Tumgik
#Mimì e Gegè
sciatu · 17 days
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Mimì si avvicinò e si sdraiò accanto a Gegè che sul letto stava facendo scorrere i Reel di Istagram gustandosi la leggera brezza dell’aria condizionata. Lo guardò e le venne un lampo di malizia negli occhi e sorridendo incominciò. “Gegè che fai?” “Sto guardando Istagrammi” Lei fece il broncio “Ecco, non mi guardi più Una volta mi dicevi che mi desideravi più di un cannolo” Mimì, capendo che lei era partita all’attacco e che doveva rispondere nel modo giusto lasciò il cellulare e guardandola le disse, con tutta la dolcezza che poteva avere di dopo pranzo rispose “cori miu accussì iè” Lei si avvicinò e sfregando il suo corpo contro quello peloso e accaldato di lui chiese con voce mielata “e picchì Gegè? Picchì?” Lui cercò di inventare sul momento “perché se vedo un cannolo desidero solo la sua ricotta dolce, delicata, traslucida per lo zucchero che contiene, la sua granella di pistacchi, o la buccia d’arancia candita che c’è sulla sua parte iniziale. Mi viene subito la voglia di immergerci la lingua, di falla scivolare su quella nuvola di piacere, di morderla per divorarla e assaporare il paradiso che riassume. Poi desidero la croccantezza della sua buccia che fa da controcanto alla ricotta, la sua delicata forza, il suo dorso coperto di zucchero al velo. Ma mangiati due o tre cannoli poi la voglia mi passa. Con te invece non passa mai. – si avvicinò e la strinse pensando che magari ne sarebbe venuto fuori qualcosa – io leccherei la tua pelle bianca come la crema di cannoli ma più dolce all’infinito, ti morderei pezzettino a pezzettino, ti divorerei per portare te in paradiso…." Gli occhioni neri lo guardarono felici lanciando fiamme di sensuale passione. “Mimì , mi hai fatto venire voglia…” “Veni ca – fece lui con ormai il testosterone che traboccava dagli occhi e dalle labbra – veni chi ti pottu in paradisu” E fece scivolare la sua mano tra le soffici cosce di lei “Ma chi fai … - fece lei stupita da quanto stava facendo - femmati, ma chi capisti ? nun fari u bastasi!!” “Ma non ti è venuta voglia?” “si ma voglia di cannolo, chi capisti? Dai suggiti, vai alla pasticceria Torrevecchia e comprami due cannoli: me ne hai fatto venire una voglia. Dai gioia, fammi cuntenta, pottami in paradisu..” “Ma …. A st’ura?” “Dai gioia in dieci minuti si dà” “Ma cu stu cauddu?” “Ma tanto a machina ha l’aria cundizionata! Dai amuri! Nun mi voi fari cuntenta?” E lo spinse fuori dal letto. Gegè prese la maglietta rassegnato e si avviò. Alla porta la sentì ciabattare che gli correva dietro “Gegè, Gegè – lo chiamava e, una volta raggiuntolo lo baciò con passione – Ti vogghiu beni” Gli disse con dolcezza. Lui la guardò e pensò che era bellissima finché lei non aggiunse “gli compri un Babà a mamma che la ricotta le fa acidità” Tirò un sospiro rassegnato e chinò la testa. Quando uscì per strada l’insegna della farmacia segnava quaranta gradi all’ombra.
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sciatu · 3 years
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GELATI VARI
MIMì E GEGE’ - gelato alla liquirizia.
Il desiderio è un laccio sottile che piano piano ti avvolge e che d’improvviso ti stringe tanto forte che se non lo soddisfi ti soffoca e ti impedisce di provare altre emozioni. Gegè ad esempio amava il gelato e appena lo desiderava andava a prendersi un cono nella gelateria di Mimì, prima che si mettessero assieme e aspettava che proprio Mimì lo servisse e non gli altri inservienti, perché così gli riempiva il cono di una montagna di gelato. Quel gesto di Mimì era per Gegè una prova di amicizia e non capiva che lei lo faceva solo perché lui gli piaceva. Lui però non ci pensava avendola sempre avuta come grande amica e vivendo il rapporto con lei in quel bagnasciuga esistenziale dove non sei né solo spiaggia e quindi amicizia, né solo mare e quindi amore.  Lui passava i pomeriggi nella gelateria con Mimì e si giustificava di fronte agli amici e a sé stesso, con il suo amore per i gelati. Un giorno non la trovò. Era partita con le cugine per una gita offerta da un fornitore. Sul momento Gegè non ci pensò e si prese il suo gelato, ma scoprì che non era più buono come prima. Gli mancava qualcosa che lui non capiva o ipocritamente non sapeva o voleva definire ed accettare, perché per capire d’amare ci vuole coraggio o incoscienza. Il desiderio di Mimì incominciò a stringergli l’anima e crebbe in lui sempre più prepotente. Per prima cosa gli fece perdere l’interesse per quanto lo circondava. Le vaschette di gelato persero ogni colore e attrattiva, la gente intorno a lui si trasformò in ombre ed anche se vi era il sole, gli sembrava di essere già a novembre. Sentiva che qualcosa era cambiato, che qualcosa gli mancava, ma non voleva ammettere che questo qualcosa fosse Mimì. Durante tutta la giornata il desiderio gli faceva apparire nella memoria improvvise immagini di lei come i suoi occhi perfettamente a mandorla, la sua bocca da bambina sempre sorridente ma con la forma di donna, gli apparvero anche, dolorosamente dettagliate, le sue minnone che quasi trasbordavano dalla sua camicetta nera aderente quando si piegava tra le vaschette di gelato per raccogliere con la paletta una dose abbondate di pistacchio o caffè. Il desiderio di lei era tanto forte che la sera, con grandissima preoccupazione dei genitori, si mangiò solo due arancini e un pitone fritto: quasi inappetenza assoluta, a sentir la madre.  Poiché la voce profonda dell’anima sono i sogni, la notte fu il momento in cui il desiderio gli tese un terribile agguato facendogli fare un sogno terribile. Era nella gelateria e aveva appena ordinato il suo gelatone. Mimì aveva incominciato a riempire un cono e metteva e metteva a mai finire, tanto che il gelato era grande come la testa di lui. “Stai attenta che ti cade…” le disse Gegè preoccupato e infatti fu cosi: il gelatone che Mimì riempiva pescando dalle vaschette sottostanti cadde proprio sulla vaschetta che conteneva la stracciatella. Lei sorrise e senza problemi entrò dentro il bancone per prenderlo e improvvisamente affondò dentro le vaschette di gelato e scomparve dentro di loro. A Gegè saltò il cuore in gola: dove era finita Mimi ? Lei riapparve improvvisamente quasi nuotando nelle vaschette che andavano ad allargarsi ed appariva tutta fatta di gelato. I suoi capelli erano sottili fili di cioccolato, le sue minnone erano formate da gelato al cocco e fragola, i fianchi di zuppa inglese, le gambe di gelato al limone e il sederone di nocciola e crema. Lei si muoveva entrando in una vaschetta grande quanto una piscina e uscendo da un'altra ancora più grande, con un sensuale movimento e lui ebbe la percezione che fosse tutta, assolutamente nuda. Splendidamente nuda e tutte le sue forme risaltavano, ora come gelato alla papaya, ora come gelato alle amarene con due ciliegione a fare da capezzoli, ora con la zona del pube sotto forma di scuro gelato alla liquirizia e questo lo sconvolse perché era uno dei pochi che non aveva mai ordinato. Così il suo corpo cambiava continuamente, da fragola e panna a zabaione e nocciola, le natiche di tiramisù, il ventre di gianduia e cioccolato bianco, le braccia di Mont Blanc con pezzettini di maron glasse, i capelli di papaya e frutto della passione, la schiena di meringata, le gambe di limone e menta. Lui l’osservava e lei ora appariva ora spariva, con le minnone che traballavano con il loro profumo vaniglia, il sesso di liquirizia ed i peletti di filamenti di scuro cioccolato fondente. Come una sirena nel mare, incominciò a chiamarlo tra onde di torroncino, di gianduia e meringata. “Gegè, veni, veni… chi gustu voi.. , veni ..  