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#S. Maria di Costantinopoli
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In Molise primo Santuario dedicato a vittime del lavoro
Martedì 28 luglio 2015 tre operai erano impegnati nella ristrutturazione della chiesa di S.     Maria di Costantinopoli a Pietracatella (Campobasso), lesionata dal terremoto del 31 ottobre 2002. Verso le 13, l’improvviso crollo della volta che trascinò a terra, da un’altezza di 10 metri, i tre uomini, tutti di Riccia (Campobasso). Uno morì, due rimasero feriti in gravemente. Da domani, 30 luglio,…
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mariotolvo62 · 1 year
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Filippo Vitale (Napoli, 1585 – 1650) uno degli artefici della pittura ba...
Era figlio di Marino Vitale e Laudonia Di Carlo. La data di nascita esatta non è ancora nota, ma probabilmente fu battezzato nella parrocchia napoletana di San Giorgio Maggiore. Il padre lavorava come doratore nella Strada di Monteoliveto, dove aveva la sua bottega anche il pittore Carlo Sellitto. Come Sellitto, Filippo Vitale imparò il mestiere nella bottega del pittore fiammingo Louis Croys e probabilmente conobbe anche Louis Finson e altri artisti nordeuropei. Dopo la prematura scomparsa di Carlo Sellitto, avvenuta il 2 ottobre 1614, Filippo si occupò della vendita dei suoi beni e completò la crocifissione iniziata dall'amico defunto per la chiesa di Santa Maria in Cosmedin a Portanova. Il 1 ottobre 1612 Filippo sposò in Santa Maria della Carità la vedova del pittore Tommaso De Rosa, Caterina Di Mauro, e ne adottò i cinque figli. Di questi due divennero anche pittori, Giovan Francesco, detto Pacecco De Rosa, e Diana, detta Annella De Rosa. Filippo e Caterina ebbero insieme anche sei figli; la loro terza figlia Orsola Margherita sposò nel 1639 Anello Falcone. Filippo Vitale ricevette la sua prima commissione per un quadro di San Francesco nel 1613 da Giovanni Di Napoli, abate del monastero di Santa Maria di Monteoliveto, che in seguito gli commissionò altri quadri. Oltre ai soggetti religiosi, Vitale dipinse anche ritratti. Dalla fine del 1616 alla metà del 1619 collaborò con Caracciolo e Giovan Vincenzo Forlì alla decorazione dell'Annunciazione di Capua, dipingendo i quattro dipinti del soffitto. Su commissione di Cesare Carmignano, Vitale dipinse la Madonna col Bambino ei santi Gennaro, Nicola di Bari e Severo nel 1618 per la chiesa di San Nicolò alle Sacramentine. Il quadro si trova nel Museo di Capodimonte dal 1991 ed è caratterizzato da un elegante naturalismo che è ovviamente influenzato da Jusepe de Ribera. Al committente piacque così tanto che l'anno successivo ordinò al pittore anche una Madonna di Costantinopoli, oggi purtroppo andata dispersa. Altre note opere di Vitale della sua prima fase creativa sono l'angelo custode firmato nella chiesa della Pietà dei Turchini e una liberazione di S. Pietro dalla prigione che si ispira al quadro del 1615 di Caracciolo nel Pio Monte della Misericordia. Dalla fine degli anni 1620 Vitale cambiò il suo stile fino ad allora naturalistico in una direzione più elegante, decorativa e bella, influenzata dalle innovazioni di Massimo Stanzione e dei pittori bolognesi di Napoli Domenichino e Lanfranco. Un ruolo non trascurabile lo svolse anche il figliastro Pacecco de Rosa, che divenne il successore di Vitale nella conduzione della bottega. Nelle opere di questa fase non sempre si distinguono nettamente le mani di Vitale e Pacecco. Filippo Vitale morì il 18 marzo 1650. C'è una certa confusione sul luogo della sua tomba: secondo i registri della sua parrocchia di San Giuseppe Maggiore, fu sepolto nel cimitero del monastero associato, comecome da lui desiderato; invece, secondo il registro dei morti della chiesa di San Giovanni Maggiore, sul "Monte Calvario" sarebbe stato sepolto un "Filippo Vitale, marito di Catarina".
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amicidomenicani · 1 year
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Margherita, primogenita del principe Amedeo di Savoia-Acaja e di Cateri­na di Ginevra, nacque nel castello di Pinerolo (TO), nell'anno 1382 secondo la maggioranza dei suoi biografi. Altri, invece, pongono la sua nascita nel 1390. La sua vicenda storica iniziò, quindi, poco dopo la morte di S. Caterina da Siena, in un periodo doloroso per le guerre e le lotte continue tra i Signori del tempo, a cui fu legata la sua esistenza per nascita; e per lo sconvolgimento portato nella Chiesa Cattolica dallo scisma, che la vide coinvolta moralmente per il suo desiderio intenso che tutta la cristianità ritornasse sotto l'obbedienza di un solo Pontefice e per la sua opera di Mediatrice presso Principi e Prelati. Leggendo la sua vita si resta colpiti dalla varietà delle situazioni in cui coltivò la santità, avendo sempre presente Dio come Verità, suprema da seguire e Amore infinito a cui donarsi. La sua propria volontà non appare mai; tutto converge al sacrificio nei vari passaggi della sua esistenza terrena non certo breve: come figlia, sposa, madre per figli non suoi, vedova, terziaria, Priora di Monache claustrali, Ella cercò sempre e soltanto la gloria di Dio e il bene del prossimo. Un incontro particolare segnò la sua adolescenza quando, a pochi anni di distanza, perse prima la madre poi il padre: Margherita conobbe S.Vincenzo Ferreri, il grande Predicatore spagnolo seguace di S.Domenico, e da Lui ricevette un'impronta spirituale indelebile, che le sarà guida per tutta la vita e la orienterà più tardi verso l'Ordine dei Predicatori. Morti i genitori, Margherita e la sorella Matilde, vennero affidate alla tutela dello zio Ludovico di Savoia. Egli, per evitare le conseguenze di una guerra di predominio, chiese alla nipote maggiore di accettare il matrimonio con Teodoro II°,  Marchese del Monferrato: era costui un uomo rude e militaresco, vedovo con due figli piccoli, molto più anziano di lei, anche se animato da profondi sentimenti cristiani. Margherita, che già sentiva una forte attrattiva per la solitudine e la preghiera, accettò questo sacrificio per il bene di quelle popolazioni che una guerra avrebbe decimato e impoverito e  affrontó coraggiosamente, fidando nell'aiuto di Dio, i doveri che la nuova vita le imponeva. Nei quindici anni di matrimonio si prodigò per smussare le angolosità dello scontroso marito, si dedicò interamente all'educazione dei figliastri - Giangiacomo, e Sofia - e fece tutto il bene possibile per i poveri che a lei ricorrevano. Quando Teodoro fu chiamato a Genova dagli stessi cittadini perchè li aiutasse a scacciare i Francesi che dominavano la città, Margherita lo seguì e si adoperò senza riserve durante la peste del 1411, per portare soccorso alla popolazione stremata. Ritornata in Piemonte, Ella continuò il suo ministero di carità corporale e intensificò le sue preghiere, le sue veglie, le sue penitenze per ottenere dalla Divina Misericordia la pace nella Chiesa ed ebbe la gioia di vedere risolto lo scisma con il Concilio di Costanza (1417) e di accogliere nel suo castello il Papa Martino V° che tornava a Roma attraversando il Monferrato. Nel 1418 Teodoro morì e Margherita si sentì libera di seguire le sue inclinazioni più profonde, non prima però di vedere sistemati convenientemente i figli di Teodoro: Giangiacomo successe al padre nel governo del Marchesato e Sofia sposò il primogenito dell'imperatore di Costantinopoli. Finalmente, ella potè ritirarsi ad Alba (CN) nel palazzo di proprietà dei Monferrato, seguita da un gruppo di dame della sua corte, pronte a consacrarsi come lei ad una vita di preghiera, di carità, di penitenza. Ma la separazione dal mondo non era facile da ottenersi: dopo pochi mesi di vita silenziosa e raccolta, Margherita ricevette domanda di matrimonio dal duca di Milano: Filippo Maria Visconti, spinto da ambiziosi interessi per i suoi scopi politici. La santa Vedova rimase ferma nel suo rifiuto e per evitare nuovi pericoli, incoraggiata anche dall'appariz
ione di S.Vincenzo Ferreri, che aveva da poco raggiunto la patria del Cielo, si iscrisse al Terz'Ordine di S.Domenico e ne portò pubblicamente l'abito, insieme alle pie dame che la circondavano, facendo al contempo voto di castità. Quindi nel 1441, con l’approvazione di Eugenio IV, fondò nella propria casa il monastero di Santa Maria Maddalena e con le amiche abbracciò la regola del Second’Ordine. Come vere Domenicane fondarono la loro vita nella contemplazione e nello studio della divina Dottrina, basata sulla divina Scrittura. Fra i suoi libri uno rimane come testimonio prezioso di tante ore passate nella ricerca di ciò che poteva spronarla nel cammino della perfezione: è un manoscritto conservato ora nella Biblioteca Nazionale di Torino e che l'amanuense terminò di copiare su ordine di Margherita nel 1428. Esso contiene 139 lettere di S.Caterina da Siena e un documento sulle regole da seguire per la recita del Rosario e le indulgenze ad esso annesso. L'umile Figlia di Fontebranda, a cinquant'anni dalla morte, già si rivelava una Maestra spirituale di grande attrattiva! Intanto Margherita e le sue Sorelle desiderose di unirsi sempre più a Dio, chiesero di abbracciare la vita del Secondo Ordine consacrandosi con la clausura alla vita contemplativa. Il Papa Eugenio IV° nel 1445 approvò il loro progetto ed ebbe così origine il Monastero unito alla chiesa di S.Maria Maddalena. Pronunciati i Voti solenni, cominciò per la nostra Beata un periodo ricco di misteriose e profonde operazioni della Grazia, di fatti soprannaturali come: visioni, estasi, miracoli che furono accompagnati da dolori fisici e morali persistenti.  Gesù stesso, in un'apparizione, le aveva presentato tre frecce: malattia, persecuzione, calunnia e Margherita accettandole per cooperare alla salvezza dei peccatori, capì come sarebbe trascorso l'ultimo tempo della sua vita. E restò sulle breccia fino alla fine, fino a quando la notte del 23 novembre 1464 venne lo Sposo nella piccola cella, circonfuso di vivida luce e accompagnato da celesti armonie e Margherita passò a contemplare Dio per sempre nella gloria eterna. Il suo corpo, in ottimo stato di conservazione, si venera ad Alba nella Chiesa di S.Maria Maddalena.
