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#Monumenti di Terra d’Otranto
swapmuseum · 6 years
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SCOPRI I LAVORI DI ANDREA PER  “CI RACCONTI UNA STORIA” AL CASTELLO DI CORIGLIANO D’OTRANTO
IL MUSEO
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Il Castello di Corigliano D’Otranto rappresenta uno dei più bei monumenti di architettura militare e feudale del primo Cinquecento in Terra d’Otranto, e rappresenta certamente l’esempio più riuscito del passaggio dalle torri quadre medievali a quelle rotonde rinascimentali. Al suo interno ospita oggi una biblioteca, un museo multimediale, un infopoint turistico, un bookshop e un bar ed è coinvolto in molte iniziative culturali come mostre temporanee, rassegne musicali e spettacoli dal vivo.
L’ATTIVITÀ:   Creazione di un archivio della memoria storica legato alle storie dei luoghi
LE ORE: 30 ore
I PREMI: smartbox
LO SWAPPER:
ANDREA  RUSSO, 20 anni, studia Beni Culturali. Crede che la cultura debba andare di pari passo con il divertimento, dato che il miglior modo per divertirsi è quello di arricchire il proprio bagaglio culturale.
I RISULTATI:
Al termine della visita guidata, Andrea è rimasto particolarmente affascinato da alcuni racconti popolari che la guida ha raccontato circa la storia del castello. Da lì ha deciso di farsi raccontare queste leggende dalle persone del paese, andando in giro a fare delle video interviste chiedendo “Quali sono i tuoi ricordi legati al castello?” “Conosci questa leggenda? Ce la puoi raccontare?”. Il risultato è stato un video testimonianza dei ricordi e dei racconti dei cittadini, soprattutto quelli più anziani, a proposito del Castello, ricostruendo così una “storia” non ufficiale del luogo. Il tutto è stato editato in uno stile vintage che caratterizza tutte le creazioni artistiche di Andrea.
ANDREA SU SWAPMUSEUM
“È un’esperienza entusiasmante che  consiglio vivamente a tutti , è un modo innovativo di frequentare e vivere un museo invece che la solita visita statica.”
I LAVORI
Per vedere il video, clicca qui.
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I coniugi Peruzzi, benefattori dello Spedale degli Innocenti a Firenze e fondatori del convento dei Minimi in Lecce
Lecce, chiesa di S. Maria degli Angeli
  di Giovanna Falco
Si aprono nuove prospettive di ricerca sulla storia della chiesa di Santa Maria degli Angeli e del convento di San Michele Arcangelo dei Minimi di San Francesco di Paola, ubicato in piazza dei Peruzzi a Lecce: i fondatori Giovannella e Bindaccio di Bernardo di Bindaccio Peruzzi[1] furono anche benefattori dello Spedale degli Innocenti di Firenze, dove i loro ritratti sono conservati insieme con quelli di altre personalità dell’Istituto fiorentino.
Tutte le fonti che trattano della fondazione del complesso conventuale dei Minimi in Lecce[2], seppur contraddittorie sulle date, concordano nell’attribuirla a Giovannella Maremonte, vedova di Bindaccio Peruzzi, morto il 14 luglio 1502[3].
La vedova Peruzzi su disposizione testamentaria del marito, volle far realizzare in un giardino fuori porta San Giusto un oratorio e chiesa. Il 14 maggio 1524 il notaio Sebastiano de Carolis di Firenze rogò l’atto di fondazione del convento dei Minimi di San Francesco di Paola, alla presenza del provinciale genovese dell’Ordine e di Giovannella[4].
Con testamento del 13 marzo del 1527, rogato a Firenze dal notaio Paolo Antonio de Rovariis[5], la Peruzzi donò altri beni per l’erigendo convento.
Purtroppo i documenti originari sono stati dispersi, così come i riassunti degli atti del 1524 e del 1527, eseguiti nel 1766 dal notaio Lorenzo Carlino[6].
Lecce, chiesa di S. Maria degli Angeli, portale di ingresso
  Il giardino dov’è sorto il complesso conventuale dei Minimi, era conosciuto dai leccesi come Panduccio, distorsione dialettale del nome del proprietario, la cui presenza a Lecce è attestata negli anni Settanta del Quattrocento[7]. Ritornato a Firenze, Bindaccio Peruzzi ricoprì ruoli rappresentativi per l’Arte dei Mercanti[8], di cui nell’aprile del 1502 era ancora membro del consiglio, seppur assente[9]. Tre mesi dopo donò parte dei suoi beni allo Spedale degli Innocenti di Firenze, così com’è riportato nella targa del ritratto che lo commemora (www.catalogo.beniculturali.it › sigecSSU_FE › schedaCompleta.action): «Bindaccio Peruzzi priore del comune nel MCCCCXCV largi’ con testamento de’ X luglio MDII parte de’ suoi averi a questo brefotrofio e l’esempio del misericordioso consorte fu seguitato dalla moglie»[10] .
Stemma dei Peruzzi
  Grazie alla consultazione delle carte d’archivio dell’Ospedale degli Innocenti, Luigi Passerini e Alessandra Mazzanti e Vincenzo Rizzo, individuano la vedova di Bindaccio in Giovannella Peruzzi, il cui ritratto nel Settecento era esposto nel guardaroba dell’Istituto[11]. La vedova Peruzzi figlia «di Niccolò De Noe»[12], proveniente dalla «Basilicata nel Regno di Napoli»[13], morta nel 1527[14].
Le date coincidono, ma Giovannella Peruzzi, nei documenti dell’archivio dell’Istituto fiorentino risulta essere un’esponente di casa de Noha, e non di casa Maremonte.
Stemma dei Maramonte
  La diversa interpretazione del cognome della fondatrice nei documenti conservati presso il convento leccese è indirettamente chiarita da Michele Paone, quando scrive che nel 1524: «in Firenze la vedova di Bindaccio Bernardo Peruzzi, Giovannella, orfana di Nicola Gionata e Margherita Maremonte, donò ai minimi di S. Francesco di Paola la chiesa di S. Maria degli Angeli»[15]. La provenienza dalla Basilicata del padre di Giovannella, Nicola de Noha, è attestata (salvo che non si tratti di un caso di omonimia) da Giustiniani: nel 1457 re Alfonso diede Latronico «per ducati 600 a Cola de Ionata de Noha»[16]. Conferma la distorta lettura dell’atto del 1524, il nome del notaio fiorentino tramandato in maniera errata: si è individuato, infatti, Sebastiano de Carolis, in Bastiano di Carlo da Fiorenzuola, i cui atti, anche quelli del 1524, sono conservati presso l’Archivio di Stato di Firenze, dove non è reperibile l’annata 1527 di Paolo Antonio Rovai, il notaio che ha redatto il testamento della vedova Peruzzi[17].
Lecce, chiesa di S. Maria degli Angeli, particolare dell’ingresso
  Alla luce di questa identificazione, sono tanti gli elementi da riprendere in considerazione, per aggiungere nuovi capitoli alle vicende del complesso monastico. Riguardo al campo prettamente artistico, non è da escludere la provenienza diretta dei disegni per realizzare la chiesa commissionata dalla Peruzzi, dalla Firenze dei grandi artisti rinascimentali, poiché i lasciti per entrambe le istituzioni denotano l’appartenenza della coppia all’elite fiorentina. Seppur di fattura locale e successiva, è evidente, ad esempio, il richiamo iconografico della lunetta della chiesa leccese alle opere di Andrea Della Robbia.
Andrea della Robbia, Madonna con Bambino e Angeli (1504-1505), cattedrale di San Zeno, Pistoia (dal sito Tuscany sweet Life)
  Andrea della Robbia Madonna con Bambino e angeli (1508 ca. – 1509 ca.), Museo Civico di Viterbo, prima chiesa di San Giovanni dei Fiorentini Viterbo (dal sito della Fondazione Federico Zeri, Università di Bologna)
  Un’attenta analisi delle fonti minime, contestualizzata con le vicende storiche di Puglia e Firenze, inoltre, potrebbe determinare il perché la scelta dei fondatori ricadde su quest’Ordine. Lo studio delle vicissitudini delle famiglie dei fondatori e delle fasi costruttive del complesso monastico, potrebbero individuare l’epoca e il perché la famiglia Maremonte passò alla storia come fondatrice della chiesa di Santa Maria degli Angeli, il cui stemma è presente in facciata assieme a quello di Bindaccio Peruzzi.
  Note
[1] Cfr. F. Bruni, Storia dell’ I. e R. Ospedale di S. Maria degl’Innocenti di Firenze e di molti altri pii stabilimenti, Volume I, Firenze 1819 p. LXXXII.
[2] Cfr. L. Montoya, Coronica general de la Orden de los Minimos de S. Francisco de Paula su fundador, lib. I, Madrid 1619, p. 87; G. C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. A cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979), pp. 93-94; F. Lavnovius, Chronicon generale ordinis Minorum, 1635, p. 193; R. Quaranta, Storia della provincia pugliese dei Minimi nel manoscritto Historialia monumenta chronotopographica provinciae Apuliae del p. Antonio Serio: (metà sec. XVIII), Roma 2005, pp. 35-40; F.A. Piccinni, Principiano le notizie di Lecce, in A. Laporta (a cura di) Cronache di Lecce, Lecce 1991, pp. 15, 224-226; A. Foscarini, Guida storico-artistica di Lecce, Lecce 1929, pp. 126-130; G. Paladini, Note storico-artistiche, in L’Ordine: corriere salentino, 6 luglio 1934 , a 29, fasc. 27 (www.internetculturale.it); G. Paladini, Guida storica ed artistica della città di Lecce. Curiosità e documenti di toponomastica locale, Lecce 1952, pp. 212-224; L. G. De Simone, Lecce e i suoi monumenti. La città, Lecce 1874, nuova edizione postillata a cura di N. Vacca, Lecce 1964, p. 114-118; O. Colangeli. S. Maria degli Angeli. S. Francesco di Paola, L’ex convento dei Minimi francescani, Galatina 1977; M. Paone, Chiese di Lecce, vol. I, Galatina 1981, pp. 317-319.
[3] Cfr. A. Foscarini, Op. cit., p. 126; O. Colangeli. Op. cit., p. 5.
[4] Il Provinciale genovese, sostituiva padre il generale dell’Ordine, Marziale de Vicinis, assente. Padre Antonio Serio lo individua in Michele de Comte, Francesco Antonio Piccini, invece, in Antonello de Vicinis. Il Chronicon conferma quanto asserito da Serio (cfr. F. Lavnovius, op. cit., pp. 190-191). Da Piccinni in poi la data riportata è il 10 maggio 1524 (cfr. G. Paladini, Guida storica ed artistica della città di Lecce, cit; L. G. De Simone, op. cit; O. Colangeli. Op. cit).
[5] Cfr. R. Quaranta, Storia della provincia pugliese dei Minimi, cit, p. 36. De Simone e Paone datano l’atto al 1524, attribuendolo al notaio Antonio de Boccariis.
[6] Cfr. F.A. Piccinni, op. cit.
[7] Cfr. C. Massaro, Territorio, società e potere, in B. Vetere (a cura di), Storia di Lecce. Dai Bizantini agli Aragonesi, Bari 1993, pp. 315-316; Ministero dell’Interno. Pubblicazioni degli Archivi di Stato, XVIII, Archivio di Stato di Firenze. Archivio Mediceo avanti il Principato. Inventario, volume secondo, pp. 35, 212, 361; F. Carabellese, Bilancio di un’accomandita di casa Medici in Puglia del 1477 e relazioni commerciali fra la Puglia e Firenze, in Archivio storico pugliese 1896 a. 3, fasci 1-2, vol. 2, pp. 77-104.
[8] Nel 1496 è mastro di zecca per l’oro (Cfr. P. Argelatus, De Monetis Italiae vario rum illustrium virorum Dissertationes. Parte Quarta, Milano 1752; I. Orsini, Storia delle monete della Repubblica Fiorentina, Firenze 1760, pp. 191 e 272).
[9] Cfr. G. Milanesi, Delle statue fatte da Andrea Sansovino e da Gio. Francesco Rustici sopra le porte di S. Giovanni di Firenze (1) 1502-1524, in G. Milanesi, Sulla storia dell’arte toscana scritti varj di Gaetano Milanesi, Siena 1873, pp. 247-261, p. 247, pp. 250-52. La targa è stata trascritta anche in G.B. Niccolini, Iscrizioni per i ritratti de’ benefattori del R. Spedale degli Innocenti di Firenze, in C. Gargiolli (a cura di), Opere edite e inedite di G.B. Niccolini, Tomo VII, Milano 1870, p. 728.
[10] Fu priore del quartiere San Giovanni nel bimestre Settembre – Ottobre 1495 (Cfr. I. di San Luigi, Istorie di Giovanni Cambi cttadino fiorentino pubblicate, e di annotazioni, e di antichi munimenti accresciute, ed illustrate da Fr. Ildefonso di San Luigi carmelitano scalzo della provincia di Toscana Accademico Fiorentino, volume secondo, Firenze 1785; F. Bruni, Storia dell’ I. e R. Ospedale di S. Maria degl’Innocenti di Firenze e di molti altri pii stabilimenti, Volume I, Firenze 1819, p. LXXXII). Nel 1759 il ritratto di Bindaccio era esposto nell’Istituto: «Dalla Chiesa per la Porta a manritta si passa nel primo Cortile, intorno intorno ornato di Colonne Corintie di pietra serena, co i Ritratti de i più insigni Benefattori alle Lunette» (G. Richa, Notizie istoriche delle chiese fiorentine. Divise nei suoi quattro Quartieri, Tomo ottavo, Firenze 1759, p. 129). Nel 1845 i ritratti di Bindaccio e Giovannella, dispersi o deteriorati, furono ridipinti gratuitamente rispettivamente da Giuseppe Marini e Carlo Falcini, per volontà del commissario dell’epoca cavalier Michelagnoli (Cfr. O. Andreucci, Il fiorentino istruito della chiesa della Nunziata di Firenze, Firenze 1857, pp. 175 e 275). Attualmente sono conservati presso il deposito dell’Istituto.
  [11] Cfr. G. Richa, op. cit., p. 396. La scheda del ritratto è consultabile a questo link: https://www.beni-culturali.eu › opere_d_arte › scheda ›
[12] L. Passerini, Storia degli stabilimenti di beneficenza e d’istruzione elementare gratuita della città di Firenze, Firenze 1858, p. 946.
[13] A. Mazzanti, V. Rizzo, Memorie dell’organo di Santo Stefano a Campi: un priore, tre famiglie di artisti e di artigiani, Opus libri, 1992, p. 31.
[14] Cfr. U. Cherici, Guida storico artistica del R. Spedale di S. Maria degli Innocenti di Firenze, Firenze 1926, p. 52.
[15] M. Paone, Chiese di Lecce, vol. I, Galatina 1981, p. 317.
[16] L. Giustiniani, Dizionario Geografico – Ragionato del Regno di Napoli, Tomo V, Napoli 1802, p. 223.
[17] Cfr. Archivio di Stato di Firenze. Notarile antecosimiano. Inventario sommario. Trascrizione su database informatico degli inventari N/272-275 a cura di Eva Masini (2015).
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Il castello di Francavilla (seconda parte)
di Mirko Belfiore
Nel 1739, l’ultimo principe di Francavilla Michele IV Junior apportò le modifiche più tarde, facendo demolire delle botteghe addossate lungo il perimetro Nord e alcune colonne che reggevano un pergolato posizionato dinanzi al portone d’ingresso e commissionando, infine, quell’elegante balaustra che ancora oggi cinge il fossato.