liccami … scialati” Lui guardava e l’acquolina gli impastava la bocca, mentre laggiù la sua ciolla si era gonfiata come il palloncino che usano i clown di strada per fare gli animaletti come cani e cigni. Imbarazzato da quel tubolare dotato di volontà propria lui lo stringeva più che poteva per nascondere l’effetto che lei aveva sul suo corpo. “ Gegè veni, assaggiami.. “ Faceva lei, lasciva e provocante, mostrando ora questa ora quella intimità dolciaria, dalla lingua gianduia, alle labbra di fragola, alla minna di cedro, al sesso di scura profumata liquirizia (ancora? Ma perché?). “Veni, Gegè, liccami tutta … no vidi chi mi staiu squagghiannu (mi sto sciogliendo) …?” Gegè stava morendo. Sentiva un gran caldo e l’essere tubolare la sotto che stava scoppiando avendo raggiunto il massimo della espansione permessa dalla pelle, ma vedeva Mimì sciogliersi e quindi perderla completamente e questo lo sconvolgeva perché adesso il desiderio era la sua vita e Mimì l’unica persona che potesse saziarlo e rinnovarlo nello stesso tempo rendendolo quella Araba Fenice che chiamano amore. Gegè ebbe un’illuminazione: lui amava Mimì e per vivere doveva stare con lei. Questo era il suo Karma in quel momento della sua vita e rinnegarlo, ignorarlo, voleva dire uccidere il suo destino. Non poteva far altro! Non doveva pensare di dover fare altro!! Aprì la vetrina delle vaschette di gelato e vi si tuffò dentro. Sul momento sentì solo nausea in mezzo a quello sciroppo denso e zuccheroso che era il gelato e che per similitudine lui associava all’amore. Poi però quella fase densa e dolce come miele assunse una vita propria e Gegè si sentì abbracciare ed un corpo fresco e morbido adagiarsi sul suo dandogli un piacere intenso e carnale. Gli occhi di cioccolato Mimì lo osservavano intensi mentre le labbra rosse amarena cercavano le sue e una volta raggiunte le divorarono mentre la sua lingua di liquirizia (cosa che eccitò tremendamente Gegè) avvolgeva la sua. A questo punto perse ogni controllo e si senti tutto piacevolmente bagnato, quasi in paradiso e lentamente si lasciò affondare dolcemente, come disse il poeta, in un mare di gelato alle mandorle. Qualche giorno dopo, quando Mimì fece salire la saracinesca del negozio se lo trovò dietro la porta del negozio che aspettava, da mezzora, l’apertura della gelateria. Lo fece entrare contenta di vederlo “Ciao Gegè, hai già voglia di gelato?” Lui la guardò e a vedersela di fronte dimenticò tutto il discorso forbito e passionale che si era preparato, inoltre, con la capacità discorsiva inaridita da abuso di messaggi whats up e meme, cadde nel panico più completo. Lei lo guardò stupita dal suo silenzio e dal nervosismo che il suo corpo mostrava. “Che c’è ?” Chiese preoccupata. Allora Gegè, ormai disperato, fece un atto ancor più disperato: la baciò. Mentre la baciava, Gegè capì che soddisfare un desiderio voleva dire farne nascere mille altri perché le labbra di Mimì, sapevano veramente di liquirizia.
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sciatu · 3 years
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BRIOSCIA CON GELATO - A vita è na brioscia, na iapruta i coscia, a panza chi crisci e tuttu finisci (antico detto siciliano)
Mimì e Gegè : A Brioscia
“Gegè avanti moviti chi amu ammanciari! (Dobbiamo mangiare)”
In quel momento Gegè odiò nell’ordine : Mimì che eppure amava immensamente, quindi quella brava donna e scassaminchia della suocera, tutto il genere femminile, la domenica intesa come festività da passare con i parenti e tutti i minchia di lavandini con i tubi di plastica che perdevano. Tutte queste cose erano l’una con l’altra intimamente legate.
La domenica perché la terza domenica di ogni mese la passavano dalla suocera
La suocera perché trovava sempre cose da fargli fare come dipingere il soffitto del bagno o riparare un tubo della cucina che perdeva.
Il tubo di plastica perché (minchia!!) non si avvitava come si deve e perdeva sempre in qualunque modo lo sistemasse (stu jarrusu figghiu i buttana).
Gegè infatti da quasi mezzora cercava di avvitare sotto un lavandino della cucina, il tubo di plastica dello scarico dell’acqua che continuava a perdere un insignificante goccio d’acqua. Per la suocera quella goccia microscopica era un fiume immenso, quasi un mare che stava allagando la cucina facendo gonfiare tutti i mobili della stessa, rovinando la struttura del condomino, affossando tutta quella parte della città. Faccia all’aria, la schiena umida d’acqua, gli attributi maschili che giravano all’impazzata fumando peggio dell’ Etna, il pover uomo osservava dal basso verso l’alto il tubo appena sistemato speranzoso che finalmente tutto si fosse sistemato. Invece, ecco la beffarda goccia mostrarsi, allargarsi e poi cadere, giusto in mezzo ai suoi occhi. Smontò di nuovo il tubo imprecando peggio di un portuale livornese, cercando di sistemate meglio la guarnizione.
“Gegè esci che devo riempire la pentola con l’acqua per la pasta, se no ti lavo tutto”
Lui si spinse in avanti restando sempre sulla schiena per non perdere tempo e uscì fuori dal mobiletto sotto il lavandino. Così facendo arrivò proprio sotto le gambe tornite di Mimì che con le cosce divaricate sopra di lui, stava riempiendo la pentola
Restò affascinato osservando le cosce bianche e perfette dell’amata che si ricongiungevano alla stretta striscia della mutandina nera. La camicetta leggera con il disegno di piccoli fiori di pesco che Mimi indossava quando aiutava la madre nei lavori pesanti, dava alla pelle delle cosce una colorazione rosa e questo rese la meravigliosa visione ancora più magica.
“Ah che bel vedere – fece lui sorpreso – quando mi fai dare una bella leccata alla brioscia al gelato che preferisco?”
“Ti piacerebbe … ehh?”
fece lei ironica spostando la pentola sul fornello a gas
“Quando me lo farai fare sarà il più bel giorno della mia vita”
Esclamò lui entusiasta
“Seee!!, mu ‘maginu!! pensa a finire che tra dieci minuti manciamu”
E si spostò ad apparecchiare la tavola.
Lui, sorridendo, rientrò sotto il lavandino e si mise a pensare e a immaginare cosa avrebbe fatto a quelle cosce e quella mutanda, con il tarlo del sesso che scavava nella sua testa facendo
“Crr Crrr Crr”
donandogli visioni paradisiache, ma virtuali, del sesso di Mimì messo li davanti a lui come fosse una brioscia piena di gelato alla crema, alla nocciola o alle amarene e lui che ne poteva disporre per come voleva.
