Tumgik
#Io che ti rispondo dopo mezza settimana:...........
riverswater · 2 months
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was my 2nd option :) but I want to eat Mexican food so bad shsjsj
Mexican food is worth traveling the world for (said someone who has had it three times tops. But it was good so let's go there!)
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lonleysometimes · 4 years
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Eccomi qua, anche io con una relazione difettosa, o forse quella difettosa sono io.
Sono una ragazza di 30 anni, indipendente, ambiziosa e che sa il fatto suo e il suo valore nella vita e nel lavoro che sto intraprendendo. Sto cercando di costruirmi una carriera. Viaggio tanto, ho un giro di amicizie fantastiche, tanti interessi e una famiglia che mi ama e mi supporta in tutto quello che faccio. Le relazioni amorose però, per un certo verso, non sono il mio forte.
Ti faccio una premessa, ho perso mia madre quando avevo 10 anni e mio padre a 19. Genitori che ho amato/amo alla follia. In particolare mio padre. Un uomo che ad oggi, con un po’ di complesso di Elettra, vedo perfetto e inarrivabile. Un padre che però mi ha insegnato che non avrei mai dovuto dipendere da uomo, ma quest’ultimo doveva essere un compagno di vita che sceglievo per amore indipendentemente dal resto. Dovevo insomma essere felice.
Ti tralascio i dettagli di storie passate andate male, una miriade di amori non corrisposti in cui mi sono persa inutilmente, non sono riuscita a stare con uomini che non amavo, ma loro mi avrebbero portato la luna. Relazioni brevi e fugaci, mai nulla di veramente serio, ma sono sempre loro che mi lasciano e poi trovano una nuova che sembra “l’amore della vita”. Mi chiedo come mai, dove sbaglio, perché sono l’eterna seconda e che cosa mi manca per non essere scelta. Troppo super donna? Troppo indipendente? Troppo incasinata? Troppo ingestibile? O forse no, forse sono solo io che mi vedo così e in realtà non c’è grande valore in tutto quello che ti racconto di me.
Eppure io cerco qualcuno con cui costruire una vita e chissà magari una famiglia e più cresco più ho voglia di questo.
Arriviamo alla mia ultima relazione difettosa.
L’anno scorso ho incontrato P., poco più grande di me, affascinante e intrigante. Già ci conoscevamo, io sapevo che lui non era in cerca di cose serie, ma io, uscita da un’altra storia difettosa, decido di accettare un suo invito. Parte così una relazione friends with benefits, cercata da entrambi ma principalmente imposta da lui (ma dai). Lui mi inizia a piacere sempre di più, quindi arriva un punto in cui questa relazione non è abbastanza per me.
Chiudo la relazione facendomi piano piano di nebbia, con dispiacere ma senza rancore. Incontro un altro ragazzo E., sulla carta il principe azzurro. Fa tutte quelle cose che P. non faceva. “Ti vengo a prendere in stazione”, “Mi manchi”, “Passiamo una giornata insieme”. Insomma tutte quelle cose belle da relazione normale. P. appena scopre che mi sono fidanzata mi cerca e mi ricerca, convinto che mi avrebbe portata tra le sue braccia di nuovo. Ma io non ci casco, non posso farlo a me stessa e al rispetto che ricevo in questa relazione. Lo respingo più e più volte per 8 mesi. Come un fulmine a ciel sereno E. mi lascia con un “non provo sentimenti”. La vera realtà dei fatti è che aveva incontrato un’altra. A quel punto, dopo una delusione iniziale, capisco che questa relazione, che sembrava perfetta e un trampolino verso una vita insieme, in realtà non mi aveva lasciato niente.
Ovviamente cosa faccio, ovviamente torno da P. – Cerco di impormi più leggerezza, “quel che viene viene”.
Non ho aspettative e sono più sicura di me. Per tre mesi ci vediamo, di base sembra solo sesso, ma è tutto diverso rispetto all’anno prima. Parliamo, ceniamo insieme. Io vedo solo lui e lui vede solo me, ma rimaniamo nel limbo. Viviamo e stiamo bene. Accade la quarantena e non ci possiamo più vedere. Il tempo si ferma e siamo alienati. Veniamo sottratti del sesso, ma abbiamo entrambi voglia di sentirci accanto. Parliamo tanto e ci preoccupiamo l’uno dell’altra “mi man
chi” “non vedo l’ora di vederti” “quando finisce tutto stiamo un giorno insieme”. Io ovviamente non sono immune a tutto questo, ma mi ripeto che è il disagio della quarantena che spinge lui a fare questo, per proteggermi
La quarantena volge al termine, torniamo a una vita pseudo normale. Ci vediamo, lui è freddo e distante. Io quindi mi comporto di conseguenza. Di lì a qualche settimana mi dice che ha iniziato a frequentare seriamente un’altra, ma che a me ci tiene, magari “rimaniamo amici”. Di nuovo, l’eterna seconda, quella che non è abbastanza.
Senza rancore, scenate o spiegazioni, gli auguro il meglio e gli dico che possiamo mantenere un rapporto civile. Sono ferita, ma intraprendo la graceful exit, da signora. Lui continua a scrivermi continuamente (ammetto che mi fa pure piacere), io rispondo per educazione ma ovviamente distante e senza provocarlo. Lui rigira la frittata, dicendo che sono fredda, arrabbiata e che non ne ho motivo. Quindi adesso sbaglio pure le reazioni? Troppo dura? Cosa si aspettava l’amicona o la gatta morta che continua a provarci? Niente Ester, vorrei avere la forza di uscire definitivamente da questa storia e abbandonare questa persona, ma una voce dentro di me mi dice di provare il tutto per tutto perché non hai niente da perdere.
Scusami per il papiro.
Grazie mille.
G. 
Cara G.,
insomma siamo sempre qui. Che mi squaderni a fare il curriculum della prima della classe se poi non usciamo dal desiderio somaro di relazione complessa? A che serve aver letto i libri giusti, viaggiare, l’iscrizione al circolo arci?
Devo provare tutto perché non ho niente da perdere. Che invidiabile disprezzo per il tempo, G., hai trovato il negozio che vende vite di riserva a poco prezzo senza intercessione del demonio?
Dannarsi piace e tutte le scuse sono buone. C’è poco da fare a parte ammetterlo.
La prendo con leggerezza, quello che viene, viene – la balla suprema. Chi sa pendere le cose con leggerezza inconsistente è la gattamorta, padrona e gran Ciambellana dei sentimenti. E le gattamorte certo non scrivono, sono offline a comandare il mondo. È una questione di carattere. Per le cose prese con leggerezza ci vuole la mano, il talento, lo spirito, serve fregarsene in fondo dell’amore e serve nascerci. Quelle streghe sono inarrivabili, disinvolte bellissime. Pure io volevo essere una di loro.