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Il battesimo del Centurione Cornelio, (1605), chiesa del Gesù Nuovo, Napoli, Campania, Italy (foto di Maurizio Goretti)
Belisario Corenzio (forme varianti: Bellisario; Acaia, Grecia, 1558 – Napoli, 1646?)
biografia:
-seguace di:
Jacopo Robusti secondo alcuni Jacopo Comin detto Tintoretto, Giuseppe Cesari detto il Cavalier d'Arpino, tardomanieristi fiamminghi presenti a Napoli quali Cornelis Smet, Teodoro d'Errico, Rinaldo Fiammingo, Aert Mytens.
-maestro di:
Giovanni Battista Caracciolo detto Battistello, Andrea De Lione, Onofrio De Lione, Michele Ragolia
-è stato un pittore italiano, specializzato negli affreschi.
-anche se la notizia dell'apprendistato nella bottega del Tintoretto è solo una evidente forzatura del biografo, nondimeno il De Dominici coglieva esattamente, in quella, definizione di "facilità", "dissinvoltura" e "felicità di comporre le storie copiose" alcune delle caratteristiche essenziali dello stile del Corenzio
-Il De Dominici stesso non gli lesina lodi, notando come molte sue pitture "possono stare al confronto di chi che sia valentuomo" e ammirandone la capacità compositiva delle affollate scene, in cui faceva mirabilmente "giocar l'aria da figura a figura".
-Il Celano (1692) ne apprezzava soprattutto le opere giovanili, sottintendendo che, "avido d'immortalità" come era...
-E' stato il Longhi (1957) a individuare, accanto ai tradizionali richiami al "fluido macchiettismo" del Cavalier d'Arpino e all'insegnamento tintorettesco (c'è da notare che fino alla pubblicazione, nel 1962 [Ambrasi], della già citata testimonianza del quasi novantenne Corenzio, la formazione veneziana del pittore poteva considerarsi se non probabile almeno possibile), anche una forte componente toscana; la tendenza al minuto raccontare, in chiave ormai "controriformata", del Poccetti e di Giovanni Balducci (che a Napoli operò dal 1596 al 1631), è ben presente anch'essa nelle intenzioni dell'instancabile "narratore" Corenzio: anche se il suo racconto appare più "spiritoso" e frizzante, di un brio ancora tardomanieristico, piuttosto che nel segno dell'edulcorata semplicità dell'ideologia controriformata.
-Anche nei grandi cicli conservatici del Corenzio, gli affreschi nella volta del Monte di pietà e quelli di S. Martino, il fluido e brioso snodarsi del racconto, pieno di animazione, di effetti, di contrasti luminosi (si ritrovano negli affreschi del Corenzio forse le più intense scene notturne dipinte in quegli anni a Napoli), si accompagna ad un più pacato e tranquillo indagare (e sia pure confinato piuttosto nell'ambito del particolare) nelle pieghe di un realismo quotidiano e dimesso, quasi umile. Ed è forse in questo felice congiungersi del brio, del "fuoco" manieristico con la quotidianità più minuta, col "sermo humilis" della pittura riformata, molto del fascino del Corenzio..
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Si trasferì in giovane età a Napoli. Nel 1609 i benedettini gli affidarono la decorazione delle volte della navata, del transetto e del coro della chiesa dei Santi Severino e Sossio, dove aveva dipinto anche alcune cappelle. Fra queste gli va verosimilmente ascritta - in accordo con Bernardo De Dominici e la letteratura periegetica napoletana - la decorazione della cappella Medici di Gragnano, con le Storie di san Benedetto, Mauro e Placido (ante 1593), tra fastosi motivi ornamentali a stucco. Lo schema della volta medicea - uno scompartimento mediano raccordato da quattro pannelli rettangolari ai lati - dovette senz'altro essere recepito nell'ambiente locale come maturo tassello del discorso brillantemente iniziato a Napoli vari decenni prima da Giorgio Vasari e portato avanti nella certosa di San Martino da un'intera nuova generazione di artefici provenienti dal grande crogiolo culturale della Roma di papa Sisto V.
Nel 1615 affrescò la volta lunettata dell'abside della chiesa di Santa Maria di Costantinopoli. Nel 1629 affrescò la cupola di Montecassino (persi per il bombardamento del 1944). Del pari perduti sono gli affreschi di una galleria del palazzo Capuano di Portici, distrutti a seguito dell'abbattimento della stessa, al fine di fare luogo all'attuale via Libertà.
Operò per molti anni nella chiesa di Santa Maria la Nova (ne affrescò il soffitto). Creò quattro sue tele in Santa Maria del Popolo (Natale, Epifania e Presentazione, Riposo in Egitto). Nell'interno della chiesa di Santa Patrizia ci sono dipinti di questo pittore mentre alcuni affreschi sono ancora visibili nel Castel Capuano, dove il pittore operò nel 1608, come risulta da cedole di pagamento rinvenute presso l'archivio storico del Banco di Napoli.
Nel "Tempietto" della basilica di Santa Maria a Parete, in Liveri (NA) il Corenzio dipinse due affreschi, il più grande dei quali, posto nella parte destra, raffigurante scene sulla Danza della morte, sul Giudizio, l'Inferno ed il Paradiso (1603-1604). Altre pitture sono invece a Nola, presso la Chiesa dell'Annunziata.
Morì tragicamente nel 1646 cadendo da un ponteggio nella chiesa dei Santi Severino e Sossio, dove è sepolto, mentre ritoccava gli affreschi del transetto.
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Greco di origine - era infatti nato in Acaia nel 1558 -, giunto a Napoli nel 1570 c. il Corenzio godette presso i contemporanei e gli antichi biografi di una pessima fama: la colorita biografia dedicatagli dal De Dominici (1744) non gli risparmia, infatti, nefandezze e violenze di sorta, fino al più subdolo e perfido assassinio.
Tanto accanimento nei suoi confronti trae forse origine dal gran numero - indubbiamente sconcertante delle pitture eseguite dal Corenzio.
"Son tante le opere sue scriveva il De Dominici - che non par credibile aver potuto un solo artefice tante condurne a fine, che quattro solleciti dipintori appena potrebbero tutti insieme condurle". Una tale operosità sta ad indicare che il Corenzio si era conquistato, nell'ambiente napoletano del tempo, una posizione d'indubbia egemonia; ed è del tutto probabile che tale egemonia il Corenzio difendesse talvolta con metodi spicci e poco ortodossi (come anche i documenti ci confermano), alimentando, così, la nascita della leggenda di esser stato pittore privo di qualsiasi scrupolo, quando si trattava di eliminare scomodi concorrenti. Tant'è vero che, sempre secondo il De Dominici, qualunque pittore volesse vivere tranquillo finiva per cedere volentieri al Corenzio anche le proprie commissioni "per timore... di quell'uomo maligno, da per tutto conosciuto terribile, e facinoroso".
Di certo, però, in tutta questa sequela di accuse vi è solo quanto si ricava da un memoriale-supplica inviato dai deputati della cappella di S. Gennaro nel duomo di Napoli al viceré, il 1° giugno 1630 (Faraglia, 1885, p. 461): per affrescare la cappella, deputati avevano, infatti, chiamato a Napoli G. Reni. Ma dopo che un suo servo era stato aggredito e ferito, il Reni, sdegnato e spaventato, aveva subito lasciato la città. L'aggressore, arrestato, aveva indicato come mandante il Corenzio che però fu prosciolto ben presto dall'accusa per insufficienza di prove.
I deputati si erano allora rivolti al Domenichino, e subito erano partite alla volta del pittore emiliano lettere minatorie per scoraggiarlo ad accettare l'incarico. Ma la minaccia, che i deputati dichiarano di credere "sia stradagemma di alcun pittore", questa volta non sortì ad effetto e lo Zampieri eseguì gli affreschi. Non è comunque lecito inficiare tutta l'attività del Corenzio con tali episodi. Certamente inventato dal biografo è il fosco episodio dell'avvelenamento del suo discepolo L. Rodriguez, della cui bravura il vecchio maestro sarebbe stato geloso. Come inesatto è il racconto della morte del Corenzio, salito ultraottantenne sui ponteggi, ad emendare degli errori notati da alcuni colleghi negli affreschi della chiesa di Ss. Severino e Sossio, e dal ponteggio precipitato.
Nel 1646, ad ottantotto anni, il pittore si era infatti ritirato in un paese del Frusinate, l'odierna Esperia, da dove testimonia in una delle tante liti tra i membri della Confraternita dei Ss. Pietro e Paolo dei Greci (di cui il Corenzio era stato autorevole membro e priore) e i patroni della stessa, per la nomina del parroco.
In quest'occasione il pittore dichiarava di aver "habitato continuamente in la città di Napoli per lo spazio di settantasei anni in circa" (Ambrasi, 1962, p. 386).