Alla morte di questi nel 1782, il palazzo fu incamerato tra i beni del Regno demanio nonostante che il Principe avesse nominato erede il cugino di terzo grado Vincenzo, marchese di Latiano. Dopo una lunga vertenza con il Regio Fisco, Vincenzo ottenne solo i beni mobili presenti nel palazzo (arredamenti, libreria, mobili, gioielli e le attrezzature del teatro) e il titolo di Principe di Francavilla. L’edificio rimase inutilizzato e abbandonato a sé stesso fino al 1821 quando divenne proprietà del Comune, il quale si occupò di ripristinare gli spazi interni apportando modifiche che in parte privarono la struttura di molti degli elementi originari.
Oggi lo ritroviamo in tutta la sua magnificenza grazie ai recenti restauri che oltre a preservarne le forme di età moderna ne ha ripristinato il valore di massimo emblema della città, assieme alla Chiesa matrice. A tutto ciò si è aggiunta una posizione di primo piano nella nuova politica di valorizzazione turistica che vede lo stesso assumere il ruolo non solo di contenitore culturale (allestimento del MAFF, il Museo archeologico di Francavilla Fontana) ma anche come punto di partenza per la riscoperta della storia della città e del suo centro storico.
1 Castello-Residenza Imperiali, Francavilla Fontana (Foto Alessandro Rodia)
  Analizzandolo dal punto di vista architettonico, il complesso si sviluppa su tre piani distribuiti in maniera asimmetrica, con una stretta relazione fra le strutture murarie preesistenti e gli elementi ornamentali tipici del periodo Barocco.
Facciata sud con portale d’ingresso (Foto Vanessa Nacci)
  Tutta la linea esterna è scandita da due linee marcapiano che si sviluppano lungo i quattro lati della struttura e che sono conclusi in alto da una possente merlatura guelfa e in basso da una muraglia a scarpa. La decorazione a dentelli rinascimentali e quella ad archetti concorrono insieme alle incorniciature aggettanti delle finestre del primo piano a vivacizzare la facies di tutto il prospetto, sfumando il ricordo dell’antica fortezza quattro-cinquecentesca.
Ai quattro angoli dell’edificio si collocano quattro stemmi araldici riproducenti un’aquila con le ali spiegate, sormontati da una corona e sorretti da mascheroni tufacei diversi per ogni spigolo, testimoni della proprietà della famiglia Imperiale.
Araldo della famiglia Imperiali posto sull’angolo sud-est (Foto Vanessa Nacci)
  L’edificio è inserito in un ampio e profondo fossato che da una funzione difensiva si è evoluto in una piccola oasi floreale fatta realizzare fra il XVII e XVIII secolo e che al mutare delle stagioni si impreziosisce di un cromatismo unico.
La residenza nobiliare ha due varchi d’accesso: uno sul lato meridionale posto su via del Municipio e uno secondario sito sul lato settentrionale e prospiciente via Barbaro Forleo. L’ingresso principale si apre su un elegante slargo a forma ovoidale, preceduto da due possenti colonne barocche e che introduce il visitatore al ponte di pietra, sostituto dell’antico ponte levatoio in legno.
Portale d’ingresso lato sud, particolare (Foto Vanessa Nacci)
  Lo splendido portale che adorna il varco d’ingresso è racchiuso fra due colonne con capitelli compositi ed è ornato da un cornicione a tutto sesto fortemente aggettante che accoglie un raffinato encarpo con foglie d’alloro, due rosette e, in chiave di volta, lo stemma degli Imperiale.
Portale d’ingresso facciata nord, particolare (Foto Vanessa Nacci)
  Più sobrio ma non per questo meno raffinato è il portale sito sul lato opposto, introdotto sempre da due imponenti colonne barocche e sormontato da una balconata in ferro dal profilo a petto d’oca che secondo Fulgenzio Clavica e Regina Poso, ricalca in parte il disegno di Mauro Manieri per l’accesso del Seminario di Brindisi e per il palazzo Imperiale poi Filotico di Manduria.
Loggiato barocco facciata est (Foto Alessandro Rodia)
  La facciata orientale collocata su Corso Umberto I è contraddistinta da una splendida loggia seicentesca in pietra locale e da molti attribuita a Pietro Antonio Pugliese, maestro scalpellino di Nardò, cresciuto nella bottega di Francesco Antonio Zimbalo e autore, fra il 1614 e il 1615, del magnifico altare di San Francesco di Paola collocato nella Basilica di Santa Croce a Lecce. Il manufatto si inserisce in posizione rientrante rispetto alle parti aggettanti ed è composto da quattro arcate, le quali risultano scandite da coppie di semicolonne quadrate con arcate a tutto sesto a cui si aggiungono quattro timpani spezzati di forma triangolare e altrettante finestre.
Nella parte sommitale troviamo una ricca trabeazione recante bassorilievi riproducenti grappoli d’uva e foglie di vite, colture rilevanti per la produzione agricola dell’area, oggi come allora. A questa si unisce un’estesa decorazione con soggetti di natura zooformi e fitoformi che in maniera uniforme si dipana lungo tutta la superficie del loggiato: la foglia di palma sezionata verticalmente e racchiusa da caulicoli, il motivo dei viticci che si avvolgono sinuosi intorno al fusto delle colonne e le rosette che in maniera geometrica si dispongono lungo le arcate. Questi particolari sottolineano l’esperienza del Pugliese per un gusto tutto leccese che non può che risalire agli insegnamenti dello Zimbalo e del Riccardi. Infine, un’elegante balaustra composta da colonnine di gusto classico e pilastrini squadrati – uno dei quali, al centro, accoglie lo stemma degli Imperiale – poggia naturalmente su una fila di mensoloni robusti, di cui ritroviamo corrispondenze con i ballatoi di alcuni palazzi di Oria, Manduria e nella stessa Francavilla (Palazzo Giannuzzi-Carissimo).
Loggiato barocco facciata est, particolare (Foto Alessandro Rodia)
  Durante i lavori di ripristino sono stati riscoperti una serie di ambienti ormai dimenticati e posti sotto l’attuale piano di calpestio. Tramite un passaggio posto lungo il lato occidentale del fossato si può ancora accedere a quelli che erano gli antichi locali che ospitavano le stalle e le rispettive mangiatoie dei cavalli. Sempre a questo livello ma sul lato opposto un medesimo ingresso introduce ad altri locali, probabile luogo di stoccaggio per le derrate alimentari poi divenuti in tempi recenti carceri mandamentali. Qui si conservano mercanzie di vario genere, una fra tutte il sale proveniente dalle saline presenti a Torre Columena (nei pressi di Avetrana) e di proprietà della famiglia Imperiale.
Locali stalle con mangiatoie, lato ovest piano interrato (Foto Alessandro Rodia)
  Locali Magazzini, lato est piano interrato (Foto Alessandro Rodia)
  Per la prima parte:
Il castello di Francavilla Fontana (prima parte)
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La chiesetta di Santa Maria della Neve in Galugnano
Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna
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Maurizio Nocera, Quando Luciana Palmieri scrisse della chiesetta di Santa Maria della Neve in Galugnano
in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno VI, n° 8, 2019, pp. 273-280
  ITALIANO
 Alcune pagine di Luciana Palmieri rappresentano lo spunto per un veloce ritratto di un’antica chiesa extramoenia di Galugnano intitolata a Santa Maria della Neve.
  ENGLISH
Some of Luciana Palmieri’s pages rapresent the basis for a quick done portrait of an ancient extramoenia church in Galugnano dedicated to Saint Maria della Neve.
  Keyword
 Maurizio Nocera, Luciana Palmieri, Santa Maria della Neve, Galugnano
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Libri| Brindisi e San Giovanni al Sepolcro
Chi varca per la prima volta questo luogo, avverte immediatamente un’atmosfera quasi mistica da contemplare silenziosamente con grande rispetto, prima di inoltrarsi e iniziare questo “viaggio” nei secoli di storia che l’uomo e artisti hanno voluto tramandare perché ne potessimo cogliere la magia, lasciando a noi il privilegio di raccogliere i messaggi che mano a mano nei secoli gli studiosi hanno voluto interpretare. Quale è la funzione dell’edificio? Un tempio, una chiesa paleocristiana, un battistero? Chi ne ordinò l’edificazione, i bizantini, San Leucio, il crociato Boemondo in persona? Chi erano gli autori dei tantissimi simboli incisi lungo le pareti e sulle colonne del tempietto? “Queste e tante altre sono state le domande che hanno ispirato il lungo e avvincente lavoro di ricerca, che hanno avuto come esito la pubblicazione di questo libro” – scrive nella premessa Antonella Romano, vice direttore del Gruppo Archeo Brindisino e continua.. “La frammentarietà delle fonti e delle notizie relative alla chiesa ci ha spronato ad andare oltre, a insistere nella ricerca, mossi dall’entusiasmo di scoprire, investigare, trovare risposte ai tanti quesiti che il monumento di San Giovanni al Sepolcro può sollevare. Questo lavoro certosino, viene proposto con i risultati di tali ricerche e fornisce nuove chiavi interpretative inerenti i vari aspetti storico-artistici correlati all’edificio, prescindendo (ovviamente) da una dimensione affabulatoria, volta a costruire un’immagine desiderabile e mitica del territorio, spesso presente in contesti di promozione turistica. In qualità di operatori culturali, soci fondatori del Gruppo Archeo Br e guide turistiche autorizzate dalla Regione Puglia, abbiamo avvertito come prioritaria la valorizzazione di quello che è considerato uno dei monumenti più visitati e apprezzati della città di Brindisi». Infatti leggendo e sfogliando il libro si percepisce subito che non si tratta di una semplice descrizione, ma una vera e propria inedita rilettura del monumento in tutti i suoi aspetti, storici, architettonici e artistici arricchita da mappe, immagini, note e riferimenti bibliografici. E cosi “Il tempietto”, questo il nome con cui affettuosamente è chiamato da molti brindisini, finalmente può vantare una monografia che potrà fungere da vera e propria guida per tutti coloro che vorranno fare un viaggio nel tempo e nella storia di Brindisi.
Il volume curato e scritto da Danny Vitale – direttore del G.A.B. (Gruppo Archeo Brindisi) e Antonella Romano – vice direttore del G.A.B.- è arricchito con i preziosi contributi di Francesco Calò – Dottore di ricerca in storia dell’arte e Fabrizio Sammarco – Dottore di ricerca in civiltà e culture dell’Asia e dell’Africa e socio del Gruppo Archeo Brindisi.
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Nell’epopea degli “ppoppiti”, la ricerca dell’identità salentina,
Giorgio Cretì
  Poppiti (Il Rosone, 1996) è un romanzo moderno che ha sapore d’antico.
Ne è autore Giorgio Cretì (1933-2003), scrittore salentino, nato a Ortelle, in provincia di Lecce, ma trasferitosi presto a Pavia. Autore di vari racconti pubblicati su “Il Rosone”, la rivista dei pugliesi di Milano, e su altri periodici, Cretì, membro dell’Associazione Stampa Agroalimentare, ha dedicato i propri interessi di studio prevalentemente al settore della gastronomia e della cucina, dando alle stampe pregevoli testi come: Erbe e malerbe in cucina (Sipiel, 1987), il Glossario dei termini gastronomici, compresi i vocaboli dialettali, stranieri e gergali, annesso al volume I grandi menu della tradizione gastronomica italiana (Idea Libri, 1998), Il Peperoncino (Idea Libri, 1999), La Cucina del Sud (Capone Editore, 2000), A tavola con don Camillo e Peppone (Idea Libri, 2000), La Cucina del Salento (Capone, 2002), ed altri.
Il romanzo narra una storia d’amore che si volge nella campagna salentina, a Masseria Capriglia, fra Santa Cesarea Terme e Vignacastrisi, dove vivono i protagonisti del racconto, Poppiti appunto (o, nelle varianti Ppoppiti, con rafforzamento della lettera iniziale, o ancora Ppoppeti).
Varie le etimologie di questo termine gergale, ma la più accreditata è quella che lo fa risalire al latino post oppidum, ossia “fuori dalle mura del borgo”, ad indicare nell’antica Roma coloro che abitavano fuori dalle mura fortificate della città, dunque i contadini.
Questo termine è passato ad indicare la gente del Salento e in particolare dell’area più meridionale, ovvero di un territorio caratterizzato fino a cinquant’anni da un paesaggio prevalentemente agricolo e dominato dalla civiltà contadina.
ph Giorgio Cretì
  La storia si svolge all’inizio del secolo Novecento e gli umili contadini del racconto sono Ia e Pasquale, il quale è chiamato alla guerra di Libia del 1911 ed è così costretto a lasciare soli la moglie ed il bimbo appena nato. L’assenza di Pasquale si protrae a lungo perché in guerra egli viene fatto prigioniero. Quando ritorna nel Salento, con grandi progetti per la sua famiglia, Pasquale non trova però la situazione ideale che aveva immaginato ma anzi incombe sulla Masseria Capriglia una grave tragedia.
Del romanzo è stato tratto un adattamento teatrale dalla compagnia “Ora in scena”, per i testi della scrittrice Raffaella Verdesca e la regia dello studioso Paolo Rausa. La rappresentazione teatrale è stata portata in vari teatri e contesti culturali a partire dal 2013 con un discreto apprezzamento di critica e di pubblico. In particolare, fra il maggio ed il giugno del 2014, ad Ortelle, città natale dello scrittore, nell’ambito della manifestazione “Omaggio a Giorgio Cretì”, venne allestita in Piazza San Giorgio, la mostra di pittura Ortelle. Paesaggi Personaggi … con gli occhi (e il cuore) di Carlo Casciaro e Antonio Chiarello, presso Palazzo Rizzelli. Ortelle commemorava così un suo figlio illustre, con una serie di incontri e conferenze e con la messa in scena dello spettacolo teatrale, a cura di Raffaella Verdesca e Paolo Rausa. Le parole del romanzo di un cultore di storia patria si intrecciavano ai colori e alle immagini di due artisti del pennello, anch’essi ortellesi. La mostra pittorica di Casciaro e Chiarello ha portato alla pubblicazione di un catalogo dallo stesso titolo della mostra, con doppia speculare copertina, realizzato con il patrocinio del Comune di Ortelle, dell’Università del Salento, del CUIS e della Fondazione Terra D’Otranto.
Sulla copertina, in una banda marrone nella parte superiore, si trova scritto: “Per un antico (pòppitu) eroe. Omaggio a Giorgio Cretì”. Nella parte centrale, la foto di un bellissimo antico portale del centro storico di Ortelle. All’interno del volumetto, Casciaro e Chiarello si dividono equamente gli spazi: da un lato le opere dell’uno e dal lato opposto quelle dell’altro, realizzando una sorta di residenza artistica o casa dell’arte su carta. Il catalogo è introdotto da una bellissima poesia di Agostino Casciaro, dedicata proprio ad Ortelle e da una Presentazione della critica d’arte Marina Pizzarelli.
uno dei dipinti di Carlo Casciaro
Quindi troviamo i volti di Carlo Casciaro, fra i quali il primo è proprio quello dello Pòppitu Cretì, in un acrilico su tela del 2014; poi quello di Agostino Casciaro, tecnica mista 2014, e quello del pittore Giuseppe Casciaro (1861-1941), ch’è forse la maggior gloria ortellese, pittore di scuola napoletana, del quale Carlo è pronipote. Inoltre, l’opera Ortelle, acrilico su tela 2012, con una citazione di Franco Arminio; Capriglia, acrilico su tela 2014, con una citazione dal romanzo di Cretì; Largo Casciaro, acrilico su tela 2013, e infine una scheda biografica di Carlo Casciaro. Di Carlo ho già avuto modo di scrivere che dalla fotografia alla pittura, egli comunica attraverso la sua arte totale. (Paolo Vincenti, L’arte di Carlo Casciaro in “Il Galatino”, 14 giugno 2013).