Forse, perché il tarlo che stava scavandogli in testa occupava il 95% del suo pensare, riuscì improvvisamente a sistemare il tubo senza farlo più perdere e senza capire come aveva fatto. Uscì finalmente da quel loculo sotto il lavandino dentro cui stava sepolto da quando era arrivato dalla suocera. Si sistemò alla meno peggio, asciugandosi e pulendosi in tempo per sedersi a tavola davanti ad un piatto poderoso di pasta ncaciata. Fu poi la volta di tre polpette di tritato di maiale e quattro spiedini di braciole cucinate alla brace, quattro bicchieri di un Nero d’Avola denso e molto alcoolico, una coppa piena di un gelato che galleggiava su un laghetto di Whisky, il caffè con paste di mandorla e un bicchierazzo di amaro Averna gelato.
Il solito frugale pasto domenicale.
Come ogni dopopranzo domenicale, in attesa che Mimì aiutasse la madre a mettere a posto la cucina, andò a sdraiarsi sul letto nella camera che era stata di Mimì da bambina, pieni di mobili rosa, barbi e orsacchiotti pelosi. Si sdraiò con la pancia verso l’alto, sorridendo lasciò libero il suo tarlo del sesso, ma prima che le fantasie erotiche si accendessero, lui aveva già perso coscienza.
Si sentì sciacquariari (scuotere) ora da una parte e ora da un'altra, e dopo qualche secondo di nuovo. La sua coscienza lentamente riemerse dal nulla e gli fece aprire gli occhi. Vide solo una tenda che era vicino ai suoi occhi e poi vide che la tenda scendeva dall’alto, da due forme tonde che sporgevano e infine laggiù, in alto e vicino al soffitto, il volto sorridente di Mimì con la fossettina sulla guancia di quando stava facendo una marachella.
Lei lo guardo e il sorriso si allargò ancora di più.
“Rusbigghiti – gli disse la boccuccia dell’amata – oggi è il più bel giorno della tua vita….”
e incominciò a canticchiare un motivetto di quelli sexi alla Marilen Monroe o che si sentono quando le spogliarelliste incominciano il loro numero.
Nello stesso momento la tenda, che poi era la camicetta a fiorellini di Mimì, incominciò a salire seguendo il ritmo della musichetta, per poi aprirsi mostrando le cosce cosciose dell’amata.
D’improvviso il cervello di Gegè si svegliò e tutta la scena, nella penombra della stanza, gli apparve come il sogno che avrebbe voluto fare.
“Tatata-ta-taaa…”
Continuava Mimì mentre finalmente la camicetta si apriva a svelare il cespuglietto di peli che sovrastava il suo pube. Gegè seguì quella macchia nera oscillare a destra e sinistra più volte, ipnotizzato come un topo che fissa gli occhi di un cobra, fino a che lentamente, il cespuglietto incominciò a scendere.
Il primo pensiero che si formò nella mente vuota di Gegè, fu un pensiero mistico sulla bellezza dell’universo, perché quello spettacolo che vedeva aveva la perfezione stessa dell’amore che muoveva il sole e le altre stelle, riassumendo in un solo pensiero una blasfemia religiosa e letteraria di cui però non era assolutamente cosciente essendo per lui certi atti che gli altri definivano impuri, solo puri atti d’amore. Mentre la voce di Mimì accompagnava la discesa del paradiso verso le labbra di Gegè, lui incominciò a baciare le cosce ormai ben assestate intorno alla sua testa, sentendone il profumo del sapone per doccia e la freschezza della carne soda e nello stesso tempo delicata dell’amata. Concentrò i baci dove la coscia si univa al pube, in quella striscia di pelle ancora irritata per la depilazione e quindi si tuffò nel cespuglietto di peli, ancora umidi per la doccia appena fatta e gli sfregò contro il naso a rubarne tutti gli aromi, tirandoli poi con le labbra quasi a volerli strappare ed infine scese sotto di loro e con la lingua violò l’intimità di Mimì la quale reagì con un primo
“Gegè!!!”
il cui tono, tradotto da un punto di vista letterario per facilitartene la comprensione, voleva dire:
“Gegè ma che minchia fai? Stavo scherzando…. se entra la mamma e ci vede così mi muore sul colpo…”
Ma Gegè ormai era in un altro mondo fatto dei sogni che il bambino primordiale che viveva dentro di lui faceva senza freni e limiti e che ora poteva finalmente realizzare. Per cui la sua lingua esplorò tutto il sesso dell’amata per poi penetrare decisamente nella sua profondità e riemergere salendo fino al piccolo bocciolo di carne con cui finivano le labbra di Mimì e li impazzì accarezzandolo intensamente, succhiandolo ed ancora scivolandogli sopra velocemente, ripetutamente, intensamente. Infine, non pago, mandò in esplorazione le sue lunghe dita ad accarezzare la parte interna di dove la lingua si era concentrata. Il volto di Mimì passò ad essere dal sorpreso al curioso, infine coinvolto, tanto che gli occhi le si chiusero e le orecchie le diventarono di un rosso intenso anche loro travolte dal desiderio con cui Gegè aveva contagiato tutto il corpo di lei. Le mani di Mimì scivolarono sul suo corpo e arrivate alle minne le strinsero intensamente, come avrebbe fatto lui, per poi concentrarsi sui capezzolini tirandoli, come avrebbe fatto lui, quindi ridiscesero sul suo corpo e arrivate alla testa di Gegè l’afferrarono e la spinsero contro il corpo di lei che ora si muoveva avanti e indietro con un moto ad arco sempre più stretto, sempre più concentrato. A questo punto dalla bocca di Mimì uscì come un sospiro un secondo
“Gegè”
Sempre per motivi letterari, ti devo tradurre questo sospiro con un
“Gegè amore mio, non ti fermare, continua così…. così….”
Gegè ormai lasciava fare tutto a Mimì che aprì gli occhi e cercò li sotto quelli di lui e vide che osservavano il suo volto mostrare il piacere che provava e incontrando gli occhi di lui, li fissò come a volergli dire tutte quelle cose che mettono nelle canzoni e nelle poesie mentre la sua bocca la stava amando. Gli occhi di lui l’osservavano, la divoravano, la pretendevano, scambiavano con i suoi, parole che non si sarebbero detti mai più, sentimenti la cui forza comprendevano solo adesso, intimità che li avrebbero legati forse per sempre. Ormai i movimenti del bacino di Mimì erano sempre più piccoli, come se in pochi millimetri di pelle, vi fosse concentrata tutta sé stessa, finché d’improvviso lei non strinse gli occhi ed il suo corpo tremò, un terremoto interno che fece vibrare le cosce ed oscillare le minnone mentre il suo io cosciente si spegneva e dopo un tempo che neanche lei percepì si riaccese lasciandola senza forze. Fu quello il momento del suo terzo
“Gegè”
detto senza voce e come se la sua anima si perdesse in un nulla di piacere e di silenzio interiore. Scivolò accanto a lui stringendolo e appoggiando la testa sul suo petto. Restò qualche secondo immobile, quasi a recuperare tutti i pezzi dell’anima che erano andati a finire chissà dove e quindi alzò la testa ad osservarlo. Con la mano gli pulì la bocca umida dei suoi umori e poi si avvicinò e lo baciò, intensamente, cercando con la sua lingua il suo gusto su quella di lui, quasi a ringraziarlo, a diventare una unica entità nei piaceri diversi che avevano avuto, nel confermare il loro amore con un bacio igienicamente questionabile, ma intimamente assoluto.