Secondo la testimonianza del pittore (ibid., p. 387), egli era arrivato a Napoli a circa 12 anni; ciò fa cadere la notizia del De Dominici (p. 70) di un quinquennale apprendistato del Corenzio presso il Tintoretto a Venezia. Con questa notizia il De Dominici inaugura una tradizione critica che avrà largo seguito negli studi sul Corenzio quella dell'affinità tra il maestro veneziano e il suo discepolo greco, divenuto "anch'egli pratico e risoluto nell'inventare; se bene non avesse quella parte erudita e nobile, che si vede nel Tintoretto, e massimamente nell'aria delle teste". Ma lo imitava comunque "nella facilità, dissinvoltura e felicità di comporre le storie copiose".
Anche se la notizia dell'apprendistato nella bottega del Tintoretto è solo una evidente forzatura del biografo, nondimeno il De Dominici coglieva esattamente, in quella, definizione di "facilità", "dissinvoltura" e "felicità di comporre le storie copiose" alcune delle caratteristiche essenziali dello stile del Corenzio.
Il paragone con un altro "copioso" e "felice" (ma più tardo) pittore napoletano viene subito alla mente; ed è proprio condotta sul registro del confronto con L. Giordano la più aspra stroncatura della pittura del Corenzio che sia stata fatta (De Rinaldis, 1921). Secondo il De Rinaldis quella pittura non sarebbe altro che "sbavatura tintorettesca raggiustata e ammanierata sul romanismo vignettistico e stampato dal cavalier D'Arpino". "Ricco d'improntitudine", "invadente e lesto", il Corenzio farà "dilagare i suoi colori lividi e terrosi su tutte le mura chiesastiche napoletane".
La posizione del De Rinaldis è comunque una voce abbastanza isolata nella storia critica del Corenzio. Anche i suoi più accaniti detrattori non mancarono di distinguere l'uomo dal pittore, tributandogli sempre, pur tra qualche riserva, i riconoscimenti che gli erano dovuti. C. D'Engenio Caracciolo (1623), suo contemporaneo, lo definì "illustre pittore napoletano, che di presente vive con molta sua lode". Il Celano (1692) ne apprezzava soprattutto le opere giovanili, sottintendendo che, "avido d'immortalità" come era allora, vi poneva il massimo impegno.
Il De Dominici stesso non gli lesina lodi, notando come molte sue pitture "possono stare al confronto di chi che sia valentuomo" e ammirandone la capacità compositiva delle affollate scene, in cui faceva mirabilmente "giocar l'aria da figura a figura". Anche se talvolta ne critica la mancanza di nobiltà e di decoro e la incapacità di dipingere le glorie paradisiache, nelle quali il Corenzio finiva col porre delle "nuvole così dense, che paiono quei santi essere ne le tenebre del Limbo, e non già in Paradiso, ove tutto è splendore; e questa tinta egli tenne infelicemente quasi dovunque ebbe a dipingere i santi in gloria: laonde lodansi sempre più le sue storie, ove non ha parte la gloria". Sempre a detta del De Dominici (p. 104), infine, era questa mancanza di nobile decoro nella pittura del Corenzio che aveva dettato a Massimo Stanzione la definizione di "pittore copioso ma non scelto".
In epoca moderna gli studi hanno tentato di chiarire un po' meglio (e sia pure solo per accenni fugaci e frettolosi, mancando sul Corenzio uno studio sistematico e approfondito) il problema della sua formazione artistica e delle sue successive esperienze culturali. E' stato il Longhi (1957) a individuare, accanto ai tradizionali richiami al "fluido macchiettismo" del Cavalier d'Arpino e all'insegnamento tintorettesco (c'è da notare che fino alla pubblicazione, nel 1962 [Ambrasi], della già citata testimonianza del quasi novantenne Corenzio, la formazione veneziana del pittore poteva considerarsi se non probabile almeno possibile), anche una forte componente toscana; la tendenza al minuto raccontare, in chiave ormai "controriformata", del Poccetti e di Giovanni Balducci (che a Napoli operò dal 1596 al 1631), è ben presente anch'essa nelle intenzioni dell'instancabile "narratore" Corenzio: anche se il suo racconto appare più "spiritoso" e frizzante, di un brio ancora tardomanieristico, piuttosto che nel segno dell'edulcorata semplicità dell'ideologia controriformata.
La componente toscana del Corenzio risulta confermata dallo studio dei suoi disegni, condotto negli anni '60 per merito soprattutto del Vitzthum. Più recentemente Previtali (1972, 1978) ne coglieva i rapporti con la vasta area dei tardomanieristi fiamminghi presenti a Napoli quali Cornelis Smet, Teodoro d'Errico, Rinaldo Fiammingo, Aert Mytens.
I primi documenti sulla vastissima produzione del Corenzio risalgono al 1590 (D'Addosio, 1913) quando il pittore aveva trentadue anni, e certo già una discreta attività alle spalle. Risparmiati dall'incendio che nel 1757 devastò la chiesa dell'Annunziata (dove, come dice il Celano, e ribadirà poi il De Dominici, "tutte le dipinture a fresco, così della cupola, come del coro, sono opera di Belisario Corenzio"), gli affreschi della sacrestia e della cappella del tesoro, documentati appunto al 1590, sono oggi scarsamente leggibili per i guasti e le ridipinture subite.
Non si può dire che le vicende del tempo siano state molto clementi nei riguardi dell'attività giovanile del Corenzio: gli affreschi della cappella di S. Gennaro a S. Martirio( 1591 - 1592), che il De Dominici (p. 95) giudicava di grande qualità ("non potrebbero esser migliori nel disegno, nell'azione e nel colorito, essendo dipinte con forza e con grandissimo intendimento"), quarant'anni più tardi erano già stati ricoperti da Battistello Caracciolo; i dipinti nella chiesa di S. Paolo, l'opera del Corenzio forse più lodata dagli antichi biografi ("forse la più bella che egli abbia fatto" diceva il canonico Celano), sono andati distrutti durante l'ultima guerra, come gli affreschi di Montecassino. Restano, a testimonianza dei suoi anni giovanili, e per quanto anch'essi in precarie condizioni di conservazione, le pitture, documentatissime, di S. Andrea delle Dame (Colombo, 1904, p. 109, docc. 1591-96).
Il Corenzio lavorò all'affrescatura della chiesa a più riprese, tra il 1591 e il 1596, dipingendo il soffitto (pitture oggi scomparse) e molte altre storie, ancora esistenti, sulle pareti.
Tra il 1599 e il 1600 dipingeva nell'atrio, nel cimitero delle monache, nei refettori. In queste prove giovanili il Corenzio appare ancora fortemente legato alla più elegante e atteggiata poetica tardomanierista. Ma accanto alle pose sofisticate e un po' teatrali appare un'attenzione nuova verso un raccontare più piano e disteso, rivolto a cogliere minuti particolari: il braciere, per esempio, in cui vengono arroventati i ferri del Martirio di S. Agata.
Distrutto in gran parte anche il grande ciclo dipinto in Ss. Severino e Sossio, che il Corenzio si era impegnato a dipingere "di sua propria mano assolutamente" (Faraglia, 1878, p. 244), restano, a giudicare della qualità e delle caratteristiche della sua pittura, i grandi cicli di affreschi del convento di Ss. Severino e Sossio (oggi Archivio di Stato), del Monte di pietà, della sala del capitolo a S. Martino.
Ancora negli affreschi (Episodi e Parabole del Vangelo) nella volta della sala capitolare a Ss. Severino e Sossio (il pagamento e del gennaio del 1608: D'Addosio, 1919, p. 386; il Corenzio ha quindi dipinto negli ambienti del convento prima di intervenire sulla volta e le pareti della chiesa), accanto a tratti del più tradizionale manierismo (la scena del Buon samaritano è inserita in un paesaggio alla fiamminga, ispirato alle opere giovanili di P. Brill, i cui paesaggi erano ormai imitatissimi a Roma come a Napoli), emergono elementi di un realismo semplice e affettuoso, quasi "popolare". Così, l'animata vicenda del Cristo e l'adultera è ambientata in una severa chiesa tardocinquecentesca, e sopra il paralitico calato a raggiungere Cristo si dispiega un soffitto indagato con l'affettuosa attenzione di quegli instancabili narratori di storie sacre che rappresentano, forse, l'aspetto migliore della cultura della Controriforma in pittura.
Anche negli altri grandi cicli conservatici del Corenzio, gli affreschi nella volta del Monte di pietà e quelli di S. Martino, il fluido e brioso snodarsi del racconto, pieno di animazione, di effetti, di contrasti luminosi (si ritrovano negli affreschi del Corenzio forse le più intense scene notturne dipinte in quegli anni a Napoli), si accompagna ad un più pacato e tranquillo indagare (e sia pure confinato piuttosto nell'ambito del particolare) nelle pieghe di un realismo quotidiano e dimesso, quasi umile. Ed è forse in questo felice congiungersi del brio, del "fuoco" manieristico con la quotidianità più minuta, col "sermo humilis" della pittura riformata, molto del fascino del Corenzio.
Gli affreschi del Monte di pietà sono del 1601. A S. Martino, invece, il Corenzio lavorò a più riprese, praticamente per l'intero arco della sua attività artistica, dal 1591 al 1636, anno in cui ancora riceve dei pagamenti. Giovanili (e cioè a cavallo del secolo) sono anche le pitture del soffitto di S. Maria la Nova, mentre non si hanno notizie documentarie sui residui affreschi in S. Maria di Piedigrotta o sul ciclo, a tutt'oggi conservatoci, di Ss. Marcellino e Festo, che il Sobotka (in Thieme Becker) data attorno al 1630. Documentati sono invece quelli nella chiesa della Sapienza (D'Addosio, 1911, pp. 52 s.), che per la loro data (1639-1641: il Corenzio è ormai più che ottantenne!) possono essere considerati come l'ultima opera del pittore.