Laureato all’Accademia di Belle Arti di Lecce, ha vissuto a lungo a Milano prima di ritornare nel borgo avito e qui ripiantare radici. L’oggetto privilegiato della sua pittura è il paesaggio salentino. Il suo è un naturalismo che richiama quello dei più grandi maestri, come Vincenzo Ciardo. È un paesaggismo delicato, fuori dal convenzionale, dal naif. Nelle sue tele, dai vivaci colori, in cui vengono quasi sezionati i reticolati urbani dei nostri paesini, più spesso le aree della socialità come le piazze, gli slarghi, le corti, si ammirano animali quali pecore, buoi, galline, gazze, convivere in perfetta armonia con oggetti e persone, in un’epoca ormai lontana, fatta di ristrettezze e di fatica, quella della civiltà contadina del passato. Il segno colore di Casciaro dà ai suoi paesaggi un’immagine di gioia temperata, di una serenità appena percepita, cioè non un idillio a tutto tondo, tanto che il cielo incombente sulle scene di vita quotidiana sembra minaccioso e il sole non si mostra quasi mai.
Nel microcosmo di una piccola e fresca cantina nella quale ha ricavato il suo studio, oggi Carlo fotografa vecchi e vecchine, parenti, amici, personaggi schietti e spontanei di quella galleria di tipi umani che offre la sua comunità, li immortala nei suoi ritratti a matita e pastello e li appende con le mollette a dei fili stesi nella cantina a suggellare arte e vita, sogno e contingenza. Una delle sue ultime realizzazioni infatti è Volti della Puteca Disegni-Foto-Eventi, Minervino Ortelle Lecce 2016 (Zages Poggiardo, 2017).
Mutando verso del catalogo, si ripetono la poesia di Agostino Casciaro e la Presentazione di Pizzarelli, e poi troviamo le opere di Antonio Chiarello. Fra i versi di Antonio Verri e Vittorio Bodini, sette acquerelli con una piantina turistica di Ortelle, cartoline e vedute panoramiche della città di San Vito e di Santa Marina e una Vecchia porta + vetrofania, L’uscio dell’orto (…e lucean le stelle), tecnica mista del 2011. Quindi, la scheda biografica di Antonio Chiarello. Anche di Antonio, fra le altre cose, ebbi a scrivere che egli, laureato all’Accademia di Belle Arti di Lecce, utilizza, per le sue Pittoriche visioni del Salento, le tecniche più svariate con una certa predilezione per l’acquerello. (Paolo Vincenti, Da Sant’Antonio ad Antonio Chiarello in “Il Paese Nuovo”, 18 giugno 2011).
Nel 2005 Chiarello ha realizzato per la prima volta la mostra devozionale “San’Antonio giglio giocondo…”, con “tredici carte devozionali” dedicate al suo santo onomastico ed ha portato questo progetto- ex voto in giro per la provincia di Lecce in tutti i paesi dove vi sia il protettorato o almeno una devozione per il santo. Visceralmente legato alla patria salentina, Chiarello ne ha dipinto le grotte, i millenari monumenti, gli alberi, i suoi borghi incantati, le bellezze di Castro e di Porto Badisco, di Santa Cesarea e di Otranto, di Muro Leccese, di Poggiardo e di tutta la costa adriatica leucadense.
Autore anche di svariate realizzazioni grafiche e di manifesti, nella sua avventura umana ed artistica, ha interagito con amici quali Antonio Verri, Pasquale Pitardi, Donato Valli, Antonio Errico, Fernando Bevilacqua, Rina Durante. All’epopea degli ppoppiti, Chiarello e Casciaro confessano di sentirsi intimamente vicini per cultura, formazione e scelta sentimentale.
Ecco allora, nell’ideale ricerca di un’identità salentina, la pittura dei due artisti poppiti salentini intrecciarsi, in fertile connubio, con la scrittura di uno poppitu di ritorno quale Giorgio Cretì.
Nell’epopea degli “ppoppiti”, la ricerca dell’identità salentina, in Identità Salentina 2020, Salento Quale identità quale futuro? Contributi e testimonianze per la cultura e il governo del territorio, Italia Nostra sezione Sud Salento, a cura di Marcello Seclì, Collepasso, Tip. Aluisi, 2021
Su Giorgio Cretì vedi:
Giorgio Cretì – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)
L’omaggio di Ortelle a Giorgio Cretì con la presentazione del volume antologico delle opere – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)
 Giorgio Cretì come uno sciamano – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)
Storia di guerra e passione nel Salento rurale – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)
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La Terra d'Otranto in un prezioso arazzo (3/3)
di Maria Grazia Presicce e Armando Polito
Passiamo ora alle immagini dei monumenti e degli stemmi contenute nei medaglioni sottostanti le coppie di nomi. Siccome tutti i monumenti si riferiscono a Lecce, l’unica concessione fatta a città diverse consiste nella riproduzione del loro stemma in riferimento al personaggio, a cui dette i natali,  indicato nel cartiglio. Da notare, però come i medaglioni, i cartigli e la stessa figura centrale siano legati tra loro da elementi decorativi di natura vegetale che conferiscono al tutto un senso di compattezza e di straordinaria unità nella diversità. Di stemmi e monumenti forniamo anche l’immagine recente per consentire al lettore un immediato riconoscimento-riscontro. Di solito in lavori del genere per la rappresentazioni di paesaggi era normale avvalersi a mo’ di modello di foto, possibilmente di fotografi famosi. E non si può fare a meno a tal proposito di pensare a Pietro Barbieri ed a Francesco Lazzaretti. Pietro Barbieri, di origini modenesi, Insieme col fratello Augusto trasferì lo studio da Modena a Lecce, ove i due operarono dal 1878 al 1905.  Pietro fu anche pittore di ritratti, le cui foto serviranno di base ai pittori. A lui e al fratello fu commissionato un album fotografico sulla Terra d’Otranto da donare al sovrano insieme con l’Illustrazione dei principali monumenti di Terra d’Otranto, che raccoglieva i contributi monografici di Giacomo Arditi, Francesco Casetti, Luigi Maggiulli, Cosimo De Giorgi, Luigi De Simone e Sigismondo Castromediano. Questa sorta di catalogo venne pubblicato con il titolo di Illustrazione dei principali monumenti di Terra d’Otranto per i tipi di Campanella a Lecce nel 18891. Le foto dei Barbieri, per i quali una sorta di gemellaggio, sia pure in formato risotto, con gli Alinari non sarebbe fuori luogo, vennero utilizzate a corredo di parecchi testi geografici, alcuni dei quali avremo occasione di citare più avanti.
Federico Lazzaretti  (1858-1937), invece, nato a Lecce, vi aprì nel 1884 insieme con il fratello Luigi la Premiata litografia, uno studio che si occupava anche di legatoria e fotografia. Nel 1905 insieme con Luigi Conte rilevò lo studio dei fratelli Barbieri.
Nonostante per certi soggetti l’inquadratura sia quasi obbligata, volta per volta riporteremo per ogni dettaglio paesaggistico contrassegnato da un numero sull’insieme la foto che potrebbe aver funto da modello ed una recente.
1 A sinistra lo stemma di Lecce2, a destra la chiesa dei Santi Niccolò e Cataldo.
Foto Barbieri tratta da Gustavo Strafforello, La patria. Geografia dell’Italia. Provincie di Bari, Foggia, Lecce, Potenza, Unione Tipografico-editrice, Torino, 1899,  fig. 63, p. 200
2 Piazza Duomo. In questo caso il modello potrebbe essere stato Federico Lazzaretti (1858-1937). La foto, sua,  che segue è  tratta da Giuseppe Gigli,  Il tallone d’Italia, op. cit., Istituto italiano d’arti grafiche editore, Bergamo, 1911, p. 25.
 3 A sinistra lo stemma di Brindisi3 (patria del De Leo), a destra l’Istituto Marcelline.
Qui come elemento di raffronto siamo in grado di proporre solo due cartoline del 1901 (data d’inoltro), comunque preziose a testimoniare il cambiamento del paesaggio in un secolo.
Questa seconda offre una prospettiva molto vicina a quella dell’arazzo.
4 A sinistra Porta Napoli, a destra stemma di Gallipoli4 (patria, per alcuni, del De Ribera)
L’inquadratura obbligata rende problematica l’individuazione del modello, che potrebbe coincidere con uno dei tre proposti di seguito.
Foto Barbieri tratta da Gustavo Strafforello, La patria …, op. cit., fig. 59, p. 196
Da Le cento città. Supplemento mensile illustrato del Secolo, Sonzogno, Milano, n. 9420 del 28 giugno 1892.
Foto Lazzaretti tratta da Giuseppe Gigli, Il tallone …, op. cit., p. 29
5 Palazzo dei Celestini e Basilica di S. Croce
  Foto Lazzaretti, tratta da Giuseppe Gigli, Il tallone …, op. cit., p. 43
6 A sinistra la Torre di Belloluogo, a destra lo stemma di Taranto5 (patria di Paisiello e di Archita). Da notare come nello stemma Taras (il mitico fondatore della città) in groppa al delfino regge con la destra un tridente raffigurato in verticale, posizione diversa rispetto a quella dello stemma attuale e ispirata a quella delle monete antiche di datazione più recente (III secolo a. C.6; in quelle precedenti il tridente è assente).
Foto Barbieri tratta da Gustavo Strafforello, La patria …, op. cit., fig. 75, p. 212
La comparazione che segue tra l’immagine originale del Barbieri (che nello Strafforello risulta tagliata) e quella dell’arazzo mostra la loro perfetta sovrapponibilità. Molto probabilmente proprio la foto del Barbieri funse da modello per l’esecuzione del dettaglio dell’arazzo. Se ciò risponde alla realtà dei fatti possiamo stabilire un elemento di datazione, per quanto approssimata, dell’arazzo, dicendo che esso è probabilmente successivo al 1889, anche se il Barbieri avrà sicuramente realizzato la foto qualche anno prima di tale data.
Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/12/29/la-terra-dotranto-in-un-prezioso-arazzo-1-3 
Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/12/30/la-terra-dotranto-in-un-prezioso-arazzo-2-3/
_________
1 Il volume è raro (l’OPAC segnala una copia nelle seguenti biblioteche: Ugo Granafei  di Mesagne ( BR),  Nicola Bernardini di Lecce, Pietro Siciliani di Galatina (LE), Pietro Acclavio di Taranto, Apulia di Manduria (TA) e Reale di Torino. Una copia manoscritta (ms. N/14) è custodita nella Biblioteca arcivescovile A. De Leo a Brindisi, naturalmente senza le immagini (http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ACNMD0000209597&mode=all&teca=MagTeca+-+ICCU).
2 (immagine tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/File:Lecce-Stemma.png)
Sullo stemma vedi La Terra d’Otranto ieri e oggi (8/14): LECCE, in  http://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/17/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-814-lecce/
3 (immagine tratta da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/5/55/Brindisi-Stemma.png)
Sullo stemma vedi Brindisi e il suo porto cornuto in http://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/09/brindisi-e-il-suo-porto-cornuto/
4 (immagine tratta da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/b/b9/Gallipoli_%28Italia%29-Stemma.png)
Sullo stemma vedi Bartolomeo Ravenna, Memorie istoriche della città di Gallipoli, Miranda, Napoli, 1836, pp. 25-27 (https://books.google.it/books?id=fM8sAAAAYAAJ&printsec=frontcover&hl=it#v=onepage&q&f=false)
5 (immagine tratta da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/4/47/Simbolo_Taras.jpg)
6 (immagine tratta da http://www.wildwinds.com/coins/greece/calabria/taras/BMC_214.jpg)
Verso di un nummo d’argento. Taras nudo seduto sul dorso di un delfino regge con la sinistra (nell’arazzo con la destra) il tridente.
Sullo stemma vedi http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/01/25/taranto-suo-stemma/.
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S. Maria della Croce (Casaranello), monumento paleocristiano del Salento
Leo Stefàno
S. Maria della Croce (Casaranello)
Oltre un secolo di studi su un monumento paleocristiano del Salento
Edizioni Grifo
  Casarano, venerdì 28 settembre 2018, ore 18
Scuola Paritaria Internazionale “S. Giovanni Elemosiniere” (Via Cavour, 6)
  Il volume è una messa a punto storiografica della ricca messe di studi su un monumento, nonostante tutto, ancora misconosciuto del Salento: la chiesa paleocristiana di S. Maria della Croce di Casaranello, che ha attraversato quindici secoli di storia, giungendo pressoché indenne fino a noi.
L’eccezionalità di questa testimonianza storico-artistica emerge se si considera che in Italia, escludendo le capitali imperiali (Roma, Milano e Ravenna), resti di mosaici parietali paleocristiani come quello della chiesa salentina sono rari (il Battistero di S. Giovanni in Fonte a Napoli, la cappella di S. Matrona nella chiesa di S. Prisco a S. Maria di Capua Vetere e il Battistero di Albenga).
Nel lavoro, le fonti sono ampiamente citate con un’approfondita analisi critica; contestualizzate storicamente ed ordinate cronologicamente. Si passano in rassegna non solo i contributi specifici dedicati al monumento, ma anche gli innumerevoli studi che gli riservano semplici citazioni. Sorprenderà constatare quanti autori hanno fatto riferimento alla chiesa: uno per tutti, lo storico delle religioni e mitologo ungherese Károly Kerényi.
Da questa vasta indagine emerge l’ampio spettro di ipotesi formulate sulla chiesa e sulle sue opere d’arte: ciò tuttavia non permette, a tutt’oggi, di avere alcuna certezza definitiva sull’identità originaria del monumento, sulla sua primitiva struttura architettonica, sulla committenza e sulle maestranze che vi operarono.
Grazie all’accuratezza dell’esame delle fonti, molte sono le acquisizioni originali dello studio: per la prima volta si fa luce sulla genesi della leggenda della nascita a Casaranello di papa Bonifacio IX (Pietro Tomacelli). E viene messa in questione anche l’originarietà dello stesso titolo dell’edificio sacro (S. Maria della Croce).
Nell’opera si ricostruisce in dettaglio la vicenda che portò lo storico dell’arte Arthur Haseloff a visitare la chiesa nel 1906, scoprendone la rilevanza e ponendola all’attenzione degli studiosi.
E, a partire da quell’evento, si ripercorre tutta la letteratura prodotta sul monumento. Sfilano in successione le recensioni al testo di Haseloff di insigni bizantinisti come gli “orientalisti” J. Strzygowski e D. Ajnalov, e la replica del “romanista” mons. J. Wilpert; i primi riscontri agli inizi del Novecento in Europa (M. van Berchem-É. Clouzot, Dom H. Leclercq, ecc.) ed in Italia (C. Ricci, M. Salmi, P. Toesca); gli storici dell’arte e gli archeologi del periodo fascista (G. Galassi, S. Bettini, G. De Angelis D’Ossat, R. Bartoccini, C. Cecchelli); gli studi iconografici e iconologici del Secondo Dopoguerra; la scoperta degli affreschi negli anni Cinquanta del Novecento e il saggio di A. Prandi sui cicli agiografici; i restauri degli anni Settanta del Novecento e i nuovi studi (M. Trinci Cecchelli), con i contributi di archeologi (per la prima volta si pubblica un inedito di F. D’Andria) e bizantinisti (A. Jacob); infine, i contributi più recenti sui mosaici, sugli affreschi e sulla struttura architettonica.