Si accasciò sul suo petto e chiuse gli occhi senza più muoversi. Gegè pensò che sarebbe stato li un minuto e poi si sarebbe spostato da quella scomoda posizione, invece si riaddormentò quasi subito con il tarlo del senso dentro di lui che si era zittito.
Li sveglio la suocera dopo poco, con la scusa che era una bella giornata e che potevano passarla fuori. In realtà voleva andarsene alla messa serale e le seccava lasciarli a casa a scafuliare (rovistare) tra le sue cose.
Uscirono ancora un po' storditi e mano nella mano se ne andarono per il viale. Arrivati ad una gelateria Gegè si fermò e disse che aveva bisogno di mangiare un po' di gelato che aveva la lingua che gli bruciava. Si prese una brioscia piena di gelato e con la lingua leccò tutto il bordo da cui uscivano i vari gusti trovando un po' di sollievo che il suo volto fece subito vedere.
Mimì sorrise e lui le offrì la brioscia perché anche lei ne prendesse un morso. Mimì invece prese la brioscia e come aveva fatto lui ne percorse la circonferenza con la lingua, lasciando un lungo solco e riempiendosi la lingua di crema. Restò un secondo con la lingua piena di gelato a guardarlo e quindi la inghiotti.
Gegè la guardò affascinato e di nuovo, dentro la sua testa, sentì il tarlo incominciare
“Crr Crrr Crr”
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sciatu · 3 years
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Focaccia messinese: alla norma, capricciosa, con funghi tradizionale con patate e pancetta, con cipolla
Mimì e Gegè e la focaccia alle cipolle
“Gegè devi dormire!!” Si disse per l’ennesima volta girandosi nel letto che a forza del suo inquieto muoversi prima da un lato poi dall’altro era uno sfacelo con coperte e lenzuola ormai per conto loro. Il fatto era che aveva litigato con Mimì e quando questo accadeva, gli veniva una raggia (rabbia) che per un giorno aveva nu scattu di nebbi che avrebbe preso il mondo e lo avrebbe buttato all’aria. Con la mente ritornò all’inizio della tragedia, quando erano entrati nella rosticceria del loro amico Geraldo. Una volta arrivati la moglie di Geraldo non era alla cassa per accompagnarli al tavolo come amichevolmente faceva di solito. Seduta alla cassa c’era la suocera di Aldo, una signora ancora con l’aria giovanile, con un enorme decolté dove un delfino tatuato nel seno sinistro saltava in una minna enorme che, con la gemella, si allargavano abbronzate, profumate e vogliose per la gioia degli occhi dei clienti del locale. La signora, con la sua chioma ossigenata, era tutta cunsata (vestita elegante), con un vestito turchese ed era avvolta in una nube di Paciulli tanto forte che stordiva.  Per completare il quadro aveva gli occhi pittati (colorati) con un ombretto dello stesso colore turchese del vestito, cosa che a Gegè ricordò subito il trucco delle donnine nude che da sole o a coppie si offrivano sulle copertine dei film porno danesi degli anni settanta. La signora si alzò e li accompagnò al tavolo ancheggiando con il culo enorme quanto il seno e ormai informe ma proprio per questo volgarmente provocante. Mostrava inoltre, a causa della gonna che arrivava a metà coscia, due gambe scolpite dalla cellulite ma messe in bella evidenza senza vergogna alla “mangiami-mangiami” Gegè  era entrato immediatamente Nella modalità “Studdutu di sticchiu”, nel senso che si era dimenticato dove era e con chi era e seguiva quel culo come il gregge segue il culo del pastore. Arrivati al tavolo si era perso nel seguire il delfino tatuato saltargli davanti mentre la signora allisciava la tovaglia per liberarla da pieghe invisibili facendogli dondolare sotto gli occhi quel seno floscio ma abbondante, disponibile e voglioso. Infine seguì con interesse l’ammasso di gelatina del sedere allontanarsi mentre ballonzolava ad ogni passo degli zamponi depilati della signora. Tutto questo Gegè osservava senza accorgersi di come Mimi lo stesse a sua volta pietosamente guardando stupita e delusa, e, cosa peggiore, incazzatissima. Gegè si voltò nel letto perché a questo punto viene la parte peggiore della serata: arriva il cameriere! Un essere strano e lungo-lungo, che tutto gentile incominciò a chiedere a Mimì cosa volesse mangiare e lei ripeté quello che da sempre aveva preso da Geraldo: un arancino, duecento grammi di focaccia tradizionale, duecento di Norma e duecento con le patate e per finire uno sfincione di riso ricoperto di zucchero. Insomma, il minimo per sopravvivere e di ben inferiore a quello che Gegè avrebbe ordinato. Ora, quell’anima longa del cameriere incominciò a dire che la focaccia con le patate non c’era! Doveva scegliere tra quella alle cipolle o quella con i funghi. I due incominciarono a discutere su quale fosse la più buona. Ogni tanto il cameriere guardava Gegè di sfuggita, forse solo per tenerlo buono, gli faceva un sorrisino da pigghiata pu cucu (presa in giro) e tornava a parlare fitto fitto con Mimì. Poiché negli altri vediamo sempre i nostri difetti, Gegè incominciò a pensare che il cameriere dava corda a parlare a Mimì per poter vedere dall’alto la sua scollatura che era cosa che faceva resuscitare i morti. Al pensiero degli occhi lascivi di lui sulla morbida e soffice pelle di Mimì, il sangue gli incominciò a pulsare nelle tempie. Per cui incominciò a guadarlo di traverso, come pure guardava la moglie mezzo incazzato per il suo smuffuniari cu da cosa longa e ‘nutili. Si incazzò ancora di più quando il cameriere se ne andò e lei lo osservò andar via guardandogli il culo. “Chi ti vaddi?” chiese con uno scatto di nervi. Lei lo guardò stupita e seccata rispose “Picchì? Jo non pozzu vaddari?” Gegè capì dal tono e da come lei aveva pronunciato “Jo” che stava per cadere in un precipizio e, malgrado ne avesse coscienza, sentandosi nel giusto come tutti i ladri che hanno appena rubato, ci si buttò senza esitare. “Ma comi? Se sei cu mia ti metti a vaddari l’autri?” “Ma tu lo sai chi è quello?” “Chi minni futti cu jè e cu nun è: se ci sono io, a me devi guardare” “Ma se tu hai lasciato una scia di bava dietro il culo della suocera di Aldo ora mi vieni a fare la predica” “Non cambiare discorso…” “E poi quello lo sai chi è ? - Gegè stava per rispondere ma ormai Mimì era scatenata - Quello è Tonino u Sciantusu, u zitu di Cammelu “gnagnà”” La visione di Cammelu detto Gnagnà per evidenziare le sue movenze molli e la sua parlata strascicata e femminina (che accentuava quando a Carnevale si vestiva da damina veneziana del ‘600), gli apparve di fronte con effetti devastanti “Il fidanzato di Cammelu…?” “Si u zitu u zitu! Jo non m’aviria a preoccupari picchi a vecchia ci vaddi u culu e non ti accorgi che u Sciantusu buttava l’occhio tra le tue gambe a prendere le misure: non hai visto come si nagava (ancheggiava) per richiamare la tua attenzione? “ “A me attenzione? Ma chi minni futti ammia du Sciantusu” “E da