Ordini religiosi, delle Congregazioni e degli altri Istituti di perfezione, Cesena 2003, p. 9.
[15] Bascapè, Sigillografia cit., p. 185; G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, X, Venezia 1841, p. 59.
[16] La brisura, stricto sensu, è una variante introdotta in uno stemma rispetto all’originale, per distinguere i diversi rami di una stessa famiglia. I procedimenti più impiegati per brisare un’arma sono tre: la modificazione degli smalti, la modificazione delle figure e l’aggiunta di altre figure.
[17] Figura stilizzata, costituita da un insieme di cilindri coperti da calotte sferiche, detti colli o cime, disposti, generalmente, a piramide.
[18] Zamagni, Il valore del simbolo cit., p. 10.
[19] Ibid.; Bascapè, Sigillografia cit., p. 186.
[20] Lo stemma del cardinale Joaquín Lluch y Garriga è riprodotto sul sito Araldica vaticana, al seguente indirizzo: <http://www.araldicavaticana.com/luch_y_garriga_fra_gioacchino_1.htm>. Altri esempi di stemmi prelatizi con lo scudetto dell’Ordine si trovano in G.C. Bascapè, M. Del Piazzo, con la cooperazione di L. Borgia, Insegne e simboli. Araldica pubblica e privata, medievale e moderna, Roma 1999, pp. 404, 409.
[21] Ivi, p. 363.
[22] Utilizzo volutamente il termine monte e non montagna (che sarebbe araldicamente più corretto) perché più allusivo alle origini dell’Ordine.
[23] Il termine vexillum si trova documentato per la prima volta sulla xilografia raffigurata sul frontespizio della Vita di Sant’Alberto, pubblicata nel 1499, dove compare una mandorla ogivale, raggiante e sostenuta da due angeli, che contiene nel campo superiore la Vergine assisa in trono, incoronata e nimbata, sul cui grembo sta il Bambino, mentre i piedi poggiano su una mezzaluna su cui è inciso il motto “luna sub pedibus eius”; nel campo inferiore, invece, si trova il cappato carmelitano. Secondo il Bascapè, si tratta della riproduzione del gonfalone dell’Ordine, della fine del Trecento o degli inizi del secolo successivo. Bascapè, Sigillografia cit., pp. 181-182.
[24] Di questa variante dello stemma carmelitano sono documentate versioni con una o con tre stelle. Cfr. <http://ocarm.org/pre09/alberto/images/alberto034.jpg>; <http://ocarm.org/pre09/alberto/images/alberto033.jpg>.
[25] Si dice della corona composta da un cerchio rialzato da punte aguzze. In araldica è detta anche corona radiata.
[26] V. supra, nota 6. Si noti anche la differenza rispetto agli smalti convenzionalmente usati nel blasone dei Carmelitani.
[27] Marcello Gaballo, che ringrazio, mi ha riferito che il drappo era applicato dietro la croce processionale della Confraternita dell’Annunziata e del Carmine.
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La freccia e il delfino: alla scoperta di un antico (e dimenticato) palazzo di Manduria
Fig. 1 – Manduria, palazzo Ciracì, angolo fra vico Commestibili e vico Carceri Vecchie, particolare dello stemma
  di Marcello Semeraro
Lo stemma oggetto del presente studio si trova a Manduria, posto sull’angolo dell’edificio dove si incontrano vico Commestibili e vico Carceri Vecchie (fig. 1). Si tratta di una porzione dello storico palazzo Ciracì (oggi De Laurentiis), il cui prospetto principale domina il tratto iniziale di via del Fossato. Il palazzo attuale si presenta pesantemente rimaneggiato, fra abbellimenti del XVIII secolo e trasformazioni successive, ma conserva ancora tracce di architetture cinquecentesche, a testimonianza di una storia piuttosto movimentata[1].