Il volume si conclude con una inedita ricostruzione storica, fondata su un’ingente documentazione d’archivio, relativa alla ventennale vicenda dei restauri dei mosaici (1893-1914), facendo luce su aspetti di sicuro interesse, come la sollecitazione iniziale per un intervento venuta dall’archeologo G. Boni; e mettendo in evidenza le tante resistenze, insensibilità, o addirittura ottusità che si dovettero superare, per giungere a salvare dalla rovina, cui sembrava destinata, la preziosa opera d’arte che fortunatamente ancora oggi possiamo ammirare.
  Leo Stefàno – S. Maria della Croce (Casaranello). Oltre un secolo di studi su un monumento paleocristiano del Salento
Edizioni Grifo, Lecce 2018, pagine 712, ISBN 9788869941467, ��� 38.00
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Leo Stefàno è un cultore di studi di simbologia e storia delle religioni. Tra i suoi interessi principali, un posto di rilievo occupa l’arte paleocristiana. Vive a Casarano.
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Palazzo dei Celestini a Carmiano: memorie di barocco e tabacco
Fig.1. La facciata
  di Maria Elena Petrelli
La storia di una comunità è inestricabilmente legata ai suoi luoghi ed ogni luogo può restituire al presente i frammenti di un’identità collettiva in costante ridefinizione. Ciò che siamo stati non ci dice tutto su ciò che saremo ma è certamente il punto da cui partire per costruire le basi del nostro futuro. From roots to routes. Dalle radici sotterranee alle strade da percorrere. Dalle memorie già scritte alle storie ancora da scrivere.
Carmiano è un piccolo comune in provincia di Lecce che da anni sembra in attesa di una svolta. Tra i tesori che i giovani carmianesi hanno ereditato dal passato ci sono fotografie sbiadite di una chiesa cinquecentesca demolita negli anni ’60 del secolo scorso e la facciata decadente di un palazzo baronale abitato per tre secoli e mezzo dai Padri Celestini. Il destino di questo palazzo sembra essere stato ormai decretato da una sentenza non scritta: per anni l’indifferenza e la rassegnazione hanno relegato questo bene architettonico, il cui valore è stato riconosciuto anche dalla Soprintendenza per i Beni Ambientali, Artistici e Storici della Puglia, ai margini della strada provinciale per Lecce, percorsa ogni giorno da moltissimi cittadini inconsapevoli.
Recuperare la storia di questo edificio significa ridare senso ai luoghi che abitiamo, assumendo consapevolezza di ciò che ci circonda e restituendo al presente l’importanza che indubbiamente questo luogo ha rappresentato nel corso dei secoli per l’intera comunità locale.
Fig.2. Una delle due statue della facciata
  I Celestini giunsero a Lecce nel 1353 per volontà del conte di Lecce e duca di Atene Gualtieri VI di Brienne e furono dotati di un consistente patrimonio immobiliare[1]. Segno tangibile del loro passaggio sono le opere leccesi di Santa Croce e del monumentale palazzo adiacente, oggi sede della Prefettura e dell’Amministrazione Provinciale. Nel 1448 i Celestini acquistarono i feudi di Carmiano e Magliano dal principe Giovanni Antonio Orsini Del Balzo, figlio della regina Maria d’Enghein, come testimonia l’atto rogato il 29 settembre di quell’anno dal notaio Adamo Argenteriis di Lecce[2].
lo stemma dei Celestini sulla facciata
  Occorre precisare che, a partire dal XV secolo, la frantumata geografia feudale in Terra d’Otranto fu caratterizzata da una marcata precarietà del possesso: tale instabilità nel mercato della terra era stata causata dal diffuso sistema della compravendita che rendeva precaria la presenza delle famiglie nobili nei vari feudi; l’investimento signorile era stato per molte casate un modo per consolidare la propria ascesa sociale oltre che lo strumento per collocare e valorizzare le fortune economiche[3]. Questo fenomeno di precarietà non toccò la feudalità ecclesiastica che non si lasciò coinvolgere dalla compravendita feudale e non rimase implicata nella crisi che aveva invece investito l’antica nobiltà laica[4]. La durata della titolarità signorile per le istituzioni religiose non ebbe alcuna interruzione temporale, terminando il suo ciclo vitale con le leggi francesi del 1806 che sancirono l’abolizione della feudalità nel Regno di Napoli; i Celestini di Santa Croce sono un esempio evidente di questa tendenza, in quanto rimasero i signori del feudo di Carmiano e Magliano sino al 1807[5].
È chiaro che, nel corso di quasi quattro secoli, tra Lecce e Carmiano venne ad instaurarsi un intreccio di rapporti molto stretto, riconducibile non solo al semplice esercizio del governo feudale ma riguardante anche la vita interna dell’istituzione religiosa.
Fig.4
  La presenza della baronia celestiniana lasciò il segno nella storia di Carmiano e Magliano non soltanto sui luoghi ma anche sul carattere e sul vissuto religioso della comunità: il monaco celestino veniva guardato sempre con rispetto e con timore in quanto da un lato celebrava gli uffici divini e dall’altro si occupava di riscuotere le decime, amministrare la giustizia e dettare le regole del comportamento civile. L’amministrazione ecclesiastica non si differenziava da quella degli altri baroni feudali tuttavia, in alcuni casi, i Celestini si dimostrarono sensibili alle necessità della popolazione, spesso infatti permisero concessioni enfiteutiche di case e terre, credito per i proprietari, affitto di beni rustici e arrendamento di introiti: ciò che veniva raccolto con le entrate feudali tornava in parte agli stessi contribuenti sotto forma di finanziamenti[6]. Effettuando un bilancio complessivo della loro permanenza feudale a Carmiano, è certamente innegabile il contributo apportato dai Padri allo sviluppo locale e alla formazione morale della comunità.
lo stemma dell’ordine religioso nell’interno della chiesa di Carmiano
  Uno dei primi obiettivi perseguiti dal monastero fu quello di far crescere l’impianto urbanistico del casale e di sostenere attivamente il popolamento del territorio, fatto che avrebbe certamente incrementato il gettito decimale. Le circostanze storiche furono favorevoli a tale iniziativa poiché la pressante minaccia turca sul litorale salentino per tutto il XV e XVI secolo favorì la concentrazione demografica verso l’interno della provincia[7]. Secondo alcuni studi, fu proprio con la presenza strutturata dei Celestini che le due comunità di Carmiano e Magliano acquistarono la piena configurazione di universitas civium, sebbene non si escluda, già nel periodo precedente, l’esistenza dei due insediamenti umani non ancora solidi perché minacciati dalla presenza dei lupi e non in grado di avviare lavori di dissodamento della foresta circostante[8].
Quando i Celestini decisero di costruire la propria residenza baronale a Carmiano scelsero una zona distante da quella del primo nucleo abitativo, stanziandosi nell’immediata periferia del paese, lungo un’importante arteria di comunicazione con la città di Lecce, la cosiddetta via dell’Osanna[9]. La scelta non fu affatto casuale poiché veniva in questo modo facilitato il trasporto delle merci come olio, grano e vino verso i depositi, inoltre la posizione era anche ideale per raggiungere facilmente la comunità di Magliano, anch’essa sotto la giurisdizione feudale dei Padri[10].
Fig.6
  Secondo alcune ipotesi, il palazzo baronale venne ampliato e rimodernato da parte dei Celestini nel corso del tempo a partire da un nucleo preesistente[11]. La facciata del monastero venne iniziata nel 1659, come dimostra un’iscrizione, oramai non più visibile, incisa sul cornicione del semiprospetto inferiore e, secondo quanto riportato da un’altra iscrizione incisa sull’estremità opposta, essa venne terminata nel 1695[12]. Molto probabilmente contribuì alla costruzione della facciata anche il famoso architetto del barocco leccese Giuseppe Zimbalo che nel 1667 era certamente a servizio dei Celestini[13].
Fig.7
  Lo Zimbalo era nato a Lecce nel 1620 da Sigismondo e Lucrezia Lecciso, forse originaria di Carmiano; grazie agli insegnamenti dello zio paterno Francesc’Antonio e di Cesare Penna, egli venne qualificato, all’età di soli diciotto anni, come «mastro scoltore di pietra» mentre lavorava già da tempo alla chiesa e al convento delle Carmelitane Scalze[14]. Giuseppe nel 1644 sposò Vittoria Indricci proprio nel casale di Carmiano dove risiedette con certezza documentaria a partire dal 1656, quando acquistò «una casa terranea scoverta, con l’uso per l’uscita alla curte sita dentro Carmiano nel luogo detto volgarmente del trappeto vecchio»[15].
Quasi sicuramente appartengono allo Zimbalo le due statue lapidee presenti nelle nicchie che affiancano il portale cinquecentesco del palazzo baronale (figg.1, 2). Nonostante l’avanzato stato di degrado delle statue e la bassa qualità della pietra utilizzata nella costruzione, è possibile evidenziare una somiglianza con le due figure dalle folte capigliature poste sulla facciata della chiesa di Santa Croce a Lecce, quest’ultima opera indubbia dello Zimbalo: si tratta delle virtù dell’Umiltà e della Sapienza, caratterizzanti l’ordine monastico dei Celestini[16]. Alla metà degli anni cinquanta del ‘600 appartengono anche l’altare maggiore, che tuttavia nella configurazione attuale mostra un certo rimaneggiamento, e il portale, entrambi appartenenti alla chiesa dell’Immacolata, il primo edificio di Carmiano in cui è possibile notare la presenza di alcuni elementi formali tipici del linguaggio zimbalesco. Gli interventi operati dallo Zimbalo in questa chiesa suburbana sono testimonianza del processo di integrazione che l’architetto visse all’interno della comunità locale. Il prestigio attribuitogli non derivava soltanto dai rapporti molto stretti che egli aveva instaurato con i “baroni” locali ma soprattutto dal ruolo di primo piano che egli aveva ormai assunto sulla scena artistica provinciale[17]. Il legame che lo Zimbalo aveva instaurato con la comunità di Carmiano rimase molto forte come testimonia un episodio del 1668: di fronte all’usurpazione di una strada pubblica da parte di due sacerdoti, si decise di ricorrere alla Regia Udienza ma, poiché l’Università di Carmiano si trovava oppressa da debiti e vessazioni, fu proprio Giuseppe Zimbalo a rendersi disponibile per il pagamento di tutte le spese a sostegno della causa fino alla sentenza definitiva[18].
Fig.8
  Per questa importante presenza dello Zimbalo a Carmiano, possiamo affermare che Palazzo dei Celestini fu anche un cenacolo culturale, all’interno del quale l’architetto attinse le grandi conoscenze teologiche e concettuali che ispirarono la sua arte barocca.
Fig.9
  Il palazzo baronale di Carmiano si erge con imponenza e questo grazie alle sue ragguardevoli dimensioni pari a 45,50 metri di lunghezza e 13 metri di altezza. Alla seconda metà del XVI secolo è riconducibile l’insegna della Santa Croce al centro del portale catalano-durazzesco: tale datazione viene ipotizzata per la presenza dei nastri laterali, utilizzati in quel periodo nella decorazione degli scudi gentilizi ecclesiastici; anche la cornice del portale è interrotta alla sommità per far posto allo stesso stemma[19] (fig. 3).
Una porta – che risulta più bassa rispetto alle altre della facciata e, dunque, presumibilmente più antica – immette all’interno di una chiesetta dedicata a San Donato, ormai spoglia del corredo religioso ma ricca ancora di un altare fregiato da stucchi e marmi di vario colore (fig. 4). All’interno di questa cappella erano precedentemente collocate due opere dei primi decenni del Seicento, attribuibili a Paolo Finoglio: La Madonna di Loreto e santi, tela dell’altare maggiore, e L’incoronazione di S. Carlo Borromeo[20].
Nell’atrio del palazzo è presente un affresco che rappresenta la glorificazione dell’ordine Benedettino: vi sono dipinti quattro tondi disposti simmetricamente e collegati a quello centrale rappresentante lo stemma della Santa Croce sorretto da due angeli; questo è sormontato da una corona reale, dal mitra e dalla pastorale e ciò indica che il palazzo era posto sotto la giurisdizione della massima autorità dei Celestini presenti in Terra d’Otranto[21] (fig. 5).
Il primo dei quattro tondi circostanti raffigura la vegliarda immagine di San Benedetto seduto sul trono abaziale e circondato dai suoi seguaci ai quali mostra il libro della Regola come l’unica strada da seguire per poter raggiungere il cielo[22]. Nell’altro tondo troviamo la raffigurazione di Santa Scolastica in abiti monacali che nella mano regge il pastorale; sopra il suo capo compare una colomba che si dirige verso il cielo e tale simbologia si riferisce ad un episodio miracoloso: San Benedetto, fratello della santa, nel momento della morte di lei vide l’anima della sorella raggiungere il paradiso sotto forma di colomba[23] (fig. 6). Nel terzo tondo campeggia una delle prime immagini raffigurate in Italia di Santa Gertrude, la quale, a differenza dell’iconografia tradizionale, non indossa gli abiti cistercensi ma è rappresentata come una monaca benedettina. In questo dipinto Santa Gertrude appare inginocchiata e con lo sguardo rivolto al cielo; accanto a lei è possibile notare un tavolino su cui poggia una clessidra e un crocifisso[24] (fig. 7). Infine, nel quarto tondo è raffigurata l’immagine di San Celestino che, in abiti pontificali, è intento a compiere il famoso e coraggioso gesto del rifiuto: il volto sembra segnato dalla sofferenza ma nello stesso tempo il gesto di allontanare la tiara pontificia mostra una grande risolutezza e forza spirituale[25]. A compensare la staticità dei medaglioni troviamo gli affreschi circostanti caratterizzati da un movimento di nastri annodati ad un anello che svolazzano nell’aria ed anche la raffigurazione dinamica di cinquantadue angeli che si affannano a tirare corde cariche di fiori e di frutta e a reggere simboli di potere, come ad esempio una corona regale (figg. 8, 9); due di questi angeli, posizionati nella lunetta interna al di sopra del portone dell’atrio, sorreggono anche un cartiglio contenente un’iscrizione latina, dove la data del 1688 indica probabilmente l’anno in cui venne affrescato l’atrio[26] (fig. 10). Il dipinto nel suo complesso vuole dimostrare la continuità tra passato e presente e nello stesso tempo esaltare la storia dell’Ordine: dalla raffigurazione dei fondatori, San Benedetto e Santa Scolastica, si passa a quella dei rinnovatori e mistici, San Celestino e Santa Gertrude, ma è la presenza della nuova comunità dei Padri Celestini a garantire la continuità con la grandezza dei vecchi tempi: la rievocazione del passato è nello stesso tempo celebrazione del presente[27].
Fig.10
  In una stanza adiacente alla cappella di San Donato compare sul muro un altro affresco che riproduce la Madonna del Riposo, conosciuta anche come Maria col Bambino dormiente, in cui il sonno del fanciullo diventa metafora della sua futura morte (fig. 11).