soggira di Aldo tinni futti o no?” “Ma figurati si pensu a da vecchia….” “Eh si intantu i minni ci vaddavi a di sacchi i  bettula vacanti chi ti pinnuliavanu davanti (sacche  flosce, di bettola che ti pendevano davanti)” E per sottolineare il concetto fece dondolare mollemente davanti a lui la mano chiusa punta “Ma chi dici….” Ma ormai l’ira di Mimì era un crescendo inarrestabile di critiche e lamentele. Alla fine , mangiato l’arancino, lui chiese di mettere tutto in una scatola portavivande e di andarsene a casa a finire il pranzo. Fu peggio. Se da Geraldo lei si lamentava di lui sottovoce, in macchina gridava e a casa urlava. Alla fine disgustata, dopo aver sbattuto tutte le porte di casa, Mimì se ne andò a letto dove, dopo qualche ora, con la speranza che lei dormisse, andò anche lui, senza però riuscire a prendere sonno. Raccontato il triste antefatto torniamo in tempo reale con Gegè che si gira e rigira nel letto passando dal sonno alla veglia con randomica continuità. Stava sognando che era su una spiaggia colore della pelle delle minne monchie (molli) della vecchia suocera, con le onde del mare colore del vestito da vecchia jarrusa (buttana). Le onde andavano e venivano con lui che pancia all’aria cercava di sciogliere il proprio io nel mare e finalmente dormire. Invece si svegliò nuovamente. Mimì girandosi nel letto nervosamente lo aveva richiamato alla realtà. Si girò verso di lei per addormentarsi e nel buio vide che era sveglia e che lo guardava con due occhi che sembravano due stelle gemelle nella notte. Gegè penso che l’amore è solo una minchia di parola che ti rovina la vita, ma lei ci credeva, e questa sua fede, rendeva questa parola reale, vera! Lui non poteva passarci sopra e lasciare che la sua ciolla si godesse Mimì mentre gli donava il bene più grande che sentiva, per poi pensare di fottersi la prima vecchia monchia che incontrava. In amore bisogna pensare per due, trovare un punto di equilibrio e viverlo insieme. Se uno pensa solo per se, l’amore diventa una prigione da cui si vuole solo scappare. Lei lo amava forse di più di quanto lui l’amava, la prova era nel suo non riuscire a dormire, sconvolta come lui dal litigio avuto, mentre lui voleva solo dormire  per dimenticare tutto e nascondere il problema. Non poteva far finta che non era successo niente e lasciarle sprecare il suo amore. Quell’amore apparteneva anche a lui e lui doveva santificarlo come se fosse il bene più prezioso che, chi lo amava, gli affidava. Un figlio invisibile di cui lui doveva prendersi cura. Tutto questo pensò stupendosi lui stesso della lucidità e profondità che aveva avuto. Capì anche che in fondo erano questi pensieri  (che la parte più profonda del suo io distillava dentro di lui) che non lo facevano dormire frustandolo con sensi di colpa e impietose considerazioni di se stesso. Si avvicinò e mise le sue gambe tra quelle di lei che subito vi si attorcigliarono intrappolandole. Avvicinò lentamente le sue labbra a quelle di lei e la baciò “Scusami – sussurrò con un filo di voce – mi sono comportato da scemo” E la baciò ancora Sentì le sue labbra cedere mollemente come la prima volta che l’aveva baciata “Si cretinu – fece lei impietosamente - chi vaddi i vecchi e laidi quannu ci sugnu jo…..?” “È chi nui masculi ragiunamu ca minchia….” Sentì la mano di lei scendere lungo il suo corpo ed afferrare il sopradetto centro del ragionamento dei maschi “Jo ta tagghiu sta cosa sa mustri (se la mostri) a n’otra” “Farivi nu tortu sulu a tia stissa” Rispose lui pronto e prima che lei potesse rispondere le mise tutta la lingua in bocca, a sfidare la sua perché lei a stringere u micciu (lo stoppino) l’aveva fatto crescere a dismisura “Faresti solo un torto a te stessa – ripetè sorridendo -  u sai chi jè sulu toi.” Mimì sorrise e nel buio il suo sorriso apparve a Gegè la luce di una stella cadente “Videmu” e prese tra sue labbra il labbro superiore di lui succhiandolo e mordendolo e mentre lui apriva la bocca per rispondere al suo attacco, la lingua di lei ne approfittò per entrare e scendergli fino quasi in gola. Lui lasciò fare mentre la sua mano scivolava sul seno si lei e lentamente scendeva verso il cespuglio che lei aveva tra le gambe ad abbellire u pacchiu. Ma non arrivò fino a li in fondo, si mise a stringere e tirare forte i peletti , come a sfidarla. Lei accettò la sfida e mentre la sua mano destra stringeva il micciu di lui e con il pollice ne sfregava la punta per farlo crescere da XL a XXXL, con la mano manca, la mano del diavolo o del cuore, gli stringeva e rilasciava le sfericità terminali, quasi a gonfiare l’asta di cui l’altra mano violentava la parte più sensibile della punta. Il risultato fu che  lui senti defluire verso quel pezzo di carne periferico, tutto il sangue del suo corpo. Lei rimase soddisfatta e forse ingolosita dalle dimensioni e dalla durezza, o forse voleva sottolinearne la sua proprietà assoluta e quindi ne prese possesso rovesciando lui sulla schiena e salendogli sopra e facendo scomparire l’obelisco dentro il suo ventre. Incominciò a muovendosi avanti ed indietro, come una valchiria sulla sua cavalcatura celeste, schiacciando il corpo di Gegè contro il materasso con le braccia tese  appoggiate al suo petto, mentre le minne le dondolavano seguendo il suo divorare e rilasciare e nel far così, sbattevano contro la sua camicia da notte, gonfiandola e sgonfiandola nella penombra della stanza. Lui afferrò le minnone e le strinse come se fossero palloncini di plastica da far scoppiare. Mimì aumentò il ritmo alzando la testa e chiudendo gli occhi come se dentro di lei stesse crescendo qualcosa che non voleva fermare. Lui lascio la minna e fece scendere lentamente la sua mano destra sulla schiena di lei sfiorandola appena e facendole venire la pelle d’oca. Ora, tanto per non limitare il racconto ad una minimale storia pseudo erotica, devo dirti che Gegè amava immensamente la schiena di Mimì.  