Tumgik
#Pezzi che mi portano altrove
apropositodime · 8 months
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Elisa, Carmen Consoli - L'ultimo bacio [Mediolanum Forum Assago 2023]
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Oggi sono scesa dal letto di testa.
Adda passà
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pas4-remote · 3 years
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I treni mi piacciono perché raccontano storie, le stazioni un po' meno perché raccontano addii. Questo penso prima di salire su una carrozza per Napoli. Una stazione è un insieme di momenti che se ne vanno: una signora con una valigia troppo grande per far pensare a un ritorno, una ragazzina con uno zaino e un cellulare in mano che probabilmente corre dal fidanzato, un uomo d'affari, persone che partono per non tornare e altre che invece sperano di rientrare presto, ma chi va via torna davvero tutto intero? Me lo sono sempre chiesto. Siamo tutti pronti a partire, non sapendo che lasciamo pezzi di noi ovunque andiamo. E se fosse così anche con le persone? Lasciamo pezzi di noi nelle persone che viviamo e che perdiamo, non credete? I treni vanno e vengono esattamente come le persone, e come loro lasciano una scia di ricordi e odori che ci porteranno sempre a immaginarci altrove, a fare tutt'altro. Quattro ore di viaggio e ogni cosa sarà diversa, la mia vita cambierà. Mi lascio alle spalle gli amici che non ho salutato, le donne con cui sono stato, le persone che in un modo o nell'altro mi hanno segnato. Se c'è una cosa che amo sono i dettagli, quegli attimi che contraddistinguono una persona, un momento, un oggetto, un respiro. Ho sempre odiato le cose che fuggono perché sono il primo a lasciarle andar via, ho sempre odiato gli attimi che non ho vissuto, quelli che sono stati quasi troppo veloci per percepirli. Amo le cose che si fermano per un po' e mi lasciano il tempo di respirarle, come questa sigaretta che fumo seduto su una panchina aspettando il treno. Certe attese sono riflessioni, momenti che dedichiamo a noi stessi per pensare a quello che perdiamo e a quello che invece abbiamo al nostro fianco. Salgo e cerco il mio posto, numero 23. Sistemo la valigia sulla cappelliera, mi siedo e metto le cuffie, guardo dal finestrino in attesa della partenza. Una coppia si sta salutando, lei piange mentre lui sale sul treno e si volta a ogni scalino, dal labiale credo di capire le parole di lei: «Pensami sempre», e mentre le pronuncia si porta le mani al petto. Ricordo di aver letto qualcosa su questo gesto, credo si dicesse che è istintivo soprattutto per le donne guardare la persona che amano e portarsi le mani al petto, come a dire a se stesse che è esattamente quello il punto in cui si tiene qualcuno dentro, non più in basso né più in alto. Quello è il punto preciso in cui nascondiamo le persone che ci sono care, i ricordi che ci fanno bene e quelli che ci fanno male, tratteniamo tutto dentro in egual modo, perché tutto poi ci cambia e ci rende ciò che saremo. Un signore anziano si siede qualche fila davanti a me, ha una camicia a maniche corte e osserva dei ragazzi che parlano di musica. Si asciuga il sudore con un fazzoletto di stoffa, uno di quei fazzoletti che mia nonna usava sempre. Avevano tutti un'iniziale sul bordo, le aveva ricamate lei per sé e anche per mio nonno, così se li avessero persi avrebbero potuto ritrovarli grazie all'iniziale. Un po' come facciamo noi oggi con le canzoni: ce le dedichiamo perché se dovessimo perderci, basterà ascoltarle per pensarsi. Come se questo potesse bastare. Ma le persone vanno via e a noi restano i ricordi di quello che sono state, di quello che abbiamo odiato e di quello che invece abbiamo amato di loro. Però i ricordi non fanno le persone, i ricordi sono solo ricordi, proprio come i treni sono solo treni: ci portano da qualche parte, in un posto che sappiamo a memoria o in un luogo che non conosciamo affatto. I treni ci cambiano esattamente come le persone, saliamo, scendiamo e siamo altro, siamo nuove esperienze, nuove idee, nuovi ricordi, e con le persone che amiamo, che perdiamo, che viviamo e poi lasciamo andare è uguale: quando se ne vanno, non siamo più gli stessi.
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afferrataperunpolso · 4 years
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Letto.
Il bisogno di crollare è umano;
la pioggia è essenziale.
In estate c’è spesso il sole, piove poco e alla fine vengono giù temporali che portano danni. Oggi lo porto io.
Ho avviato il rumore della pioggia sul cellulare.
In un letto si possono fare tante cose..
puoi vedere un film,
leggere un libro,
ascoltare un po’ di musica,
essere in compagnia,
puoi farci l’amore
e puoi anche romperti in mille pezzi.
Il letto ti separa da qualche centimetro
dal fondo,
cadi ma almeno sul morbido.
C’è una luce fioca, piccola,
i vestiti sul pavimento,
le ginocchia al petto,
la vocina nella tua testa che si lagna e
tu
che guardi un punto fisso;
nulla o altrove.
Ti accarezzi i gomiti con i pollici,
ti abbracci,
diventi un groviglio di lenzuola,
diventi polvere.
È bella quanto brutta la consapevolezza
di essere così fragili,
arrivare a rompersi
e poi sapere di potersi ricomporre,
raccogliersi.
Va bene la pioggia,
va bene il sabato sera da soli,
va e fa bene la solitudine;
vanno bene le guance bagnate.
Domani andrà meglio,
domani mi alzo dal letto.
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sguardimora · 5 years
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I “Passages” dalla residenza 
#Finestre #Nella dissimulazione amorosa
Interno sconosciuto.
Buio. Luce. Lo spazio è vuoto. Entra e si siedie. Fin da subito sembra si inneschi una sorte di confessione. Parole sfibrate fuoriescono dal fragile ma ben saldo corpo di quella figurina che dal fondo si staglia. Esile, coperta da un montone anni 70, come lei stessa sottolineerà più avanti, penetra lentamente in una dimensione altra. La cornice penetra sempre più fortemente dentro a un’atmosfera onirica, o meglio si inserisce in quel sottile varco che solca il confine tra il sogno e la veglia: è lì che la realtà si fa più vera del vero proprio perché così irreale. Una donna racconta il suo sogno di elaborazione di una fine. Ma non c’è niente da elaborare. La fine è già avvenuta. Lei è felice, ma deve fingere di trovarsi e di vivere l’incubo. I tic e i movimenti lenti, come assopiti ma vigili, portano in un altrove nel quale la figurina più volte sembra domandarsi, guardandosi intorno, dove si trovi. A chi posso raccontare tutto questo? A chi posso dirlo?
Buio. Lo spazio si svuota. Luce. Lei rientra di nuovo, stringe ancora nelle mani la sua sedia che posiziona di sbieco con violenza. È arrabbiata ma a tratti si volta quasi sorridendo. Poi entrano lui e l’altra. Lui è moro e vigoroso, l’altra è bionda, quasi eterea. In nero lui e lei, in rosso l’altra. Una musica francese suona gioiosa, ritmica e veloce. Si guardano e iniziano. Il silenzio non è mancanza di narrazione anzi pone accenti diversi e più forti ai ritmi e ai dialoghi gestuali che le tre figure innescano. Tra la notte e il giorno sembrano stagliarsi parole mute che rimbalzano da un corpo all’altro, abitando un gesto e poi travalicando un corpo per giungere allo sguardo dell’altra.