Nell’affresco, oggi in pessime condizioni, la figura della Madonna è profondamente umanizzata, lontana da una forma di esaltazione eroica ed idealizzante, infatti viene raffigurata come una madre qualunque che cerca di far addormentare il figlio con dolcezza[28]. Tuttavia, un velo di malinconia traspare dal suo volto: Maria tiene in braccio quel bambino come se volesse difenderlo dal mondo, proteggendolo da un destino inevitabile; lei sa bene che non potrà mai essere una madre come le altre e che quel figlio prezioso, tenuto stretto tra le braccia, non è soltanto suo ma appartiene al mondo.
Nel soggiorno, che è la stanza più danneggiata, troviamo la presenza di un camino decorato con due putti che reggono una cornice ellittica; le loro membra sembrano bloccate ma questa staticità delle figure contrasta con il fluttuante drappeggio che cade alle loro spalle[29] (fig. 12).
Fig.12
  Il chiostro, che appartiene al nucleo più recente dell’edificio, è dominato da un pozzo del XVII secolo decorato con grande fastosità barocca. Il pozzo è formato da quattro colonne sormontate ciascuna da un capitello ionico. Al di sopra dei capitelli, presi a due a due, è posizionata una balaustra scanalata in pietra leccese (figg. 13, 14).
Fig.13
  Fig.14
  Il pozzo era, inoltre, sormontato da un blocco superiore contenente due stemmi: sul lato nord quello della Santa Croce, recante la data del 1627, e sul lato sud un’insegna con tre figure – la fascia, le rose e la stella – (fig. 15); oggi il pozzo si presenta privo di tale blocco in seguito ad un furto avvenuto nel 1991. Presso il lato sud del cortile è possibile individuale la presenza di un portale, ora murato, affiancato da una colombaia a muro[30] (fig. 16).
Fig.15
  Fig.16
  Infine, il piano superiore del palazzo comprende una serie di stanze comunicanti con un ampio e luminoso salone ricoperto da stucchi eleganti che incorniciano le porte di accesso ed alcuni riquadri ormai spogli di tele (fig. 17).
Fig. 17
  Come accennato precedentemente, i Padri Celestini furono spodestati del loro feudo nel 1807 e alcuni di loro trovarono ospitalità a Carmiano nella dimora attigua alla chiesa dell’Immacolata, dove vissero in eremitaggio. Alla loro morte furono sepolti nella stessa chiesa, dove esistono ancora le loro tombe[31].
Con la fine della feudalità si svilupparono nuove forme contrattuali di conduzione della terra ed ebbe avvio la diffusione della piccola proprietà contadina che contribuì alla crescita economica e sociale della popolazione[32]. A Carmiano la presenza dei monaci aveva anche inciso sull’indole della cittadinanza, alimentando la diffusione di sentimenti come rassegnazione distaccata e accettazione apatica della realtà: la fine della feudalità contribuì a scuotere la popolazione, risvegliando le coscienze e indirizzandole al raggiungimento di nuovi traguardi di libertà[33].
In seguito alla cacciata dei Celestini e alla soppressione degli ordini religiosi possidenti e mendicanti[34], il palazzo baronale seguì il destino dei feudi di Carmiano e Magliano che, in un primo momento, vennero affittati a privati per poi essere messi in vendita con un’asta pubblica.
Il palazzo venne acquistato nel 1832 da Luigi Giusso, negoziante di origini genovesi che domiciliava a Napoli, per poi essere venduto alla fine del’800 alla famiglia Foscarini che lo utilizzò come residenza fino ai primi anni del ‘900, modificandone sensibilmente gli ambienti nel corso del tempo[35]. Infine, il palazzo venne acquistato nel 1931 dalla famiglia Portaccio di Lecce che riunificò lo stabile, adibendolo a locale di essicazione e di deposito di tabacco[36] (fig. 18).
Fig.18
  Non era insolito che locali di grandi dimensioni, appartenuti agli ordini religiosi soppressi, vedessero cambiare la loro destinazione d’uso originaria: anche i conventi di San Domenico intra moenia ed extra moenia di Lecce, ad esempio, vennero riutilizzati, il primo, come Regia Manifattura dei Tabacchi e, il secondo, come mattatoio, poi come stabilimento vinicolo ed infine come Consorzio Agrario provinciale[37].
La prima licenza di coltivazione del tabacco fu rilasciata ai coniugi Portaccio nel 1929 quando l’ex palazzo baronale divenne “magazzino generale”, all’interno del quale avvenivano tutte le diverse fasi di produzione del tabacco. Come scrive Antonio Monte:
Fig.19
  Negli 11 ambienti del piano terra erano ubicati la caldaia, i depositi delle casse e del tabacco sciolto, il vano scala e il monta carichi; nei 23 vani del primo piano vi erano le stufe, i depositi delle casse, del tabacco in colli e degli attrezzi, gli spogliatoi, la sala di allattamento, la caldaia della stufa a legna, le latrine, il vano scala e il monta carichi. Mentre nella nuova costruzione di recente realizzazione, collocata al secondo piano, erano ubicati un grande ambiente dove avveniva la lavorazione delle foglie, il corpo scala e il monta carichi[38].
Fig.20
  Nel magazzino lavoravano circa 130 persone tra tabacchine e operai che seguivano il seguente orario di lavoro giornaliero: dalle 7.30 alle 15.30 nel periodo invernale e dalle 7.00 alle 15.00 durante il periodo estivo[39]. In quelle stesse stanze affrescate che un tempo avevano ospitato abati ed artisti, era possibile ora sentire l’odore acre del tabacco che rendeva amare le mani infaticabili delle lavoratrici. Molto probabilmente quegli ambienti – dove erano echeggiati, nel corso dei secoli, gli inni sommessi degli abati, le discussioni importanti di amministratori ed intellettuali, ma anche i segreti di giovani contesse – venivano adesso riempiti col fruscio logorante delle foglie di tabacco e con il canto disperato delle tabacchine. Costoro ebbero una funzione fondamentale nel processo di emancipazione della donna, affermandosi come ceto sociale produttivo nel corso del Novecento: il loro ruolo era duplice poiché si occupavano sia di produrre ricchezza per l’intera società salentina, in quanto il tabacco levantino era destinato al mercato mondiale, sia di procurare risorse per la sopravvivenza della propria famiglia. Tuttavia, a Carmiano, come nel resto del Salento, il lavoro delle tabacchine restava un lavoro stagionale mal pagato.
Il magazzino di Carmiano rimase attivo fino al 1974-75 quando finì la lavorazione e lo stabile chiuse definitivamente. In questo periodo vennero apportate delle modifiche architettoniche che servirono ad adattare l’ex residenza baronale dei Celestini ad una fabbrica di tabacco[40]. Ancora oggi all’interno dell’edificio è possibile notare la presenza di macchine ed attrezzature per la lavorazione del tabacco che necessiterebbero di essere pulite e restaurate in quanto rappresentano un’importante documentazione di storia locale (figg. 19, 20). Nel 1991 il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali dichiarò l’immobile d’interesse particolarmente importante ai fini della Legge n.1089 (1° giugno 1938), per via dell’attività produttiva che era stata svolta al suo interno per oltre cinquant’anni[41].
  Come abbiamo dimostrato attraverso questa breve trattazione, il palazzo baronale è stato nel corso dei secoli un luogo centrale per la comunità di Carmiano: durante la baronia celestiniana rappresentò il luogo cardine dell’amministrazione feudale e fu anche cenacolo culturale di grande rilievo, soprattutto per la presenza di intellettuali e artisti del calibro di Giuseppe Zimbalo; successivamente assunse un notevole ruolo socio-economico, diventando la fabbrica di tabacco più importante del paese e radunando al suo interno un grande numero di operai e tabacchine. Questo palazzo, dunque, ha accompagnato la nascita e lo sviluppo di una comunità, partecipando al destino amaro della sua popolazione e diventando espressione di un cammino faticoso e contraddittorio verso il presente.
Di fronte a queste certezze storiche e constatando l’attuale stato di abbandono e decadenza in cui versa Palazzo dei Celestini, vogliamo oggi interrogarci provocatoriamente sul futuro: questo luogo può ancora essere un centro di aggregazione sociale e culturale attorno a cui radunare la comunità? La risposta a questa domanda dipende soltanto dalle scelte che avremo il coraggio di compiere.
Oggi la ristrutturazione di questo luogo è quanto mai urgente e necessaria: senza un intervento tempestivo, le tracce della storia di una comunità saranno smarrite per sempre. Non si tratta di perdere semplicemente un pezzo importante della nostra memoria, il rischio è quello di sprecare un’opportunità sociale, economica e culturale per le generazioni future.
Gli affreschi di un palazzo, l’odore del tabacco, il legame con l’evoluzione artistica del barocco leccese sono tutti frammenti organici di una stessa storia che le nostre coscienze civili non potranno continuare a rinnegare per lungo tempo.
From roots to routes: sta a noi adesso scegliere la rotta giusta.
Appendice fotografica
  Bibliografia
A. Caputo, Il ciclo di vita di una baronia ecclesiastica, I, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008.
M. Cazzato, L’abate e l’architetto. Giuseppe Zimbalo (1620-1710) e i Celestini di S. Croce tra Lecce e Carmiano, in M. Spedicato (a cura di), Una comunità salentina in epoca moderna. Carmiano tra XV e XIX secolo, Galatina (Le), Congedo editore, 1991, pp. 313-334.
M. De Luca, Il Palazzo dei Celestini a Carmiano: un’emergenza architettonica in disuso, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, pp. 77-91.
S. Macchia, Sul sito del Palazzo baronale dei Celestini, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, pp. 63-76.
A.Monte, Tra storia feudale e archeologia industriale. Il Palazzo-fabbrica per la lavorazione del tabacco, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, pp. 137-148.
A.R. Pati, Le epigrafi latine di Carmiano, Tipografia Schirinzi, Carmiano, 2005.
G.Paticchia, Carmiano e Magliano. Compendio di storia patria, Galatina (Le), Libri Mitos, 2000.
M. Spedicato, Feudalità, crisi finanziaria e potere locale a Carmiano tra XVI e XVIII secolo, in M. Spedicato (a cura di), Una comunità salentina in epoca moderna. Carmiano tra XV e XIX secolo, Galatina (Le), Congedo editore, 1991, pp. 97-122.
M. Spedicato, La signoria dei Celestini di S. Croce di Lecce nel feudo di Carmiano e Magliano (secc. XV-XIX), in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, pp. 19-61.
R. Trianni, Da residenza baronale a luogo di produzione. La storia di Palazzo dei Celestini dalla soppressione napoleonica ai primi del ‘900, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, pp. 93-136.
A. Vetrugno, L’arte in «Regola». Il programma iconografico del Palazzo dei Celestini di Carmiano, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, pp. 155-174.
  La maggior parte delle foto in appendice è stata gentilmente messa a disposizione da Antonio Vadacca.
Note
[1] A. Caputo, Il ciclo di vita di una baronia ecclesiastica, I, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, p. 13.
[2] Ivi, p. 103. Tuttavia, di questo atto, segnalato solo all’inizio del XVII secolo, non è stata ancora trovata alcuna traccia: in mancanza di documenti certi, è lecito presumere che non si trattò di un vero e proprio acquisto ma di una forma surrettizia di donazione effettuata in merito ad accordi precedenti e/o per disposizione di Maria d’Enghein. Cfr. M. Spedicato, La signoria dei Celestini di S. Croce di Lecce nel feudo di Carmiano e Magliano (secc. XV-XIX), in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce…cit., p. 26.
[3] A. Caputo, op. cit., pp. 9-10.
[4] Ibidem.
[5] Ibidem.
[6] Ivi, pp. 155-157.
[7] M. Spedicato, Feudalità, crisi finanziaria e potere locale a Carmiano tra XVI e XVIII secolo, in M. Spedicato (a cura di), Una comunità salentina in epoca moderna. Carmiano tra XV e XIX secolo, Galatina (Le), Congedo editore, 1991, p. 98.
[8] M. Spedicato, La signoria dei Celestini di S. Croce…cit., pp. 19, 25.
[9] M. Spedicato, Feudalità, crisi finanziaria…cit., p. 104.
[10] S. Macchia, Sul sito del Palazzo baronale dei Celestini, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza…cit., p.70.
[11] M. De Luca, Il Palazzo dei Celestini a Carmiano: un’emergenza architettonica in disuso, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza…cit., p. 77.
[12] M. Cazzato, L’abate e l’architetto. Giuseppe Zimbalo (1620-1710) e i Celestini di S. Croce tra Lecce e Carmiano, in M. Spedicato (a cura di), Una comunità…cit., p. 323.
[13] Ibidem.
[14] Ivi, p. 313.
[15] Ivi, p. 318.
[16] Ivi, pp. 324-325.
[17] Ibidem.
[18] Ivi, p. 327.
[19] M. De Luca, op. cit., p. 81.
[20] Ivi, pp. 84-85.
[21] Ibidem. Bisogna anche ricordare che questo palazzo godeva dell’immunità ecclesiastica: chiunque fosse ospitato in esso passava sotto la tutela dell’abate di S. Croce.
[22] A. R. Pati, Le epigrafi latine di Carmiano, Tipografia Schirinzi, Carmiano, 2005, pp. 49-53.
[23] M. De Luca, op. cit., pp. 86-88.
[24] Ibidem.
[25] Ibidem.
[26] M. Cazzato, op. cit., p. 323.
[27] P. A. Vetrugno, L’arte in «Regola». Il programma iconografico del Palazzo dei Celestini di Carmiano, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza…cit., p. 166.
[28] Ivi, p. 165.
[29] M. De Luca, op. cit., p. 83.
[30] Ivi, p. 84.
[31] G. Paticchia, Carmiano e Magliano. Compendio di storia patria, Galatina (Le), Libri Mitos, 2000, p. 40.
[32] A. Caputo, op. cit., pp.155-157.
[33] Ibidem.
[34] La soppressione degli ordini religiosi nel Regno di Napoli avvenne ad opera di Giuseppe Napoleone e Gioacchino Murat con ripetuti decreti, il primo emesso il 2 luglio 1806, poi il 13 febbraio 1807, il 12 gennaio 1808 fino a quello del 7 agosto 1809. Cfr. A. R. Trianni, Da residenza baronale a luogo di produzione. La storia di Palazzo dei Celestini dalla soppressione napoleonica ai primi del ‘900, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza…cit., p. 93.
[35] Ivi, passim.
[36] Ivi, pp. 104-105.
[37] A. Monte, Tra storia feudale e archeologia industriale. Il Palazzo-fabbrica per la lavorazione del tabacco, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza…cit., pp. 146-147.
[38] Ibidem.
[39] Ibidem.
[40] Ibidem.
[41] Ivi, p. 148.
Qui il link per poter votare Palazzo dei Celestini sul sito del Fai: https://www.fondoambiente.it/luoghi/palazzo-celestini?ldc
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La Cattedrale di Nardò sotto i riflettori per la celebrazione della Messa del 13 maggio
Un evento importante per la Cattedrale neritina, da giorni sotto le luci e i riflettori della RAI, che l’ha scelta per riprendere la consueta Messa domenicale.
Domenica 13 maggio infatti la troupe RAI1, già in città da diversi giorni, riprenderà per trasmettere in diretta la celebrazione officiata dal parroco don Giuliano Santantonio.
L’inedita occasione punterà anche a far conoscere le meraviglie racchiuse nel maggiore monumento cittadino, sul quale si sono sovrapposti oltre mille secoli di storia.