Di nascosto l’aveva fotografata con il telefonino dopo che lei si era fatta la doccia e si stava asciugando i capelli. Al lavoro osservava sempre quella foto con la schiena tutta nuda e le mani di Mimì tra i suoi capelli a farla risaltare nella sua sinuosa seduzione. Ogni giorno ne studiava ogni dettaglio, ingrandendola per poterne vedere ogni neo, ogni più piccola parte che sognava di poter baciare, accarezzare e leccare. I primi tempi che osservava il telefonino si era sentito un maniaco e preso da uno stupido sussulto di perbenismo, pensò di cancellare la foto, ma non vi riuscì. Quella era la sua Mimì, quella che viveva dentro i suoi desideri, non poteva vergognarsi di lei, di come le veniva la pelle d’oca quando la sfiorava scivolando con le dita dalla spalla fino a dove la schiena da piatta diventava tonda. Gegè pensò a lungo a questo suo pensiero dominante in cui la schiena di Mimì era la sua porta del piacere. Si disse infine che ormai, quando facevano l’amore, erano come due ballerini di tango che sanno a memoria i gesti e le mosse l’uno dell’altra. Così lui sapeva come portarla avanti ed indietro nella loro danza sensuale e lei lo seguiva lasciando fare, sapendo dove lui voleva arrivare e pretendendo che lui capisse cosa lei volesse senza doverglielo dire. Lo scopo della loro danza non era il godimento finale, intenso e provvisorio, ma il viversi continuamente e per sempre. I loro corpi erano solo un mezzo per poter vivere e dare sfogo a quello che dentro di loro sentivano. Come amanti, esistevano grazie all’abbraccio dei loro corpi a prova di quello delle loro anime. Era questo quello che la foto gli aveva fatto capire e per questo conservava nel telefonino la sinuosa e pallida schiena di Mimì, perché quella era l’essenza  ed il motivo di baci delicati di morsi e leccate che ognuno di loro due apprezzava dentro di se nel suo modo, ma insieme all’altro. Nel desiderare e immaginare, lui capiva e sentiva il suo amore per lei e in questo non c’era nulla di sbagliato perché alla fine tutto quello che facevano, senza limiti e per come desideravano e sognavano, non era altro che il modo di concretizzare e vivere il loro amore. Per questo la mano destra di Ģegè incominciò a scendere fino al tondo sedere e provando il piacere di immaginare di farlo con la sua lingua, come già aveva fatto e come presto avrebbe rifatto, perché Mimì sapeva rendere reali tutte le fantasie che gli nascevano dentro. Questo per lui era amarsi: godere l’uno dell’altro. Arrivato in fondo, alzò la mano e diede uno schiaffone rumoroso a quella golosa sofficità dicendole, quello che sentiva dire in simile circostanze nei tanti film porno che aveva visto e da cui aveva imparato quell’alfabeto del sesso che Mimì aveva trasformato in poesia. Così con enfasi le disse “Moviti Troia” Era il suo sogno mutuato da altre perversioni, ma non era quel tipo di gratificante degradazione che Mimì poteva condividere in quel momento, visto che lui la stava paragonando alla vecchia sucaminchie della suocera di Aldo. Mimì sembrò svegliarsi dalla salita verso l’estasi che aveva intrapreso e Gegè vide le sue minnone scendere minacciose verso di lui e la piccola mano di Mimì afferrargli i capeli e, stringendoli, piegare la sua testa a novanta gradi, quasi a staccargliela. In quella posizione scomoda vide brillare gli occhi tondi della sua caramellosa Dea-bambina e la sua piccola dolce bocca aprirsi per sillabare con veemenza “Strunzu!” Gli occhi di fuoco di Mimì lo incenerirono e poi le labbra di lei prossime a quelle di lui, lo baciarono o forse lo morsero perché nel viscidume delle lingue che lottavano per dare od avere ancor più piacere, lui sentì anche sapore di sangue. Il bacio di Mimì fu come buttare benzina su un pagliaio che già bruciava, tanto che lui incominciò a stringerla schiacciandola su quell’enorme vulcano di fuoco che lei stessa, per la sua volontà e piacere aveva creato e che ora lui le donava senza alcun risparmio. Mimì staccò le sue labbra da quelle di lui ed i suoi immensi occhi tornarono a guardarlo quasi a vederlo per la prima volta mentre la bocca restava aperta a mostrare il piacere per l’intensità con cui il suo corpo era unito a quello di lui e di come quello di lui la stesse intensamente e profondamente esplorando “Si strunzu …..” Ripetè in un sospiro addolcito dal mieloso fuoco che la divorava e tornò a baciarlo, delicatamente, pudicamente quasi fosse un bambino a cui bisognava perdonare una monelleria. Lui ne approfittò e intreccio le sue mani dietro i fianchi di lei spingendola ritmicamente avanti e indietro  contro la sua boscaglia di peli, con il suo ciollone-batacchio che suonava a festa nella campana di lei. Mimì si eresse su di lui illuminata nel buio della stanza, dalle righe di luce dei lampioni che filtravano dalle persiane. Lanciò un grido silenzioso per far uscite i raggi del sole che stava splendendo dentro di lei. Gegè la trovo bellissima e con la mano entrò tra le loro due pelurie anch’esse mischiate, bagnate e aggrovigliate, andando a cercate l’inizio delle sue labbra e il punto dove incominciava il suo  piacere. Raggiuntolo, incominciò a giocarci accarezzandolo velocemente e poi agganciandolo con un dito, lo tirò quasi a strapparglielo. Mimì si curvò su di lui con la bocca spalancata a far uscire il troppo piacere che era esploso dentro di lei. Alla fine cadde su Gegè travolta dall’intensità di quanto provava, con il respiro e il cuore che correvano per dare aria all’anima travolta del Big Ben di luce che aveva creato dentro di lei un universo di beatitudine. Gegè la strinse a se, quasi provando nel vibrare delle sue cosce, nel fuoco che era avvampato tra di esse e nel loro liquido scomporsi, lo stesso suo piacere. La danza che li aveva uniti e portati in una dimensione fatta solo dei loro corpi e delle sensazioni che provavano era improvvisamente finita. La realtà era tornata nelle righe di luce sul soffitto, nel suono di una sirena che si allontanava, nello scroscio d’acqua di qualche bagno nel condomino. Lei aprì gli occhi dopo  non si sa quanto tempo e guardandolo gli disse “Vieni” Volendolo su di se per donargli quanto lei aveva già provato “No si stanca …. Domani” Disse Gegè sentendo il suo respiro affannoso e vedendola stravolta dalla fatica e dal piacere. Lei si accuccio tra le sue braccia e lui tirò la coperta a coprirli fino alle orecchie. Bastò meno di un minuto perché Mimì sembrò addormentarsi mentre Gegè restò ad osservarla stupito di quello che avevano fatto non per la solita abitudine e senza averlo programmato, quasi per semplice istinto, per riconfermarsi che quanto era successo non aveva nessuna importanza. Poi lentamente scivolò finalmente sulla soglia del sonno e stava felicemente attraversandola quando Mimì con gli occhi chiusi disse qualcosa in un sospiro, “Ti lassai a fucaccia ca cipudda. Dumani mancittilla (mangiatela)” Allora Gegè al pensare che domani alzandosi avrebbe fatto colazione con la focaccia calda con le cipolle dolci, fu intensamente felice che Mimì esistesse e che l’amasse quanto lui non riusciva neanche a immaginare. La strinse forte e abbracciato a lei scivolò lentamente nel desiderato sonno pensando che questo per lui era l’amore: sacrificarsi per chi si ama.
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sciatu · 3 years
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DOLCI SICILIANI ALLA CREMA - Viennesi, Iris, Genovesi, Cartocci fritti, sigarette
Mimì e Gegè - La tenerezza
Ormai da mesi a Gegè capitava di svegliarsi di notte sempre alla stessa ora e di non riuscire a dormire fino a che non arrivava l’alba quando poi improvvisamente cadeva in un sonno senza sogni. I primi tempi si preoccupava e si incazzava pure, ma ad un certo punto non vi fece più caso, anzi.