Tuo padre aveva totalmente ragione. Serve un uomo perbene, rispettoso, di rette abitudini e sani pensieri, non prepotente, forte, generoso, lucido, intelligente, cresciuto, risolto. Ce ne sono, questa è la buona notizia, non con tutte le qualità in equo bilanciamento, ma ce ne sono. Codesti masculi santi non sono neanche avvolti nelle tenebre, occultati, tenuti a chiavistello. A differenza del marcio, il buono non è qualità che resta nascosta a lungo. Insomma il bravo figliolo di solito lo riconosci, non serve scavare alla ricerca di qualità inabissate.
Gli inutili, quelli che scrivono ma non ti vogliono, pure loro ci tengono a farsi riconoscere, a dirla tutta. Certi (come il tuo) propongono senza tema il contratto di assunzione alla poveracrista: non voglio niente di serio da te. Sei al nero, baby. E il pesce abbocca lo stesso! Senza esca! Alcune automunite si recano anche a casa sua! We deliver!
La verità è che la femmina non vede l’ora: si sente sfidata a riuscirci, tu non mi vuoi ma io ti plagerò – l’eroina, la cretina. Alzi la mano chi l’ha fatto e si scagli la prima pietra da sola.
Parità di genere sarebbe accettare davvero l’accordo “va bene così”. Poi però non va mai bene così e precipitiamo negli eterni anni novanta del “perché non chiama?”.
A complicare le cose ci si mette la fortuna di incontrare per la via gente che invece a te ci tiene. Ogni relazione decente che il padreterno ti manda sarà sempre sfregiata da una domanda: epperò come mai non provo niente? Perché sono invece attratta da eccetera?
Succede perché il buono non garba tanto spesso, G., figurarsi a vent’anni, trenta. Bisogna essere persone con tutti i bulloni a posto per innamorarsi solo degli adatti, servono troppe circostanze fauste: eccellenti genitori, belle amicizie, vita in città con alternative facili – dove basta cambiare quartiere per cambiare gente. E soldi, non parliamo di quanto aiutino i soldi a non innamorarsi male.
Non mi prendo la responsabilità del freddo che sta per scendere su questa pagina, lascio a Flaiano. Che spiega perché molte di noi sono sceme, o sono state sceme per qualche decennio, e in generale perché il mondo va alla rovescia.
Indulgenza per la gente che si comporta male. Chi non suscita né simpatia né compassione è l’uomo medio, onesto e senza grandi inclinazioni al male. L’uomo che lavora per tirare avanti, che mette su famiglia e la mantiene. L’uomo medio è antipatico. (Io sono antipatico. Mi si sopporta). Per diventare simpatico bisogna comportarsi da canaglia, per farsi amare bisogna farsi mantenere. È l’equivoco erotico che continua. Il malvagio dà quelle garanzie sessuali che la persona per bene non dà. Chi si comporta rettamente ammette la sua «ordinaria» attività sessuale e non interessa.
Il seguito, quello che osservo sugli esiti degli amori stracciati, ovvero la convalescenza, come guarisce la testa di femmina che picchia sul muro alla ricerca dell’amore fatto apposta per me, è una lenta convergenza verso uno stato d’animo non troppo definibile, fatto della stessa sostanza della vittoria e della rassegnazione, che s’addensa in luoghi comuni. Sono il patrimonio dell’umanità femminile che viene tenuto nelle stanze segrete, questi luoghi comuni.
Li avrai sentiti pure tu. Più ti allontani dai vent’anni meno sanno di rancido. Eccone alcuni, ho preso i più banali: “Poi subentrano altre cose” “L’amore non è quello dei vent’anni” “se mi mettevo a cercare quello perfetto lo trovavo all’ospizio” “le favole lasciamole alle ragazzine” “leviamole pure alle ragazzine”.
L’amore è fatto di una mezza misura perfetta, G.. E’ una lenta aggiustata delle aspettative, una sudata discesa nelle valli del compromesso. Vedi tu per che via arrivare alla relazione finale. Guerra o pace. Se sei più a tuo agio dentro le dolenti poesie o in un messaggio whatsapp che dice “manca il detersivo per la lavastoviglie”.
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nuvoledizucchero2 · 6 years
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Questa necessità di scrivere e non riuscire a farlo. Scrivere. Per raccontare cosa, poi? Sentire mille cose e non riuscire a buttarle fuori. Chiameremo quest’estate col nome di “non ti chiudere” ed io che rispondo “macché chiudermi, sto benissimo”, per poi rendermi conto, il 4 settembre, che mi sono chiusa. Chiameremo quest’estate con il nome “l’estate più inutile dei miei 29 anni”, anche se forse così tanto inutile non è stata, almeno per quanto riguarda lo studio, ma per quanto riguarda la vita...beh.  Desideravo un’estate piena di colori, di risate, di gioia di cose da fare: era esattamente iniziata così, ma agosto l’ho sempre odiato. Adesso siamo il 4 settembre, il sole sorge dopo e tramonta sempre prima e l’autunno sta lì, come per dire che è solo un periodo di transizione, prima che l’inverno arrivi, di nuovo, gelido, freddo, solitario. L’autunno sta lì, e inizia a portare la malinconia come nessun altro mai, e tu stai qui, alle 7.20, davanti al computer, con una sigaretta in bocca, ascoltando Waltz 2 di Elliott Smith, come per dire “ vieni pure autunno, tanto mi trovi già preparata, non lo vedi?”. Ieri, al baretto, mi sono vista con mia cugina, non la vedevo da aprile, gli altri mi hanno chiesto “ ma dove sei stata? Ti cerchiamo da giorni” e io a rispondere, semplicemente, “a casa. E’ da una settimana e mezza che non esco”. La gente guarda stranita, quando per me è stato del tutto normale e penso che mi verrà il culo quadrato a furia di star seduta a disegnare, ma è l’unica cosa che so fare e non la so fare neanche bene. So amare, quello lo so fare, ma è una skill del tutto inutile a quasitrentanni, perché ognuno ha i propri problemi, ognuno ha i propri pensieri, mica puoi essere così sfrontata da pretendere di trovare il cuore libero, nessuno ha il cuore libero. Da adulti, il cuore, è stropicciato, accartocciato, pieno di strappi. Se parliamo del mio, poi, anche pieno di medicine, dato che non ho ancora smesso. Alla fine ci siamo lasciati, comunque. Come se fosse un contratto di lavoro finito male. Ti ho detto che non vedevo futuro per questa relazione, tu mi hai risposto “va bene, ok” ed è finita lì. Senza altre chiacchiere, senza nessuna parvenza di amore, in modo totalmente disinteressato, probabilmente perché era già finita da tempo. Un anno passato a credere, a sperare, a comportarmi bene e, alla fine, è stato un anno sprecato. Forse non bisogna fare progetti. Forse l’unico progetto che bisogna fare nella vita, è con se stessi. Forse devo iniziare a dormire in diagonale nel letto, per poterlo riempire tutto, e abituarmi a quest’idea. Ma, se all’inizio di questo mio percorso, soffrivo all’idea che sarei stata da sola, adesso, anche se ho avuto te per un anno, la realtà è che sono sola da anni, quindi adesso ho imparato a stare così, che l’unica persona che non andrà mai via, sono proprio io. Dicono che non devo chiudermi ma, forse, è solo che sono me stessa, perché portare sempre la maschera da pagliaccio un po’ stanca e non posso sempre essere disponibile a far ridere la gente. E mi devo abbracciare un po’ di più, che tanto le uniche braccia che saranno “casa” è evidente che sono le mie. Perché bisogna essere presuntuosi per pensare di essere importanti per qualcuno, quando poi ti rendi conto che, evidentemente, non è mai stato così.  Va bene così. Devo amarmi io. 