Qual è il vero tempo in cui si vive? È il presente? […] Il presente: adesso, oggi, domani. Il tempo che mi sta attorno […] questo tempo del quale posso con certezza dire che tu non ci sei più, né ci sarai. Oppure è il passato il vero tempo? Ondate violente di ricordi, detriti, pezzi di legno, una matassa compatta trasportata da un’acqua invisibile che viene a depositarsi attorno alle mie gambe e ferite, taglia, mutila. Cose già avvenute che continuano a ripetersi nella mia testa. Oppure è il futuro il tempo vero? […] Qual è il vero tempo? […]
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Buio. Lo spazio si svuota. Luce. La scena si ripete, ma la musica cambia. Il ritmo elettronico sembra trasfigurare le azioni pur mantenendo fede alla stessa narrazione. I gesti si fanno frammentati quasi robotici e gli sguardi, a tratti persi, urlano aiuto. L’altra, qui, è vibrante, impaurita dal nuovo orizzonte che la travolge.
Sono matassa di smarrimenti Senza disegno, sono calce viva sotto pelle di tamburo che vibra.
Buio. Lo spazio si svuota. Luce. La scena si ripete, ma la musica cambia. Il ritmo ora è lento, il suono di un pianoforte riecheggia. I movimenti si fanno lenti, quasi attutiti da una aria che sembra ora più pesante. Si precisano i gesti, si puliscono e fanno più diretti. Lui qui è più crepuscolare e si fa più tangibile e reale il conflitto che vive.
Perdo oggetti ovunque semino smarrimenti. Per non farti male.
Buio. Luce. Vuoto. È il momento dell’abito. Quell’indumento significativo del carattere e del conflitto che ogni personaggio sta vivendo si trasferisce da un attore all’altro generando un cortocircuito sentimentale tra l’attore il suo personaggio e il personaggio rappresentato dal vestito dell’altro. È un flash. È la resa visiva di un conflitto che prima, seppur già visibile, era tutto interiore, abissale al personaggio stesso.
Nel gioco scenico, che è processo creativo, si fa visibile la lenta e spesso insondabile costruzione del personaggio.
[in corsivo parole “prese a prestito” da Simona Vinci e Chandra Livia Candiani]
*nella residenza #FINESTRE 
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pangeanews · 5 years
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Pound parlava con i gatti, Hemingway scriveva dall’Hotel Riviera, Yeats sognò la sua Bisanzio: tour a Rapallo, l’Eden degli scrittori
Rapallo, ossia l’Eden sognato dagli scrittori. Verrebbe da dire così, osservando quanti Premi Nobel (assegnati o ingiustamente mancati) siano stati calamitati dal Golfo del Tigullio ai primi del Novecento. Tra questi, il primo posto spetta a Ezra Pound, che qui soggiornò in pianta stabile, dopo le delusioni di Londra e Parigi, dal 1924 fino al 1945 e che qui tornò spesso dopo il 1958, l’anno in fui liberato dalla lunga prigionia del manicomio criminale di Washington.
Massimo Bacigalupo, massimo studioso poundiano e insostituibile genius loci, ricorda che per il poeta americano il Tigullio fu una sorgente continua di ispirazione, così come i personaggi che lo animavano. Il poeta acceso dal demone della curiositas non poteva restare indifferente alle tradizioni secolari della città: «I marinai che scaricavano con grazia e agilità la sabbia dai leudi [tipo di imbarcazione a vela latina, ndr] ricordavano a Pound gli uomini d’Ulisse, “col cappello frigio”. I botti di mortaretti, le feste di luglio mai sufficientemente deprecate, non lo offendevano ma gli ricordavano le feste pagane. Un grande tema ricorrente nei Cantos è quel gesto che si ripete ogni anno il 3 luglio, la posa nell’acqua del golfo di lumini galleggianti che la tramontana sospinge al largo. Offerte a Nettuno, alla Madonna, alla dea della fertilità per cui Adone sparse il suo sangue. I lumini sono rossi. Presso gli altari, di Giovedì santo, è disposta un’erba bianca appositamente cresciuta al buio che ripete dopo millenni – suggeriscono i Cantos, nostra guida Michelin – la pratica dei “giardini di Adone”» (Introduzione a Ezra Pound – un poeta a Rapallo, a cura di Massimo Bacigalupo, San Marco dei Giustiniani, Genova 1985, p. 5).
Pound, nuovo Ulisse, poteva trasformare queste immagini di mare in vivida poesia, come accadde per esempio quando scrisse il Canto 47, redatto proprio a Rapallo nel 1937: «Le lampare vanno alla deriva nella baia / Dove il mare le artiglia. / con la bassa marea beve Nettuno / Tamuz! Tamuz!!! / la fiamma rossa muove verso il mare. / Da questa porta tu sei misurato. / Dalle lunghe hanno calato luci sul mare, / E la corrente le attira. / Ringhiano i cani di Scilla ai piedi dello scoglio, / Candidi denti rodono la roccia, / Ma nella pallida notte le lampade vanno alla deriva / TU DIONA / KAI MOIRAI ADONIN / L’onda è striata rossa da Adone, / Guizzano rossi i lucignoli nelle coppette. / Intorno all’altare spunta il grano / fioritura di seme veloce».
*
L’attività di Pound a Rapallo fu febbrile: innumerevoli articoli, il libro Jefferson e/o Mussolini, Guide to Kulchur, Carta da visita, Oro e lavoro, Confucio: studio integrale… e naturalmente la stesura dei suoi Cantos, in cui fece confluire tutto il lunghissimo apprendistato poetico precedente (le poesie romantiche della giovinezza, gli idilli delle traduzioni di Catai, le nervature incendiarie della Sestina Altaforte, che è meraviglioso ascoltare nella lettura d’Autore a colpo di clic su Youtube). Per chi non avesse confidenza con il poema poundiano, ecco l’efficace sintesi di Bacigalupo: «Pound lavorò tutta la vita a un progetto di grande poema, The Cantos, che fosse insieme la storia del mondo e di sé stesso, una nuova Odissea in quanto racconto del ritorno di un esule alla patria-terra promessa, e una nuova Divina Commedia in quanto faticosa salita dagli Inferi a un Paradiso erotico e visionario. Solo che ciò che nei modelli classici avveniva linearmente, attraverso una narrazione, in Pound, poeta di immagini e intuizioni fulminee, avviene circolarmente…» (Ezra Pound, Canti postumi, Mondadori, Milano 2002, p. VII).
La «fucina» di Pound era in via Marsala 12/5 (oggi per il turista è il 20/5). Del suo interno ha lasciato una vivacissima descrizione James Laughlin, giovane aspirante poeta che su incitamento di Pound mise in secondo piano la vocazione artistica per fondare le edizioni New Directions, gloriosa Casa dei modernisti angloamericani: «Dietro alla grande terrazza c’erano quattro o cinque piccole stanze, arredate con la semplicità cara a Pound: lui stesso aveva costruito la maggior parte dei tavoli e delle sedie con dei pezzi di legno trovati nelle botteghe locali. C’erano le belle sculture di Gaudier, piccole ma molto pure, e, fra le pitture, un notevole Max Ernst, ammirevole astrazione di due conchiglie bianche. Dei disegni di Wyndham Lewis si trovavano nel piccolo salotto di Dorothy Pound, oltre ad alcuni schizzi di lei, eseguiti con molto talento. Scaffalature fabbricate da Pound erano disposte in basso lungo i muri: c’erano dei libri, meno numerosi di quanto non ci si sarebbe attesi. Pound li selezionava sempre con cura e s’era sbarazzato di quelli che non erano degni del “canone” (l’espressione è mia). Ricordo l’ordine che regnava nel suo studio, un piccolo ufficio fra la sala d’ingresso e quella di Dorothy, che altrimenti sarebbe stato un caos. La corrispondenza in corso, che abbracciava tutto il globo, era attaccata con puntine e in cartelle a fibbie, disposte lungo il muro dietro la sua poltrona. Le matite e le forbici erano appese a spaghi che scendevano dal soffitto, perché non si perdessero fra le carte sparse sul tavolo. (A quel tempo le spese postali dovevano rappresentare la voce principale fra le sue uscite). Gran parte di questa corrispondenza era di natura pedagogica: era solito rispondere a ogni giovane scrittore e a ogni editore, fornendo agli uni le liste di lettura e critica e suggerendo agli altri linee d’azione atte a diffondere i suoi principi critici ed economici. […] L’insegnamento (gratuito) di Pound era condotto presso l’Ezruniversità senza cerimonie e sempre conversando. Cominciava a pranzo (Pound lavorava ogni mattino) e continuava spesso dopo la siesta, nel corso delle lunghe passeggiate che i Pound facevano sui dirupi in cima alle montagne dietro Rapallo, attraverso piccoli orti a terrazzamenti e uliveti. Il greco o il provenzale suonavano bene all’orecchio fra i grigi della pietra, il verde degli ulivi e il bagliore di quel mare antico, tanto blu là in fondo alla baia…» (Ezra Pound – un poeta a Rapallo, cit., p. 74).