L’esemplare araldico, rimasto fino ad ora anonimo, è costituito da uno scudo sagomato e accartocciato, il cui campo appare suddiviso in due metà da una linea di partizione chiamata partito: a destra[2] si vede una freccia cadente (vale a dire con la punta verso il basso), mentre a sinistra compare un delfino uscente da un mare ondato e accompagnato in capo da tre gigli male ordinati (cioè posti 1, 2). Dall’osservazione del contenuto blasonico si evince chiaramente che la composizione in oggetto, databile al XVI secolo[3], presenta tutte le caratteristiche di un’arma di alleanza matrimoniale, una combinazione araldica che si ottiene associando due stemmi diversi in uno stesso scudo per mezzo di una partizione (generalmente un partito o un inquartato).
In questo tipo di rappresentazione araldica l’arma del marito precede quasi sempre quella della moglie ed è così anche nel nostro caso. Lo stemma visibile nel primo quarto è attribuibile ai Saetta, famiglia di «nobili viventi» originaria di Lecce, che nella prima metà del XVI secolo si trasferì a Manduria-Casalnuovo, dove si distinse nel commercio di grano e nell’esercizio di importanti cariche amministrative (alcuni dei suoi membri furono sindaci, auditori, erari e luogotenenti)[4].
Tale attribuzione trova un importante riscontro nell’arma assegnata ai Saetta che figura nello stemmario Montefuscoli – un manoscritto araldico risalente al XVIII secolo, conservato presso la Biblioteca Universitaria di Napoli –, la quale differisce dall’esemplare manduriano per la presenza di due stelle ai lati della freccia (fig. 2).
Fig. 2 – Arma Saetta, Imprese ovvero stemme delle famiglie italiane raccolte da Gaetano Montefuscoli da diversi libri genealogici, blasonisti ed altri, Napoli, Biblioteca Universitaria, MSS. 121, vol. III, p. 131
  Quest’ultima figura è evidentemente allusiva al cognome (freccia-saetta) e riconduce l’insegna innalzata da questa famiglia alla categoria delle armi parlanti, un tipo di composizione molto frequente nel blasone europeo[5].
Proseguendo nella lettura dello stemma litico in esame, si nota che la figura principale che carica il secondo quarto del partito è un delfino, il «re dei pesci», un animale non molto frequente in araldica, impiegato spesso come figura parlante[6] (fig. 3).
Fig. 3 – Stemma della famiglia veneziana Dolfin, Insignia …VII. Insignia Venetorum nobilium II (A-IP), Monaco di Baviera, Bayerische StaatsBibliothek, Cod. icon. 272, fol. 136r
  Grazie all’ausilio dei dati genealogici contenuti nel Librone Magno – il celebre manoscritto iniziato dall’arciprete Lupo Donato Bruno nel 1572 e continuato da altri dopo la sua morte, che contiene le genealogie di tutte le famiglie casalnovetane dalla metà del Quattrocento alla fine del Settecento – è stato possibile risalire con certezza all’unione matrimoniale che rese possibile la rappresentazione contenuta nel nostro scudo (fig. 4)[7]. Mi riferisco alle nozze fra Bonifacio Saetta, un mercante di origini leccesi, capostipite del ramo casalnovetano, e Giulia Maria Delfino, appartenente ad un’influente famiglia di notai locali[8], alla quale, ovviamente, si riferisce lo stemma raffigurato nel secondo quarto[9].
Fig. 4 – Genealogia della famiglia Saetta, Librone Magno, Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti, Manoscritti, MS. Rr/1-3, fol. 641r
  Il nostro Saetta fu un personaggio di primo piano nella vita politica ed economica casalnovetana della seconda metà del XVI secolo. Fu auditore (assessore) nel 1564-1565 e nel 1567-1568, luogotenente-castellano nel 1558-1559 e infine sindaco nel 1575-1576[10]. Lo storico Gérard Delille lo descrive come uno dei principali alleati e partner commerciali di Pirro Varrone, l’ebreo convertito al cristianesimo che per circa un trentennio fu il vero detentore del potere politico ed economico del paese[11].
Una volta assodata con certezza l’attribuzione dello stemma al nostro Bonifacio e alla moglie Giulia Maria, ho provveduto ad interpellare altre fonti storiche alla ricerca di riscontri sul nome dei Saetta quali antichi proprietari del palazzo. La prova decisiva, in tal senso, è arrivata dagli Stati delle Anime, vero e proprio censimento della popolazione locale, che veniva compilato dai parroci solitamente in occasione della benedizione pasquale.