Questo cambiamento avvenne una notte quando aveva lasciato le persiane aperte e dalla strada la luce dei lampioni filtrava in lunghe righe sul soffitto che illuminavano debolmente la stanza. Sul momento, pensò di alzarsi e chiuderle poi notò che con quella luce il corpo di Mimì appariva disteso sul letto come in un sogno, esaltando quella seta chiara che era la sua pelle e accendendo il suo desiderio. Mimì si coricava nascondendosi sotto le coperte perché aveva sempre freddo, poi di notte incominciava a scoprirsi e dalla sua posizione raccolta, si allargava su tutto il letto mettendosi quasi in diagonale con una gamba che si accomodava su di lui e il resto del corpo scomposto nel letto, a prendere più spazio possibile. Era fine aprile e faceva caldo, lei si era levata i pantaloni del pigiama così nella penombra, la sua pallida pelle aveva una sfumatura calda e si mostrava in tutta la sua vellutata bellezza. Lui era appena riemerso dai suoi sogni strani ed inquieti e appena ebbe coscienza di se, il suo sguardo notò quel pallore setaceo che era il corpo di Mimì e incominciò a scivolare sul suo corpo, lentamente, gustandone ogni piccolo tratto, fermandosi sul finire della coscia. Allungò la mano e senza toccarla per non svegliarla, la fece scivolare sul corpo addormentato, lungo le braccia e sul seno. Osservò il collo scoperto bianchissimo e delicato e la massa dei capelli ricci sparsa sul cuscino con alcune ciocche che le cadevano sugli occhi fino alla base del naso. Restò ad osservare il naso e la piccola bocca dischiusa come quelle delle bambole. Avrebbe voluto baciarla, ma restò a lungo a guardarla. Era un modo nuovo di amarla che gli faceva nascere dentro qualcosa che non provava spesso. Ecco si, era tenerezza. Era questo quello che in quel momento Mimì gli faceva provare. Era teneramente attraente, come una di quelle viennesi ripiene di crema o di ricotta dolce. Era invitante, nella sua purezza e semplicità come un Iris ripiena di deliziosa crema. In lui faceva nascere il desiderio di amarla e la voglia di restare ad osservarla, di far scorrere il suo sguardo sulla sua pelle all’infinito, accarezzandola con il desiderio che gli nasceva dentro e con l’immaginazione che aumentava a dismisura quel piacere visivo facendogli immaginare le sue labbra su quella o questa parte più delicata della pelle di Mimì o sognando la sua lingua accarezzarla di punta o di piatto dove sapeva che lei avrebbe più gradito quel suo passionale tocco. Dopo la lingua immaginava di passare su quel corpo con le labbra succhiando o mordendo con i denti, ma quasi subito lasciava perdere questi pensieri perché la tenerezza che lei gli faceva provare valeva di più che soddisfare i suoi istinti predatori. Così ascoltava il suo respiro e studiava la rotondità del suo seno e poi tornava a scivolare lungo la sua lunga gamba esplorandone i polpacci o l’attaccatura al pube perdendosi nel pizzo della mutandina o nello splendore da luna piena del suo stupendo sedere. La tenerezza che provava lo disorientava. Durante il giorno non aveva mai tempo od occasione per sentire in modo più tangibile quell’emozione che era amore purissimo, assoluto, dolcissimo, delicato, leggero come la crema dei dolci che gli venivano in mente, mentre l’osservava in quella fantasiosa penombra della stanza, nel silenzio del mondo, cullata nel sonno dai suoi desideri. Al mattino, quando passava davanti ad un bar si fermava a prendere uno di quei dolci che gustava lentamente pensando a Mimì, alla sua pelle lunare, al suo respiro ed ai capelli sparsi sul cuscino, alle labbra aperte e a quella sensazione di tenerezza che faceva nascere in lui. Per questo la notte era contento se si svegliava, anche solo per dieci minuti, per risentire ancora quella tenerezza che a vederla sdraiata in modi sempre diversi, gli addolciva l’anima facendogli comprendere quanto dentro di lui, lei fosse la dolcissima crema della vita che lo arricchiva.
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sciatu · 4 years
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Torte fatte in casa dalla Moglie, e le comari Carmelina, Elisa e Rosalba
Mimì, Gegè e la Torta
“Gegè, ma vadda chi fai! mi luddasti (hai sporcato) tutta” Gegè fermò la frusta elettrica con cui stava montando le uova per la torta che stava preparando con Mimì. Preso dai pensieri aveva piegato su un lato la frusta e questa aveva schizzato l’uovo che stava montando con lo zucchero. Guardò la vestaglietta che Mimì usava quando cucinava, tutta schizzata dall’uovo tanto che alcune grosse gocce le erano finite sul seno formando due grosse patacche. “U vidi chi facisti? Sei distratto peggiu i nu carusu” Lui osservò i suoi occhi pieni di rimprovero e il suo seno con le patacche su cui si stavano formando due rivoli che esitavano ancora a lasciarsi andare sul ripido declivio delle minne di Mimì. Lui si avvicinò e guardò le patacche poi guardò lei e poi ancora le patacche ed infine con il braccio l’attirò a se e con la lingua scese a pulire il seno di Mimì. “Ma chi fai Gegè? Vaia finiscila” Fece Mimì con una voce che doveva essere seccata, forse arrabbiata, ma che lui sentì solo come un doveroso “pro-forma” Lui inghiotti l’uovo dolcissimo e senti dentro di se che la cosa gli era piaciuta. Moltissimo. Allora scese nuovamente verso la seconda patacca e, guardando Mimì, ripeté quello che aveva fatto prima come un bambino sfriggiuso (dispettoso) che faceva quello che la Signora Maestra gli aveva detto di non fare. “Gegè chi fai: finiscila” Fece Mimì simulando di gridare sottovoce esasperata Ma lui aveva sbottonato i primi bottoni ed era andato con il dito a sentire il bottoncino della minna destra che a sentirsi solleticare, divento duro allungandosi, come stava facendo il suo salamino “Gegè...” implorò lei mentre lui piegò metà della coppa del suo reggiseno così che la minna, già di suo consistente, si eresse dritta e imperiosa come la prua di una nave che attraversa un’onda immensa. A Gegè però la minna non ricordava nessuna prua e nessuna onda. Per lui era solo piacere. Piacere di quello più puro. Così immerse il dito nell’uovo e lo spalmo sul bottoncino e poi riprese a leccarlo, a morderlo a succhiarlo come se quel bottoncino fosse la punta della lingua di Mimi. Fu allora che sentì la mano di lei, non quella delicata che friggeva le melanzane con amore e attenzione, ma quella della Mimì che aveva voglia, che era come la lava: calda, infuocata e inarrestabile. Così neanche il sottile elastico dei suoi pantaloncini riuscì a fermare il suo, di lei, desiderio, nella sua discesa a trovare ed afferrare e stringere il suo, di lui, crescente desiderio. Gegè la guardò “Dammelo…“ Disse lei con occhi da bambina golosa, ma con dentro la luce degli occhi di una tigre quando è pronta a saltare sulla preda. Incominciò a tirarlo, come se il salamino fosse cosa sua, unicamente e solamente sua, di cui solo lei poteva disporre e decidere e il resto del corpo fosse solo il suo semplice custode, una necessaria e inevitabile escrescenza. Lui la prese e sollevandola la fece sedere sul tavolo e la baciò mentre lei gli tucciuniava il salamino come se fosse un cacciavite.  