*
Ernest Hemingway a Rapallo, negli anni Cinquanta
Rapallo era celebre per gli alberghi sul lungomare. Ed è un peccato che alcuni di questi testimoni di un’età dorata siano chiusi da anni. Sono gli stessi che videro, nei giardini prospicienti, le camminate di Hemingway e di Yeats (questi sì, Nobel riconosciuti). L’autore di Addio alle armi si fermò all’Hotel Riviera nel 1923 scrivendo il racconto Cat in the rain. Ecco l’incipit del racconto: «Cerano solo due americani alloggiati in quell’albergo. Non conoscevano nessuna delle persone che incontravano per le scale quando andavano e venivano dalla loro stanza. La loro stanza era al primo piano e dava sul mare. Dava anche sul giardino pubblico e sul monumento ai caduti. Nel giardino pubblico c’erano grandi palme e panchine verdi. Col tempo bello c’era sempre un pittore col suo cavalletto. Ai pittori piaceva come crescevano le palme, e i vivaci colori degli alberghi affacciati sul giardino pubblico e sul mare. Gli italiani venivano da lontano a vedere il monumento ai caduti, che era di bronzo e luccicava sotto la pioggia. Pioveva. La pioggia gocciolava dai palmizi. L’acqua stagnava nelle pozzanghere sulla ghiaia dei sentieri. Il mare si rompeva in una lunga riga sotto la pioggia e scivolava sul piano inclinato della spiaggia per tornare su a rompersi di nuovo in una lunga riga sotto la pioggia».
Per la cronaca, il monumento ai caduti era opera (1921) di Giacinto Pasciuti (suoi alcuni splendidi marmi al cimitero di Staglieno), e venne fuso durante la guerra a causa della penuria di materiale bellico. Durante la permanenza di Hemingway, fu presente anche il pittore Henry Strater che non si lasciò sfuggire l’occasione di ritrarre il giovane scrittore con la moglie Hadley, che, come apprendiamo in Festa mobile, aveva appena smarrito i manoscritti del marito: «I ritratti di Hem e quello di Hadley, una bellissima rossa, furono dipinti nella loro stanza in un albergo di Rapallo. Tutti i primi manoscritti di Hem erano appena stati perduti, ed egli stava componendo e rivedendo i racconti condensati in poche righe poi pubblicati col titolo In our time, che posero le fondamenta del suo stile. Per esercizio, facevamo del pugilato al pian terreno, e come pubblico c’era solo un tassista italiano che a volte era tanto interdetto dalla nostra idea di divertimento che dimenticava di indicare la fine delle riprese» (Massimo Bacigalupo, Angloliguria – Da Byron a Hemingway, Il Canneto, Genova 2017, p. 154).
*
Non lontano dagli Hotel, in Corso Colombo 36, soggiornò William Butler Yeats, chiamato a Rapallo proprio da Pound. Così lo ricorda la targa accanto al portone d’ingresso di Palazzo Cardile: «Qui visse e operò nel 1928-1930 / William Butler Yeats (1865-1939) / poeta irlandese, premio Nobel 1923 / Montagne che riparano la baia da ogni / vento fuor che quello del sud, case / riflesse in un mare quasi immobile… / un’altana a veranda che ricorda un / dipinto cinese, la linea sottile di / Rapallo, di madreperla spezzata, lungo / il bordo dell’acqua… dove troverei un / posto migliore… per trascorrervi gli / inverni che ancora mi restano?».
La targa prende spunto da un ricordo di Yeats del 1928 che continuava così: «Sulla lunga banchina lungo il mare passano contadini e operai italiani, gente che esce dalle piccole botteghe, un celebre drammaturgo tedesco, il fratello del barbiere che sembra un professore di Oxford, un capitano inglese in pensione, un principe italiano discendente di Carlo Magno e non più ricco di tutti noi, alcuni turisti in cerca di tranquillità. Non essendoci né un grande porto colmo di panfili, né una grande spiaggia dorata, né grandi sale da ballo, né un grande casinò, i ricchi portano altrove le loro dure vite» (Ieri a Rapallo, cit., p. 15).
Ed è ancora Yeats a informarci della passione di Pound per i gatti rapallesi: «Qualche volta verso le dieci lo accompagno su una strada che ha da una parte gli alberghi, dall’altra delle palme e il mare, e qui, avendo tratto di tasca ossa e pezzi di pane, incomincia a chiamare i gatti. Conosce la storia di ognuno di essi: quello pezzato sembrava uno scheletro finché non ha cominciato a cibarlo; quello grasso e grigio è il favorito d’un proprietario d’albergo, non mendica mai ai tavoli degli ospiti ed estromette dal giardino i gatti che non appartengono all’albergo; questo gatto nero e quello grigio laggiù hanno combattuto sul tetto d’un palazzo di quattro piani qualche settimana fa, sono precipitati in una girandola di unghie e pelo e ora si evitano» (Ieri a Rapallo, cit., p. 81).
Ancora due curiosità su Yeats: dopo essere stato malato e avere redatto il proprio testamento, nell’inverno del 1930 si spostò nell’incantevole posizione di Portofino Vetta, dove iniziò a sognare la sua «Bisanzio». Il suo appartamento fu quindi affittato dai genitori di Pound, Homer e Isabel.
Alessandro Rivali
*Il reportage di Alessandro Rivali, di cui si riproduce un brandello, sarà pubblicato per esteso nel numero prossimo di “Studi Cattolici”, il 700
**In copertina: Ezra Pound a Rapallo, dopo essere tornato in Italia dalla prigionia al St. Elizabeths di Washington
L'articolo Pound parlava con i gatti, Hemingway scriveva dall’Hotel Riviera, Yeats sognò la sua Bisanzio: tour a Rapallo, l’Eden degli scrittori proviene da Pangea.
from pangea.news http://bit.ly/2wHXIfG
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giancarlonicoli · 6 years
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13 ago 2018 09:33
GRASSO FOR PRESIDENT - “SE FOSSE DIPESO DA ME, ‘’LE IENE’’ LE AVREI CHIUSE ALL’INDOMANI DEL CASO STAMINA” – ‘’ANZALDI S’INDIGNA PER LA LOTTIZZAZIONE QUANDO IL PD, FINO A IERI, HA USATO LA TV PUBBLICA COME CARNE DA MACELLO, AL PARI DEGLI ALTRI - LA RAI, CON 15 RETI, È UNA MOSTRUOSITÀ. BASTEREBBERO UNA RETE GENERALISTA E UN PAIO DI RETI EDUCATIONAL. LA TV PUBBLICA, PER COM’È OGGI, NON HA PIÙ SENSO DI ESISTERE..."