Dagli Status Animarum del 1693, in particolare, si evince che i discendenti di Bonifacio abitavano in una casa di loro proprietà sita «in via vulgariter dicta delle Stalle» (fig. 5)[12]. Nell’antica toponomastica di Casalnuovo, con questa denominazione, attestata sin dal 1508, si indicava proprio quella poi sarebbe diventata l’attuale vico Carceri Vecchie, esattamente dove si affaccia uno dei due prospetti sul cui angolo campeggia il nostro stemma[13].
Fig. 5 – Status Animarum (1693-1726), Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti , Manoscritti, MS. Rr/9, fol. 270r
  Malgrado le trasformazioni subite dall’attuale palazzo nel corso del tempo, non vi sono ragioni per credere che l’insegna in esame si trovi al di fuori del suo contesto originario. È da ritenere, pertanto, che l’edificio di cui essa marca la proprietà sia effettivamente quello dove vissero i Saetta.
Gli studi più recenti dello storico svizzero Manfred Welti – che saranno pubblicati prossimamente e ai quali ho avuto modo di contribuire – dimostrano che lo stipite del ramo casalnovetano ebbe ottimi rapporti con Giovanni Bernardino Bonifacio (1517-1597), marchese d’Oria e signore di Casalnuovo e Francavilla, noto agli studiosi per il suo duplice aspetto di fine umanista e di precoce aderente alla riforma protestante, fuggito in modo rocambolesco nel 1557 con la conseguente confisca dei feudi[14].
Sul lato opposto di vico Carceri Vecchie si vedono ancora oggi i resti di un portale in stile catalano-durazzesco che secondo i più recenti studi sarebbe stato l’ingresso del cinquecentesco palazzo dei Bonifacio, feudatari di Casalnuovo[15]. Va da sé che se tale ipotesi fosse dimostrata, significherebbe le due famiglie abitavano proprio nelle immediate vicinanze.
Giunti a Casalnuovo in un periodo di eccezionale sviluppo, dovuto sia alla ricchezza derivata dall’agricoltura, sia al notevole flusso immigratorio [16], e approfittando della relativa apertura della nobiltà locale, i Saetta divennero in poco tempo una delle casate più potenti e cospicue del paese, arrivando a ricoprire più volte la carica più importante, quella di sindaco, alla quale, all’epoca, potevano avere accesso solo i maggiorenti del posto. Tuttavia, del loro stemma e del loro antico palazzo, situato in prossimità della cinta muraria, non è rimasta alcuna traccia nella storiografia locale. Ma il colpo più duro alla loro memoria è sicuramente quello inferto dall’incuria dell’uomo, che ha avuto come conseguenza il degrado dell’area compresa fra vico Commestibili e vico Carceri Vecchie. Se è vero che il compito della ricerca storica è anche quello di far conoscere il passato al fine di preservarne la memoria, l’auspicio è che i risultati di questa breve indagine possano contribuire alla conoscenza, alla valorizzazione e al recupero di un pezzo importante della storia e dell’architettura dell’antico centro abitato di Casalnuovo.
    [1] Sul palazzo si veda C. Caiulo, Schede sull’architettura storica a Manduria, in «Quaderni Archeo», 8 (2007), p. 51.
[2] Va ricordato che in araldica la destra corrisponde alla sinistra dell’osservatore (e viceversa), perché lo scudo va considerato dal punto di vista del portatore.
[3] Al di sotto dello scudo, nello spazio di muro ricavato per collocare lo stemma sull’angolo, si legge il numero 62, probabilmente ciò che resta della data relativa all’anno in cui fu collocata l’insegna (1562?).