L’attuale Cattedrale difatti sorge sul sito un tempo occupato dal complesso basiliano di Sancta Maria de Neritono, cui Goffredo il Normanno nel 1061 concede numerosi privilegi. Nel 1080 si inizia a ricostruire la nuova chiesa, consacrata il 15 novembre 1088 ed affidata dallo stesso Goffredo ai monaci benedettini (1090), i quali istituiscono nel monastero cattedre di letteratura greca e latina, di eloquenza e di matematica.
Nel 1413 Giovanni XXIII (1410-1415), il pontefice scismatico Baldassarre Cossa, eleva a Diocesi la Contea di Nardò e a Cattedrale la chiesa monastica di S. Maria de Neritono, costituendo vescovo l’abate Giovanni de Epiphanis; in quell’occasione, Nardò diviene sede di episcopato.
Nel 1433 vi predica San Bernardino da Siena, chiamatovi da mons. Giovanni Barella. La sede neritina conserva il rito greco, accanto a quello latino, sino al vescovato di mons. Ambrogio Salvio (1569-1577).
Con decreto del 12 ottobre 1803 la Cattedrale è dichiarata Chiesa Regia e il 20 agosto 1879 monumento nazionale. Il 2 giugno 1980 viene elevata a dignità di Basilica Minore dalla Santa Sede, mentre il 30 settembre 1986 mons. Aldo Garzia è nominato vescovo della nuova circoscrizione diocesana di Nardò-Gallipoli.
Nel corso dei secoli la Cattedrale è oggetto di numerose trasformazioni. Originariamente edificata in pietra leccese in stile romanico-normanno, presentava una larghezza pressoché uguale a quella attuale, aveva un portico anteriore e terminava all’altezza dell’attuale presbiterio. Internamente era suddivisa in tre navate scandite da pilastri ed archi a tutto sesto, terminanti ognuna con un’abside. Risale alla fine del XIII secolo la ricostruzione del campanile in carparo (staccato dal corpo della chiesa) di forma quadrangolare. I terremoti che interessano Nardò tra il 1230 e il 1249 danneggiano la navata nord della chiesa, che viene ricostruita con archi a sesto acuto in carparo, con capitelli e cornici delle semicolonne addossate ai pilastri in pietra leccese.
La seconda trasformazione del tempio si colloca intorno alla seconda metà del XIV secolo: le navate sono allungate, mediante tre archi a sesto acuto, con l’aggiunta del coro e delle due cappelle laterali.
Il pulpito della cattedrale di Nardò
  L’addizione di nuove cappelle, addossate alle pareti laterali, prosegue fino all’inizio del XV secolo.
Il terremoto del 1456 provoca il crollo della parte superiore della torre campanaria, danneggiando anche la chiesa, che il vescovo Ludovico De Pennis fa ristrutturare, avviando importanti lavori di consolidamento. Le capriate lignee delle navate laterali sono sostituite con volte a botte, mentre le pareti di rivestimento vengono in parte affrescate.
Dopo la battaglia di Lepanto (1571) la Cattedrale subisce ulteriori modifiche durante l’episcopato di mons. Ambrogio Salvio (1569- 1577). Successive modifiche sono apportate dai vescovi Lelio Landi  e Girolamo De Franchis (1617-1634); Orazio Fortunato (1678-1707) sostituisce il pavimento, trasforma la porta rivolta verso la piazza e realizza il controsoffitto. Al posto dell’altare di San Martino il presule commissiona nel 1680 il cappellone dedicato a San Gregorio Armeno.
All’inizio del XVIII secolo la Cattedrale è nuovamente pericolante e in molti ritengono che l’antica chiesa dovesse essere abbattuta e ricostruita ex novo. Il vescovo Antonio Sanfelice (1708-1736), sensibile al valore storico ed artistico del vetusto edificio, commissiona il restauro al fratello Ferdinando (1675-1748): il celebre architetto apporta importanti modifiche e nel 1725 ricostruisce la facciata dell’edificio e riveste con stucchi buona parte della struttura.
Cattedrale di Nardò, particolare degli affreschi del Maccari nel coro
  Considerato l’urgente bisogno di restaurare la chiesa, anche a seguito dei danni riportati dal sisma, mons. Michele Mautone (1876-1888) progetta di demolirla per ricostruirla integralmente.
È il suo successore, Giuseppe Ricciardi (1888-1908), a promuovere i nuovi lavori di restauro il consolidamento degli affreschi medievali e dell’intera struttura; il rifacimento del tetto ligneo sulle navate minori, dopo la demolizione delle volte esistenti. Sono inoltre ricostruiti le absidi minori, il ciborio, gli affreschi del presbiterio ad opera di Cesare Maccari e la maggior parte delle cornici e dei capitelli. Furono anche sostituite le capriate sulla navata centrale e furono realizzate le arcate lungo il fianco meridionale. Tra il 1977 ed 1982, sotto l’episcopato di Mons. Mennonna, la chiesa è nuovamente oggetto di lavori di restauro durante i quali si procede a rifare il pavimento, consolidare e sostituire le coperture, restaurare gli affreschi, l’organo, il campanile e la facciata.
  Per approfondire sulle opere d’arte in essa presenti:
Il Crocifisso nero nella cattedrale di Nardò
Cinque francobolli per ricordare il sesto centenario della Cattedrale di Nardò e della civitas Neritonensis
L’affresco di Sant’Agostino nella cattedrale di Nardò
http://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/01/su-alcune-reliquie-conservate-nella-cappella-di-tutti-i-santi-nella-cattedrale-di-nardo-2/
Sancta Maria de Nerito. Arte e devozione nella Cattedrale di Nardò (1413-2013)
Un “bestiario” medievale sulle antiche travi della Cattedrale di Nardò (1).
Ecclesia Mater. La fabbrica della Cattedrale di Nardò attraverso gli atti delle visite pastorali
Gli argenti della Cattedrale di Nardò, una raccolta straordinaria
Un busto di San Gregorio Armeno tra i tesori della cattedrale di Nardò
6 dicembre. San Nicola. Tre affreschi del santo di Myra nella cattedrale di Nardò
Finalmente riemerge il dipinto del Solimena nella cattedrale di Nardò
Su alcune reliquie conservate nella cappella di Tutti i Santi, nella cattedrale di Nardò
San Bernardino. Un affresco del santo senese nella cattedrale di Nardò
Da Sancta Maria de Nerito a cattedrale. Un millennio di storia nella chiesa madre di Nardò (XIII secolo)
Riemerge un Sant’Onofrio tra gli affreschi medievali della Cattedrale di Nardò
Santi patroni e filantropi nel “cielo” ligneo della Cattedrale di Nardò
Lineamenti diacronici storici e religiosi della Cattedrale di Nardò
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Archeoclub. Chiese aperte il 13 maggio 2018 a Galatina e Nardò
A Nardò aperte ai visitatori, dalle 10 alle 12 e dalle 16 alle 19,  le chiese dell’Immacolata e di Santa Teresa. A Galatina la chiesa della Purità.
  Divulgare e far conoscere il proprio patrimonio culturale sono due dei pilastri su cui si fonda l’Associazione Archeoclub Italia.
La campagna nazionale “Chiese Aperte” nasce dalla consapevolezza che bisogna riscoprire le antiche radici della nostra civiltà e le sue forme artistiche più suggestive, ma anche colloquiare con le comunità ecclesiali del nostro territorio e rafforzarne l’intesa.
L’intervento delle sedi locali di Archeoclub d’Italia durante tale manifestazione ha come scopo principale quello di riportare all’attenzione una serie di monumenti storici, alcuni anche di pregevole valore architettonico, per evitare che altri pezzi della nostra storia scompaiano nell’incuria, rendendoli fruibili alla cittadinanza ed invogliando nella stessa la curiosità per il proprio patrimonio.
Sono questi gli intenti che hanno spinto Barsanofio Chiedi, Presidente Regionale Archeoclub Puglia, e Antonietta Martignano, Presidente sede locale Archeoclub Terra d’Arneo, Nardò/Galatina, a far rientrare nella XXIV edizione di Chiese aperte le tre chiese di Galatina e Nardò.
Gli stessi promotori, per l’occasione ed in collaborazione con l’Assessorato al Turismo della Città di Nardò, con la confraternita dell’Immacolata e quella del SS.mo Sacramento di Nardò, con l’Ufficio Beni Culturali della diocesi di Nardò-Gallipoli, hanno dato alle stampe una pubblicazione che illustra una delle tre tappe, la chiesa neritina dell’Immacolata, e che sarà valido sussidio a chi visiterà il monumento.
Anche Giulia Puglia, Assessore al Turismo, ne è fiera dichiarando che “la campagna “Chiese Aperte” di Archeoclub è un atto d’amore verso il patrimonio storico e architettonico delle nostre città. Del resto, far conoscere gli antichi scrigni di culto che Nardò vanta orgogliosamente è uno dei modi migliori per valorizzarli e per condividerne la bellezza con tutti”.
  Per le notizie storico-artistiche sulle chiese aperte:
http://www.fondazioneterradotranto.it/2015/12/08/nardo-la-chiesa-dellimmacolata-e-la-dimora-dei-francescani-conventuali/
Giornate FAI di Primavera. Nardò e la chiesa di Santa Teresa
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PROCUL OMNE VENENUM. Facebook (si fa per dire ...) chiama, Fondazione Terra d'Otranto risponde (si fa per dire ...)
di Marcello Gaballo e Armando Polito
Sgombriamo preliminarmente il campo da qualsiasi equivoco in cui il titolo, lì per lì, potrebbe far incorrere. Mark Zuckerberg non si è messo in contatto con questo blog per porgere anche ad esso le sue scuse per qualche trafugamento di suoi dati, come ha fatto da poco col Congresso americano, i cui cervelli (come quelli di qualsiasi altro organo governativo di rappresentanza avrebbero dovuto da tempo quanto meno sospettare l’inconveniente. Invece,come al solito, si tenterà di chiudere, magari maldestramente, la strada dopo che le vacche sono fuggite e sono state messe e vendute sul mercato …
Eppure, senza Facebook, quanto stiamo scrivendo non avrebbe avuto occasione o ragione di esistere, perché esso nasce da una semplice richiesta di aiuto che Mario Cazzato ha rivolto in un commento ad un suo recentissimo post apparso, sul suo profilo facebookiano, l’11 aprile u. s.
Tutto ciò spiega il primo si fa per dire … del titolo; per quanto riguarda il secondo, esso si riferisce ai magri risultati del nostro tentativo di risolvere il quesito che poneva e che può condensarsi nella lettura dell’immagine che segue.
Il lettore che abbia interesse troverà notizie sul contesto nel post prima ricordato.
Cominciamo dalla parte testuale.
Nel cartiglio superiore si legge  PROCUL OMNE VENENUM, la cui traduzione è Lontano (da noi) ogni veleno. Si direbbe il motto riportato a caratteri maiuscoli sulla lista accartocciata che sovrasta lo stemma nobiliare, che araldicamente è ineccepibile e completo nelle sue diverse parti: lo scudo a testa di cavallo, sulla cui immagine interna torneremo tra poco, l’elmo, il cimiero (in questo caso una testa di cavallo o di liocorno) e gli svolazzi. Il tutto egregiamente intagliato ed evidente realizzazione di esperte maestranze. L’unica perplessità è suscitata dalla collocazione del motto che generalmente si tende a posizionare in basso rispetto allo scudo.
Le indagini fatte, anche per il poco tempo ad esse dedicato, non hanno consentito di sapere a quale famiglia il motto appartenesse, ma solo di ricostruire, in qualche modo, la sua origine. I testi citati di seguito sono stati trascritti fedelmente, errori di stampa (o meno …) compresi. Sulla famiglia alla quale sarebbe da ascrivere lo stemma torneremo alla fine.
In Advento del P. Maurilio di S. Britio, Vigone, Milano, 1665 a p. 92 inizia una predica sulla concezione di Maria Vergine dal titolo Monte Olimpo o l’altezza di Maria sopra tutte le Creature. Al suo interno (p. 1069 si legge: “Che nella cima dell’Olimpo non vi siino animali nocivi, alcuni, (non sò se vera, ò favolosamente) l’affermano; ma dell’Olimpo della Vergine posso ben dire procul omne venenum, mercè che Iddio nell’sstante della sua Concettione gli diede in dote Caelum, una cum Paradiso, come attesta Epiffanio.”.
Il concetto e la locuzione sono ribaditi in Teatro morale di Giovanni Battista Bovio da Novara, Bernabò e Lazzarini, Roma, Roma, 1749, p. 20: “Egli è volgato quel detto dell’Olimpo, qual’è situato tra la Macedonia, e la Tessaglia, Nubes excedit Olimpus. Fu effigiato con altri monti più bassi, che gli formano intorno umile, ed ossequiosa corona, col motto Ultra omnes, affinchè s’intendesse, che non ha superiore, ne pari. Nella cima di lui non vi sono animali nocivi,onde porta nel capo il motto: Procul omne venenum.”
La locuzione stessa, però, appare come la riduzione di una più estesa e che costituisce il motto della marca tipografica di Girolamo Cartolari attivo a Roma dal 1543 al 1559. Ecco come appare (invertita) in una pubblicazione del 1546.
Intorno ad un liocorno impennato; con in alto sole, luna e stelle e sullo sfondo un paesaggio, si legge, procedendo per ogni sIngola parola da destra verso sinistra:
SINT PROCUL OBSCURAE TENEBRAE ET PROCUL OMNE VENENUM (Siano lontano le oscure tenebre e lontano ogni veleno). Difficile dire se ci sia un collegamento tra questa iscrizione e il liocorno da una parte e, dall’altra, la sua presenza parziale e quello che si direbbe una viverna, cioè un drago con due zampe d’aquila, ali e, all’estremità della coda di serpente, un pungiglione in grado di iniettare, secondo la leggenda, un veleno mortale o, nel migliore dei casi, paralizzante. Se è così, all’immagine andrebbe attribuita una valenza apotropaica o scaramantica, anche se il motto ben si sarebbe adattato pure se il mostro fosse stato un generico drago, simbolo di vigilanza e protezione.
Chiudiamo con la trascrizione e traduzione dell’epigrafe sottostante.
LUCIAE BONATAE FOROIULIENSIS/ALOISII FIDELIS E MEDIOLANENSI NOBILITATE/OLIM CONIUGIS SACELLUM HOC AERE EX/CITATUM ET S(ANCTO) IO(ANNI) BAPTISTAE DICATUM/DIRUTUMQUE POSTEA AB EADEM FIDELI FAMI/LIA RESTITUTUM COENOBITARUMQUE DILI/GENTIA EXORNATUM UT PIO POSITUM/EST ANIMO ITA GRATO ADVERSUS VIRTUTE MULIEREM INSTAURATUM EST
Questa cappella di Lucia Bonati friulana1, già moglie di Luigi Fedele2, di milanese nobiltà, danneggiata da eventi atmosferici e dedicata a S. Giovanni Battista e andata in rovina, dalla medesima famiglia Fedele poi ricostruita e decorata  a cura dei cenobiti, come fu con pio animo costruita così  con (animo) grato nei confronti di una donna di virtù fu dedicata.
Sulla famiglia Bonati abbiamo trovato quanto segue. Esso è poco, ma ne confermerebbe, almeno l’origine lombarda.