Accanto alle vaste imprese chiesastiche, De Dominici ricorda vari lavori nei palazzi nobili napoletani: da quello Sansevero a quelli Carafa di Maddaloni, dei duchi di Airola, dei Caracciolo d'Avellino, fino a casa Massimo, a Barra, dove il Corenzio dipinse storie degli antichi romani. I più noti di questi affreschi, raffiguranti le gesta di esponenti di casa Sangro, andarono perduti, nel 1895, nel crollo di un'ala del palazzo Sanseverino.
Impegnato in queste vastissime decorazioni, il Corenzio tralasciò quasi completamente il campo delle pale d'altare; poche sono le pale citate dal De Dominici e poche quelle ancora esistenti; citiamo, tra tutte, l'Adorazione dei Magi ai Girolamini e le quattro tavole nell'Annunziata di Nola, dove il rapporto del Corenzio con la contemporanea pittura dei fiamminghi a Napoli appare in effetti assai stretto.
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Francavilla e il culto della Madonna della Fontana
di Mirko Belfiore
L’origine della città di Francavilla Fontana, si perde nelle pagine della storia fra mito e realtà. Alla mancanza di fonti documentarie coeve, leggenda e tradizione concorrono a colmare le croniche lacune storiografiche che ancora oggi permangono. Ciò che sopravvive senza affievolirsi, è la devozione di una popolazione che, il 14 settembre, continua a riunirsi festante sotto la statua lignea della sua Santa protettrice, la Madonna della Fontana.
Maria SS. della Fontana (Statua Lignea, XVIII secolo, Francavilla Fontana, Collegiata del SS. Rosario)
  La leggenda del cosiddetto “Rinvenimento dell’icona”, rimanda al ritrovamento fortuito, durante una battuta di caccia, di un’icona, forse bizantina del XIV secolo o molto probabilmente un affresco del XVI secolo, che riproduce una Vergine Hodighitria, ancora oggi conservata gelosamente in una cappella della Collegiata del Santissimo Rosario.
Basilica of SS. Rosario. Francavilla Fontana
  Ecco la descrizione che dell’avvenimento, secondo le parole dell’autore locale Pietro Palumbo: “Allettato dalla natura selvaggia del paesaggio, nella mattina del 14 settembre del 1310 (anche se lo stesso in una delle prime edizione menziona il 14 agosto), il principe Filippo, da Casivetere si spinse a caccia nel largo bosco che si spandeva a nord della Villa del Salvatore fin verso Grottaglie e Ceglie. Lo accompagnavano patrizi tarentini e molti signorotti dei casali vicini. Sellati i cavalli e tolto il guinzaglio ai cani l’ingordigia della preda fè diramare per ogni verso la compagnia dei cacciatori. Mastro Elia Marrese, secondo la tradizione pedone di Casavetere e secondo alcuni storici, di Taranto snidò un cervo e rallegrato dalla buona fortuna armò la balestra e seguitate le peste, lo raggiunse nel seno di una folta boscaglia. Subito scoccò il dardo. Ma in punto fu preso da un sacro terrore alla vista di un fenomeno che alla sua mente grossolana parve strano. La freccia, che aveva balestrata contro il cervo, era tornata in un lampo contro di lui con grave pericolo di vita. Che poteva essere? Immantinente si avvicinò al cespuglio, e più ancora stupito, vide che il cervo non era fuggito ma tranquillamente beveva nell’acqua di un laghetto. Meravigliato suonò il corno a richiamo degli altri cacciatori i quali in un attimo corsero sul luogo. Il Principe stesso sceso da cavallo diè ordine si tagliassero i rami della boscaglia e si facesse un po’ di largo. Allora si scopersero tra gli sterpi e i roveti le fondamenta screpolate di un’antica muraglia e su di questa dipinta a mezzo busto una Madonna col bambino tra le braccia, di proporzioni naturali e che si credè di pennello greco, e nascosta là indubbiamente ai tempi delle persecuzioni contro le immagini. A tal vista proruppero tutti in gradi di allegrezza e il principe Filippo nella piena superstiziosa gridò di essere ciò avvenuto per espresso volere di Dio il quale sarebbe servito di un cervo per condurli colà dove posava negletta l’immagine veneranda.”
Il Ritrovamento dell’icona bizantina (Domenico Carella, 1778, olio su tela, Francavilla Fontana, chiesa Matrice).
  Secondo la cronaca ufficiale quindi, il principe di Taranto Filippo I d’Angiò (1278-1332), immediatamente dopo l’eccezionale ritrovamento, diede l’ordine di edificare un tempio a memoria dell’accaduto. Egli fece incorporare nell’edificio, il muro con l’effigie della Vergine, per evitare che questa costruzione, posta a poca distanza dal casale del Salvatore, all’epoca popolato, rimanesse fuori dal centro abitato. Promettendo terreni ed esenzioni da franchigie, per alcuni anni, il Principe tentò di incoraggiare gli abitanti dei casali vicini a popolare la zona. Decretò, inoltre, che il casale mutasse il proprio nome in “Franca Villa”, e a esso fu dato per simbolo l’albero d’ulivo posto fra le lettere F e V.
Stemma cittadino di Francavilla Fontana
  Non si contano gli studi e i saggi sull’argomento: gli autori francavillesi P. Palumbo e Padre P. Coco, l’abate romano G.B. Pacichelli, l’Albanese nella sua storia del casale di Oria, il Marciano, il Tasselli che narra per l’appunto “dell’Invenzione del Ritrovamento dell’Icona” , P. Bernardino Da Lama, il Carducci, e soprattutto Domenico de Santo che insieme a P. Salinaro (entrambi frati cappuccini) fra il 1632 e il 1687, in pieno clima di riforma cattolica, confermarono e riscrissero la leggenda mariana.
Detto ciò, prima di analizzare le parole del testo, è giusto capire quanto abbia inciso nel territorio, il culto della Vergine della Fontana.
Secondo P. Primaldo Coco, fra i secoli XII e XIV, il culto della Madonna, sotto il titolo della Fontana, era ben presente in Meridione; esempi se ne trovano nella cattedrale di Brindisi dove vi era l’altare dedicato alla Madonna della Fonte e in un’importante iscrizione lapidea di epoca romana proveniente da un tempietto suburbano del brindisino dedicato al culto della Vergine, che dopo varie vicissitudini venne murato nella chiesa dei Cappuccini a Brindisi.
Non mancano importanti esempi a Roma o a Napoli, dove vicino al Castel Nuovo, residenza angioina, si trovava ubicata intorno al XIV secolo, una chiesetta dedicata a Santa Maria della Fontana. È presumibile, ma non pienamente documentabile, che il principe d’Angiò abbia denominato l’immagine sacra francavillese e il complesso religioso, con l’appellativo della Fontana, in continuità con la sua grande devozione per la Vergine Maria.
Madonna della Fontana (Icona bizantina, XIV secolo, affresco, Francavilla Fontana, Collegiata del SS. Rosario)
  Voce fuori dal coro è quella di Cesare Teofilato, insigne scrittore locale e sindaco della città durante i primi anni del XX secolo. Dalle sue opere si può desumere la sua più completa avversione, sia alla tesi sul culto della Madonna della Fontana, che definisce una denominazione forestiera, sia alla leggenda del rinvenimento dell’icona, mito popolare che secondo lui, prese piede a Francavilla solo dal XVI secolo.
Egli sottolinea quanto il culto mariano della Fontana sia addirittura estraneo alla tradizione meridionale e rimandi invece a culti tipici dell’Italia settentrionale (lombarda o milanese) e introdotto nell’area dalle dominazioni straniere, come ad esempio quella dei Borromeo o degli Spinola. Il vero appellativo, quindi, rimane una scelta autoctona, da rimettere a una spontanea dedica popolare del tempio cristiano, al culto della Vergine Maria.
La chiesa, inoltre, venne eretta con rito greco, ormai vera rarità, vista la diffusione del rito latino per opera dei monaci benedettini fra il XI e il XV secolo, a discapito del rito ortodosso, già presente in area salentina.
Il Teofilato aggiunge che la chiesa del borgo si ergeva sui ruderi di un tempio di rito pagano, dedicato alla dea Flora, le cui rovine avrebbero dovuto estendersi fra le attuali chiese del Salvatore e la chiesa Matrice stessa. Ed è proprio in questo luogo che bisogna ubicare il leggendario laghetto e la cripta basiliana, dove venne ritrovata l’icona, riproducente l’effigie di S. Maria di Costantinopoli. Il culto della Vergine Hodighitria poi, doveva essere ben radicato, se nella piazzetta accanto al Duomo, si dette la denominazione di Largo Costantinopoli.
Da rilevare, infine, l’invocazione mariana che tutt’ora permane in un cartiglio tufaceo sulla facciata settecentesca della ricostruita Collegiata, “SITIENTES VENITE AD AQUAS”, presumibilmente in riferimento alle primitive consuetudini battesimali basiliane.
La decorazione che conclude il frontespizio e l’invocazione mariana “SITIENTES VENITE AD AQUAS”
  Poco chiaro quindi come o in che tempi l’attributo “della Fontana” abbia preso piede a svantaggio del culto originale della Madonna di Francavilla, attestato comunque con certezza nel 1361, nel 1458 e nel XVI secolo, con il titolo di Madonna dei Miracoli e festeggiata il 24 gennaio.
Analizzando le parole tramandateci dal Palumbo e leggendo fra le righe del racconto si può scorgere una serie di simbologie attinenti sia alla storia sacra quanto a quella pagana.
L’immagine del cervo, per esempio, può essere accostata alle anime che vanno ad abbeverarsi alle acque della grazia che scaturiscono dalla Vergine SS.ma, chiamata spesso “Fons Aquarum viventium”.