[4] Cfr. G. Delille, Le Maire et le Prieur. Pouvoir central et pouvoir local en Méditerranée occidentale (XVe-XVIIIe siècle), Roma 2003, pp. 181, 190 e cap. 7 (tab. 1); B. Fontana, Le famiglie di Manduria dal XV secolo al 1930, Manduria 2015, p. 173. Per le informazioni sulle cariche ricoperte dai Saetta, si vedano le schede (ad vocem) compilate dallo storico francese Gérard Delille, conservate in un apposito fondo presso della Biblioteca comunale Marco Gatti di Manduria; per la lettura dell’albero genealogico, invece, cfr. Librone Magno, Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti, Manoscritti, MS. Rr/1-3, fol. 641r.
[5] Si chiamano armi parlanti quelle che contengono figure che richiamano, direttamente o indirettamente, il nome della famiglia del possessore dello stemma. Si tratta di una tipologia di armi che esiste sin dalla nascita del sistema araldico nel XII secolo e che costituisce circa il 20% degli stemmi medievali, con un aumento significativo in epoca moderna, grazie soprattutto alla diffusione che esse ebbero fra i non nobili e le comunità (cfr. M. Pastoureau, Une écriture en images: les armoiries parlantes, in «Extrême-Orient, Extrême-Occident», 30 [2008], pp. 187-198). L’indice di frequenza di questa categoria di armi è particolarmente elevato anche in Terra d’Otranto, Manduria compresa, come dimostrano i seguenti casi: un basilisco per i Basile, una candela per i Candeloro, un calice per i Coppola, un cuore per i Corrado, un leone per i De Leonardis, un fagiano per i Fasano, una fontana per i Fontana, un Gatto per i Gatti, un lupo per i Lupo, un colombo per i Palumbo, ecc. (cfr. N. Palumbo, Araldica civica e cenni storici dei comuni di Terra Jonica, Manduria 1989, pp. 355-362).
[6] Occorre ricordare che araldica il delfino è considerato un pesce e non un cetaceo, nozione, quest’ultima, che si affermerà solo a cavallo fra XVIII e il XIX secolo. È il re della fauna marina del blasone, l’equivalente acquatico del leone e dell’aquila. La sua rappresentazione araldica ha ben poco di naturalistico e risente, invece, di un tipico processo di «demonizzazione» dell’antico. Si raffigura normalmente in palo, con il corpo ricurvo a semicerchio, la testa e la coda rivolte verso il fianco destro dello scudo. Il muso ha un aspetto ferino, mentre la testa (che talvolta è coronata) è munita di bargigli e di cresta. Sul delfino araldico si vedano soprattutto M. Pastoureau, Traité d’héraldique, Paris 20085, pp. 152, 153, e M. C. A. Gorra, Il delfino nel mito, nell’estetica, nell’araldica, in «Il delfino e la mezzaluna», 1 (2012), n. 1, pp. 7-12.
[7] Cfr. Librone Magno cit., fol. 641r; sul manoscritto, invece, si veda G. Delille, Famiglia e proprietà nel Regno di Napoli (XV-XIX secolo), Torino 1988, p. 207.
[8] Sulla famiglia Delfino si vedano Fontana, Le famiglie di Manduria cit., p. 74, e P. Brunetti, Manduria tra storia e leggenda, dalle origini ai giorni nostri, Manduria 2007, p. 253.
[9] Benché non sia stato possibile trovare ulteriori riscontri sull’uso di tale stemma da parte di questa antica famiglia casalnovetana, faccio comunque notare che molte delle casate italiane il cui nome evoca un delfino presero proprio il cetaceo come figura parlante del proprio scudo (fig. 3). Qualche esempio di trova in G. B. di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, Pisa 1886-1890 (rist. anast. Bologna 1965), vol. 1, pp. 355, 363.