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forgottenbones · 6 years
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Sono uscito l’altra sera. Era la festa del paese. Giusto per uscire, ché non ne potevo più di stare chiuso tra quattro mura. Mi stavo annoiando, a dirla tutta. All’altezza della pompa di benzina sotto la salita della chiesa, mi sono detto: “Ok, faccio un altro giro e poi me ne torno a casa”. A metà del tragitto che mi ero prefissato rincontro questa ragazza, una mia ex compagna di scuola. Il nome non vi interessa. Incrocio il suo sguardo e mi fa:
“Ehi, [redacted]! Come stai? Da quanto tempo! Che fine hai fatto? “Questa”, rispondo io.
Lei mi accenna che ha vissuto a Roma per qualche anno e che ora aveva trovato lavoro in una città vicina.
“Eh, io sono rimasto qui e sto cercando”, le faccio, non senza una punta di vergogna. “Ma prendiamoci qualcosa da qualche parte, no?” “Non è un po’ tardi?” “Macché, non ti preoccupare”.
Finimmo per prenderci un panino e una birra in un bar. Sarà che sono disabituato al contatto con gli altri, ma non mi accorgo del tempo che passa. Finiamo a parlare di un po’ di tutto: le nostre aspirazioni, pettegolezzi su amici comuni e gente che conosciamo, film, musica, cretinate estemporanee.
“Come mai non parlavamo più spesso, io e te?” “Non so. Io sono sempre stato timido. E tu sarai stata occupata da altro”.
Mi osserva con uno sguardo fintamente severo, come se volesse bonariamente prendermi in giro. Sono un po’ in imbarazzo per ciò che ho detto e non so perché.
Lasciato il bar ci siamo rimessi in cammino e notiamo che la calca stava diminuendo, la gente stava cominciando a defluire. Come ho detto, non avevo notato quanto tempo fosse passato. Sono le due e mezza. Niente, per una grande città, ma per un piccolo paese...
“Forse è meglio se andiamo a dormire”, dico io. “Perché?” “Beh, non devi andare a lavorare, domani?” “No, hai capito male. Me lo faranno sapere la settimana prossima, quando comincio. Ma non mi stavi ascoltando?” “Non mi sembra che tu ne abbia fatto menzione”. “Ti dispiace tanto farmi compagnia per un altro po’?” “No, figurati. Lo dicevo solo per te”.
E così continuiamo. Stiamo passeggando sotto il porticato della chiesa. Ed io penso ai bambini che giocano a calcetto nel cortile il pomeriggio e alle urla di chi abita nello stabile vicino, quando arriva una pallonata contro qualche finestra.
“A che pensi?” “Ah, a niente”, dico per qualche motivo. “Sta cominciando a fare freschetto, no?” “Un po’“.
Lei indossava uno di quei vestiti leggeri svolazzanti che, per quanto le stesse bene, non era tanto adatto alla temperatura del momento. Forse pensava di non rimanere così tardi.
“Tieni”, faccio e le offro il mio giubbotto di jeans. “E tu?” “Non ti preoccupare. Sei tu quella con le spalle scoperte. E mi sento un po’ in colpa per averti fatto rimanere fino a tardi”.
Glielo appoggio sulle spalle e prima di avere il tempo di reagire, lei si alza sulle punte e protende le labbra verso di me. Mi bacia.
“Ehi, che fai?” “A te cosa sembra? Ti bacio!” “Ho capito. Ma non pensavo di piacerti in quel modo”. “In che modo? Mi andava solo di farlo”. “Ok, ma...”
E me ne dà un altro. E poi un altro. E un altro ancora. Sotto quel portico trascorriamo del tempo così. Di nuovo, non so quanto.
“Mi riaccompagneresti a casa? Si è fatta una cert’ora...” “Certamente”.
Mi raccontava che per ora si appoggiava a casa di sua madre, prima di trovare un appartamento nella città dove aveva trovato lavoro. Mi fa, “Gira qui!” E mi indica un palazzo.
“Ah, è qui che si è trasferita tua madre?” “Beh, sì. Dopo il divorzio, non so se sai...”
Sapevo. Piccolo paese, ve l’ho detto.
“E lei dov’è? Dorme già immagino...” “No, è andata con una sua amica in quel locale che hanno aperto di recente a [redacted], non so se l’hai sentito”. “No. Ma forse è perché non sono un tipo da locali”. “Oh, sei rimasto uguale a una volta! Te l’ho sempre detto che ti dovresti muovere un po’, incontrare gente. Ma non ti annoi?” “Scusa”. “Non ti scusare. Santo cielo...”
Dopo un paio di secondi di silenzio, aggiunge:
“Vuoi qualcosa? Un succo? Scusa ma, è tutto quello che abbiamo al momento”. “Nah, un succo va bene...”
Non so esattamente come sia successo, ma ad un certo punto mi ritrovo su un letto, con lei sopra di me. Si era tolta quel bel vestito chiaro ed era rimasta solo in mutandine.
“Ok, questo non l’avevo pronosticato”, penso e quasi rido per questo mio pensiero insulso.
“Che dici, non ti va?” “Tu cosa pensi?” “Io penso che ti va...” “Hai ragione”.
Oh...
La sua pelle bianca e soffice mi stava facendo impazzire. Così come le sue labbra. È una ragazza minuta, ma l’ho sempre trovata molto carina. Ed è stato meglio di come mi era capitato d’immaginarlo.
“Allora?”, mi dice sorridendo. “Mi hai colto alla sprovvista, questo è sicuro”. “E sei contento di avermi lasciato fare?” “Molto”. “Ma non puoi restare. Mia madre, capisci?” “Certo”.
Mi rivesto. Faccio per muovermi verso la porta.
“Ehi!” Mi ferma per un attimo. “Stammi bene, eh?” e mi saluta con un bacio. Scendo le scale. Prendo la macchina e mi dirigo verso casa. L’orologio del cruscotto non funziona, ma non importa che ora è.
Non le ho chiesto né il numero, né in che zona andava a lavorare. O il nome della ditta.
So solo che è stato strano. E bello.
O almeno, lo sarebbe stato se fosse successo davvero.
Eh già.
Forse non dovreste credere a tutto ciò che leggete su internet.