Giovanni Battista Pacichelli in Il regno di Napoli in prospettiva, Parrino e Mutio, Napoli, 1703, p. 254 registra i Bonati fra le famiglie nobili di Milano, a p. 262 tra quelle di Orvieto
‘Vincenzo Lancetti in Biografia cremonese, Tipografia di Commercio al boschetto al commercio, Milano, 1820,, v. II, pp. 391-392, scrive:
“BONATI Traco, ed Albino, chiari nella storia di Crema del duodecimo secolo. Nell’assedio che Federico I pose a quel castello l’anno 1559, avvenne che i Cremaschi, presa di mira co’ loro mangani, un’alta macchina che secondo l’uso di quei tempi aveva fatto costruire per approcciare il castello, e non sapendo l’Imperatore come far cessare la tempesta di que’ massi, ordinò che parecchi prigionieri Cremaschi venissero alla macchina legati, acciò il timor di uccidere i loro parenti rallentasse la furia degli assediati. Ma in essi la carità della patria ad ogni altri riguardo prevalse, così che ove de’ loro rimasero uccisi, tra i quali fu il povero Tacco. Ridotte però le cose all’estremo, e convenendo trattare una capitolazione, la quale venne stipulata il giorno 25 di gennaio dell’anno 1160, ALBINO de’BONATI fu uno de’ due Comaschi, che il Consiglio elesse a parlamentare. Così il Fino nel primo libro della sua Storia,  i quale anche nell’atto di investitura della sovranità accordata al Benzoni nel 1403 offre un ZANINUS DE BONADIE Ttra gli accettanti. Egli è quindi probabile che da questa famiglia Cremasca sia discesa la linea tuttor fiorente de’ BONATI di Cremona; de’ quali (per non parlar dei viventi) nessun altro so ricordare che il prete ANTONIO morto nel 1718, di cui dà notizia l’iscrizione che Vaivani riporta al n. 438.”.
Ci rendiamo perfettamente conto che, anziché rispondere compiutamente alla domanda principale, di averne suscitate altre, e non poche; ma per questa colpa (se di colpa si tratta …)  il lettore se la prenda, eventualmente, con Mario Cazzato e, ancor prima, con Facebook …
__________
1 Anticamente Forum Iulii (mercato di Giulio Cesare) era l’attuale Cividale; poi il nome derivato, Friuli, pasò ad indicare l’intera regione. Appare perciò errata la traduzione da Forlì che si legge in http://www.artefede.org/public/ArteFede/santacroce_apparato1.html; Il nome omano di Forlì era Forum Livii, la cui forma aggettivale sarebbe stata, nell’iscrizione, FOROLIVIENSIS.
2 Così in Giulio Cesare Infantino, Lecce Sacra, Micheli, Lecce, 1634, p. 120:”Vi è ancora dentro la medesima Chiesa [S. Croce] una Cappella della famiglia Fedele, ove si vede una bella dipintura in tela di San Giovanni Battista: opera di Girolamo Imperato Napolitano.”.
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Lecce, Brindisi, Taranto, Gallipoli e Otranto in alcune vedute di metà '800 circa
di Armando Polito
Le ho tratte dall’Atlante illustrativo ossia raccolta dei principali monumenti italiani antichidel Medio Evo e moderne di alcune vedute pittoriche, volume III, 1845, opera di Attilio Zuccagni-Orlandini. L’opera è integralmente  consultabile e scaricabile al link http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?id=mag_GEO0019820&mode=all&teca=GeoWeb+-+Marciana. Siccome da qualche giorno a questa parte ho notato che più di un link partente da Europeana o da Internet culturale, prima attivo, ora non lo è più, al lettore appassionato al tema e, nello specifico, a quest’opera, conviene provvedere prima che sia troppo tardi …
Cliccando di sinistro su ciascuna immagine una prima volta e, quando il cursore avrà assunto l’aspetto di una lente d’ingrandimento, una seconda, essa sarà visibile  nelle sue dimensioni massime.
LECCE
BRINDISI
TARANTO
GALLIPOLI
OTRANTO 
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Brindisi: il Seminario in un disegno di Desprez
di Armando Polito
Dopo Lecce con piazza S. Oronzo1 tocca a Brindisi essere ricordata per un dettaglio del suo Seminario immortalato da Louis Jean Desprez (1743-1804) in un disegno a penna su carta custodito anch’esso nel Museo Nazionale svedese (numero di inventario: NMH 195/1980), dal cui indirizzo2 ho tratto l’immagine che segue.
Per quanto riguarda, sempre, la Terra d’Otranto, va ricordato che il Desprez dedicò ad essa quattro tavole e precisamente una ciascuna a Gallipoli, Soleto, Squinzano e Brindisi (di seguito nell’ordine) a corredo del terzo volume del Voyage pittoresque à Naples et en Sicile di Jean-Claude Richard de Saint-Non, opera uscita a Parigi dal 1781 al 1786.
Difficile collocare cronologicamente il nostro disegno, anche perché la scheda del museo si limita a riportare che esso fu acquisito nel 1980 da Inga-Britt Wollin di Goteborg. A lei, molto probabilmente, è dovuta l’attribuzione, non è dato sapere in base a quali criteri. Comunque, se essa corrisponde alla realtà,  è legittimo supporre che esso venne realizzato proprio durante il viaggio compiuto in Italia dal Saint-Non e che precedette, verosimilmente di qualche anno, la pubblicazione della sua opera.
______________
1 http://www.fondazioneterradotranto.it/2016/10/14/lecce-piazza-s-oronzo-un-disegno-della-fine-del-xviii-secolo/
2 http://emp-web-22.zetcom.ch/eMuseumPlus?service=direct/1/ResultLightboxView/result.t1.collection_lightbox.$TspTitleImageLink.link&sp=10&sp=Scollection&sp=SfieldValue&sp=0&sp=1&sp=3&sp=Slightbox_3x4&sp=0&sp=Sdetail&sp=5&sp=F&sp=T&sp=0
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Evangelista Menga, progettista del castello di Copertino
di Giovanni Greco
Evangelista Menga, progettista del castello di Copertino, a cui si attribuiscono i lavori di quelli di Mola e Barletta nonchè le fortificazioni di Malta, fu anche tra gli architetti che si alternarono nella fabbrica del Castel nuovo di Reggio Calabria.
La sensazionale rivelazione, a firma di Francesca Martorano, direttore del Dipartimento patrimonio, architettura, urbanistica dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, consente di allargare ulteriormente gli orizzonti c…irca la conoscenza di questo architetto militare originario di Francavilla Fontana e naturalizzato copertinese, per anni al servizio di Carlo V.
particolare dell’ingresso del castello di Copertino
  Il nome di Evangelista Menga compare tra i progettisti che contribuirono alla ricostruzione del complesso quadro dell’architettura fortificata in Calabria, richiesta dalle grandi incursioni autorizzate dal sultano ottomano. Una rete difensiva che costò enormi sacrifici da parte della popolazione in termini di uomini, mezzi, denaro. Nel XVI secolo, quando anche in territorio calabrese l’attenzione del potere centrale si spostò dalla singola fortificazione al territorio nel suo insieme, diversi ingegneri e architetti inviati dalla Corona Spagnola, si avvicendarono nella rimodellazione di una serie di opere militari. Antonello da Trani, Giovanni Maria Buzziccarino, Gian Giacomo dell’Acaja, Evangelista Menga, Ambrogio Attendolo, Benvenuto Tortelli, Gabrio Cerbellon sono i nomi di coloro di cui esiste ampia documentazione.
cortile interno del castello di Copertino (ph Khalil Forssane)
  A Reggio Calabria i documenti ritrovati qualificano il Menga “capomastro”. Ma doveva trattarsi di un capomastro particolare se il 16 gennaio 1547 gli vennero anticipati dalla Regia Corte 600 ducati di salario. In altri documenti viene definito “architettor dela fabbrica”. La cifra che gli veniva corrisposta non era da poco, se la paga usuale per la qualifica di capomastro era di 8 ducati al mese. Altri pagamenti al Menga vengono registrati per tutto il 1547 e fino al maggio dell’anno successivo.
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Tra Napoli e Nardò. La guglia dell'Immacolata
Napoli chiama, Nardò risponde![1]
di Giovanni De Cupertinis
  Napoli – La guglia dell’Immacolata, che domina la piazza del Gesù Nuovo, è uno dei più affascinanti e intriganti monumenti della città. Quella dell’Immacolata è l’ultima delle guglie di Napoli ad esser stata innalzata, la più ardita da un punto di vista architettonico. Si pone fra l’effimera architettura delle macchine di festa di legno e stucco, che il popolo innalzava ed incendiava con i fuochi d’artificio nelle piazze, e l’arredo urbano, inteso come elemento architettonico-scultoreo, per ornare gli spazi urbani, e deve la sua realizzazione all’impegno di un gesuita, padre Francesco Pepe.
Il tutto ebbe inizio quando il re Carlo III di Borbone propose al padre Francesco Pepe, che sovente riceveva le confessioni, di realizzare un’edicola nella piazza antistante,affinché i passanti potessero venerare la Vergine Immacolata, a cui era molto devoto, anche dall’esterno del tempio[2].
Il gesuita prendendo spunto dal desiderio del sovrano propose allo stesso di realizzare al centro della piazza una magnifica guglia con alla sommità un’immagine dell’Immacolata, sul tipo di quelle che qualche tempo prima erano state già realizzate in onore di San Domenico e di di San Gennaro.
Napoli, Piazza del Gesù
  Per la progettazione della guglia fu organizzato un vero e proprio concorso pubblico ed i modelli dei vari progetti furono esposti nel Palazzo Reale, affinchè il sovrano potesse sceglierne uno. Alla chiamata di padre Pepe parteciparono in tanti: dall’ Astarita al Gioffredo, da di Fiore al de Rossi. Fu preferito il disegno dell’architetto Giuseppe Genoino o Genovino[3], il quale concepì una “macchina” molto più ricca, fortemente ispirata ai carri del Battaglino, senza trascurare la collocazione alla base della stessa delle statue della famiglia reale. Infatti il progetto originario prevedeva la realizzazione, alla base della guglia, delle statue del Re Carlo e della Regina Amalia, che non si riuscì mai a completare[4].
Da subito il Pepe avviò una raccolta di offerte per erigere la monumentale guglia dell’Immacolata, nella piazza antistante la chiesa. Il re voleva offrire i 100.000 ducati necessari per la realizzazione dell’opera, ma padre Pepe riuscì a convincere il sovrano a limitare la sua offerta alla sola esenzione delle tributi relativi al materiale occorrente la sua costruzione, preferendo che la guglia fosse realizzata con le sole offerte del popolo[5].
La prima pietra fu posta dal marchese di Arienzo Lelio Carafa l’8 febbraio del 1746[6]; la direzione dei lavori venne affidata a Giuseppe di Fiore, coadiuvato dal gesuita Filippo D’Amato persona di fiducia del Pepe[7]. L’obelisco fu eretto da di Fiore in un tempo brevissimo, ma non per questo l’opera si rivelò semplice. Il cantiere incontrò più volte degli ostacoli, prima durante gli scavi, dove si era dovuto provvedere alla deviazione di un corso d’acqua sotterraneo, dopo per le proteste del duca Diego Pignatelli di Monteleone, il quale, temeva che l’alta guglia potesse crollare sul suo palazzo in caso di terremoti[8].
Comunque tutto si risolse nel migliore dei modi ed i lavori proseguirono speditamente. Già nel febbraio del 1748 la struttura era conclusa e si iniziò a mettere mano all’apparato scultoreo, dapprima realizzato a stucco e successivamente in marmo, fatta eccezione per la statua della Vergine Immacolata, da realizzare in rame dorato.
A svolgere il lavoro furono chiamati due grandi artisti come Matteo Bottigliero e Francesco Pagano, che realizzeranno nel primo ordine, proprio sopra il basamento, le statue di sant’Ignazio di Loyola, san Francesco Saverio, san Francesco Borgia e san Francesco Regis. Nei quattro bassorilievi posti più in alto sono raffigurati i quattro episodi fondamentali della vita della Vergine Maria: la Natività, l’Annunciazione, la Purificazione e la Coronazione della Vergine. Poco più in alto due medaglioni raffiguranti S. Luigi Gonzaga e S. Stanislao Kostka.
L’apparato scultoreo in marmo fu completato sul finire del 1753 e un anno più tardi, a conclusione di tutti i lavori, fu posizionata sulla sommità della guglia la statua dell’Immacolata, in rame dorato.
La guglia fu inaugurata nel dicembre del 1754, con festeggiamenti che durarono tre giorni, dal 6 all’8 con lo sparo di fuochi d’artificio, musica e un continuo suono di campane e con tanti lumi accesi per tre sere sui balconi e finestre della città[9].
Ogni anno la città di Napoli rende omaggio alla Vergine Maria con l’offerta di un fascio di rose alla statua posta sulla sommità della guglia di piazza del Gesù. E’ un rituale consolidato che si ripete ogni 8 dicembre, giorno in cui la Chiesa celebra appunto l’Immacolata Concezione.
  Nardò – Collocata in posizione baricentrica nella centralissima piazza Salandra, la guglia dell’Immacolata fu eretta nel 1749[10], con il concorso del popolo neritino, come testimonianza di fede e ringraziamento per Io scampato pericolo dal terribile terremoto del 1743, che causò gravissimi danni all’abitato di Nardò[11].
L’opera è realizzata interamente in carparo, fatta eccezione per le quattro statue in pietra leccese collocate all’altezza del primo ordine, raffiguranti S. Anna, S. Gioacchino, S. Giuseppe con bambino e S. Giovanni Battista[12].
Nardo – la Guglia dell’Immacolata
  In cima svetta la splendida statua della Vergine Immacolata, realizzata in marmo bianco poggiante su un globo in bardiglio, opera dallo scultore napoletano Matteo Bottigliero che negli stessi anni lavorava insieme a Francesco Pagano alla decorazione marmorea della guglia dell’Immacolata di Napoli[13].
Che il disegno della guglia dell’Immacolata non sia opera di un semplice scalpellino o del lavoro scrupoloso di un mastro muratore qualunque lo si deduce da una attenta analisi stilistica e da un’accurata lettura dell’impianto planimetrico. Quel che stupisce è soprattutto la sapiente concatenazione di forme ed elementi posizionati ad intervalli regolari, che scandiscono l’armoniosamente i cinque ordini della guglia.
Ad oggi non conosciamo il nome dell’architetto, ma senza dubbio la guglia neritina ha i suoi riferimenti nell’obelisco di san Gennaro eretto nel 1660 da Cosimo Fanzago, nel largo antistante la porta laterale del duomo di Napoli, e soprattutto in quello dell’Immacolata che si stava realizzando negli stessi anni (1746-1754) a Piazza del Gesù Nuovo. La storia della guglia neritina mostra forti analogie ed in qualche modo collegata a quella napoletana.
Fu anch’essa realizzata con le oblazioni del popolo su iniziativa dell’abate Francesco Antonio Giulio che ne commissionò l’opera. Ma a differenza di quella napoletana, la documentazione archivistica riguardo la sua costruzione manca totalmente. Anche le poche notizie in nostro possesso pongono molti dubbi circa la loro attendibilità. Partiamo proprio dalla data del monumento che fino a qualche anno fa era ritenuto, dalla maggior parte degli studiosi, anche sulla scorta di un resoconto scritto del vescovo Luigi Vetta riguardante i festeggiamenti celebrati a Nardò l’8 dicembre 1854[14], di epoca successiva alla guglia napoletana.
Ad allontanare ogni possibilità di individuare una data certa per il monumento fu Francesco Castrignano, che nel 1930 nella sua storia di Nardò̀, senza citare alcuna fonte, scrisse che la guglia era stata eretta nel 1769 sotto il vescovato di Marco Aurelio Petruccelli, su iniziativa dell’abate Francesco Antonio Giulio, come ringraziamento per lo scampato pericolo dal terremoto del 1743[15].