[10] Fra i suoi discendenti si segnalano: il figlio Giovanni Bernardino, che fu erario negli anni Ottanta del Cinquecento; Giacinto, figlio di un altro Bonifacio Saetta e di Argentina Bruna, priore del Monte di Pietà (1655-1656, 1656-1657), erario (1657-1658, 1669-1670) e sindaco (1659-1660, 1676-1677, 1683-1684); e, infine, il figlio di quest’ultimo, Bonifacio, sposato con Anna Rosa Papatodero, sindaco nel 1697-1698. Anche queste informazioni sono state desunte dalle già citate schede di Gérard Delille (v. supra, nota 4). Da un atto notarile del 1588, inoltre, si ricava il succitato Giovanni Bernardino fu anche barone di Giurdignano (cfr. M. Alfonzetti, M. Fistetto, I protocolli dei notai di Casalnovo nel Cinquecento: regestazione degli atti notarili dei notai casalnovesi conservati nell’Archivio di Stato di Taranto, Manduria 2003, p. 342, n. 399).
[11] Cfr. Delille, Le Maire cit., pp. 190, 212.
[12] Cfr. Status Animarum (1693-1726), Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti , Manoscritti, MS. Rr/9, fol. 270r.
[13] Cfr. P. Brunetti, Manduria-Casalnuovo: le strade, le piazze, Oria 1999, p. 24; Id., Manduria tra storia cit., p. 268.
[14] Su Giovanni Bernardino Bonifacio si veda M. E. Welti, Dall’umanesimo alla riforma. Giovanni Bernardino Bonifacio marchese di Oria (1517-1557), Brindisi 1986.
[15] Cfr. Caiulo, Schede sull’architettura cit., p. 53; N. Morrone, Architettura del Rinascimento a Manduria, disponibile al seguente indirizzo: <http://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/09/architettura-del-rinascimento-a-manduria/>.
[16] Brunetti, Manduria tra storia cit., pp. 258-263.
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L’iconografia araldica del portale della Collegiata di Manduria: ipotesi e indirizzi di ricerca
di Marcello Semeraro
  In due articoli apparsi recentemente sulle pagine web di ManduriaOggi, lo studioso Giuseppe Pio Capogrosso ha avanzato alcune ipotesi di lettura sulla decorazione araldica presente sul magnifico portale rinascimentale della chiesa Matrice di Manduria, realizzato, com’è noto, da Raimondo da Francavilla nel 1532 (fig. 1).
Fig. 1 – Manduria, Chiesa Matrice della SS. Trinità, facciata, particolare del portale d’ingresso
  Si tratta, lo ricordiamo, di un insieme formato da quattro stemmi litici disposti a coppie ai lati del portale, due sopra e due sotto. La coppia superiore, collocata alla base delle colonnine della sovrapporta, è costituita da due scudi sagomati con forme diverse; quella inferiore, visibile sotto i capitelli delle paraste, è invece composta da due scudi gemelli appesi a chiodi mediante guiggie. Ques’ultima coppia non pone particolari problemi interpretativi: si tratta della più antica raffigurazione a noi nota dell’arma dell’Universitas di Casalnuovo (oggi Manduria), recante il solo albero di mandorlo sradicato[1] (figg. 2 e 3).
Fig. 2 – Manduria, Chiesa Matrice, particolare del primo dei due stemmi dell’Universitas di Casalnuovo (foto di Giuseppe D’Angeli)
  Fig. 3 – Manduria, Chiesa Matrice, particolare del secondo dei due stemmi dell’Universitas di Casalnuovo (foto di Giuseppe D’Angeli)
  Più problematica risulta, invece, la lettura della coppia di stemmi sovrastanti, caratterizzata, come si vede nelle illustrazioni (figg. 4 e 5), da abrasioni di notevole entità che ne rendono difficile l’immediata decifrazione.
Fig. 4 – Manduria, Chiesa Matrice, particolare del primo stemma della coppia superiore, recante il partito Bonifacio/Cicara (foto di Giuseppe D’Angeli)
  Figg. 5 – Manduria, Chiesa Matrice, particolare del secondo stemma Bonifacio/Cicara (foto di Giuseppe D’Angeli)
  Figg. 5a – Manduria, Chiesa Matrice, particolare del secondo stemma Bonifacio/Cicara (foto di Giuseppe D’Angeli)
  Capogrosso ha identificato correttamente la prima di queste due armi (quella di sinistra, fig. 4), riconoscendo in essa uno stemma d’alleanza matrimoniale che riunisce, per mezzo di uno scudo partito, le insegne araldiche di Roberto Bonifacio (signore di Casalnuovo, fra alterne vicende, dal 1522 al 1536) e della moglie Lucrezia Cicara[2] (figg. 6 e 7).