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Annalisa Chirico per “Il Foglio”
Per Aldo Grasso, critico televisivo d’Italia, la prima domanda è tranchant: c’è ancora vita a viale Mazzini? “No”, la stringata risposta. Dal suo buen retiro estivo a Dogliani, nel cuore delle Langhe, Grasso guarda la tv, con un occhio alla vigna. “M’impongo la ricetta delle medicine: quel tanto che basta”. Ai piani alti della Rai prosegue il braccio di ferro per la designazione del presidente, preludio alla pioggia di nomine in epoca gialloverde. Tutti attendono di sapere chi occuperà la cabina di comando di tg e reti. Nessuno si domanda per fare cosa.  
“Lo slogan che vorrebbe i partiti fuori dalla Rai è la palla che i partiti di opposizione si passano da sempre – dichiara il professor Grasso – Michele Anzaldi s’indigna per la lottizzazione quando il Pd, fino a ieri, ha usato la tv pubblica come carne da macello, al pari degli altri. O si cambia la Rai oppure la si accetta com’è, con il suo azionista pubblico”.
Intanto i vertici editoriali vengono designati nella totale assenza di un piano editoriale.
“E’ qualcosa d’inaudito, senza precedenti in Europa. La selezione pubblica dei curricula è stata presto accantonata per scegliere come direttore generale un professionista, Fabrizio Salini, che ha sempre operato in territori distanti rispetto alla tv generalista”.
La commissione parlamentare di Vigilanza ha spedito una lettera per far sapere che, in assenza di un presidente, il cda deve limitarsi all’ordinaria amministrazione.
“E’ un organismo parasovietico, da abolire all’istante”.
Le opinioni personali di Marcello Foa su Putin e Crimea rilevano ai fini del ruolo Rai?
“Sono del tutto irrilevanti. Che importa che pensa Foa della Russia? E poi, con l’entrata in vigore della riforma voluta dal governo Renzi, consiglieri e presidente non contano”.
Fuori i partiti dalla Rai, lei diceva, è uno slogan démodé.
“Lo riformulerei così: fuori la Rai dalla Rai. La tv pubblica, con quindici reti, è una mostruosità. Basterebbero una rete generalista e un paio di reti educational. La funzione del servizio pubblico va riscritta ovunque, non solo in Italia. Se la magnifica Bbc non riesce a impedire la vittoria della Brexit, significa che anch’essa ha esaurito la propria funzione. Il servizio pubblico, per com’è oggi, non ha più senso di esistere. La Rai ha fallito in almeno due occasioni: ha optato per il digitale terrestre, vale a dire per la più obsoleta delle tecnologie moderne, in una scelta di comodo, condivisa con Mediaset, per paura della concorrenza; e poi ha mancato la sfida europea: in un’Unione spesso accusata di perseguire intenti unicamente monetari, i servizi pubblici di tutti i paesi membri dovrebbero operare sul terreno del simbolico per ispirare lo spirito di appartenenza comunitaria”.
Si ripete come un mantra che la Rai è la prima azienda culturale del paese.
“Che sia un’industria non c’è dubbio. Taglierei l’aggettivo culturale. Esclusa Rai Storia, quali sono i prodotti di pregio culturale? All’università, quando uno studente impreparato vuole darsi un tono, afferma di non perdersi una puntata di Piero Angela. L’ideatore di ‘Quark’ è il luogo comune della televisione italiana. La verità è che quest’anno la Rai ha prodotto due soli programmi culturali: il viaggio di Edoardo Camurri nella provincia italiana e l’approfondimento storiografico di Paolo Mieli. Se Fiorello approderà in autunno, il suo sarà un programma culturale”.
Al Foglio il vicepremier Matteo Salvini ha tratteggiato la Rai dei suoi desideri: o canone o pubblicità, troppi canali, una rete totalmente privata.
“Una Rai ridotta a tre reti può vivere di solo canone. Lo sostengo da almeno dieci anni, vale a dire da prima che Urbano Cairo diventasse il proprietario del Corriere della Sera”.
Proprio Cairo, patron di La7, lamenta la concorrenza sleale ad opera della Rai che si alimenta a canone e pubblicità.
“La battaglia giusta, a mio parere, è quella sul servizio pubblico. Fa più servizio pubblico Enrico Mentana o un contenitore Rai?”.
Il tetto agli stipendi, in vigore per dirigenti e giornalisti, disincentiva passaggi di peso nell’emittente pubblica.
“Un vero manager devi pagarlo per quanto vale, sennò recluti soltanto professionalità di serie b che non trovano posto altrove”.
Negli auspici di Salvini, la nuova Rai dovrebbe potenziare le testate regionali.
“Sono in fermo disaccordo. Le tv regionali sono un serbatoio per piazzare uomini, a uso e consumo dei politici locali. Se la Rai le eliminasse tutte, ne trarrebbe un guadagno straordinario. E poi che cos’è questa battaglia di retroguardia all’insegna del localismo? Grazie al satellite abbiamo allargato i nostri orizzonti, ci siamo accorti di essere un paese bello ma piccolo. Esiste un mondo lì fuori”.
Nella partita dell’informazione si preannuncia un catfight tra Mediaset e La7. Il Biscione ha promosso e arruolato pezzi da novanta, da Barbara Palombelli a Gerardo Greco passando per Nicola Porro, con una short-list di opinionisti in esclusiva.
“Sarà una sfida interessante. Rete4 deve cambiare target: perdere il pubblico di riferimento è facilissimo, conquistarlo è un’impresa titanica”.
Con una formula erudita e laconica, il presidente Fedele Confalonieri ha annunciato la svolta: “Stiamo portando i vasi a Samo”.
“Se ne sono accorti tardi. Con sei mesi di anticipo, avevo scritto che la televisione di pancia dei vari Del Debbio e Belpietro portava acqua al populismo e alla voglia di trasformare la tv in una sorta di vindice rancorosa, con il coltello tra i denti”.
L’iperpresenzialismo di Salvini e le ospitate grilline prive di contraddittorio non sono stati un’esclusiva Mediaset.
“La7 però ha avuto il coraggio di chiudere la Gabbia: il programma dei grillini prima che i grillini si dessero un programma”.
Gianluigi Paragone oggi è un senatore pentastellato mentre Dino Giarrusso, che nei panni di Iena ha montato il processo mediatico contro Fausto Brizzi, è stato candidato dal M5s senza essere eletto.
“Se fosse dipeso da me, le Iene le avrei chiuse all’indomani del caso Stamina: portano avanti l’ideologia della controinformazione”.
Lei ha scritto che nell’equivoco antropologico dell’uno vale uno i giornalisti vogliono spettacolarizzarsi e i volti dello spettacolo mirano a nobilitarsi con l’informazione.
“Tutte le figure d mediazione sono state delegittimate. L’unica moneta da spendere deve essere quella della competenza. Basta con i contenitori frivoli che vogliono darsi un tocco giornalistico e autorevole”.
Per i Mondiali di calcio Mediaset ha sbaragliato: per la prima volta in chiaro, boom di ascolti.
“La Rai ha commesso un clamoroso errore credendo che senza l’Italia in campo sarebbe mancato il pubblico. Mediaset ha schierato una squadra di giornalisti capaci dimostrando che Rai sport è un reperto archeologico”.
Con il campionato alle porte e l’ingresso di un nuovo player, Dazn, lo spettatore rischia di restare con il telecomando in mano?
“Confesso che anch’io sono spaesato, non ho ancora capito come farò a seguire le partite del Torino. Purtroppo il calcio italiano vive solo di proventi tv”.
S’intona ciclicamente l’epitaffio per talk politici e reality, poi gli uni e gli altri risorgono sotto nuove spoglie.
“Nella storia dei mass media è sbagliato profetizzare la morte di un genere. Nulla si crea e nulla si distrugge. I reality hanno vissuto una crisi di saturazione. Adesso Canale5 è diventato un canale monogenere: offre reality no-stop. Io li guardo, non ho prevenzione: quelli italiani difettano d’ironia e leggerezza. Ci vorrebbe sempre un Taricone, e una conduzione affidata a un’intellettuale, simpatica o meno, non importa. Soltanto così c’è la possibilità di sfaccettare anziché limitarsi ai soliti periferici, agli esaltati della passeggiata in via del Corso”.