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umanistah · 6 years
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Cliente mi contatta via messaggio alle nove di sera. Non rispondo, perché la mia politica è di rispondere solo nelle ore “lavorative”, rimandando tutto alla mattina dopo, o uscirei pazza. A mezzanotte e mezza un nuovo messaggio “ehi, rispondimi, è urgente!!”. Ad un occhio attento vi renderete conto che questa è stata la mia prima cazzata: ero sveglia, ho risposto. “Mi serve un testo urgentemente, so che normalmente lo faresti in una settimana ma mi serve in due giorni”. Ad un occhio attento vi renderete conto che questa è stata la mia seconda cazzata: il lavoro era facile, non ho grosse consegne a breve, ho accettato.  “Ah, bene, bene, allora piazzo l’ordine e ti mando subito tutti i dettagli!”. Ha piazzato l’ordine. È sparito. Senza dirmi cosa cazzo io debba scrivere. :) :) :)
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josephinelynncooper · 4 years
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L’anno scolastico è appena iniziato e Josephine si sta ancora abituando all’idea di gestire una classe tutta sua. È passata soltanto qualche settimana ed è già colma di compiti in classe da correggere, per non parlare di tutto il tempo che richiede il preparare ogni singola lezione per filo e per segno. È un lavoro impegnativo e per molti il gioco non varrebbe la candela. Ma per Josephine non è affatto così. Ama quello che fa e non potrebbe essere più esaltata all’idea di accompagnare questi ragazzi fino al giorno del diploma.
È completamente assorta nella lettura, quando si ritrova il giovane Matthew a pochi centimetri dalla sua cattedra.
 «Oh mio Dio, non ti avevo proprio sentito arrivare!»
Esclama la Cooper sobbalzando dalla sedia.
 «Ciao anche a te, Joey della “serata dei giochi”!»
«Non lo dici con abbastanza entusiasmo, devo credere che tu non l’abbia gradita?»
«Oh no, assolutamente! Ho adorato batterti a scarabeo!»
Josephine strabuzza gli occhi in seguito alla sua affermazione.
 «Rimangiatelo subito. Non mi hai battuta a scarabeo!»
«Quante volte devo ripeterti che “motoschifo” non vale come parola?»
«E “arricciaspiccia”?»
«Non mi risulta.»
«Supercalifragilistichespiralidoso?»
«Se hai abbastanza lettere a disposizione...»
Ribatte scrollando le spalle, continuando a reggerle il gioco. 
«Dovremmo creare una versione di scarabeo a tema Disney-Pixar, ti straccerei!»
«Andata. Prepara un regolamento prima di venerdì.»
«Già, a proposito di questo… »
«Sì, hai perfettamente ragione. È per questo che sono qui… Non ho il tuo numero di telefono, e tu non hai il mio indirizzo. Già, mi sento un perfetto idiota...»
Matty comincia a straparlare, mentre si passa nervosamente una mano dietro alla nuca. 
«No, figurati, non ti preoccupare!»
Si appresta a rassicurarlo Jo, che trova la sua impacicataggine decisamente adorabile.
«Pensavo di fare per le 8, potremmo ordinare qualcosa da asporto e passare un po’ di tempo assieme, che ne dici? Puoi inventare tutte le varianti di scarabeo che preferisci.»
Esclama il ragazzo tentando di risultare il più convincente possibile, ma Joey sembra ancora piuttosto titubante all’idea di gettarsi a capofitto in questo nuovo rapporto.
«Che c’è? Ho detto qualcosa di sbagliato?»
Domanda Matthew preoccupato, incrociando lo sguardo della professoressa.
«No, no, è solo che… Non è un appuntamento, giusto?»
Matty rimane un po’ spiazzato da quella domanda, e dopo qualche istante di silenzio si appresta a smentire.
«No, no. Certo che no. Che cosa te lo ha fatto pensare? No, no.»
 Josephine, in un certo senso delusa da quella risposta, si sposta una ciocca di capelli dietro all’orecchio, un gesto che si ritrova a fare spesso ogni volta che è nervosa o imbarazzata.
 «Grande. Temevo che stessi programmando un piano con i controfiocchi per farmi cadere ai tuoi piedi...»
Esclama abbozzando una risata, che spinge il ragazzo a fare lo stesso.
«Assolutamente no, non c’è pericolo. Avevo soltanto in mente di divertirci un po’....»
Aggiunge poco dopo, correggendosi non appena si rende conto del doppio senso di quell’espressione.
«Non “divertirci” in quel senso, “divertirci” in modo ingenuo, giocando...  E non a quel tipo di giochi, da quando sono usciti quegli stupidi libri, la gente non fa altro che fraintendere questa espressione. Forse è meglio che sto zitto, che dici?»
«Sai, a volte parli persino più di me.»
Risponde Joey, piacevolmente sorpresa. Matthew è così diverso dai ragazzi che ha frequentato finora… Non ha problemi a mostrarsi vulnerabile e ha il suo stesso senso dell’umorismo.
«Mia madre dice che è colpa della caffeina. A volte incomincio a parlare, parlare, e senza rendermene con—»
«Volentieri.»
«C-come?»
«Ci vengo volentieri a casa tua. Ad una condizione...»
«Spara.»
«I giochi li porto io. Vorrei evitare una svolta alla Christian Grey, non è proprio nel mio stile.»
«Mi sembra giusto.»
«E niente candele. Perchè abbiamo detto che “non è un appuntamento”, giusto?»
«Giustissimo. Ma non presentarti troppo in tiro. O Penny penserà che sia un appuntamento e si ingelosirà.»
«Uhm, la tua fidanzata?»
«Il mio gatto. Ma sa essere altrettanto pericolosa, quando ci si mette.»
«Sembra pericolosa!»
«Tutto è pericoloso, paragonato al tuo cagnolino da guardia.»
«Hey, Barney è molto pericoloso. Prova a tirargli via l’osso, ho ancora i segni dei canini.»
«Dovresti portarlo, così stabiliremmo una volta per tutte chi è il più terrificante tra lui e Penny.»
«Già, dovremmo mangiare una bella bistecca tutti insieme, sarebbe una perfetta uscita a quattro!»
«Stai forse insinuando che il nostro sia un vero appuntamento?»
«No, io non—»
«Bene, perché non lo è.»
Esclama il ragazzo puntandole l’indice addosso. Josephine alza gli occhi al cielo, consapevole di essersi appena fregata con le sue stesse mani.
«Ti odio.»
«“Amami oppure odiami, entrambe le cose sono a mio favore. Se mi ami, io sarò sempre nel tuo cuore. Se mi odi, io sarò sempre nella tua mente.”»
Josephine osserva il ragazzo confusa, ma tutto sembra trovare un senso nel momento in cui il libro riposto sulla sua cattedra attira la sua attenzione.
«Non ti facevo un patito di Shakespeare.»
«“Rinuncia al tuo potere di attrarmi ed io rinuncerò alla mia volontà di seguirti.”»
Josephine si trattiene dallo scoppiare a ridere a crepapelle, mentre Matthew si improvvisa drammaturgo. Senza l’intenzione di dargliela vinta, la Cooper accompagna letteralmente il ragazzo alla porta, costringendolo a lasciare la stanza.
«Che c’è? Sei immune al fascino del poeta?»
«Esci subito da questa stanza, o la serata è saltata.»