Fig. 6 – Bayerische Staatsbibliothek (Biblioteca Nazionale Bavarese), BSB Cod.icon. 279 (1550-55), fol. 35r. Arma della famiglia Bonifacio: «d’oro, alla banda scaccata di due file d’argento e di rosso, accostata da due leoni illeoparditi dello stesso»
Fig. 7 – Bayerische Staatsbibliothek (Biblioteca Nazionale Bavarese), BSB Cod.icon. 279 (1550-55), fol. 40r. Arma della famiglia Cicara: «d’oro, a due scaglioni d’azzurro, quello superiore troncato; al capo cucito del primo, caricato di un uccello di nero, posato sulla partizione»
  Per il secondo stemma lo studioso manduriano propone, invece, un’ipotesi di lettura che a nostro avviso risulta priva di fondamento. A detta del Capogrosso, l’insegna riprodurrebbe «il simbolo araldico della chiesa parrocchiale SS. Trinità (all’epoca eretta in Arcipretura, ma non ancora in Collegiata, sebbene fosse già servita, per il culto, collegialmente) rappresentato così come più tardi comparirà miniato nel Librone Magno delle famiglie mandurine».
Tuttavia, un’osservazione attenta del contenuto blasonico dello scudo, condotta anche mediante l’ausilio di foto ad alta risoluzione, smentisce l’ipotesi di attribuzione proposta dall’autore manduriano. Malgrado le vistose abrasioni, nella parte sinistra (destra per chi guarda) dello scudo si intravedono chiaramente gli scaglioni e il volatile, vale a dire le figure araldiche dell’arma Cicara (figg. 5 e 5a).
Ciò significa che il partito d’alleanza coniugale Bonifacio/Cicara è rappresentato anche nel secondo scudo della coppia superiore[3]. In effetti, la disposizione delle armi sul portale suggerisce un ordine funzionale alla rappresentazione di una gerarchia di poteri: sopra gli stemmi dei feudatari (arma di dominio), sotto quelli della locale Universitas (arma di comunità).
Ricordando che in contesti simili la ripetizione delle stesse armi all’interno dello stesso scudo è una costante legata essenzialmente a ragioni di simmetria, osserviamo, tuttavia, che il secondo scudo della coppia superiore presenta una foggia diversa rispetto al primo e appare scolpito su una lastra rettangolare che risulta decisamente fuori contesto. Entrambi gli scudi, inoltre, sono applicati alla base delle colonnine mediante staffe metalliche, particolare che li distingue nettamente dagli stemmi sottostanti, che invece appaiono scolpiti direttamente sulle paraste e costituiscono parte integrante della ricca iconografia presente sul portale del 1532.
Come spiegare, dunque, tutte queste anomalie? L’ipotesi più probabile, allo stato attuale delle ricerche, è quella di una collocazione successiva dei due stemmi superiori rispetto a quelli inferiori. È possibile, in particolare, che l’applicazione degli attuali scudi sulle colonnine della sovrapporta sia avvenuta utilizzando manufatti originariamente collocati altrove, reimpiegati, forse, per sostituire una precedente coppia di scudi gemelli Bonifacio/Cicara gravemente danneggiati o magari rimossi sotto i colpi della damnatio memoriae che colpì la figura di Giovanni Bernardino Bonifacio (*1517 †1597), figlio e successore di Roberto, sospettato di eresia e fuggito in modo rocambolesco nel 1557, con la conseguente confisca dei feudi di Oria, Casalnuovo e Francavilla.
