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#Western di cose nostre
gregor-samsung · 5 months
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“ Due cosche di mafia sono in faida da lungo tempo. Una media di due morti al mese. E ogni volta, tutto il paese sa da quale parte è venuta la lupara e a chi toccherà la lupara di risposta. E lo sanno anche i carabinieri. Quasi un giuoco, e con le regole di un giuoco. I giovani mafiosi che vogliono salire, i vecchi che difendono le loro posizioni. Un gregario cade da una parte, un gregario cade dall'altra. I capi stanno sicuri: aspettano di venire a patti. Se mai, uno dei due, il capo dei vecchi o il capo dei giovani, cadrà dopo il patto, dopo la pacificazione: nel succhio dell'amicizia. Ma ecco che ad un punto la faida si accelera, sale per i rami della gerarchia. Di solito, l'accelerazione ed ascesa della faida manifesta, da parte di chi la promuove, una volontà di pace: ed è il momento in cui, dai paesi vicini, si muovono i patriarchi a intervistare le due parti, a riunirle, a convincere i giovani che non possono aver tutto e i vecchi che tutto non possono tenere. L'armistizio, il trattato. E poi, ad unificazione avvenuta, e col tacito e totale assenso degli unificati, l'eliminazione di uno dei due capi: emigrazione o giubilazione o morte. Ma stavolta non è così.
I patriarchi arrivano, i delegati delle due cosche si incontrano: ma intanto, contro ogni consuetudine e aspettativa, il ritmo delle esecuzioni continua, più concitato, anzi, e implacabile. Le due parti si accusano, di fronte ai patriarchi, reciprocamente di slealtà. Il paese non capisce più niente, di quel che sta succedendo. E anche i carabinieri. Per fortuna i patriarchi sono di mente fredda, di sereno giudizio. Riuniscono ancora una volta le due delegazioni, fanno un elenco delle vittime degli ultimi sei mesi e «questo l'abbiamo ammazzato noi», «questo noi», «questo noi no» e «noi nemmeno, arrivano alla sconcertante conclusione che i due terzi sono stati fatti fuori da mano estranea all'una e all'altra cosca. C’è dunque una terza cosca segreta, invisibile, dedita allo sterminio di entrambe le cosche quasi ufficialmente esistenti? O c’è un vendicatore isolato, un lupo solitario, un pazzo che si dedica allo sport di ammazzare mafiosi dell'una e dell’altra parte? Lo smarrimento è grande. Anche tra i carabinieri i quali, pur raccogliendo i caduti con una certa soddisfazione (inchiodati lupara quei delinquenti che mai avrebbero potuto inchiodare con prove), a quel punto, con tutto il da fare coi disertori, aspettavano e desideravano che la faida cittadina si spegnesse.
I patriarchi, impostato il problema nei giusti termini, ne fecero consegna alle due cosche perché se la sbrigassero a risolverlo: e se la svignarono, poiché ormai nessuna delle due parti, né tutte e due assieme, erano in grado di garantire la loro immunità. I mafiosi del paese si diedero indagare; ma la paura, il sentirsi oggetto di una imperscrutabile vendetta o di un micidiale capriccio, il trovarsi improvvisamente nella condizione in cui le persone oneste si erano sempre trovate di fronte a loro, li confondeva e intorpidiva. Non trovarono di meglio che sollecitare i loro uomini politici a sollecitare i carabinieri a un’indagine seria, rigorosa, efficiente pur nutrendo il dubbio che appunto i carabinieri, non riuscendo ad estirparli con la legge, si fossero dati a quella caccia più tenebrosa e sicura. Se il governo, ad evitare la sovrappopolazione, ogni tanto faceva spargere il colera, perché non pensare che i carabinieri si dedicassero ad una segreta eliminazione dei mafiosi? Il tiro a bersaglio dell'ignoto, o degli ignoti, continuava. Cade anche il capo della vecchia cosca. Nel paese è un senso di liberazione e insieme di sgomento. I carabinieri non sanno dove battere la testa. I mafiosi sono atterriti. Ma subito dopo il solenne funerale del capo, cui fingendo compianto il paese intero aveva partecipato, i mafiosi perdono quell'aria di smarrimento, di paura. Si capisce che ormai sanno da chi vengono i colpi e che i giorni di costui sono contati. Un capo è un capo anche nella morte: non si sa come, il vecchio morendo era riuscito a trasmettere un segno, un indizio, e i suoi amici sono arrivati a scoprire l'identità dell'assassino. Si tratta di una persona insospettabile: un professionista serio, stimato; di carattere un po' cupo, di vita solitaria; ma nessuno nel paese, al di fuori dei mafiosi che ormai sapevano, l'avrebbe mai creduto capace di quella caccia lunga, spietata e precisa che fino a quel momento aveva consegnato alle necroscopie tante di quelle persone che i carabinieri non riuscivano a tenere in arresto per più di qualche ora. E i mafiosi si erano anche ricordati della ragione per cui, dopo tanti anni, l'odio di quell'uomo contro di loro era esploso freddamente, con lucido calcolo e sicura esecuzione. C'entrava, manco a dirlo, la donna. “
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Leonardo Sciascia, Western di cose nostre, racconto contenuto in:
Id., Il mare colore del vino, Einaudi (collana Nuovi Coralli, n° 82), 1980⁵; pp. 132-35.