Anche i talk resistono.
“A un certo punto ce n’era uno ogni sera, un po’ troppo. Il talk è un genere in sé bellissimo ma in Italia è spesso usato al ribasso: tende a rafforzare le idee di partenza, non spiazza né stupisce”.
Un tempo la Rai3 di Angelo Guglielmi testava volti e idee nuove.
“Oggi la sperimentazione è una prerogativa delle piccole case di produzione. Rai e Mediaset preferiscono andare su prodotti sicuri”.
La Rai rilancia con Portobello condotto da Antonella Clerici.
“Se ci fosse una legge per vietare simili ripescaggi, la voterei. Come per il Rischiatutto di Fabio Fazio. Tali operazioni rappresentano uno sgarbo nei confronti del conduttore originario. Un atto vieppiù grave se si considera la parabola drammatica di Enzo Tortora. Il mito di Portobello non doveva essere scalfito. Le racconto un episodio”.
La ascolto.
“Quando mi hanno chiesto di individuare i tre programmi con maggiore impatto, io ho scelto quelli non a me più graditi ma con la platea più ampia di spettatori: Lascia o raddoppia, Portobello e la prima edizione del Gf”.
Cairo sostiene che il prodotto va concepito con la testa di chi compra, non con quella dei padroni.
“Se tutte le emittenti facessero i programmi come li vuole il pubblico, avremmo un programma identico su ogni rete. In realtà, la tv funziona sulla diversità. Senza una personalità e un marchio riconoscibile, cadi nell’indistinto. Talvolta dimentichiamo che facciamo comunicazione di massa: dobbiamo parlare al maggior numero di persone, non solo a noi stessi”.
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quadernodicaccia · 7 years
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Noi siamo, e questo vi basti
Ho chiesto mi portassero all'ospedale. L'ultima notte questa maledetta tosse non mi ha dato pace, faticavo a respirare a volte. Possibile che nessuno ci possa fare nulla ? Le medicine che mi han dato non fanno effetto. No, non mi rassegno. Faccio come un bambino, sbatto i piedi, mi faccio sentire. Voglio che qualcuno mi aiuti. Se sei fortunata, ed io lo sono stata, se tuo figlio ha mal d'orecchie e piange, tu ti avvicini, gli dai la medicina che lo farà guarire, lo prendi tra le tue braccia, finchè non si addormenti, ed al risveglio sei al suo fianco, sperando che il male se ne sia andato, e se invece è ancora lì, tu ricominci da capo, con la medicina per guarire, con le carezze per consolare, con la veglia per attendere, finchè domani sia migliore. Mi hanno dato le medicine ma non guarisco. Mi hanno fatto carezze, ma non dormo più come un bambino, il mio sonno si spezza di continuo, dormo mezz'ora e mezz'ora sto sveglia. È difficile darsi pace. Non sto bene. Portatemi in ospedale.
Siamo arrivati e dopo un'attesa sempre faticosa, hanno iniziato a prendermi sangue, a controllare pressione e battito del cuore. Guardavano dentro al computer per mettere insieme tutti i pezzi. Un lungo elenco credo. Le ultime analisi andavano bene, ma io non sto bene. Cosa sta succedendo ? Nessuno che possa darmi una risposta ?
È ormai notte quando mi danno un letto in reparto. Finalmente. Saluto mio figlio che mi ha portato, che è stato qui di fianco tutto il tempo. Gli dico di andarsene a casa tranquillo, di andare dalla sua famiglia che lo aspetta. Io sono stanca e mi addormento, finalmente.
La notte è passata. Avrò dormito una o due ore in più che a casa, ma le cose non vanno. Si fa mattina, ma il tempo sembra che non passi mai. Non vengono nemmeno a visitarmi. Ho fatto colazione, ma non ho più voglia di mangiare quel che con un colpo di tosse dovrò tra un'ora rimettere. Speravo che in ospedale qualcuno avesse delle risposte. Nemmeno qui. Sarà anche infantile ma mi fa arrabbiare questo silenzio. Sono qui e nessuno mi dice niente. Ho voglia di andarmene. Non serve nulla stare qui.
Quando mio figlio arriva mi trova per le scale, vestita, non più in pigiama, con le due sporte di roba che avevo con me. « Andiamocene ! ». Lui però si rifiuta. Mi vuole convincere a restare. Io fatico a capire quel che mi dice. Sono stanca per ascoltare qualcuno che mi parla. Sono così stanca che mi arrabbio. Non controllo più quello che esce dalla mia bocca, ma lui resta fermo. Siamo come un mare in tempesta, le onde diventano grosse, il cielo scuro, la schiuma sulla cresta, il rumore del loro frangersi sulla costa, la pioggia, il vento, e poi lentamente tutto si quieta. L'aria si è fatta fresca, è perfino piacevole restare qui. Siamo di nuovo nella stanza dell'ospedale. Hai ragione è meglio restare qui qualche giorno, darsi un pò di tempo, in fondo sono gentili con me. Mi metto il pigiama, torno nel letto. Mentre mi giro vedo Enzo in fondo alla stanza. « C'è Enzo ? », gli chiedo. « No, è la signora nell'altro letto » mi risponde così ma anche lui rimane dubbioso. Gli dico di andarsene a casa, che ormai è tardi. Quando passa la tempesta tutto è più gradevole e sereno, come se tuonando avessimo rigettato da noi ogni tormento. « Ci vediamo domani ».
Resto sola questa notte, in questa stanza anonima. C'è sempre più silenzio, le luci sono basse, ma non è mai buio. Ormai l'estate è vicina, la notte tarda a venire, e qui il corridoio resta illuminato anche mentre fuori fa buio. Chiudo gli occhi, ed ancora brillano di luci che si accendono e spengono. Mi hanno detto che a casa, nel giardino, quando la notte scende è pieno di lucciole. Io non esco quando non ci si vede, non ho voglia di inciampare, di cadere, di farmi altro male, ma le lucciole sono belle, e cerco di ricordarmi le volte che restavo a guardarle al limite del bosco, su in collina, nei giorni di vacanza, quando la fabbrica chiudeva e noi con la macchina piena di ogni cosa partivamo per un paio di settimane. Si fa fatica a ricordare, a rimestare le cose del cervello come se fosse una soffitta impolverata. Riesco per qualche minuto, ma poi sono stanca, e apro gli occhi. Sono ancora in ospedale. Non c'è nessuno, nessuno parla. Mi giro per vedere se Enzo è ancora lì. Poi mi addormento. Sto facendo sempre più fatica a mandare aria nei polmoni. Porca miseria che fatica che si fa. Mi addormento e poi mi risveglio, non so più che ore sono. Ci vedo sempre meno, e c 'è sempre più luce. C'è silenzio, sempre più silenzio attorno a me.