Per la topografia francavillese, questo accostamento Acqua/Madre ben si confà con le condizioni “altimetriche, planimetriche e del suolo” dei terreni, dei boschi, dei laghi e delle risorgive, che in maniera copiosa caratterizzavano la pianura e che si fondono perfettamente con gli antichi riti di purificazione di origine pagana e paleocristiana.
Una lettura più profana potrebbe ricondurre l’avvenimento alla simbologia Cervo/Diana. La dea della caccia, portatrice di vita e protettrice delle fiere potrebbe essere una simbologia accettabile, vista la presenza nei dintorni di boschi e selve di ogni tipo, che verosimilmente potevano dare rifugio ad animali di ogni specie.
Insomma, le chiavi di lettura sono molteplici, ma un dato di fatto che possa mettere un punto certo sulla discussione può venire dallo studio e l’analisi di alcuni “rinvenimenti iconologici” analoghi a quello francavillese, come per esempio il ritrovamento della Madonna del Sagittario nella città di Francavilla a Sinni in Basilicata. Il racconto, riferibile all’autore Giorgio Lauro, e incentrato sulla vita del beato Giovanni da Caromo, sembra una riedizione in calce del “rinvenimento francavillese”: “veduta una bellissima Cerva, la quale come a diporto se ne andava: […] cavato dal turcasso, che giusta il costume di quei tempi alla spalla gli suonava, cavato dico un finissimo quadrello su l’arcol’adattò, e fino all’orecchio la corda tirando così dirittura la spinse fuora, che alla Cerva giunse, ma da Divina virtù, addietro rimandata per la via medesima il valente arcadore, senza ferirlo, colpì. […] senza punto badarvi caricò di nuovo l’arco, e tirollo e ‘l colpo questa seconda fiata ebbe il successo medesimo”.
Simili episodi poi, si notano anche in altre tradizioni: come quella della Madonna della Scala di Massafra, della Vergine di Cerrate o Cervate, di San Umberto, di San Eustachio o di San Manuflo, ritrovamenti che mostrano molte affinità con la leggenda francavillese. In conclusione, la possibilità dello sviluppo di un mito diciamo in serie, con simbologie polivalenti, e l’aggiunta di una serie concessioni come franchigie e agevolazioni potrebbe avere come fine ultimo il ripopolamento di zone abbandonate. Tramite questo espediente, i D’Angiò, avrebbero favorito la ricostruzione e l’incremento di nuovi nuclei abitativi.
Protagonisti di questo fenomeno furono soprattutto quei borghi situati in aree caratterizzate da favorevoli condizioni geografiche e climatiche; come sostiene Donato Palazzo: “privilegi e franchigie perciò vanno considerati […] come strumenti politici per legare alla terra i contadini, sollecitandone la concentrazione in comunità meno disperse e meno dispersive”.
In conclusione, un’analisi comparata fra l’origine di Francavilla e gli altri centri sorti nello stesso periodo, sotto la spinta di eventi simili simbolici e portentosi, porta a non escludere quest’ultima tesi.
Per quanto riguarda la data di fondazione il parere non è unanime. Non v’è certezza sulla data tradizionale del 14 settembre 1310, e le varie ipotesi proposte dai diversi storici e autori, fanno oscillare la fondazione dal 1308 al 1324, in alcuni casi collocandola nel secolo precedente.
L’indicazione relativa al giorno 14 settembre, pare sia stata introdotta posteriormente al XIV secolo, e più precisamente intorno al 1565. In quell’anno, non si celebrava ancora una festa patronale e l’Arcivescovo di Brindisi e Oria, Giovanni Carlo Bovio, compì la sua visita pastorale nella chiesa Matrice proprio in quel giorno, senza che vi fosse pronunziata nessuna liturgia solenne.
Un nodo cruciale e pieno di interrogativi, è rappresentato dalla Bolla o Breve sulle “Indulgenze concesse il 29 agosto 1330 da frate Marco De Castro Fiorentino dell’ordine di S. Giacomo De Altopasso, sostituto dell’Arcivescovo di Otranto e Commissario del Papa Giovanni XXII, al popolo di Francavilla, quando venne a predicare la crociata in favore di Gualtiero IV Brienne”, concesse in perpetuum ai fedeli francavillesi che il 14 settembre avessero visitato la sacra immagine della Madonna della Fontana di Francavilla.
Litografia del XVIII secolo raffigurante la leggenda del ritrovamento dell’icona bizantina.
  La storia ci tramanda che la pergamena venne rintracciata e restaurata, intonro al 1785, dal Vescovo di Oria Monsignor Alessandro Maria Calefati, sospetto falsificatore.
Dal punto di vista storiografico, la pergamena è contestualizzabile nelle vicende dell’epoca, visto che fu bandita realmente una crociata, nel XIV secolo, per riconquistare i territori greci conquistati dai Catalani. Allo stesso modo, le figure di Gualtiero di Brienne, Duca di Atene e Conte di Lecce, e Giovanni XXII, Papa dal 1316 al 1334, sono documentabili con certezza.
Teofilato, accusa di falsificazione il Vescovo di Oria, il quale operò con la compiacenza del notaio Giuseppe Maria Imperio, autenticatore della pergamena.
Per onor di cronaca, a difesa di Monsignor Calefati si pose P. Primaldo Coco, che rigettò le accuse e innalzò il prelato a grande conoscitore e studioso delle vicende storiche francavillesi, il quale avrebbe avuto come unico scopo il rinverdimento della devozione alla Beata SS. Vergine Maria senza dietrologie, che essa fosse caratterizzata da un titolo o da un altro. Concentrandoci, invece, sulle fonti storiche accessibili e documentabili la “data di nascita” di Francavilla viene inevitabilmente retrodatata. Come afferma il Teofilato, a complicare la vicenda provvedono i rapporti di sangue fra la Corte angioina napoletana, i Principi di Taranto e i Conti di Lecce, tutti imparentati tra loro.
Il protagonista della leggenda francavillese Filippo I d’Angiò (1278-1332), divenuto principe di Taranto nel 1294, dopo la prigionia aragonese in Sicilia terminata il 19 marzo 1302, sposò nel 1313 Caterina, figlia di Balduino, contessa di Fiandra e imperatrice di Costantinopoli. Secondo il Coco, Filippo I fu in Puglia, dal settembre 1309 fino al 1311, incappando in un tentativo di congiura sistematicamente stroncato. Questo avvenimento, in parte secondario, viene utilizzato dal padre cappuccino per affermare con certezza perlomeno la presenza in loco del nobile angioino, visto che la sentenza di morte del capo della congiura, tale Siginulfo, “fu notificata al principe di Acaia e Taranto in qualità di Capitano generale a Guerra del regno”.
Naturalmente il documento non pone fine alla querelle sul “rinvenimento” ma aggiunge un altro pezzo al puzzle dei tradizionalisti. Dopo l’avvenimento, quindi, si creò una “zona franca” dove andarono a riunirsi gli abitanti di ogni casale vicino, richiamati da concessioni e privilegi raccolti in una pergamena che, secondo alcuni (Palumbo, De Simone e P. Salinaro), si presentava vergata con lettere d’oro e che rimase conservata fino al 1623 a Francavilla, per poi scomparire.
Di queste franchigie si conservò memoria a lungo e i successori del principe angioino non mancarono di confermarli; in primis re Ferdinando d’Aragona (1424-1494). Simili concessioni, verso la fine del medioevo, furono fatte un po’ ovunque all’interno del Regno di Napoli.
I feudatari dichiaravano luoghi di rifugio i posti dove si raccoglievano gli abitanti che fuggivano da oppressioni baronali e lotte civili, concedendo franchigie. Queste località divennero borghi franchi e più tardi città libere. Di parere opposto, tuttavia, è ancora Cesare Teofilato, il quale afferma “che le franchigie, come è noto, non ci furono mai, perché i feudatari riscossero sempre le decime su tutto l’agro francavillese e dei dintorni; né il vantato Editto principesco fu reso ostensibile, da chi avanzava i desiderati diritti di franchigie. Anche questo Editto è un enigma fumoso, di cui gli stessi cronisti della tardissima tradizione non sanno dar conto preciso. Tra essi c’è contradizione, incertezza, sbandamento: quell’impreciso, che annunzia il vuoto”.
Ciò di cui ormai siamo certi è che, il sito di Francavilla quindi, andò a svilupparsi durante il XIV secolo, in una pianura rigogliosa, ricca di colture cerealicole, all’interno della cerchia di alcuni importanti casali che via via andarono a spopolarsi per ingrossare il nuovo insediamento. Esso, in pochi secoli, divenne il punto nevralgico di tutta la regione convergendo tutte le arterie di collegamento con le città e gli insediamenti più importanti dell’area. Raccolse buona parte delle famiglie feudatarie della zona, desiderose di pace e sicurezza, e la gente povera dei dintorni la cui vita si era sviluppata vicino alle Specchie fortilizie messapiche e le numerose necropoli romano-cristiane.
A tutto ciò aveva già posto la sua attenzione l’abate Giovan Battista Pacichelli, il quale già a suo tempo, sottolineò la centralità di Francavilla nel XVIII secolo: ”Dal Mezzo dove hoggi è posta la Collegiata insigne di Francavilla, fino al promontorio di Japigia, dove sta situata la chiesa di Santa Maria di Finibus Terrae, vi sono sessanta nove miglia, et altro tanto dal mezzo di detta Colleggiata sino alla riva del Fiume Bradano, che divide la Provincia d’Otranto dalla Basilicata, nove miglia distante da Matera. Per traverso poi dal Mare Jonio, o Adriatico sino al Mare Tarentino, dal mezzo di detta chiesa sino a Taranto sono venti miglia, e venti altre sino a Brindisi, di modo, che il luogo dove fu trovata la Santa Immagine rimane per centro di tutta la Provincia d’Otranto, quasi ella sia il Soccorso, e Protettione di tutta la Provincia”.
Insomma, la questione rimane aperta.