Non è nemmeno da escludere che gli stemmi Bonifacio/Cicara appartengano allo stesso Giovanni Bernardino e che la damnatio memoriae abbia colpito proprio le sue insegne[4]. Nel testamento firmato il 16 gennaio 1534, Roberto Bonifacio dichiara il figlio erede universale, disponendo altresì che «se habbia finche vivera a cognominare del cognome nostro de Bonifatio, et Cicaro, cognome de la signora marchesa mia consorte». Quest’ultima circostanza può aver fornito a Giovanni Bernardino l’occasione per combinare all’interno di uno scudo partito le armi paterne con quelle materne, traducendo in tal modo araldicamente la volontà espressa dal padre di mantenere sempre vivi i cognomi Bonifacio e Cicara: ne avrebbe avuto, del resto, tutto il diritto.
Il fatto è che dell’arma usata dall’illustre umanista napoletano non resta oggi più alcuna traccia visibile. Mancano, infatti, altre attestazioni su monumenti, stemmari o altri manufatti con cui poter fare un raffronto, per cui la nostra resta solo una mera ipotesi, da prendere con le dovute cautele[5].
Come abbiamo già ricordato poc’anzi, quella con l’albero di mandorlo rappresentato a radici nude costituisce la più antica raffigurazione dell’arma civica di Manduria-Casalnuovo giunta fino a noi.
Si tratta di una testimonianza di notevole importanza perché documenta come agli inizi del Cinquecento l’Università di Casalnuovo – i cui primi statuti risalgono agli anni 1463-64, durante il periodo aragonese – fosse già dotata di una personalità giuridica e di un assetto politico-amministrativo tali da giustificare l’uso di un stemma. Quest’ultimo, infatti, trovava posto su tutta una serie di supporti (sigilli, monumenti, altri manufatti) atti a rendere visibili certi diritti e certe prerogative dell’amministrazione locale, separati, e a volte anzi contrapposti, a quelli dello Stato rappresentato dalla Corona e dal feudatario.
La presenza degli emblemi della municipalità sul portale rinascimentale voluto da Raimondo da Francavilla potrebbe allora essere messa in relazione con la funzione pubblica che la chiesa Matrice ebbe già nel Cinquecento come sede del Consiglio municipale[6], il che spiegherebbe anche l’eventuale presenza, ab origine o comunque entro il 1557, di un apparato araldico istituzionale composto da quattro armi, due del feudatario (sopra) e due dell’Università casalnovetana (sotto).
Un’altra ipotesi tira in ballo il giuspatronato detenuto dall’Universitas sulla stessa vhiesa Madre[7] e in tal caso gli stemmi ne rappresenterebbero il signum.
È innegabile, comunque sia, il fascino esercitato da questi documenti figurati che rappresentano visivamente i primi passi dell’autonomia amministrativa di Manduria-Casalnuovo nel senso moderno del termine.
L’iconografia complessiva del portale della chiesa Matrice attende ancora di essere debitamente studiata: l’auspicio è che la nostra ricerca, passibile di ulteriori sviluppi, rappresenti un primo passo in questa direzione.
  BIBLIOGRAFIA
T. Albanese, Historia Dell’antichità d’Oria Città della Provincia di Terra d’Otranto. Raccolta da molti antichi e moderni Geografi, ed Historici Dal Filosofo e Medico Domenico Tomaso Albanese della stessa Città, nella quale anco si descrive l’origine di molti luoghi spettanti alla sua Diocesi, Brindisi, Biblioteca pubblica arcivescovile A. De Leo, Manoscritti, ms. D/15.
P. Brunetti, Manduria: tra storia e leggenda, dalle origini ai giorni nostri, Manduria 2007.
G. Delille, Famiglia e potere locale: una prospettiva mediterranea, Bari 2011.
F. Filo Schiavoni, M. Annoscia, …Tra i segni di tanta vita e di tanta storia: Manduria in immagini e documenti fra 800 e 900, Manduria 1994.
S. Fischetti, Novità archivistiche su Manduria-Casalnovo: emblema civico e inediti, in «Cenacolo», Rivista storica di Taranto, n. s. XV (XXVII), 2003, pp. 89-114.
G. Jacovelli, Manduria nel Cinquecento, Galatina 1974.
N. Morrone, Nuovi documenti sul rapporto tra Giovanni Bernardino Bonifacio e l’Università di Casalnuovo, disponibile al seguente indirizzo: http://www.fondazioneterradotranto.it/2015/11/17/nuovi-documenti-sul-rapporto-tra-giovanni-bernardino-bonifacio-e-luniversita-di-casalnuovo/.