 NOTA: La terza raccolta di scritti brevi dell'autore siciliano comparve dapprima nel 1966 col titolo Racconti siciliani, pubblicata in appena 150 copie impreziosite da una acquaforte di Emilio Greco, edite dall’ Istituto statale d'arte per la decorazione e la illustrazione del libro di Urbino. Nel 1973 Einaudi ripropose l’opera ampliata e commentata da una nota dello stesso Sciascia che la considerò quasi un sommario della propria attività letteraria.
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clacclo · 4 years
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"In Drive Fast I had that metaphor... of the stuntman. Which is always a metaphor of risk, and of this idea that we all have our broken pieces. What frightens and what exhilarates and inspires us, are often very close together. Those feelings are the essence of what drives us to risk... in life and in love. Everybody's broken in some way. Physically, emotionally, spiritually. In this life, nobody gets away unhurt. I wrote a song about a guy not just finding the fearlessness to do his job, but the fearlessness to risk being with somebody that you love. We're always trying to find somebody whose broken pieces fit with our broken pieces, and something whole emerges. So, it was just a good metaphor for a story like that." (From Western Stars movie)
DRIVE FAST (THE STUNTMAN)
I got two pins in my ankle and a busted collarbone
A steel rod in my leg, but it walks me home
At nine, I climbed high into the boughs
Of our neighborhood's tallest tree
I don't remember the fear, just the breeze
Drive fast, fall hard, I'll keep you in my heart
Don't worry about tomorrow, don't mind the scars
Just drive fast, fall hard
At nineteen, I was the king of the dirt
Down at the Remington draw
I liked the pedal and I didn't mind the wall
'Midst the roar of the metal I never heard a sound
I was looking for anything, any kind of drug
To lift me up off this ground
Drive fast, fall hard, I'll keep you in my heart
Don't worry about tomorrow, don't mind the scars
Just drive fast, fall hard
We met on the set of this B picture that she made
She liked her guys a little greasy
And 'neath her pay grade
We headed down to Baja in the desert,
We made our stand of it
Figured maybe together
we could get the broken pieces to fit
Drive fast, fall hard, keep me in your heart
Don't worry about tomorrow, don't mind the scars
Just drive fast, fall hard
I'll keep you in my heart
Don't worry about tomorrow,
Don't mind the scar
Just drive fast, fall hard
I got two pins in my ankle and a busted collarbone
A steel rod in my leg, but it walks me home
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"In Drive Fast ho usato la metafora dello stuntman… che è sempre una metafora del rischio, e dell’idea che tutti abbiamo dei pezzi rotti. Le cose che spaventano e quelle che ci esaltano sono ciò che ci ispira, e sono spesso molto vicine tra loro. Quei sentimenti sono l'essenza di ciò che ci spinge a rischiare nella vita e nell'amore. Tutti abbiamo qualcosa che è rotto in qualche modo, fisicamente, emotivamente, spiritualmente… da questa vita nessuno se la cava senza un graffio. Ho scritto una canzone su un ragazzo che non ha solo il coraggio di fare il suo lavoro, ma anche il coraggio di rischiare a stare con qualcuno da amare.