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docdm · 3 years
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Scipione Rebiba, Cardinale-Presbitero di S. Pudenziana, Arcivescovo di Pisa.
Secondo lo studioso di genealogia episcopale Charles Bransom, è uno dei più antichi vescovi del quale si conoscano con certezza i dati sulle ordinazioni episcopali: più del 95% degli oltre 5200 vescovi viventi lo pongono al vertice della propria genealogia episcopale, inclusi papa Francesco e tutti i suoi predecessori ininterrottamente a partire da papa Clemente XI.
Nacque a San Marco, piccolo centro siciliano arroccato su una collina dei monti Nebrodi, a quel tempo facente parte dell'arcidiocesi di Messina, il 3 febbraio 1504 da Francesco e Antonia Lucia Filingeri.  Intraprese gli studi giuridici a Palermo, conseguendo la laurea in utroque iure, e quelli teologici. Ricevette gli ordini minori e quelli maggiori negli anni 1524-1528, mentre era arcivescovo Giovanni Carandolet, e fu insignito di un beneficio nella chiesa di Santa Maria dei Miracoli di Palermo.
In seguito, intorno agli anni 1536-1537, si trasferì a Roma, venendo a contatto con la giovane congregazione dei Chierici Regolari, ed entrò al servizio del cardinal Gian Pietro Carafa, vescovo di Chieti e Protonotario Apostolico presso la Curia Romana. In rappresentanza del Carafa assunse il governo della diocesi di Chieti e da papa Paolo III, il 16 marzo 1541, fu nominato vescovo titolare di Amiclae e vicario generale della chiesa teatina.  
Per una singolare circostanza il Rebiba si colloca all'origine della linea ascendente della successione apostolica della maggioranza dei vescovi della Chiesa cattolica. Coloro che hanno inteso ricostruire le genealogie episcopali dei romani pontefici e dei vescovi si sono tutti arrestati al Rebiba, oltre il quale, ad oggi, non è possibile risalire.
Vescovo titolare di Amicle(1541-1555)
Vescovo ausiliare di Chieti(1541-1555)
Vescovo di Mottola (1555-1556)
Cardinale presbitero di Santa Pudenziana (1556-1565)
Arcivescovo metropolita di Pisa (1556-1560)
Primate di Sardegna e Corsica (1556-1560)
Arcivescovo-vescovo di Troia (1560)
Camerlengo del Collegio Cardinalizio (1565-1567)
Cardinale presbitero di Sant'Anastasia (1565-1566)
Patriarca titolare di Costantinopoli (1565-1573)
Cardinale presbitero di Sant'Angelo in Pescheria(1566-1570)
Cardinale presbitero di Santa Maria in Trastevere(1570-1573)
Grande Inquisitore della Congregazione della Romana e Universale Inquisizione (1573-1577)
Cardinale vescovo di Albano (1573-1574)
Cardinale vescovo di Sabina (1574-1577)
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touritalia · 2 years
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GIORNO 3: 15-11 LUNEDI BARI – MATERA – BARI – TRANI – BARI
Sveglia alle 6.30. Colazione (€2,40) e partenza per Matera alle 7.37 con Bus Miccolis (€13.50). Arrivo alle 9.00 alla fermata bus urbani in Via Nazionale. Il ticket dà diritto anche alla tratta urbana quindi prendo il bus in coincidenza per il centro, ma a causa di una bussola che non si chiude, l'autista ci lascia due fermate prima di Piazza Vittorio Veneto la mia meta. Piove piano, ma con insistenza. L'ufficio informazioni turistiche è chiuso, di lunedì a Matera non si viaggia. Ottengo una cartina da InfoMatera, un centro per guide turistiche. Grazie Mille per la vostra gentilezza. “Capitale della cultura 2019, Matera e i suoi Sassi sono una bellezza naturalistica che regala un'esperienza irripetibile. Patrimonio Unesco dal 1993, i famosi Sassi sono divisi in tre aree: il Sasso Barisano a Nord-Ovest, il Sasso Caveoso a Sud e la Civita che li divide al centro. Quest'ultima è la parte più antica, quella che per prima è stata scelta dall'uomo per essere modellata ed abitata. Essa si estende fino a piazza Duomo, inglobando il perimetro un tempo delimitato dalle mura cittadine. Il nome del Sasso "Barisano" indica la parte che si estende verso Bari, mentre il "Caveoso" prende il nome dalla elevata presenza di case-grotta in questa zona. L'architettura dei Sassi di Matera racconta la capacità dell'uomo di adattarsi perfettamente all'ambiente e al contesto naturale, utilizzando con maestria semplici caratteristiche come la temperatura costante degli ambienti scavati, la calcarenite del banco roccioso e lo sfruttamento dei pendii.”  Inizio proprio da Piazza Vittorio Veneto. In un angolo una delle tre statue di Salvador Dalì donate a Matera intitolata Elefante Spaziale. Metto le opere in un riquadro insieme al Pianoforte Surreale e alla Danza del Tempo (foto non mia perché l'opera è stata spostate dal sito di prima collocazione, uno slargo su Via Madonna della Virtù). Sempre sulla Piazza la Chiesa di S. Francesco da Paola (su Via XX Settembre); il Palazzo ex Convento dell'Annunziato (oggi anche centro informazioni turistiche); il Palazzo del Governo; l'Ipogei e Palombaro Lungo l'antica riserva idrica scavata nella roccia; la Mater Domini (Cav. Di Malta) con affaccio sui sassi; la Fontana Ferdinandea; la Chiesa di S.Lucia dove entro. E siamo ancora su Piazza V. Veneto. Bene. Continua a piovere. Decido di inanellare tutti i monumenti facendo un giro esterno dei sassi e poi entrare per arrivare al Duomo. Dunque imbocco Via del Corso fino alla Chiesa S. Francesco d'Assisi, che visito, e Piazza del Sedile. Entrando in Via Domenico Ridola trovo la Chiesa del Purgatorio; la Chiesa di S. Chiara; il Museo Nazionale Ridola; il Palazzo Lanfranchi; un belvedere sui sassi; il Palazzo della Provincia di Matera. Da qui mi intrufolo tra le scalinate sconnesse, bagnate e altamente scivolose ed inizio dal Convento di S. Antonio che trovo chiuso. Seguono belvederi e panorami e la Chiesa di S. Lucia alle Malve. Arrivo alla casa grotta di Vico Solitario e alla Madonna de Idris “esempio significativo di chiesa rupestre, cioè scavata nella roccia. Sorge nella parte alta dello sperone roccioso di origine calcarea chiamato Montirone o Monterrone. La facciata, modesta e realizzata in tufo, fu ricostruita nel Quattrocento a seguito di un crollo, ed è abbellita da un piccolo ma elegante campanile. La denominazione Idris deriva, quasi sicuramente, dal greco Odigitria, che significa "guida della via", o "dell'acqua". A Costantinopoli veniva così chiamata e venerata la Vergine Maria, il cui culto fu introdotto nell'Italia del sud dai monaci bizantini.” Segue S. Giovanni in Monterrone; Piazza S. Pietro e la Chiesa omonima  che visito per asciugarmi un po e fare il punto della situazione. Seguo Via Madonna della Virtù e arrivo al Convento di S. Lucia, un alto muro con una porticina al centro e la Chiesa di S. Nicola dei Greci. Salgo a S. Agostino dove entro. ”Sviluppato sullo sperone roccioso all'estremità settentrionale dei Sassi, si pone come baluardo e limite dello sviluppo urbano del Sasso Barisano. Il convento venne fondato per volontà dei monaci dell'ordine degli Eremitani nel 1592; nel 1734 un terribile terremoto rovinò l'intero complesso e poi, nel XIX secolo, in seguito alle leggi eversive napoleoniche e al processo di Unità Nazionale, subì sorti alterne assumendo funzioni diverse da quelle religiose. Oggi è la sede degli uffici del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. La facciata, pregevole esempio di architettura tardo-barocca, si sviluppa su due livelli; nella parte inferiore, il portale è sormontato da una nicchia con la statua di Sant'Agostino, rappresentato secondo l'iconografia tradizionale, con lunga barba e volto scarno, mitra decorata sul capo e ampio mantello, mentre regge la chiesa con la mano sinistra. L'interno è riccamente abbellito da molti altri elementi artistici e decorativi.” Uscendo prendo uno scivolone e mi accoscio sulla coscia sinistra che per qualche giorno resterà dolorante, preludio dell'evento funesto che mi attende a Napoli. Salgo ancora per S. Pietro Barisano con la torre campanile. Passo da Piazza S. Biagio; la Chiesa di S. Rocco fino a Piazza San Giovanni con l'omonima Chiesa. Sono di nuovo su Piazza Vittorio Veneto e adesso salgo fino al Duomo imboccando prima Via delle Beccherie e poi Via del Duomo. “E' la chiesa principale di Matera. Costruita nel XII secolo sullo sperone più alto della Civita che divide i due Sassi, la cattedrale era, con molta probabilità, inizialmente dedicata a Sant'Eustachio, visto che venne edificata su una parte di terreno dove un tempo sorgeva il monastero benedettino dedicato al santo. La facciata, in stile romanico-pugliese, è decorata da un rosone, archetti ciechi e colonnine, oltre che dalle statue della Madonna e di vari santi; sulla facciata destra spicca la Porta dei Leoni, e su tutto svetta il campanile a quattro piani. ” Qui parlando con un gentile custode del Duomo discutiamo sull'importanza per il turismo dei film girati a Matera. Io faccio l'esempio delle location del Commissario Montalbano in Sicilia che hanno avuto un grande impulso turistico. Lui mi parla dell'ultimo film di 007 e del consumo di 40.000 lattine di coca cola per rendere meno scivolose le strade di Matera durante le scene delle corse delle automobili. Chiedo della serie tv “Imma Tataranni -Sostituto Procuratore” girato a Matera e lui mi segnala la