Le sbottonò tutta la camicetta ed arrivato alla mutanda la sposto e nel cespuglietto di lei cercò la porta del suo piacere. La lingua di Mimì gli stava togliendo il respiro avvolgendo la sua, mentre la sua mano libera gli teneva ferma la nuca spingendo la sua bocca contro le labbra calde di lei. Finalmente lui immerse il salamino nella carne di lei, o forse era crema per come era liquida e calda ed incominciò a bussare con forza e lei lo abbracciò stringendolo a se con le braccia e con le gambe cosicché ora era tutto avvolto dal suo corpo e scompariva nella camicetta aperta e tra le minne ed i capelli di lei. Gegè pensava a tutte le altre cose che le avrebbe fatto mettendola sulla schiena o sulla pancia sul tavolo, tra i gusci d’uova rotti, la farina e l’odore di vaniglia che riempiva l’aria. Nel pensare a tutte le variazioni sul tema che aveva visto nei vari film porno e che ora voleva dilettantisticamente e approssimativamente rifare, s’impossessò con violenza dei bottoncini delle minnone e li tucciunuiò (li girò) con forza a darle piacere e dolore nello stesso momento. Lei reagì con gemito che era piacere e dolore nello stesso tempo e lui, con già mille visioni e progetti porno in testa, a sentire quel gemito, perse il controllo e si sciolse in lei gemendo anche lui. Le gambe parvero diventare acqua e lui si fermò con il cuore che batteva a toccare quello di lei distante pochi millimetri di pelle. Le mani di lei scesero lungo la sua schiena fermandosi sul suo sedere tritrigno (sodo) ed incominciarono a spingerlo lentamente verso di lei e facendolo oscillare nuovamente avanti e indietro sempre più velocemente, mentre le sue labbra scivolarono sul suo collo e la sua lingua appuntita incominciò ad esplorare il suo orecchio. Si aggrappò a lei mentre le mani di lei aumentavano il ritmo, finché anche Mimì si saziò e gemendo lo strinse ancor di più a se, come se uno dei due stesse per cadere in un precipizio senza fine e l’altro lo volesse salvare. O forse entrambi stavano precipitando in un precipizio infinito e nessuno dei due voleva fermare o rallentare quella caduta che sembrava l’ascesa al paradiso degli amanti. Gegè pensò che era contento di essere stretto a lei, sul piccolo tavolo della loro piccola cucina, nella piccola casa della loro piccola città, nella grande isola in mezzo al grande mare del piccolo pianeta sperso nell’infinito immenso universo, che era lo stesso che lui stava abbracciando stringendo lei. “Ti amo” Le disse alla fine sottovoce e d’un fiato, perché era quello il senso che provava nello stringerla così forte che quasi ad entrambi mancava il respiro. Lei non rispose. Lo stringeva e basta con la testa appoggiata tra il collo e la spalla come fanno le bambine portate in braccio e non aveva voglia di lasciarlo o di parlare rovinando quel momento.
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sciatu · 4 years
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Pesche dolci, arancini tondi, cassatelle dette Minne di Sant'Agata, nzuddi catanesi, brioscia cu tuppu, i dolcetti ossa dei morti, minni di virgini, l’interno delle minne delle vergini, ancora le pesche dolci.
Gegè e Mimì
“Gegè mi devi spiegare perché non hai voluto mangiare i nzuddi che avevamo portato alla comare? Lo sai che c’è rimasta male?” Gegè guarda la sua compagna che sta cucinando il sugo domenicale con la salsiccia, la pancetta e le polpette. Per il sugo lui sta sbucciando sul tavolo della  cucina i piselli freschi “Mimì no sacciu … erano troppo …  quadrati …” “Gesù Gegè e chi ci ntrasi?” “Non lo so Mimì, a vederli cosi mi hanno fatto ‘mpressione” “Ma Gegè quelli della comare di Catania te li sei calati tutti tutti in  mezza giornata” “E che ti devo dire Mimì quelli erano tondi” Mimì si fa una grossa risata e voltandosi si appoggia al tavolo dove è seduto il compagno e sorridendo ironicamente, con l’abbondante seno che dondola davanti a Gegè, quasi pronto a uscire dalla camicetta a fiorellini che usava per cucinare, chiese “Ma Gegè che ci trasi se sono tondi o quadrati: Sempre nzuddi sono …’ Lui guardò gli occhi tondi della moglie incastonati nel suo viso tondo, con il tondo seno che dondolava davanti a lui e sentì il suo buon e seducente odore di sugo avvolgerlo “No sacciu Mimì! io preferisco le cose tonde” Lei lo guardò e sorrise “Oh ma sei complicato! Che differenza c’è tra tondo e quadrato? Che è? che tunnu è chiù bonu?” E gli diede un bacio veloce, poi si voltò e andò a rimescolare il pentolone con il sugo Lui la guardò e vide il tondo sederotto di Mimi oscillare da destra a sinistra mentre riminava il sugo. Quasi ipnotizzato da quel morbido e invitante dondolio, vide che la vestaglietta della moglie si era infilata nel piccolo solco che divideva gli emisferi del suo sedere e tutto l’insieme gli ricordò la pesca dolce con la crema tra le due morbide calotte. Senza staccare gli occhi dal soffice, invitante, amato lato nascosto della compagna, disse con voce monotona “Mimì credimi: Se è tondo … è più buono !!”
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sciatu · 4 years
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Ristoranti Risiù di Ragusa, Bisboccia di Modica, Settiti e mancia di Milazzo, Kuttighiu di Taormina, La Tastiera di Messina, Kuttighiu di Taormina, La fenice di Ragusa, La Fenice di Ragusa, Mokara di Patti, Risiu di Ragusa
Mimì e Gegè
“Gegè ma tu mi ami?” Lui rimane colpito da questa domanda a bruciapelo, fatta poi mentre erano a letto e nel buio della stanza lui stava sprofondando nel sonno  con la stessa velocità dello zucchero che scende delicatamente nella densa schiuma di un cappuccino ben fatto. Lentamente si gira nel letto e abbraccia Mimi che gli da le spalle “Mimì è l’una di notte mi stavo addormentando e tu mi vieni a fare ste domande? Certo che ti amo! Tu sei la pasta con le vongole che mangerei ogni giorno per tutta la mia vita” “Ma  Gegè quanto mi ami?” “Mimì, tu per me sei i tagliolini con l’astice che abbiamo mangiato a Milazzo, le altre per me sono pastina in bianco senza sapore! Tu sei un piatto di gamberi crudi con la burrata di  bufala o i gamberi crudi con il frutto della passione o una grigliata di pesce e le altre per me sono solo pane duro! Tu per me  sei il gelato di mandorle ricoperto di cioccolato caldo, il cannolo servito accanto la crema di mascarpone e il gelato alle mandorle.” “Allora mi vuoi bene “ Conclude Mimì con una certa soddisfazione sfregando il suo sedere contro il salamino  di lui e stringendo tra le sue braccia il braccio con cui Gegè  circondava la sua pancia “Cettu Mimì u sai” Lei si incunea tra lui e il materasso e sembra addormentarsi nel tepore che i due corpi si scambiano. “Gegè sei nu poeta, ma mi hai fatto venire fame… “ Dice ad un certo punto Mimì con la voce impastata di sonno “Facciamo due spaghetti aglio e oglio, peperoncino?” Propone speranzoso Gegè “No Amò, è meglio di no: abbiamo già una panza… dobbiamo dimagrire” Dice tristemente Mimì mentre il silenzio riempie la stanza. Gegè bacia una spalla di Mimì. “Amò domani appena mi alzo vado e ti compro un cornetto caldo alla nutella” “No Amò u cornettu no” “No voi u cornetto alla nutella? Chiede stupito Gegè colpito dalla forza di volontà della moglie nella ricerca della perdita di peso. “No Gegè, alla nutella no, u vogghiu con la crema al pistacchio” Dice Mimì con un filo di voce Gegè sorride e la stringe a se perché adesso riconosce la Mimì che ama “Si Amò … al pistacchio” E lentamente, con la guancia contro la schiena di lei, si addormenta
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