Esclama ironica Joey, ma mentre sta per chiudersi la porta alle spalle si ricorda di una cosa. Strappa il cellulare dalle mani di Matthew e compone il suo numero di telefono, per poi riconsegnare l’apparecchio al proprietario.
«Mandami l’indirizzo. E non azzardarti mai più a citare “Sogno di una notte di mezza estate” in mia presenza. Non rispondo delle mie azioni quando un ragazzo cita il Bardo Di Avon!»
«Il chi?»
«Non sei  degno. Sparisci!»
Esclama la Cooper dandogli un leggero spintone, per poi richiudersi la porta alle spalle e sorridere come un'ebete. È decisamente un appuntamento e l’idea non la spaventa più.
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giancarlonicoli · 4 years
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24 DIC 2019 18:00
VIENI AVANTI, GAVINO (SANNA) -  “IL CASCHETTO? HO LE ORECCHIE A SVENTOLA COME DUMBO, PERCIÒ LE COPRO CON I CAPELLI. BERLUSCONI MI DISSE: SE LI TAGLIA, CI DAREMO DEL TU - WARHOL? UN RIVOLUZIONARIO. ATTACCATISSIMO ALLA MADRE. DICEVA: GLI ITALIANI MI SONO SIMPATICI, HANNO SEMPRE LA PATTA SDRUCITA PERCHÉ CONTINUANO A TOCCARSI LÌ - ERO UN SOMARO, ALLE MEDIE FUI BOCCIATO DUE VOLTE - MONTANELLI AMÒ IL MIO SPOT E FECE CAMBIARE IDEA A BARILLA" – VIDEO
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Paolo Baldini per il “Corriere della Sera”
Gavino, sarà la bellezza a salvarci? «Le rispondo così: e chi salverà la bellezza? Il regno della cultura e del buon vivere esiste ancora? Spesso sono gli stranieri a spiegarci che il nostro è un Paese stupendo. Noi fatichiamo ad accorgercene. Roma non sarebbe ridotta in questo modo. E anche la mia Sardegna. Sa una cosa? Siamo in mano ai pasticcioni, ai profittatori, agli odiatori di professione».
Gavino Sanna, 79 anni, il creativo italiano «più stimato, copiato e premiato», con 7 Oscar della pubblicità e oltre trenta libri, l' autore di campagne «che fecero epoca», collezionista di caffettiere da western in ferro-smalto, non usa computer e gira al largo «dall' inferno di Internet». Una vita da romanzo. Da Porto Torres dov' è nato, a New York. Dall' Italia di Carosello alla cavalcata americana. Oggi si dice «ottimista e in pace con se stesso». Si tiene in disparte nella casa-museo di Milano e confessa di amare la solitudine, «che può essere una magnifica compagna».
Per tutta la vita, sostiene, ha inseguito una passione e si è rotto la schiena «per andare al massimo, per essere il migliore». Ha fatto campagne elettorali per quattro governatori della Sardegna e se n' è «pentito amaramente». In una riunione pubblica, ricorda, «mi sono anche scusato». S' accalora: «La protesta ci affascina. Rispondiamo ai richiami ideali. Le foreste minacciate coinvolgono tutti. Ma se vuoi pulire le strade di Roma chi ti viene dietro?».
Racconti come tutto cominciò.
«Male. A scuola ero un somaro, bocciato due volte alle medie. I miei genitori non sapevano cosa fare di me. Poi uno zio ebbe un' intuizione. Gavino, suggerì, è il nipote di uno dei pittori più importanti della Sardegna tra 800 e 900, Mario Paglietti: mandatelo all' istituto d' arte Filippo Figari di Sassari. È stata la mia fortuna. Sono stato l' unico allievo dell' istituto promosso con 10 in disegno dal vero».
La pubblicità era lontana.
«Finita la scuola, andai da un altro zio: Giovanni Manca, pittore, giornalista e caricaturista, collaboratore del Corriere dei Piccoli , inventore dell' arcivernice che rendeva reali i quadri e del sor Cipolla. Quando entrai nel suo studio, a Bergamo, mi sembrava di sognare. Tornai a casa felice, ma a mani vuote».
Allora?
«Seguii l' indicazione di un amico che lavorava nella più importante agenzia dell' epoca, lo Studio Sigla del commendator Mario Bellavista. Fui assunto con lo stipendio di 45 mila lire al mese, una miseria. Trovai alloggio a Ospitaletto, Brescia. All' alba prendevo il treno dei pendolari per Milano. Mi infilavo sul tram 33 e arrivavo in piazzale Biancamano, sede della Sigla.
La città mi appariva enorme, con la neve, il traffico e le latterie dove mi sfamavo a furia di pane e caffellatte. Allo Studio Sigla, che lavorava per Bic e Spic e Span, dovevo indossare un camice cremisi, come tutti i creativi. Stavo in un salone con le penne ben disposte e la carta fine. Non sapendo che fare, disegnavo. E tutti mi si facevano intorno. Il disegno è sempre stato il mio asso nella manica».
Il primo cliente importante?
«Baci Perugina. Chiamammo un famoso regista-fotografo. Fece uno splendido servizio.
Lo slogan era: Ovunque c' è amore c' è un Bacio Perugina . Preparammo i bozzetti e andammo a Perugia, ma inaspettatamente fummo presi a male parole. Bocciati. In una settimana dovevamo rivedere tutto, senza più soldi. Trovammo uno stagno e una barchetta sul Lambro, un fotografo di matrimoni e due modelli improvvisati: io stesso e una segretaria, molto carina, appena assunta. Fu il successo che sappiamo».
Poi?
«Passai alla Ata Univas e ottenni il primo stipendio accettabile, 240 mila lire, ma rimasi solo un anno. Trovai alloggio da una sartina sposata con un investigatore privato che riceveva nello Studio Lince. Lessi sul giornale che un' agenzia di marketing cercava collaboratori e passai alla Lintas.
Creammo l' uomo in ammollo di Franco Cerri. Il copy nel frattempo se n' era andato alla Mc Cann Erickson e poco dopo mi chiamò con sé. Lui era Massimo Magrì e divenne un bravo regista. Avevamo commesse di Gillette, Esso, Motta. Ci arrivavano le "pizze" americane: ero affascinato. Non ci misi molto a decidere: mollai il posto e volai a New York».
Come andò?
«Prima di tutto mi iscrissi a un corso di inglese. Dormivo nel ricovero dei ragazzi cattolici. Intanto un grafico romano che aveva lavorato a Cuba ed era diventato il pittore della Rivoluzione mi fece incontrare il titolare di una piccola agenzia: John Paul Itta, origini greche.
Gli portai i miei disegni. Mi assunse e cominciò un periodo magnifico. Conobbi Patricia, una bellissima hostess della Pan-Am nata a Memphis: divenne mia moglie. Grazie a lei ottenni un colloquio con il direttore della Mc Cann. Mi assegnò la campagna per Tampax e subito dopo quella per la famosa birra Miller.