Siamo sempre alla ricerca di qualcuno le cui fratture combacino con le nostre, per far emerge qualcosa di integro. Quindi, era solo una buona metafora… per una storia così." (Dal film Western Stars)
GUIDA VELOCE (LO STUNTMAN)
Ho due chiodi nella caviglia e una clavicola rotta
Un pezzo d'acciaio nella gamba, ma mi riporta a casa
A nove anni mi arrampicai sui rami sulla cima
Dell'albero più alto del nostro quartiere
Non ricordo la paura, solo la brezza
Guida veloce, cadi duramente, ti terrò nel mio cuore
Non preoccuparti per domani, non preoccuparti delle cicatrici
Guida velocemente, cadi duramente
A diciannove anni ero il re della terra
Al Remington draw
Amavo l’acceleratore e non mi importava del muro
In mezzo al rombo del metallo non ho mai udito un suono
Ero in cerca di qualsiasi cosa, qualsiasi tipo di droga
Che mi sollevasse da questa terra
Guida veloce, cadi duramente, ti terrò nel mio cuore
Non preoccuparti per domani, non preoccuparti delle cicatrici
Guida velocemente, cadi duramente
Ci incontrammo sul set di questo B movie che lei realizzò
Le piacevano i suoi ragazzi un po' sporchi di grasso
E sotto il suo livello
Ci siamo diretti a Baja nel deserto,
E ci siamo fatti avanti,
Immaginato che forse insieme
Saremmo riusciti a far stare insieme i pezzi rotti
Guida veloce, cadi duramente, tienimi nel tuo cuore
Non preoccuparti per domani, non preoccuparti delle cicatrici
Guida velocemente, cadi duramente
Ti terrò nel mio cuore
Non preoccuparti per domani,
Non preoccuparti della cicatrice
Guida velocemente, cadi duramente
Ho due chiodi nella caviglia e una clavicola rotta
Un pezzo d'acciaio nella gamba, ma mi riporta a casa
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Ciao nonno, oggi giorno 23 Marzo 2020 è un giorno speciale per te perché potrai finalmente rivedere e riabbracciare la tua famiglia, lo so era da tanto che lo volevi ma non volevi abbandonarci e soprattutto non volevi lasciare nonna da sola, ma non preoccuparti, ci saremo noi a prenderci cura di lei. Sai ci sono tante cose che non sono riuscito a dirti e mi fa male dovertele scrivere qui ma spero che questo messaggio arrivi a te nonostante non ci siano i social dove sei ora. Innanzitutto volevo dirti grazie, grazie per essermi stato vicino, per avermi sopportato, per avermi fatto crescere, per essere stato sempre presente nella mia vita e a darmi coraggio e speranza... mi mancheranno le nostre chiacchierate, le partite a scopa, a briscola, il caffè insieme, la sigaretta che ti scroccavo sempre perché non mi andava di rollare, le passeggiate in campagna, raccogliere le olive, guardare i film western che ti piacevano tanto, ascoltare le tue storie... nonno mi mancherà tutto il tempo trascorso insieme ma soprattutto mi mancherai tu. Un altra cosa che non ti ho mai detto è che sono fiero di te, hai avuto una vita piena di gioia ma anche di dolore. Hai saputo crescere assieme alla nonna 4 figli bellissimi, non gli avete mai fatto mancare nulla e neanche a noi nipoti. Sappiamo che hai sofferto tanto ma non volevi darlo a vedere, solo negli ultimi tempi lo hai fatto ma noi lo sapevamo già da prima. Hai sempre voluto il bene di tutti e se oggi sono una persona così forte oltre a tuo figlio e mamma lo devo a te. Io oggi non voglio dirti addio ma salutarti come ho sempre fatto, ciao nonnì. Ci vedremo presto e che gli angeli possano accompagnarti lungo questa strada senza soffrire più. Ti voglio tanto bene nonno ti regalo il mio sorriso, abbine cura come io avrò cura del tuo❤
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senzabarcode · 6 years
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Roberto Maccaroni si racconta in una lunga intervista, dalla prima band formata da ragazzo, fino ai grandi palchi condivisi con Fabrizio Moro.
La musica è passione, è qualcosa che non si sceglie. Una necessità. E ce lo dimostra anche la storia di Roberto Maccaroni, artista romano, cantautore e chitarrista. I più lo conoscono come chitarrista di Fabrizio Moro, ma Roberto ha alle spalle una lunga gavetta, tanti sacrifici e un progetto artistico tutto suo, con una sua band, gli Strani Giorni, che ha annunciato nuove date proprio in questi giorni.
“Sono arrivato a questa band dopo tanti esperimenti e tante altre situazioni con altri gruppi.” Racconta Roberto Maccaroni. “Ho comprato la mia prima chitarra elettrica che avevo 16 anni, ho iniziato davvero presto. E iniziai dopo essere stato a vedere un concerto dei Cure, al PalaEur. Proprio quella sera decisi che anche io avrei voluto scrivere canzoni e avere una band. E che avrei voluto calcare quel palco. Qui c’è anche un sogno realizzato, perché molti anni dopo, proprio insieme a Fabrizio, sono riuscito a suonare sopra a quel palco. Quindi, come ti dicevo, proprio dopo quel concerto andai a comprare la mia prima chitarra e tramite un annuncio trovai delle persone per iniziare a suonare.”