O. Neubecker, Araldica: origini, simboli e significato, Milano 1980.
N. Palumbo, Nobilitas mandurina, Manduria 1989.
M. Pastoureau, Traité d‘héraldique, Picard, Paris 20085.
A. Savorelli, Araldica e araldica comunale. Una sintesi storica, in «Estudos de Heráldica Medieval», coordenação de M. de Lurdes Rosa e M. Metelo de Seixas, Lisboa, IEM-CLEGH-Caminhos Romanos, 2012, pp. 254-273.
L. Tarentini, Manduria sacra, ovvero Storia di tutte le chiese e cappelle distrutte ed esistenti dei monasteri e congregazioni laicali dalla loro fondazione fino al presente, Manduria 1899, rist. anast. Manduria 1999.
M. E. Welti, Dall’umanesimo alla riforma. Giovanni Bernardino Bonifacio marchese di Oria (1517-1557), Brindisi 1986.
  [1] Riteniamo che Casalnuovo, come molti altri centri minori, si sia dotata di uno stemma civico fra la fine del XV secolo e la prima metà del XVI. Il Cinquecento, in particolare, è il periodo della definizione dell’emblema civico casalnovetano, che si stabilizzerà solo a partire dal secolo successivo. Ci riproponiamo di parlarne più diffusamente in un apposito articolo di prossima pubblicazione.
[2] Altri due esemplari recanti il partito Bonifacio/Cicara si trovano scolpiti al lati del basamento del monumento sepolcrale dedicato ad Andrea Bonifacio (figlio di Roberto e Lucrezia, morto nel 1515, all’età di sette anni), situato nella chiesa dei Santi Severino e Sossio di Napoli. Il sito Nobili napoletani ne fornisce una riproduzione fotografica al seguente indirizzo: http://www.nobili-napoletani.it/Bonifacio.htm.
[3] Dall’analisi degli ornamenti esterni emerge, inoltre, che gli scudi della coppia superiore avevano in origine il medesimo timbro, ovvero una corona composta da un semplice cerchio, probabilmente decorato con gemme, che appare ancora integro nel primo scudo e frammentario nel secondo: un altro particolare che accomuna i due manufatti.
[4] E in tal caso bisognerebbe spostare il terminus post quem per la datazione della collocazione degli stemmi superiori al 1536, data della morte del padre Roberto.
[5] Sebbene non se ne conoscano esempi, Giovanni Berardino fece sicuramente uso di uno stemma, come dimostra la testimonianza de visu fornita dallo storico oritano Domenico Tommaso Albanese (*1638 †1685), contenuta in una pagina del manoscritto Historia Dell’antichità d’Oria. L’Albanese ricorda come ancora ai suoi tempi le armi del marchese di Oria decorassero gli stalli del coro della chiesa di San Francesco d’Assisi, stalli che lo stesso Bonifacio commissionò e dei quali, ahimè, si è persa oggi ogni traccia. Cfr. D. T. ALBANESE, Historia Dell’antichità d’Oria Città della Provincia di Terra d’Otranto. Raccolta da molti antichi e moderni Geografi, ed Historici Dal Filosofo e Medico Domenico Tomaso Albanese della stessa Città, nella quale anco si descrive l’origine di molti luoghi spettanti alla sua Diocesi, Brindisi, Biblioteca pubblica arcivescovile A. De Leo, Manoscritti, ms. D/15, c. 311v.
[6] Dall’inizio del XVI secolo fino alla fine del XVIII tutti i Consigli municipali di Casalnuovo erano composti da un sindaco e da quattro auditori (assessori), scelti fra i nobili viventi, e da otto eletti, scelti fra i popolari. I membri del Consiglio erano responsabili, sui loro beni patrimoniali, dell’amministrazione della loro carica.
[7] L’Università aveva l’obbligo di provvedere alla manutenzione della chiesa e ad altre spese necessarie al suo funzionamento.
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