Tra i nostri clienti c' erano la Coca Cola e il governo Usa. Strinsi la mano a Richard Nixon: non mi fece una grande impressione».
Il passo successivo?
«Entrai nel tempio della creatività internazionale, Scali McCabe & Sloves. Avanti paisà , mi disse Sam Scali, il capo. Mi consegnarono il budget per Revlon. Lavorai con Richard Avedon, il grande fotografo, e Lauren Hutton, l' attrice di American Gigolò . Facemmo insieme un' indimenticabile campagna per i prodotti di bellezza. Lei nuda, e la crema: incantevole».
Come nasce la pettinatura a caschetto?
«Da bambino avevo un taglio alla tedesca. Ma, per eredità di famiglia, ho le orecchie come Dumbo, perciò le copro con i capelli. In Usa li tenevo fino a mezza schiena. Mi scambiavano per un apache: di che tribù sei, Gavino?».
I suoi incontri: Frank Sinatra, Elvis Presley, Paul Newman, Catherine Deneuve, Luciano Pavarotti, Sophia Loren, Alain Delon, Christian Barnard. E poi lui, Andy Warhol.
«Appena arrivato seguivo le sue lezioni sul cinema. Raccontava di sé, spiegava come aveva girato Sleep , un anti-film in cui John Giorno dorme per 5 ore e 20 minuti . Il suo studio era un covo di gente bizzarra. Girava sporco di vernice, con la Polaroid in mano. Aveva una collezione di parrucche: la preferita era rosa. Un rivoluzionario. Attaccatissimo alla madre. Diceva: gli italiani mi sono simpatici, hanno sempre la patta sdrucita perché continuano a toccarsi lì. Lo incontravo spesso al Club 54, seduto in un angolo con Truman Capote».
Perché, al culmine del successo, è tornato in Italia?
«Un' agenzia internazionale, Benton and Bowles, voleva aprire una sede in Italia e mi fece un' offerta irrinunciabile. Davanti a me si stendeva la Milano da bere. Avevo appena divorziato. Il mio matrimonio era stato seppellito dalla crisi del settimo anno. Decisi che avrei rivoluzionato il linguaggio della pubblicità e per questo mi feci molti nemici. Una mano me la diede anche Berlusconi, che con le sue tv stava cambiando le regole della comunicazione pubblicitaria. Arrivarono clienti come Barilla, Giovanni Rana, Fiat, Simmenthal».
Già: il cliente Barilla.
«Andai a Parma a conoscere Pietro e i figli. Lui mi portò in un piccolo ufficio. Mi disse: vede, questo non è solo il marchio della pasta, ma il nome della mia famiglia, ne tenga conto. È stato il brief più bello della mia carriera. Proposi un film di 90 secondi. Un distinto signore dalla stazione centrale di Milano viaggia per tornare in famiglia. In tavola trova pacchi di pasta. Dove c' è Barilla c' è casa , lo slogan. Tutto sbagliato, mi sgridò Pietro. Una settimana dopo si scusò: Gavino, è un capolavoro».
Motivo?
«Barilla faceva le vacanze a Cortina e il suo migliore amico era Indro Montanelli. Che un giorno lo incontrò: ho visto il tuo spot, caro Pietro, è davvero bellissimo. Arrivò la bambina che torna a casa con il gattino e mette il fusillo in tasca a papà. Fioccarono i premi».
Con Berlusconi ha lavorato a lungo.
«L' ho conosciuto al rientro in Italia. Mi invitò al Gallia per una tavola rotonda. Vedevo che mi fissava da lontano. Mi raccontò: quando ero giovane portavo i capelli come i suoi, poi li ho tagliati e la mia vita è cambiata. Mi dia retta: li tagli anche lei. Se lo fa, ci daremo del tu. È diventato il titolo di uno dei miei libri».
Com' è arrivato a essere viticoltore?
«Un bel giorno, qualche anno fa, mi stavo facendo la barba. Chiamo Lella, mia moglie, e le dico: oggi sento i miei partner americani e vendo tutto. Detto, fatto. Il vino è la mia attività dal 2004. Pensi che nella mia famiglia nessuno beveva. E io sono astemio. Tutto da solo, ho disegnato la bottiglia, il logo e ideato gli slogan per il lancio, un vero atto d' amore per la Sardegna. Così, nel Sulcis, è nata Cantina Mesa».
Come si definirebbe?
«Gavino, che si diverte come un bambino a fare le caricature».
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strozzalupo · 7 years
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Il problema di questi post è che sono in ferie e ho tanto tempo libero. Quindi scrivo qui quello che mi passa per la testa e beh, quello che mi passa per la testa non è bellissimo. Però è anche vero che scrivendo su un blog e quindi aspettandosi che la gente legga, non posso nemmeno continuare a scrivere cose confuse e di getto senza ripercorrere con lucidità ciò che è successo in questi cinque mesi. Quando una persona ti mente, e quando dico che mente intendo arrivare ad inscenare la propria morte, è da stupidi credere che non ti mentirà più. Ma è ancora peggio credere che non ti abbia mai mentito prima. Oh, l'amore ti rende stupido. E io lo sono stato in maniera clamorosa. Quando l'amore svanisce, ti senti come quando ti svegli da un sogno. Non sai più cosa sia reale e cosa sia stato, appunto, solo un sogno. Quindi ripensi alle coincidenze che hanno portato a non vedere quella persona per così tanto tempo e per così tante circostanze tragiche avverse. Chiunque abbia avuto una relazione a distanza sa quanto bello sia il giorno prima di vedersi, ma i nostri non lo sono mai stati e anzi, a dire il vero, non sono mai davvero esistiti. La prima volta muore un parente. Pazzesco, non una settimana prima o tre giorni prima. Il giorno prima di vedersi. Sfiga. Essendo solo il primo di questi casi, ed essendo passato solo un mese da quando la conosci, ti unisci al dolore e attendi. Passa del tempo, per la precisione quasi un mese intero, finché non arriva il momento di organizzare davvero il nostro incontro. Questa volta le diagnosticano un tumore. Forse addirittura il giorno stesso, questa volta. Io vado nel panico e sono ad un passo da prendere un volo il giorno stesso e raggiungerla a Londra. Ma lei mi scrive prima. Mi scrive, mi dice che sta bene e allora decido di posticipare solo di sette giorni, al weekend successivo. Le dico che andrò a trovarla in ospedale e che ho già preso i biglietti e che ora farà davvero fatica a trovare un modo per impedirmelo. Ma lei non farà affatto fatica, perché sei giorni dopo, fingendosi il fratello (!) mi comunicherà la propria morte. Sì, esatto. Passo due giorni assolutamente impossibili da raccontare. Scrissi anche un post qui - poi cancellato - in cui spiegai che il blog sarebbe rimasto chiuso. Ero in lutto e avevo perso la persona che credevo di amare, nonostante non l'avessi mai vista. Ma il lutto dura poco. Per la precisione da venerdì sera a domenica. Domenica mi rivela di essere risorta, insieme ad un mucchio di storie circa l'essere stata costretta dalla famiglia. Io incazzato come una iena ho un sussulto d'orgoglio e dico di non credere a nulla. Lei mi offre di incontrarla la mattina dopo. Ci vediamo. E come il coglione che sono, la perdono. Per