Da quel momento il 1769 sarà indicato erroneamente come anno di costruzione della guglia da tutti gli studiosi che si interesseranno dell’argomento[16]. Come accennato prima, l’autore della guglia è ancora ignoto. Tutte le attribuzioni fatte dai vari studiosi non sono supportate da alcuna analisi o prova documentale.
Partiamo proprio da quella che vuole realizzata dal Giovan Bernardino Genoino, architetto gallipolino, autore della cattedrale di S. Agata, la cui morte però è attestata tra il 1653-55, e quindi subito da scartare visto che per ovvie ragioni anagrafiche non poteva essere l’autore della nostra[17]. Quello che colpisce un questa attribuzione è che a nessun studioso sia venuto in mente di evidenziare la singolare omonimia tra architetto gallipolino e Giuseppe Genoino, autore della guglia napoletana. In assenza di documenti, vista la contemporaneità delle due opere alla luce della nuova datazione, sarebbe stato più credibile immaginarlo anche autore della guglia neritina.
Altro elemento poco chiaro nella vicenda della guglia neritina è proprio l’identità del committente, che a quanto ci riferisce il Castrignanò fu l’abate Francesco Antonio Giulio[18]. Cercando nella storia della diocesi neritina scritta dal Mazzarella dell’ abate Francesco Antonio Giulio non v’è alcuna traccia, di contro ritroviamo l’omonimo l’abate Pasquale Giulio, assai più noto, che fu vicario capitolare del vescovo A. Sanfelice ( 1708-1736) e di quello successivo F. Carafa (1736-1754)[19].
Alla luce di ciò, non è difficile immaginare che quello di datazione non sia stato l’unico errore commesso dal Castrignanò, e che fu l’abate Pasquale Giulio ad occuparsi di raccogliere le oblazioni dei fedeli e commissionare l’opera.
La retrodatazione di circa vent’anni della guglia neritina rispetto all’anno 1769, ci riporta inoltre a considerare con maggiore insistenza che l’idea di realizzare una guglia dedicata all’Immacolata, collocata nella piazza principale della città, risale agli anni del vescovo Sanfelice.
La riprova può essere data dalla presenza nel Corpus sanfeliciano, conservato presso il Museo di Capodimonte, di un disegno preliminare per la guglia dedicata all’Immacolata[20]. Non è da escludere quindi, che già prima del terremoto del 1743 sia maturata nell’animo del vescovo l’idea di realizzare nel cuore della città un’opera analoga a quella eretta nel 1731 a Bitonto, come ringraziamento per lo scampato pericolo del terremoto[21]. È quindi probabile che il vescovo diede incarico al fratello architetto per realizzare una guglia da elevarsi nella piazza principale della città, dopo aver completato la piazza su cui ancora oggi affacciano il duomo, l’episcopio e il seminario[22].
Il disegno di Capodimonte evidenzia una struttura con sviluppo verticale che presenta nella parte alta elementi architettonici riconducibili alla guglia di S. Domenico del Fanzago, ma a differenza di quest’ultima è sorretta da un alto basamento di forma ottagonale, recante un evidente stemma vescovile, ai cui lati si distinguono due statue non riconoscibili.
In cima una statua della Vergine poggiata su una sfera di marmo, sorretta a da un grande capitello corinzio, raccordato al resto della guglia tramite quattro eleganti volute tipicamente sanfeliciane. Il progetto immaginato dal Sanfelice non fu realizzato, presumibilmente per la sopraggiunta morte del vescovo nel gennaio 1736, ma il disegno appena descritto, anche se espressione di un primo momento progettuale, contiene tutti gli elementi di quella che da li a qualche anno più tardi fu eretta e inaugurata da un altro vescovo napoletano, monsignor Francesco Carafa. Ultimati i lavori della guglia, nel settembre del 1749 giunse da Napoli la statua di marmo dell’Immacolata da collocare in cima all’obelisco realizzata da Matteo Bottigliero.
Fu ricevuta dal vescovo davanti ad una delle porte della città, benedetta e condotta “in trionfo” per le principali strade cittadine, presenti anche tutte le autorità civili e religiose. Giunti nella pubblica piazza completamente illuminata a festa la statua fu posta vicino alla guglia ed intonato il Te Deum in rendimento di grazie. La festa durò fino a notte fonda allietata da musiche con continuo sparo di mortaretti e fuochi d’artificio[23]. Non conosciamo il momento in cui la statua fu effettivamente collocata in cima alla “colonna”, ma possiamo immaginare che avvenne nei giorni seguenti.
Ed è così che il popolo neritino, che da sempre ha creduto che la sua guglia dell’Immacolata collocata al centro della piazza principale fosse di molto posteriore a quella napoletana, si ritrova, come una piacevole sorpresa, completata ben cinque anni prima.
Anche la città di Nardò, ogni 8 dicembre, rende omaggio alla Vergine Immacolata ponendo ai piedi della statua posta sulla sommità della guglia un omaggio floreale.
Napoli chiama, Nardò risponde! J
  Note
[1] Il titolo è un libero adattamento della celebre frase di Luigi Necco giornalista sportivo napoletano.
[2] Il re Carlo III e la regina Amalia Walburga di Sassonia si recarono nella chiesa del Gesù per ammirare la statua d’argento dell’Immacolata fatta realizzare da padre Pepe. In quell’occasione il re avvicinatosi al gesuita gli disse: «Padre Pepe, Maria Santissima Immacolata non deve solamente stare a vista dei fedeli, chiusa in chiesa, ma [deve stare] ancor all’aperto e al pubblico», cit. M. Volpe, I Gesuiti nel Napoletano, Napoli 1915, p. 28.
[3] “…subito diede a farne i disegni, che furono fatti da molti Architetti, cioè da D. Mario Gioffredo da D. Giuseppe Astarita, da D. Giustino Lombardo da D. Ignazio de Blasio da D. Giuseppe Genuino da D. Giuseppe di Fiore Napoletani, e da D. Domenico de Rossi Fiorentino. Se ne fecero ancora dei modelli in piccolo, uno dal Rossi, un altro dal Fiore, ed il terzo dal Fumo, e tutti si presentarono al Re acciocchè scegliesse Egli quello, che più gli piacea e su in fatti scelto per l’appunto quello che presentemente sì vede disegno di D. Giuseppe Genuino; di cui si ha pure una stampa incisa dal Gaultier in due fogli di carta reale”, cfr. P. D’Onofri, Elogio estemporaneo per la gloriosa memoria di Carlo III Monarca delle Spagne e delle Indie. Nella stamperia di Pietro Perger Napoli, 1791 p. 225-226;
Carlo Celano, Delle notizie del bello, dell’ antico, e del curioso della città di Napoli. Quarta Edizione, Giornata Terza, Napoli 1792, p. 35.
[4] L’incisione della guglia dell’Immacolata con le statue dei regnanti, è presente nel volume di Carlo Celano, Delle notizie del bello, dell’ antico, e del curioso della città di Napoli. Quarta Edizione, Giornata Terza, Napoli 1792, p. 35.
[5] Alta 130 palmi, la guglia costò 80 mila ducati, mentre la statua, con il suo ricco piedistallo di marmi, costò 20 mila ducati. Per entrambe ci furono spontanee oblazioni. Al re Carlo III, che voleva dare il suo contributo, il gesuita dis­se che avrebbe fatto un torto alla Madonna; comunque, accettò la franchigia del ferro, della calce e dei marmi e 600 ducati per la cancellata. M. Volpe, I Gesuiti nel Napoletano, Napoli 1914, vol. 2., p. 36; P. Degli Onofri, Elogio estemporaneo, cit. p. 229.
[6] “Già nel 1976 Teodoro Fittipaldi traeva dal numero 10 di Avvisi dell’8 febbraio 1746 il giorno in cui veniva posta la prima pietra della guglia dell’immacolata, costruita di fronte alla chiesa del Gesù Nuovo di Napoli su iniziativa di padre Francesco Pepe, i cui lavori vennero solennemente iniziati il 1 febbraio di quell’anno; l’interessante documento correggeva così la data erronea del 7 dicembre 1747 dovuta ad un refuso di Pietro degli Onofri che aveva, fino ad allora, rappresentato l’unica fonte per la datazione dell’avvenimento” Cit. U. di Furia, Nuovi documenti sulla guglia dell’Immacolata di Nardò, “Il Delfino e la mezza luna, Studi della Fondazione Terra d’Otranto”, maggio 2013 p. 90.
[7] Per padre Pepe era fondamentale che un controllo quotidiano sul cantiere gli venisse garantito da persona di sua provata fiducia sia sul piano professionale che personale: e la figura di fra Filippo d’Amato rispondeva perfettamente a queste esigenze. Fu infatti il gesuita marmoraro che organizzò il cantiere, «approntò tutto, scelse gli operai…» e ogni settimana si presentava al padre Pepe per avere il denaro per pagare le spese. Sta in Gaia Salvatori, Corrado Menzione, Le guglie di Napoli: storia e restauro, Napoli 1985, p. 82.
[8] P. D’Onofri, Elogio estemporaneo, cit. p. 226.
[9] U. di Furia, La statua dell’Immacolata sulla guglia e nella chiesa del Gesù Nuovo in “Napoli Nobilissima”, sesta serie, vol. II, ff. V–VI, settembre–dicembre 2011, p. 234.
[10] L’interessantissimo documento ritrovato dal di Furia corregge definitivamente la datazione della guglia di Nardò, che passa dal 1769 al 1749, anticipando di venti anni la sua costruzione. Cfr. U. di Furia, Nuovi documenti sulla guglia dell’Immacolata di Nardò, in Il delfino e la mezzaluna, anno II, n. 1, 2013, p. 89-96.
[11] G. De Cupertinis, Architetti e maestranze del XVIII sec.: il caso di Nardò e di altri centri minori del Salento, in L’arte di fabbricare e i fabbricatori – Donato Giancarlo De Pascalis, 2001, pp. 59-63.
[12] Una delle statue presenti sulla guglia è sempre stata erroneamente attribuita a S. Domenico (F. Castrignanò 1930), ma è evidente che si tratta di S. Gioacchino, marito di S. Anna e padre di Maria.
[13] U. di Furia, Nuovi documenti sulla guglia dell’Immacolata di Nardò, cit. p. 91.
[14] Il Vetta affermava che in quei giorni “Nella piazza principale faceva vaghissima mostra la guglia, che, innalzata molti anni prima, ad imitazione di quella eretta nel largo della trinità maggiore di Napoli, appariva con un bel disegno illuminata, per gran numero di lumi che splendevano in vetri colorati”, cit. E. Mazzarella, Le sede vescovile di Nardò, Galatina 1972, p. 306.
[15] F. Castrignanò, La storia di Nardò esposta succintamente, Galatina 1930, p. 118.
[16]L’errore può essere dovuto ad un refuso da parte di Francesco Castrignano, che indicò come anno di costruzione il 1769 invece di 1749.
[17] Nel saggio l’autore scrive: “Mi  è stato detto in Nardò̀ che esso è opera dell’architetto Giovan Bernardino Genoino di Gallipoli, autore dell’insigne cattedrale di sant’Agata in Gallipoli stessa; ma non ho trovato in documenti scritti una conferma a questa notizia”. Cfr. G. Palumbo, Guglie di stile barocco nella penisola salentina, in Arte Cristiana, vol. XL, n. 1, gennaio 1953, pp. 18–21.
[18] F. Castrignanò, cit., p. 118.
[19] Ab. Pasquale Giulio, dottore nelle due leggi, licenziato in s. Teologia, nacque a Nardò da famiglia patrizia è compì gli studi nel seminario vescovile. Nel 1722 ricevette dal vescovo Sanfelice alcuni benefici ecclesiastici, e nel 1726 fu nominato canonico della Cattedrale. Resasi vacante la sede vescovile il 1° gennaio del 1736, nonostante fosse tra i più giovani canonici, fu eletto vicario capitolare. Il vescovo successivo Carafa, verso la fine del 1747, lo nomino arcidiacono della cattedrale. Dopo la morte del vescovo fu rieletto per la seconda volta vicario capitolare e nel 1754 indisse la sua prima visita pastorale. Sta in E. Mazzarella, cit., pp. 275-276, 269.
[20] Nel Corpus dei disegni sanfeliciani presso Capodimonte è presente il disegno per una guglia tradizionalmente attribuita come guglia di S. Gennaro, ma è evidente che si tratta di una guglia dedicata all’Immacolata; cfr. G. De Cupertinis, Ferdinando Sanfelice architetto a Nardò, in Antonio e Ferdinando Sanfelice: il vescovo e l’architetto a Nardò nel primo Settecento, a cura di M. Gaballo, B. Lacerenza, F. Rizzo, Lecce 2003, pp. 61–76.
[21] Epigrafe nel monumento dell’Immacolata a Bitonto in memoria del terremoto del 20 marzo 1731, in G. Pasculli, “La storia di Bitonto”, vol.1, pp.308-309; S. Milillo, La Chiesa e le chiese di Bitonto: chiese di Puglia, Ed. Centro ricerche di storia e arte, 2001, p. 6. Il terremoto del 20 marzo del 1731 interessò la Capitanata e il suo centro amministrativo principale, Foggia, che nella realtà del Regno di Napoli rappresentavano un polo di grande importanza per gli equilibri finanziari, economici e politici dello Stato.
[22] G. De Cupertinis, Il rapporto progetto-cantiere negli edifici neritini di Ferdinando Sanfelice, Atti del convegno “Un vescovo, una città” Antonio Sanfelice e Nardò (1708-1736), Feb 2012, pp. 102-122; G. De Cupertinis, Ferdinando Sanfelice e il restauro della Cattedrale di Nardò, in Sancta Maria de Nerito. Arte e devozione nella Cattedrale di Nardò, a cura di Daniela De Lorenzis, Marcello Gaballo, Paolo Giuri, Galatina, 2014, pp 165-166; G. De Cupertinis, Ferdinando Sanfelice architetto a Nardò, cit. pp. 68-75.
[23] L’intera vicenda è tratta da Avvisi, n°42, Napoli 16 settembre 1749, pubblicata integralmente da U. di Furia in Nuovi documenti sulla guglia dell’Immacolata di Nardò, cit. p. 91-92, e che qui riproponiamo: “…Dalla città di Nardò siamo ragguagliati, qualmente erettosi nella Piazza principale di quella un nobile, e magnifico obelisco, in onore della ss. Vergine Immacolata di pure limosine spontaneamente offerte, e non richieste; giunse ivi ultimamente da questa capitale una statua di marmo finissimo di palmi nove della stessa gran Vergine Immacolata, di eccellente scoltura, da mettersi nella cima di detto obelisco. Ricevuta processionalmente in una delle porte della città da Mons. Vescovo D. Francesco Carafa, e da lui Pontificalmente vestito ancor benedetta fu condotta in trionfo per le principali strade riccamente adobbate, seguita dal capitolo, Mansionarj, e clero; coll’intervento ancora degli ordini regolari, di tutto il Magistrato, Nobiltà, e Popolo innumerevole tra le pubbliche acclamazioni, e continovi viva di giubilo, tra le armoniche melodie di ben concertati istrumenti, e tra un continuo sparo di mortaretti, e fuochi artificiali; e giunti nella pubblica Piazza fu depositata la statua vicino all’obelisco, ed intonato il Te Deum in rendimento di grazie si proseguirono le Feste di sparo, ed illuminazioni fino alle molte ore della Notte. Detta statua è stata scolpita da D. Matteo Bottigliero scultore Napolitano”.
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