casa della Procuratrice in Piazza S. Giovanni. Ringrazio e saluto tornando sul posto per l'ultima doverosa foto. La casa è con grandi arcate dietro un verde albero e un camioncino rosso. Finita la visita pranzo con Pasta Ceci e Peperoni Cruschi (€4,50). Chiedo alla ristoratrice un assaggio del famoso pane materano e lei, che ne è sfornita, lo compra per me offrendomene una fetta buonissima. Grazie mille. Sono pronto a rientrare a Bari mentre continua a piovere. Il Bus Miccolis però ha una corsa solo alle 19.00. Google non mi è di aiuto. Mi reco in Piazza Matteotti dove fermano i bus regionali. Dei ragazzi che aspettano non mi sono di aiuto. Una biglietteria pullman non mi è di aiuto. Ed un avveniristica stazione treni FAL non mostra la via di ingresso. Alla fine, girando intorno alla stazione, trovo un ingresso ed una inserviente che si presta a darmi informazioni. Con una macchinetta biglietteria trovo un treno che parte alle 13.56 e con cambio ad Altamura mi fa arrivare a Bari alle 15.55 (€5,10). Continua a piovere, ho già visto tutto di Bari e devo decidere cosa fare del resto del pomeriggio. Ed è qui che riprendo il progetto di visitare Trani. Prendo un Trenitalia che parte alle 16.25 e arriva alle 17.05 (€3,40). Piove a dirotto. Caparbio inizio il giro "della Perla dell'Adriatico" . Dalla stazione in Piazza XX Settembre imbocco a naso Via Cavour fino a Piazza della Repubblica dove l'ufficio informazioni è naturalmente chiuso. Mi rifugio in un bar per indossare un poncho impermeabile. Vedo una cartina esposta in una gioielleria. Entro solo per fare una foto e invece me ne forniscono una copia in carta. Grazie.  Attraverso Piazza della Repubblica e continuo per Via Cavour fino a Piazza Plebiscito e Piazza Tiepolo con la Chiesa della Madonna del Carmine. Mi affaccio sulla Darsena Comunale e sono ancora più esposto alla pioggia. Passo da Piazza Quercia con l'albero natalizio illuminato e seguo la darsena fino alla Chiesa di Santa Teresa e alle bancarelle del pescato fresco giornaliero. I pescatori mi guardano attoniti. Loro abituati all'acqua e perfettamente protetti con l'abbigliamento giusto, oggi sotto le tende delle bancarelle. Io raffazzonato col poncho rosso del Niagara su giaccone impermeabile e zainetto, cappellino, ombrello, mappa, penna e smartphone per le foto, tutto tragicamente bagnato fradicio. Nuovamente mi rifugio in un bar. La cartina 95x95 e troppo bagnata per essere maneggiata facilmente. Mi ricompongo e faccio il punto. Da Via A. Prologo arrivo in Piazza Duomo e alla Basilica Cattedrale di S. Nicola Pellegrino, chiusa. “La Cattedrale di Trani, regina delle Cattedrali, si compone dell'unione di tre chiese perfettamente fuse tra loro, producendo una sublime armoniosità.” Mi costringo fino a Piazza Re Manfredi e al Castello Svevo “voluto da Federico II in cui si festeggiarono le nozze del figlio prediletto, Manfredi con la giovane Elena Comneno.” Sono esausto. Non posso arrivare in stazione sotto una pioggia battente. Disperato chiedo un passaggio e immediatamente trovo una buon anima che mi porta in Stazione. A Trani chiedi una mano e ti concedono il braccio. Grazie e Grazie e Grazie. Aspetto il prossimo Trenitalia delle 18.18, arrivo a Bari 18.55 (€3,40). Piove ancora. Salto la cena. Preferisco una doccia bollente; mettere pantaloni, calzini e scarpe ad asciugare; ed infilarmi sotto le coperte. Ceno con i miei fidati biscotti. Percorsi 10km.
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crnagorakraljevina · 4 years
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Bivša zajednička crkva "Santa Maria di Costantinopoli" „Crkva posvećena Blaženoj Djevici pod nazivom Madona Carigradska izgrađena je u 17. vijeku zajedno s susjednim samostanom, na inicijativu baruna Tarquinia Maramontea. Potvrđujući to, sarkofag Raffaele Maramontea, samog brata Tarquinia, umro je 1564. u 46. godini. (..) Za naručivanje grobnog posla bila je Raffaelova supruga, Ippolita Granai Castriota. https://bit.ly/2WnMURv
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jucks72 · 7 years
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Moccia 1936 è la pasticceria per eccellenza del Natale a Napoli.
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Moccia 1936 è la pasticceria per eccellenza del Natale a Napoli.
  Napoli a Natale è una sinfonia di dolci: struffoli, roccocò, mustaccioli, sapienze e Divino amore e poi la cassata partenopea e la celebre pastiera. Forse nessuna altra città italiana vanta un repertorio così ampio e variegato di dolci delle feste. Moccia 1936, da oltre ottanta anni, è la pasticceria per eccellenza della tradizione napoletana. Custodi di antiche ricette, i maestri pasticcieri e i fornai di Moccia 1936 rinnovano ogni anno quei dolci natalizi che celebrano Napoli in tutto il mondo. Sono preparazioni artigianali che negli anni hanno conquistato il palato di viaggiatori e napoletani illustri: da Libero Bovio a Benedetto Croce, da Nino Taranto a Pupetta Maggio, autrice di una poesia dedicata proprio alle dolcezze di Moccia 1936.Le maestranze più anziane raccontano di come Benedetto Croce fosse ghiotto dei dolci natalizi della pasticceria di via San Pasquale a Chiaia, sua figlia amava particolarmente gli struffoli e ne acquistava in grandi quantità. Nino Taranto e la sua famiglia erano soliti regalare a Natale, ad amici e parenti, i dolci di Moccia. Dolci che spesso venivano confezionati in cassette e inviati in tutto il mondo perché i profumi e i sapori del Natale partenopeo potessero arrivare alle famiglie emigrate oltre confine. Ogni anno la famosa pastiera di Moccia raggiungeva il Vaticano, in dono a Papa Giovanni Paolo II. La stessa pastiera che Massimo Ranieri ordinava e si faceva portare a casa dal banconista della pasticceria nel giorno della vigilia di Natale.
Già dai primi di novembre il profumo di arancia, pisto e mandorle invade il laboratorio della pasticceria Moccia 1936 che oggi ha un punto vendita anche all’Aeroporto Internazionale di Napoli. La sede storica di Via San Pasquale è in ristrutturazione, mentre è di imminente apertura un nuovo negozio nel cuore antico di Napoli: in via Benedetto Croce, la celebre Spaccanapoli.
La bellezza dei dolci natalizi partenopei è nelle loro storie. Le Sapienze, dolci fragranti dal sapore deciso e dalla caratteristica forma a “S”, sono una variante dei classici biscotti natalizi susamielli. Le sapienze prendono il nome dal Monastero della Sapienzaa Napoli (via santa Maria di Costantinopoli), dove le suore erano solite aggiungere ai classici susamielli a mo’ di decorazione tre mandorle intere. Le sapienze sono realizzate nei laboratori di Moccia secondo la ricetta tradizionale con miele certificato, mandorle pregiate e frutta candita.
Famosi sono gli struffoli di Moccia 1936 dal retrogusto al liquore maraschino, sempre croccanti e soffici grazie a un piccolo segreto custodito dallo storico pasticciere Michele Salma che da oltre trent’anni lavora per l’insegna. Poi i mostaccioli dalla glassatura perfetta realizzati secondo l’antica ricetta, quindi croccanti da gustare con calma e con un buon liquore.
Un must del Natale a Napoli è poi la cassata napoletana che ha come ripieno ricotta campana e non prevede decorazione con marzapane e canditi ma solo glassatura. La ricetta di Moccia1936 si distingue da tutte le altre: le note amare del cioccolato fondente si sposano con la dolcezza della ricotta campana ma soprattutto resta la meraviglia della decorazione tipica siciliana con naspro, marzapane e frutta candita.
Nel ventaglio delle golose offerte natalizie c’è infine la pastiera che è anche il dolce della Pasqua: la ricetta di Moccia è unica e segreta e da quasi un secolo appassiona i palati più ricercati.
Moccia 1936 a Napoli:
Aeroporto Internazionale di Napoli: Viale Fulco Ruffo di Calabria, 80133- Napoli
Spaccanapoli (apertura a dicembre 2017)
San Pasquale a Chiaia (in ristrutturazione, apertura nel 2018)
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infosannio · 7 years
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Avellino: Massimo Cacciari, lezione Magistrale sul tema “Sovranità politica e sovranità di Dio” PARROCCHIA "S. MARIA R. DI COSTANTINOPOLI" C.so Umberto I AVELLINO  Ritorna ad Avellino il filosofo Prof. Massimo CACCIARI. Giovedì 28 Settembre alle ore 18:30 presso la Chiesa "Madonna de La Salette" RIONE PARCO Lezione Magistrale sul tema "Sovranità politica e sovranità di Dio". 
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Grappoli di reminiscenze, senza tempo né confini
Fra compaesani, su una panchina in piazza
Grappoli di reminiscenze, senza tempo né confini
di Rocco Boccadamo
In una recente e differente narrazione, traendo spunto dal casuale incontro con due turisti/ospiti provenienti da S. Francisco, USA, mi soffermavo diffusamente su Marittima e più esattamente sul Rione dell’Ariacorte dove sono nato e , fra l’altro, annotavo: ”Attualmente, con il mio paesello, e specialmente con i residenti, non intrattengo più i rapporti di intimità e consuetudine viscerale a trecentosessanta gradi, che hanno, invece, caratterizzato le stagioni della mia fanciullezza, adolescenza e prima giovinezza”.