settimane e settimane, convinto che le scuse passate fossero vere, ho stretto i denti e sono stato con una persona forzatamente, temendo che un'altra perdita l'avrebbe devastata, specialmente in un momento di salute così precaria. Siamo quindi a fine Maggio, passano ancora dei giorni e incredibilmente riusciamo a vederci ancora, di soppiatto come i ladri, ma ci riusciamo. Da qui inizia un fantomatico ciclo di radioterapia che dovrebbe impedirci di vederci fino a metà Luglio. Lo sapevamo. Lo accettiamo. Nel frattempo organizziamo mille viaggi per Agosto, convinti che una volta guarita del tutto avremmo avuto un po' di pace. A metà Luglio però, il caso, guarda un po', fa in modo che la radioterapia si riveli quasi totalmente inefficace e che vada prolungata fino ad Agosto inoltrato. Saltano i piani, ma la mia voglia di starle vicino no, e mi offro di andarla a trovare anche tutti i weekend da lì fino alla fine della terapia. Qui succede una cosa strana: un colpo di fortuna. A lavoro per motivi contabili mi allungano le ferie di una settimana, permettendoci di realizzare i piani di andare a Ceuta e dintorni almeno una decina di giorni. Qui in ogni caso ricomincia la fitta trama di "casualità" che ci impedirà di vederci, prima fra tutte la presenza di una grossa irritazione cutanea causata dai raggi, che la metterebbero a disagio. Caso vuole che io abbia la febbre proprio in quel weekend e quindi decida di non oppormi a questa fantasiosa giustificazione. Rimandiamo al weekend successivo, ma qui arriva il colpo di classe: la nonna, venuta a trovarla per starle vicino in questi giorni difficili, non le parla a causa di una litigata avuta giorni prima: non è il caso io vada con quel clima in casa. Inizia Agosto. La presunta terapia finisce nel migliore dei modi e nulla ci vieta di vederci, fatta eccezione per un nuovo problema fisico sopraggiunto con lo stress. Che cazzo di sfiga. Temendo di essere parziale causa di questo stress, decido ancora una volta di mandare giù l'orgoglio e parto per andare da lei. Questa è la svolta di questa storia. Decido di andare da lei avvisandola molto indicativamente circa i giorni, ma senza essere più specifico. Dopotutto i nostri "giorni prima" erano fino ad ora stati costellati di sfighe e pretesti e così facendo sapevo di evitare questa eventualità. Qui sarò estremamente preciso per spiegare la bellezza di questa favola. Lunedì alle 15:20 chiama una persona affinché parta dall'ospedale in cui è ricoverata la nonna e vada a prenderla. Alle 15:50 si trova all'ospedale. Io nel frattempo sono partito con la moto da circa un'ora e senza che lei sappia, mi sto dirigendo al medesimo ospedale. Arrivo e la cerco senza successo per tutti i piani, finché non mi decido. Dove sei? Qui immagino di aver scatenato il panico e di aver costretto ad una bugia peggio orchestrata perché la risposta è: torna a casa. Sono sì in ospedale, ma non in quello, bensì in quest'altro. Dopo due ore e mezza di viaggio, decido di tornare a casa a mani vuote, a testa bassa e con una delusione indescrivibile. A casa, la sera, guardo sulle mappe la distanza tra casa di lei e l'ospedale in cui diceva di essere. 40 minuti di distanza spingendo sull'acceleratore come disgraziati. Ma a quanto pare chi doveva venire a prenderla era riuscito a tornare e riportarla in mezz'ora, quando un pirata della strada con una ferrari c'avrebbe messo un'ottantina di minuti. Un eroe in pratica. Finisce così, con lei che parte per Ceuta con la nonna, come probabilmente ha sempre pensato di fare. E io qui, a trascrivere questa storia assurda. Mia madre mi vede strano e con la sua ingenuità da persona semplice mi chiede se alla fine non mi avesse preso in giro per tutto questo tempo. Rispondo di sì con un sorriso malinconico, e mi prometto di dimenticare tutto questo. O magari scriverci un libro. Se avete impressioni da esporre o volete acquisirne i diritti per una sitcom, il mio inbox vi attende. Forse se va bene non ne scriverò più, per la gioia di tutti.
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giancarlonicoli · 5 years
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29 OTT 2019 08:41
DELITTO ALL’OLIMPICO - "MIO PADRE ERA ARMATO SOLO DI PANE E FRITTATA", IL FIGLIO DI VINCENZO PAPARELLI A RADIO 2 RICORDA IL PADRE, TIFOSO DELLA LAZIO UCCISO 40 ANNI FA DA UN RAZZO SPARATO DALLA CURVA SUD PRIMA DEL DERBY”: "QUEL GIORNO PAPA' NON DOVEVA ANDARE ALLO STADIO" – LO SCEMPIO VIGLIACCO DELLE SCRITTE: "LEGGERE SUI MURI ‘10-100-1000 PAPARELLI’ È STATA LA MALEDIZIONE DELLA MIA VITA. QUANDO MI CAPITA DI VEDERLE, CORRO A COPRIRLE” – “MIA FIGLIA MI HA CHIESTO DEL PERCHÉ NONNO VINCENZO FOSSE SULLA BANDIERA DEI TIFOSI, COME FACCIO A SPIEGARGLIELO?
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Da www.iltempo.it
"Mio padre era armato solo di pane e frittata". Così Gabriele Paparelli, il figlio di Vincenzo, nel corso della trasmissione I Lunatici del weekend in onda su Rai Radio 2 e condotta da Pippo Lorusso e Roberta Paris. "Mio padre era un semplice tifoso, operaio di quegli anni, aveva un’officina meccanica, quindi era un semplice tifoso che non andava allo stadio a fare casino.
Eravamo la classica famiglia italiana di quegli anni, papà adorava il suo lavoro e lavorava tutta la settimana, con una passione enorme per la Lazio. Per lui la domenica era una sorta di premio che si prendeva per poter andare a seguire la sua amata Lazio. Era un semplice operaio che stava mangiando un panino con la frittata accanto alla moglie, aspettando di vedere un derby. Purtroppo è accaduto quello che nessuno avrebbe mai potuto immaginare".
Sul 28 ottobre 1979: "Quando il destino si accanisce non puoi scappare, quel giorno noi dovevamo andare al paese, siamo di Valmontone, capitava che andavamo tutti quanti per fare questi bellissimi megapranzi. C’era questo derby ma pioveva, allora papà decise di rinunciare alla partita e venire con noi al paese. Purtroppo è uscito un raggio di Sole e papà, laziale come era, ha preso subito la palla al balzo e decise di andare allo stadio. È andato tra le lacrime mie che volevo assolutamente andare con lui, avevo 8 anni ma ero abituato ad andare allo stadio con lui, andavamo tutta la famiglia. Invece mi disse che in quell’occasione sarebbe potuto essere pericoloso e che mi avrebbe portato la prossima volta. Non avevamo mai visto dei derby insieme, sempre partite abbastanza tranquille. Posso dire che quella volta mi ha salvato la vita. Viene il magone proprio perché non si riesce a concepire la violenza all’interno di uno stadio, quindi lì ci fu un cambiamento radicale nel mondo del tifo, degli ultrà, delle certezze che si sono perse all’improvviso per chiunque.