Mi sento presa per mano. Mi sembra di volare. Laggiù si rompe qualcosa, un respiro non finito, interrotto a metà. Sono le nove e dieci di mercoledì sette giugno. Enzo mi guarda, ma non mi dice niente. Io mi guardo intorno e vedo tutto, ovunque voglia guardare posso vedere. Mi accorgo di non aver messo gli occhiali, sono ancora là sul comodino. Posso vedere lontano. Vedo i miei figli, li vedo come dall'alto di una montagna. Vedo che si parlano, ma non sento le voci. C'è silenzio. Vedo i loro figli, le loro mogli. Vedo un sacco di gente, ognuna presa dalle sue cose. Se faccio per raggiungere qualcuno, per toccare una mano, mi accorgo di non riuscire. Non posso dare ne una carezza ne un abbraccio. C'è solo Enzo, qui vicino a me. Sembra che aspetti, che sia da tempo in attesa di me. Se lo guardo negli occhi inizio a vedere tutta la mia vita svolgersi, come se stessi vedendo un film alla televisione. Vedo perfino mia madre, nella camera d'ospedale, quell'ultima notte, quando non potei essere con lei. Vedo tutti gli ospedali della mia vita, il momento del parto, la nascita di Franco prima, di Matteo dopo, ma questa volta non ho dolore. Mi vedo dall'esterno. Vedo i momenti di dolore senza più angoscia, senza sofferenza. Ed Enzo è ancora lì, e vedo tutto nei suoi occhi, gonfi di lacrime, come quando si commuoveva vedendo l'affetto che gli uomini possono avere l'uno per l'altro. Quanto mi hai fatto penare Enzo con la tua rassegnazione, quando non volevi prendere le tue medicine, ne rinunciare al tuo tozzo di pane, che dovevo tirarlo via dalla tavola se non te lo mangiavi fino all'ultima briciola. Io ero già stanca, e lo so che lo sapevi. Eravamo stanchi tutti e due. Ci arrabbiavamo perchè volevamo che tutto fosse come quando avevamo venti, trenta, quaranta, cinquanta, ed anche sessanta anni, quando potevamo fare quel che volevamo. Ti perdono. Non sei stato il principe Azzurro dei sogni della bambina che ero prima di conoscerti, ma sei stato un uomo gentile. Mi hai fatto arrabbiare, mi hai fatto sudare, ma so che mi hai amato con tutto te stesso, fin dove potevi arrivare. Ed io ti ho amato di più, ti ho dato tutta me stessa, ogni briciolo di forza che avevo in corpo, prima a te, poi ai nostri figli, e ai figli loro. Di nessun altro mi importava se non di voi. Perdonami anche tu i momenti di rabbia, le parole cattive che qualche volta sono uscite dalla mia bocca. Ci siamo diverti insieme vero ? Ci siamo accarezzati e coccolati. La vita è stata più facile viverla con te, almeno credo, anche se a volte ho pensato che forse non era vero.
Non ho ben capito cosa è successo nell'ultimo anno. Era caldo, mi hanno ricoverato in ospedale. Mi hanno fatto un piccolo intervento, dicono loro, per farmi star meglio, dicono loro. Poi in ospedale ci sono ritornata un paio di volte. Mi sentivo meglio quando ero in ospedale. Ero stanca. A casa c'eri tu e mille cose da fare. Le ha fatte Franco. Sapevo che c'era qualcuno con te. Lui, sua moglie, o i suoi figli erano sempre con te. Mi venivano a trovare. Quando tornavo a casa eri tu ad essere strano. Ti alzavi come tutte le notti, ma poi ti sei messo a cadere. Ed io chiamavo l'ambulanza, ed eri tu all'ospedale. A settembre eri in ospedale. Per la seconda o terza volta Matteo è venuto a trovarci, lui che di solito d'estate non viene mai, che non può mai venire. È venuto, ti siamo venuti a trovare, e quando è ripartito ha detto che ci saremmo visti ad ottobre per il tuo compleanno. Avevamo un appuntamento.
Dicevano che adesso avevamo bisogno di aiuto in casa. Franco aveva ripreso il lavoro, Matteo è sempre lontano. Io non ce la faccio ad aiutarti. Non posso certo prenderti in braccio. Ti mandano a casa dall'ospedale. Siamo tutti contenti. Tu sei il primo a rallegrarti di essere di nuovo a casa, anche se non ti alzi da quel letto. Io sono un po' preoccupata. « Come faremo ? ». Cerchi di tranquillizzarmi come puoi, ma nessuno dei due riesce ad essere tranquillo. Sento il tuo respiro affannato. Ti vedo spesso ad occhi chiusi, come se tu fossi altrove.
Domenica sera sei proprio stanco. Sta iniziando a fare buio, anch'io mi preparo ad andare a letto. Mi metto giù,  ma sento che il tuo respiro è diverso. C'è una battaglia in corso. Ti vengo vicino, come sono stata vicino a tua madre nella sua ultima notte. Ero in ospedale quella notte, era il mio turno di veglia, quello che non avevo potuto fare con mia madre lo facevo finalmente con la tua. Stavano succedendo le stesse identiche cose, il respiro affannato, gli occhi chiusi, nessun risposta se le parlavo, se ti parlavo. Fino all'ultimo respiro lasciato a metà, ed io a rompermi ancora una volta in un grido. Io dico no ma non serve a nulla. Poi ti guardo, come ho guardato le nostre madri, e vedo che c'è meno dolore sul tuo volto, e sento che i miei pensieri ti danno ragione, che dicono che era giusto così, che continuare sarebbe stato peggio, ma dentro di me non ci sono solo pensieri, ci sono grida, ci sono lacrime, c'è rabbia, c'è amore. Faccio fatica a capire che non devo più occuparmi di te, finchè non ti portano fuori dalla stanza, che rimane vuota senza di te.
Dopo qualche giorno mi sento più forte. Mio figlio dice che tutto le energie che dedicavo a te ora stanno tornado a rivolgersi a me, e sono capace di fare cose che fino a qualche giorno fa non ero più in grado.
Ho passato qualche mese in casa da sola. Franco, e a volte uno dei miei cari nipoti, passavano la notte con me, nella stanza di fianco. L'inverno stava arrivando. La casa era sempre più vuota. La pila di vecchi giornali lasciati sopra la sedia, la poltrona vuota, su cui mi assopivo al tuo posto. Una casa grande per noi due, enorme e sproporzionata per me. Mi dicono che non posso stare sola. Mi vogliono convincere ad andare a casa di Franco, dove c'è una stanza per me. Ne accetto le ragioni. Non posso permettermi di vivere da sola con la pensione che mi rimane. Con le ultime energie che ho in corpo inizio a fare i cartoni per l'ennesimo trasloco della mia vita.
Da sposa novella esco dalla casa paterna per quella di mio marito. Con lui e con il piccolo Franco, finalmente, entreremo in una casa tutta nostra, senza più suocera cui obbedire. Pur premurosa che sia, un'altra donna è sempre una fatica da accettare in casa propria.
Da Modena partiamo quando Franco ha già 10 anni, e atterriamo, è proprio il caso di dirlo, a Motteggiana, dalla città al paese. Arriviamo sulla riva del grande fiume Po, abiteremo anni sotto l'argine del fiume, in una casa piccola ed umida. Vicino a noi gli zii, Guido che ha le galline nell'aia, che va cercare legna al fiume, e Dea che sa sempre tutto di tutti. Facciamo presto degli amici. Anche loro hanno dei figli. E tu fai più in fretta di me a farti le amicizie. Cosa devo farci ? Devo impedirti di uscire di casa, di andare al bar ? Avete fatto il campo da calcio ed anche i bambini ci vanno a giocare. Fate tardi la sera qualche volta, ed io resto sveglia ad aspettarti finchè non rientri. Poi mi dici che siete stati a Mantova, o fino al lago di Garda per far la scorta di Bardolino, Valpolicella, e di qualche bottiglia di Amarone. Torni tutte le volte. Se te lo impedissi staresti peggio ed io ancora di più. Sopporto le tue uscite, i tuoi amici. Io rientro sempre più dentro di me, lavoro, e mi godo i miei figli. Accarezzo loro mentre tu sei fuori. Loro si addormentano, ed io ti aspetto.