Non v’è, invero, contraddizione fra l’anzidetta puntualizzazione e quanto sto per raccontare qui. Semmai, la cronaca freschissima che segue, può considerarsi un’eccezione rispetto al ricordato e consolidato stato di interazione, in termini complessivi, fra me e la località natia.
°   °   °
Qualche giorno fa, transitando per la piazza del paese in sella al mio scooter color sabbia, ho visto, seduto su una panchina pubblica provvidenzialmente ombreggiata ed esposta a un benefico venticello, un “vecchio” marittimese, Costantino C., il quale vanta e si porta appresso, con disinvoltura, ben novantatré primavere già valicate, per di più guidando ancora, quando occorre, o un’autovettura o un motofurgone “Ape”.
Conosco la citata persona, è proprio il caso di dirlo, da quando sono nato e, lui, ragazzino, abitava, insieme con la sorella Maria, presso la nonna Costantina – i loro genitori erano mancati prematuramente – nell’Ariacorte, a cinquanta metri di distanza da casa mia.
Insomma, a Costantino C., mi lega un’intensa familiarità, sono edotto di tutte le vicende della sua esistenza, da alcuni lustri, in particolare, ho modo di incontrarlo sovente, giacché possiede un giardino, con annesso fabbricato (da poco, lo ha donato ad alcuni nipoti che vi stanno eseguendo importanti opere di ristrutturazione), situato proprio dirimpetto alla mia villetta della “Pasturizza”.
Arrestata d’istinto la marcia del ciclomotore, mi sono avvicinato e seduto accanto, chiedendogli, come approccio, notizie circa lo stato dei lavori edili.
Pochi minuti dopo, si è accostato a noi un altro compaesano, Santo C., appena più giovane di Costantino, e i due, all’unisono, come del resto mi aspettavo, sono immediatamente passati a rievocare un episodio assai lontano, sia come datazione che come luogo di svolgimento, evidentemente, però, rimasto indicativo e impresso nella mente, fatto in cui, insieme con loro, io stesso mi ero, in certo qual modo, trovato coinvolto.
Sarà stato il 1963 o il 1964 e lavoravo in banca, a Taranto, da tre anni circa, espletando le mansioni di segretario, oggi si dice assistente, di un vicedirettore settorista, il quale, per chiarire, gestiva un determinato portafoglio di clienti.
Insieme con il citato funzionario, compivo spesso visite agli utenti, sia per mera cortesia, sia e soprattutto per ricognizioni dirette sulle loro aziende e le loro attività.
Un giorno ci eravamo portati a domicilio di un operatore agricolo (grosso proprietario di terreni e produttore di vino e olio) di Francavilla Fontana, da tempo cliente affidato, vuoi con linee di credito a carattere ordinario e continuative, vuoi sottoforma di anticipazioni su giacenze di vino e olio, nelle more della loro vendita.
Guarda caso, io non ne ero minimamente a conoscenza, nell’azienda dell’operatore in discorso, da moltissimi anni, prestavano attività, sia pure a carattere stagionale, Costantino e Santo, unitamente ad altri due marittimesi, Peppino e Vitale.
Tutti i già menzionati, quindi, persone di massima fiducia dell’imprenditore francavillese, di casa, alla stregua di famigliari.
Orbene, il mio superiore si era determinato a recarsi nell’azienda di tale cliente, diciamo così, per accertarsi che esistessero effettivamente le giacenze di prodotto su cui era stato da poco concesso un finanziamento e, quindi, si era premurato di dare anche una sommaria occhiata alle apposite cisterne.
Ma giusto lì, come ebbero a confidarmi successivamente i miei concittadini, aggiungendo qualche abbozzo d’ilarità, si nascondeva un trucchetto, alquanto rudimentale e, tuttavia, valido a far apparire qualcosa che, in realtà, non esisteva.
E, però, anche io, dall’altra parte, cioè dall’interno della banca, avevo avuto modo di accorgermi che gli amici marittimesi, o, meglio, le loro firme, erano talora “utilizzati” dal datore di lavoro, per agevolare alcune sue operazioni di finanziamento da parte della banca.
Certo, stagioni non solo antiche ma, specialmente, dai contenuti totalmente diversi, allora la fiducia e la parola erano una cosa seria, nel lecito e anche ai limiti della norma o borderline per stare al linguaggio presente: così abbiamo, l’altro giorno, commentato concordemente, sulla panchina della piazza di Marittima, Costantino, Santo e io.
°   °   °
Di lì a poco, è arrivato ad aggregarsi alla comitiva un ennesimo “ariacortese”, Costantino N. e, quasi contemporaneamente, Uccio N., geometra in pensione e, indubbiamente, compaesano d.o.c., non essendosi mai allontanato, durante i suoi settantasette anni, dalla natia Marittima. A questo punto, a beneficio di quanti non ne fossero a conoscenza, mi soffermo su un breve inciso: fra i nomi maggiormente diffusi nella località, ricorrono quelli di Vitale e Costantino o Costantina, a motivo che, collegando i comuni mortali ai santi, S. Vitale, cavaliere nell’esercito romano ai tempi di Nerone, nato a Milano e martirizzato a Ravenna, è il protettore di Marittima, mentre, a compatrona, è stata da vecchia data proclamata la Vergine Maria Santissima di Costantinopoli o Madonna Odegitria.
Costantino, come ho avuto modo di accennare anche in precedenza, faceva parte, penultimo nato, di una famiglia numerosa, ma soprattutto antesignana e allargata, per vicende naturali, in senso laterale o di discendenza.
Difatti, la padrona di casa, ovvero sua madre, Rosaria, proveniente da Andrano, reduce dal primo matrimonio nel corso del quale le erano nati due figli, Andrea e Giuseppa (Pippina), rimasta vedova ancora giovane, aveva sposato in seconde nozze il marittimese Ciseppe (Giuseppe), reduce, anche lui, da una pregressa unione, già padre di tre figli e, parimenti, rimasto vedovo anzitempo.
Rosaria e Giuseppe, novella coppia, procrearono ulteriori quattro figli, Pompilio, Vitale, Costantino e Concetta.
Sì che, a un certo momento, venne a formarsi un nucleo o focolare di undici persone, fra i due coniugi e i nove discendenti arrivati dall’accoppiata di letti.
Molti i ricordi e le annotazioni snocciolati, approfittando della presenza di Costantino, riguardo ai componenti della famiglia di Rosaria e Giuseppe ‘u fusu.
Alla fine degli anni Trenta o agli inizi del decennio successivo, la scomparsa di Giuseppe, a causa di una rovinosa caduta mentre era intento a fissare, a un gancio del soffitto, un chiuppu (una sorta di grosso casco, facendo riferimento alle banane) di tabacco già essiccato.
Nel 1945, il matrimonio di Pippina nel canonico abito bianco, di cui, chi scrive, serba perfettamente il ricordo.
Nel 1947, esattamente il 22 gennaio, le nozze di Andrea (con Valeria), in un giorno in cui, Marittima, registrò il particolarissimo fenomeno di un’abbondante nevicata.
Nel 1951, una improvvisa e brutta traversia, fortunatamente finita bene, in capo a Vitale, sotto forma di un’infezione da tetano a un piede (precisa, adesso, Costantino, che, all’epoca, lui era assente da Marittima per il servizio militare in Marina, imbarcato su un dragamine di stanza alla Spezia).
Successivamente, infine, seri problemi agli occhi per l’altro figlio, Pompilio, invero mai risolti.
A un dato momento, Costantino, seduto nel gruppo e rivolgendo lo sguardo a Uccio N. che gli stava accanto, ha ritenuto di richiamare i legami di parentela fra lo stesso Uccio e me (le rispettive mamme, Nina e Immacolata, erano cugine di primo grado, figlie di due sorelle, Cristina e Lucia.  Aggiungendo, inoltre, che lui medesimo, a seguito del matrimonio, si era apparentato con l’ex geometra, posto che il suocero Giuseppe P. (in vita, operatore ecologico, attacchino e necroforo del Comune di Diso), era, a sua volta, primo cugino del padre di Uccio, Pippi ‘u scanteddra o mesciu Pippi ‘u barbieri, la cui madre, Pasqualina M. detta Nina, era sorella della genitrice di Giuseppe P., Maria Donata M.
I conti degli accostamenti fra parentele o famigliarità quadrano perfettamente, a prova di dati anagrafici e/o di battesimo.
Uccio N., il quale, al momento di aggregarsi, aveva domandato, sorridendo, se, in quella circostanza, fossi io a tenere banco nel gruppo, non ha successivamente rinunciato a intervenire, dicendo la sua a proposito di una sfaccettatura straordinaria insita nel desco domestico del suo nonno paterno, Vitale N. ‘u fiore.
Intorno a quel tavolo da pranzo (parolone esagerate), prendevano posto, ha raccontato Uccio suo nonno e sua nonna, insieme con un paio di ascendenti e i loro se figli (cinque maschi e una femmina) e, già così, si arrivava a dieci persone. Inoltre, quasi tutti i giorni, specialmente la sera, si aggiungevano anche sette nipoti di Pasqualina M., detta Nina, figli di due sue sorelle passate prematuramente a miglior vita e, quindi, rimasti orfani.
Dunque, diciassette “avventori”, alla fine, a intingere il cucchiaio nell’unico piatto posto al centro del tavolo, che doveva servire per l’insieme di commensali, con conseguenti difficoltà, per ciascuno, a far arrivare il cucchiaio alla minestra.
Dire che, l’appetito era tanto e non esistevano altre cose da mangiare, tranne, al caso, un tozzo di frisella o una piccola manciata di fichi secchi.
Eppure, sembra assolutamente inverosimile, si sopravviveva e, mette conto di sottolineare, negli stati d’animo della gente, albergava ben più serenità di adesso.
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ultimenotiziepuglia · 4 years
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