Conosco tante persone che da quel giorno non sono più andate allo stadio, quindi è cambiato totalmente il mondo dello sport perché non è possibile che si muoia addirittura dentro lo stadio. Purtroppo non ho mai potuto “godermi” in santa pace la morte di mio padre, so che è una cosa forte però una persona nell’intimità cerca di sopperire i dolori e li tira fuori soltanto quando vuole. La perdita di un genitore è sempre un dolore forte, però poi sentire o leggere sui muri insulti rivolti a tuo padre, cori allo stadio, è diventato un incubo perché non siamo stati più padroni di vivere tranquillamente la morte di mio padre.
Ogni giorno dovevamo combattere con una scritta, al punto che io giravo sempre con la mia bomboletta sotto al motorino per cancellarle perché se mia madre le vedeva era la fine della giornata. In questi anni durante le ricorrenze ho ricevuto anche tanto affetto, da Milano, Palermo, ho ricevuto tanti messaggi d’affetto e questo in qualche modo ti ridà la forza e ti ripaga il dolore che subisci. In primis i tifosi della Lazio, che per me sono diventati una seconda famiglia perché mi hanno sempre sostenuto da 40 anni a questa parte".
E sulla figlia: "Vado pochissimo allo stadio, se posso farne a meno preferisco perché purtroppo si è sviluppata una certa fobia nei confronti dello stadio. Adesso però ho una bimba piccola che vuole andare allo stadio e sto cedendo, stiamo studiando una prossima partita tranquilla di pomeriggio e le ho fatto una mezza promessa che forse l’accompagno. Ancora è piccola per affrontare la storia del nonno, cerco sempre di tenerla fuori da questi discorsi. Lei è andata allo stadio con il nonno materno e ha visto una bandiera con il volto di mio padre, allora mi ha chiesto del perché nonno Vincenzo fosse sulla bandiera, come faccio a spiegarglielo? Lei non sa ancora come sono andate le cose. Le rispondo che era un tifoso speciale della Lazio, tutti quanti gli volevano bene e lo ricordano così perché era un grande tifoso. Ogni volta che inquadrano la Curva Nord lei va a cercare quella bandiera".
PAPARELLI E LA MORTE CHE OSCURO' IL CANDORE DEL CALCIO
Da www.corrieredellosport.it
Il 28 ottobre 1979 il calendario della Serie A prevede i derby di Milano e Roma. Alla vigilia l’attenzione è inevitabilmente più focalizzata su Inter-Milan, che oppone la capolista nerazzurra contro i campioni in carica rossoneri. Roma e Lazio sono più indietro in classifica: il Derby della Capitale non è ancora riuscito a ritagliarsi lo spazio mediatico conquistato solo negli anni successivi. Vincenzo Paparelli, 33 anni, di professione meccanico, è un uomo come tanti: marito, padre, tifoso della Lazio. È una domenica autunnale, piove. Una di quelle domeniche da dedicare alla famiglia.
Poi, all’improvviso, esce uno sprazzo di sole e Vincenzo viene inesorabilmente attratto dall’idea di andare allo stadio a vedere il derby. Solita routine: si esce di casa, si arriva allo stadio, si entra, si trova un posto. E, nella lunga attesa che separa lui e la moglie dall’inizio della partita (in curva Nord non ci sono i posti numerati), dopo aver letto qualche pagina di giornale addenta il pasto frugale tipico dell’occasione: un panino con la frittata.
Quelle attese erano fatte così: interminabilmente lunghe, noiosamente statiche, non ancora consumate dalla velocità zippata portata quarant’anni dopo dal mondo dominato dai cellulari. In quell’atmosfera quasi sospesa, impressionisticamente punteggiata da un boccone di cibo, una chiacchierata col vicino di posto occasionale e qualche sigaretta, dalla curva Sud parte un razzo che sorvola tutto il campo di gioco e chiude la sua traiettoria nel pieno viso di uno di quei tifosi che sta dribblando il tempo che lo separa dall’inizio della partita.
Quel tifoso è proprio lui, Vincenzo Paparelli, che non ha nemmeno il tempo di capire che la partita della sua vita sta per finire così, diretta inflessibilmente da un arbitro che applica un regolamento incomprensibile. La scena è cruenta, il panico si diffonde velocemente.
La moglie di Vincenzo,Wanda, prova disperatamente a estrarre dall’occhio del marito quell’oggetto incandescente, che la ustiona. La corsa all’ospedale è inutile e disperata, consumata tra paura, preghiere e dolore. Paparelli non ce la fa, lasciando la famiglia da sola a combattere la guerra della vita, fattasi all’improvviso terribilmente difficile.
Quel giorno la tesi per la quale il mondo del calcio vive in un’isola felice, incontaminata dalle influenze della società, veniva clamorosamente sconfessata. Un atto scriteriato, che portava con se gli echi disordinati di un concetto improprio del tifo, risuonò violentemente dentro l’Olimpico di Roma, portando il clima che si respirava per le strade del Paese all’interno di uno stadio di calcio. In quegli anni l’Italia viveva i suoi tormenti dilaniata dalla lotta politica extraparlamentare che si consumava nella violenza spesso omicida degli anni di piombo.
Vincenzo Paparelli morì in un luogo che avrebbe dovuto essere un sacrario della gioia di vivere proprio come giudici, politici, imprenditori e forze dell’ordine perivano nei luoghi dove quotidianamente si recavano per lavorare. Attività ordinarie potevano trasformarsi in tragedie senza la possibilità di poterle prevedere.
“Quel razzo ha distrutto la mia famiglia” ha dichiarato recentemente al Corriere della Sera il figlio di Paparelli, Gabriele, la cui vita è stata segnata per sempre da quello sconvolgente episodio. Come sconvolgenti sono le scritte comparse negli anni successivi a Roma che, in un misto di stupidità e barbarie, rievocano quella morte: ”Leggere sui muri ‘10-100-1000 Paparelli’ è stata la maledizione della mia vita. Quando mi capita di vederle, corro a coprirle” il commento avvilito di Gabriele a quelle iscrizioni oscene. La cronaca esige che si parli anche di Giovanni Fiorillo, il diciottenne disoccupato che sparò quel razzo dalla curva Sud: rimase latitante per 14 mesi prima di costituirsi.
Nel 1987 la Cassazione lo condannò definitivamente a sei anni e dieci mesi di reclusione per omicidio preterintenzionale: aveva sempre giurato che quel giorno non aveva intenzione di uccidere nessuno. Ma dal 28 ottobre 1979 andare allo stadio non fu più la stessa cosa.
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