A Motteggiana abbiamo perfino cambiato casa. Avevamo l'appartamento ed il laboratorio di maglieria, io a lavorare e tu a raccogliere e consegnare. Franco cresceva, andava a Mantova al liceo. Come era bravo e come eri fiero di lui. Così fiero di tuo figlio che un giorno ti ho dovuto dire che ne aspettavo un altro. Quindici anni dopo il primo, anche questa volta senza averlo premeditato. I figli non si progettano a tavolino vero ? Quando è nato ci ho quasi lasciato le penne. Adesso ho l'impressione che tu avessi l'intima certezza che non sarei stata io la prima a partire da questo mondo. Non credo abbia ricevuto una risposta galante quella tua zia che si avvicinò rendendosi disponibile per un eventuale adozione del nuovo nato. Non avevi dubbi che ne sarei uscita anch'io. Questa tua fede, questo tuo ottimismo a volte fastidioso mi fa ancora oggi impressione. Forse il tuo era solo egoismo, il tuo modo di gridare che avevi bisogno di me, di gridarlo forte perchè il cielo potesse sentirti ed accordarti clemenza. Così è stato. Anch'io sono tornata a casa col bambino, ed una volta rimessa in forze ho detto basta a quella situazione senza uscita che non ci faceva guadagnare il becco di un quattrino e, finita Franco la scuola, ce ne siamo andati laddove c'era lavoro per noi e scuole per i nostri figli.
Un trasloco di quaranta chilometri. A Carpi c'erano un fior fiore di maglierie e siamo entrambi diventati operai, portando a casa il nostro stipendio, mandando Franco all'Università e Matteo alle scuole dell'obbligo. Eravamo a due passi da Modena e potevamo con più facilità vedere fratelli, sorelle e genitori. Certo che Motteggiana ci stringeva e strappava il cuore. Gli amici che ci avevamo lasciato, un pezzo di noi difficilmente comprensibile, che quando ci ritorni sembra che mai te ne sia andato. Ci siamo stati qualche anno fa. Matteo ci ha riportati là. C'era la zia Dea con sua figlia, sua nipote, e la figlia di lei. Tre generazioni in una stanza e noi a guardare tutta la storia vissuta. Un tuffo in un mare di ricordi, anche se fuori solo il fiume Po e quella casa vecchia in cui avevamo passato i primi anni era rimasta uguale. Gli amici non c'erano già più, se non nel silenzio del cimitero in cui Matteo non ha pensato di portarci. Ad  un certo punto lui è uscito a fotografare i luoghi della sua infanzia, quattro brevi anni di qualcosa che neppure sa spiegare, l'eterna nostalgia di un'assenza, dell'appartenere ad un luogo cui non si appartiene. Non capisce nemmeno una parola di quel dialetto mantovano che io in quasi dieci anni avevo imparato a comprendere, lo stesso dialetto di tua madre, mio caro Enzo.
A Carpi abbiamo lavorato, tirando su l'ultimo dei nostri figli, pagandoci col lavoro la pensione, ma non la casa.  Una casa tutta mia mi sarebbe piaciuta davvero, lo sanno tutti. Quando Matteo è partito, anche lui come Franco, verso quella vita tutta sua che come genitore guardi volentieri, noi siamo rimasti lì a pensare. Si è presentata l'occasione. Abbiamo chiesto il parere ai nostri figli, e d'accordo loro, siamo per l'ennesima volta partiti.
Abbiamo traslocato ancora in quella Modena che ci aveva fatto conoscere e sposare. Laddove il nostro primo figlio era nato, dove tuttora abita con sua moglie ed i suoi figli. Abbiamo vissuto a Modena l'alba ed il tramonto della nostra vita, e questo in qualche modo mi consola, come l'idea di un cerchio che si chiuda, di qualcosa che non resti a metà ma che giunga a compimento. Per questa ragione mi ha fatto rabbia dover mettere la parola fine alla mia indipendenza. Chiudermi dietro e per sempre la porta di casa, laddove tu avevi lasciato a metà il tuo ultimo respiro. La ragione mi ha imposto l'ultimo dovere, l'ultimo trasloco, da casa mia a quella di mio figlio. È un rovesciamento di prospettiva difficile da accettare. Ve ne siete accorti tutti quanto è stato difficile accettarlo. Lo sapevo che andare in casa d'altri non è bene. Lo sapevo perchè avevo appena vent'anni la prima volta che lo feci. Lo sapevo perchè c'è un piacere intenso nel rientrare presso di sè la sera dopo esser stati al lavoro, o con gli amici. C'è una pace ed una serenità che non puoi avere quando sei ospite presso altri, e non importa che sia tua suocera o tuo figlio. Adesso sapete quanto sia stato difficile per me sottomettermi alla ragione, e forse iniziate a capire quante lotte ho fatto nel passato contro questa ragione per fare patti fra i miei desideri e quel che potevo strappare alla realtà. Remare contro corrente, continuare con perseveranza per ottenere almeno una piccola parte di tutto quel che avrei voluto, e se non sono riuscita ad ottenerlo per me, che almeno lo sia per voi, per Franco, per Matteo, per i loro figli.
Se mi avete vista più distesa, più leggera, meno tirata dalla sofferenza, allora avete respirato un poco del mio sollievo, mentre stavate vegliando la mia assenza nel freddo di quella stanza dove alla fine di settembre avevamo vegliato per vostro padre.
Il destino ha voluto che io ed Enzo fossimo messi nella terra l'uno accanto all'altra. Come non si progetta a tavolino la nascita di un figlio, neppure la fine di una vita può essere scritta prima del suo accadere. Siamo lì, uno accanto all'altra per voi, non per noi. Noi siamo altrove, ovunque forse, nascosti in qualche vostro gene, eredità per i vostri figli e per i vostri nipoti. Noi siamo ben al di là del vostro sforzo di ricordarci, di cercarci nelle vecchie fotografie a colori ed in bianco e nero che ci ritraggono in qualche istante della vita trascorsa. Noi siamo ben al di là dei vostri ricordi, dei racconti che vi abbiamo fatto e che cercate di ricordare in questo momento. Noi siamo al di là delle tracce che abbiamo lasciato di noi, degli oggetti che ci sopravvivono, delle lettere che ho custodito nel cassetto lungo tutto una vita. Noi siamo, e questo vi basti.
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pangeanews · 6 years
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Mia Martini, voce di Medusa: ode all’interprete che ha sofferto ogni canzone. Esegesi dei suoi pezzi migliori, “Padre davvero” e “La costruzione di un amore”
Padre davvero di Mia Martini: l’artista non può che essere l’assassino dei genitori
Padre davvero
(Antonello De Sanctis, Piero Pintucci)
Ora che sono mezza inguaiata e che ho deluso le tue speranze, vieni di corsa, mi hanno avvisata per dirmi in faccia le tue sentenze. Padre, davvero lo vuoi sapere se tu non vieni mi fai un piacere! Mi avevi dato per cominciare tanti consigli per il mio bene; quella è la porta, è ora di andare con la tua santa benedizione. Padre, davvero sarebbe bello vedere il tuo pianto di coccodrillo! E certo tuo padre ti diede di meno, solo due calci dietro la schiena e con mia madre dormivi nel fieno anche in aprile e di me era piena! Padre, davvero sarebbe grande sentire il parere della tua amante! Poi sono venuta e non mi volevi ero una bocca in più da sfamare; non sono cresciuta come speravi e come avevo il dovere di fare! Padre, davvero che cosa mi hai dato? Ma continuare è fiato sprecato che sono tua figlia, lo sanno tutti domani i giornali con la mia foto ti prenderanno in giro da matti; ah, non mi avessi mai generato! Padre, davvero ma chi ti somiglia ma sei sicuro che sia tua figlia!
I genitori sono comunque un riferimento, in negativo o in positivo. Non possono non esserlo. Se per la maggior parte delle persone rappresentano solo un motivo di oppressione e frustrazione, per l’artista non vi è niente di meglio. Un poeta, o artista che sia, cresce nella contrapposizione. Il padre e la madre costituiscono sempre la perpetuazione della società così come la si intende, come direbbe anche Aristotele. Il padre e la madre sono la conservazione, il buonsenso (“Mi avevi dato per cominciare/ tanti consigli per il mio bene”). Senza il padre che lo accusava di essere un abulico, di perdere solo tempo, Proust non avrebbe mai scritto Alla ricerca del tempo perduto. Baudelaire sa bene cosa pensi la madre di quelli come lui: “Quando, per decreto di potenze superiori,/ il Poeta appare in questo mondo di noia,/ sua madre spaventata e bestemmiando/ stringe i pugni a Dio che ne ha pietà:/ Avessi partorito un groviglio di vipere,/ piuttosto che nutrire questa derisione!/ Maledetta notte degli effimeri piaceri/ quando il mio ventre concepì questa espiazione!”. L’artista è uno sbaglio di natura, la deviazione più perversa che l’opera del concepimento possa prendere. Mia Martini lo sa, per questo dice: “Ah, non mi avessi mai generato!”. Sa anche che “non sono cresciuta come speravi/ e come avevo il dovere di fare!”. Ma questo dovere non esiste per l’artista. La sua sensibilità lo porta altrove: “s’inebria di sole quel Figlio ripudiato,/ e in tutto ciò che beve e mangia/ ritrova l’ambrosia e il nettare vermiglio./ Gioca col vento, parla con le nuvole,/ e cantando s’inebria del calvario;/ e lo Spirito, che lo segue in quel pellegrinaggio,/ piange nel vederlo gaio come uccel di bosco.”. Questa consapevolezza si riverbera nelle parole di Mia Martini animata da un misto del complesso di Elettra ed Edipo. Ma all’artista non resta che questo, deludere le speranze del padre, ucciderlo senza pietà in un successo che neppure lui sarebbe in grado di concepire.
Matteo Fais
*La canzone potete ascoltarla qui. 
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La costruzione di un amore
(Ivano Fossati)
La costruzione di un amore spezza le vene delle mani Mescola il sangue col sudore Se te ne rimane La costruzione di un amore Non ripaga dal dolore È come un altare di sabbia in riva al mare
La costruzione del mio amore Mi piace guardarla salire Come un grattacielo di cento piani O come un girasole Ed io ci metto l’esperienza Come su un albero di Natale Come un regalo ad una sposa Un qualcosa che sta lì e che non fa male
E ad ogni piano c’è un sorriso Per ogni inverno da passare Ad ogni piano un paradiso da consumare Dietro una porta un po’ d’amore Per quando non ci sarà tempo di fare l’amore Per quando farai portare via la mia sola fotografia
Ma intanto guardo questo amore Che si fa più vicino al cielo Come se dietro l’orizzonte Ci fosse ancora cielo Son io, son qui e mi meraviglia Tanto da mordermi le braccia Ma no, son proprio io lo specchio ha la mia faccia
Son io che guardo questo amore Che si fa più grande fino al cielo Come se dopo tanto amore Bastasse ancora il cielo
E tutto ciò mi meraviglia Tanto che se finisse adesso Lo so io chiederei Che mi crollasse addosso
E la fortuna di un amore Come lo so che può cambiare Dopo si dice l’ho fatto per fare Ma era per non morire
Si dice che bello tornare alla vita Che mi era sembrata finita Che bello tornare a vedere E quel che è peggio è che è tutto vero Perché
La costruzione di un amore Spezza le vene delle mani Mescola il sangue col sudore Se te ne rimane
La costruzione di un amore Non ripaga del dolore È come un altare di sabbia In riva al mare
E intanto guardo questo amore Che si fa grande fino al cielo Come se dopo tanto amore Bastasse ancora il cielo
E tutto ciò mi meraviglia Tanto che se finisse adesso Lo so io chiederei Che mi crollasse addosso, sì
La costruzione di un amore: quando soffri ogni singola parola ed è dolce ridestarsi con gli occhi graffiati
Con voce di Medusa – che pietrifica le viscere. Chi ha avuto il dono ne deve soffrire, questa è la norma bastarda. Mia Martini non era una donna – era una voce di Medusa. Avere la voce di Medusa martirizza chi ne ha il dono, terrorizza chi la ascolta. Ascoltatela pure negli episodi canonici, chessò, Gli uomini non cambiano. Non è una donna che canta, no. Senti la voce. Quel puro nastro d’argento, senza astuzia. Parole che come serpi t’intrigano le viscere, ti portano nell’intruglio dell’esistere. E resti così. Imbambolato. Ipnotizzato. Col veleno nel corpo. I rintocchi della voce intorno a Mia Martini, divinità obliqua della canzone italiana, dal chiarore inafferrabile, come cobra – nastri di voce che come cobra perforano il tempo, colpiscono, ora, con la stessa algebrica precisione. Non si sfugge al morbo di Mia Martini, l’interprete che ha vissuto così intensamente il canto da morirne. La sola. L’inesplicato enigma. Voce di Medusa in un corpo aguzzo. Era il 1992. Festival di Sanremo ancora sotto la reggenza Baudo e fiorire di femminilità varia – Milly Carlucci, Alba Parietti, Brigitte Nielsen. Il Festival che le è stato rubato perché lei, Mia Martini, era la voce divina e marziana. Invece, vinse Luca Barbarossa, con una canzona intinta nel miele, Portami a ballare. D’altronde, la voce di Medusa che dice la verità dolente dell’amare non può pietrificare il palco più politicamente corretto che c’è – che per lavarsene le mani ricoprì Mia nell’oro corrusco di tre premi ‘della critica’. La voce di Medusa di Mia Martini, però, è perfetta nella ballata amara La costruzione di un amore. Esattamente quarant’anni fa. L’album s’intitola Danza ed è il culmine della collaborazione artistica con Ivano Fossati, che firma il pezzo. Il pezzo, di per sé è una icona: l’amore non accade, si costruisce; l’amore non si tocca, è il fremito di una illusione, è grandine di vetri. L’amore, soprattutto, non basta: il cielo è insufficiente a sostenerlo, la basilica di questo amore, costruita con deliziosa cura, è tale che siamo soltanto noi a capirne l’ampiezza e la dotazione di vento. Costruire un amore è edificare castelli sulle nuvole – solo il dolore è reale, solo il sangue misura la tenerezza di questo amare. “La costruzione di un amore/ Non ripaga dal dolore/ È come un altare di sabbia”. L’amore non ha ricavo, non riscuote debiti ma ci scava, e si ama perché l’uomo non ha altro da fare per compiersi; l’amore sfianca, l’amore sfiata – la carne è una ipotesi di sabbia. E quando la costruzione dell’amore crolla nessuno viene a ricomporre i tuoi pezzi. “E mi meraviglia/ Tanto da mordermi le braccia”: che verso riuscito! La meraviglia attanaglia e intaglia, ma l’identità dell’amare è il morso, è il quadrupede dolore. Un amore simile, di radiosa radicalità, mi ricorda sempre gli amori biforcuti di Anna Achmatova: “C’è nel contatto umano un limite fatale,/ non lo varca né amore né passione,/ pur se in muto spavento si fondono le labbra/ e il cuore si lacera nell’amare”. L’insolito e l’insoluto, l’irrisolvibile di noi resta, scaglia di pietra sulla soglia del setaccio: si ama sempre soli. Se ascoltate gli svariati interpreti di questa canzone è chiaro che il rischio di sbandare nel patetico è altissimo – ma se a cantare è la voce di Medusa di Mia Martini voi soffrite, finalmente, ogni parola, ed è dolce, dopo, ridestarsi con le palpebre segnate, con gli occhi a graffio.
Davide Brullo
*La canzone potete ascoltarla qui. 
L'articolo Mia Martini, voce di Medusa: ode all’interprete che ha sofferto ogni canzone. Esegesi dei suoi pezzi migliori, “Padre davvero” e “La costruzione di un amore” proviene da Pangea.
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