La determinazione, la passione, e soprattutto il talento, iniziano così a scrivere la storia musicale di Roberto Maccaroni
“Iniziammo nei garage, nei pub, nelle sale prove con cover dei Cure, ma non solo. Fin dall’inizio eravamo atipici, perché suonavamo già dei pezzi nostri. Avevo tanta voglia di scrivere, anche se mi vergognavo a cantare. Ho cambiato varie formazioni, fino a quando non ho conosciuto Daniele Teodorani.”
Teodorani attualmente si occupa della produzione di Fabrizio Moro, ed è una persona molto importante nel percorso artistico di Roberto Maccaroni. “Con Daniele, polistrumentista, c’è stato subito un bel feeling. Avevamo un’idea comune della musica e dei progetti che volevamo realizzare insieme. Insieme a lui sono nati gli Strani Giorni. All’inizio eravamo in quattro. Insieme a noi, oltre al bassista Stefano Proietti, c’era anche un altro chitarrista, Fabio Massacesi, che davvero per me è come un fratello. Le nostre strade artistiche si sono divise, perché lui voleva sperimentare un altro genere, ma ci vediamo ancora più di prima. Ci aiutiamo molto e ci sosteniamo, ed è molto bello.”
Un sodalizio quello dei membri degli Strani Giorni che porta subito i suoi frutti nei concorsi in cui decidono di cimentarsi dopo un periodo di prove intense. “La cosa particolare è che dopo tante prove, e una decina di brani inediti, non avevamo ancora il nome, che di solito è la prima cosa che viene decisa in una band. Tutto nacque quando dovevamo iscriverci ad un concorso di Castelverde, e davanti ad una birra ci rendiamo conto che non sapevamo con quale nome segnarci.” Dopo una serie di idee improbabili, Roberto ha un’intuizione e dice “Strani Giorni”. Suonava bene, e al mattino dopo suonava ancora meglio. Nacque così questa band fortunata, che al quel concorso di Castelverde vince il primo premio e il premio della critica. Seguono il Pigro Festival, dedicato ad Ivan Graziani, il Festival di Sulmona, e molti altri concorsi in giro per l’Italia, dove Roberto Maccaroni e i suoi ragazzi raccolgono premi e consensi.
Esce così Un passo avanti, il loro primo cd, che segna l’inizio della collaborazione con Fabrizio Moro
“Daniele, quando era bambino, conobbe Fabrizio. I loro padri comprarono due terreni adiacenti, ed entrambi costruivano una casa per il futuro. Il sabato e la domenica andavano a mettere i blocchetti e si portavano i loro figli che hanno fatto così amicizia. I due ragazzi nel tempo si sono avvicinati alla musica. Daniele ha suonato anche la batteria per vari anni con Fabrizio.” Ecco quindi che nel 2007, l’anno in cui Fabrizio Moro vince Sanremo nella sezione giovani proposte con Pensa, gli Strani Giorni iniziano ad aprire le date del suo tour. “Il battesimo di fuoco fu a Roma Rock, un concerto a Capannelle che non dimenticherò mai. Ricordo la nostra incoscienza, perché avevamo tanta esperienza nei locali, ma non in palchi così grandi e con tutta quella gente. Non sapevamo nemmeno come impostare la scaletta.
Fabrizio ci diede tanta libertà. Lui non è geloso, non teme il confronto, anzi, è un generoso
Ci diede molto spazio, suonammo otto pezzi.” Fu il primo di una lunga serie di concerti in giro per l’Italia. Un sodalizio durato tre anni. Dopo Un Passo Avanti, al basso è arrivato Patrizio Placidi, ed è uscito il secondo lavoro del gruppo, L’invisibile spazio, un concept album. “Le varie canzoni sono come dei capitoli consecutivi che vanno a sviscerare un argomento. L’argomento che abbiamo scelto è L’Essenziale è invisibile agli occhi. Un concetto contenuto ne Il Piccolo Principe. Abbiamo lavorato molto anche alla copertina con Silvia Verzilli, un’artista molto brava e camaleontica, che è riuscita a trasferire il concetto di essenzialità anche nella grafica.” Il disco contiene La Speranza, uno dei brani a cui il gruppo è maggiormente legato.
“Per questa canzone abbiamo collaborato con Fabrizio nella realizzazione degli arrangiamenti – continua Roberto – gli piacque molto quel pezzo. Venne un paio di volte in sala per darci dei consigli e sistemare alcune cose. Lui era più esperto ed aveva già fatto dischi di serie A. Fu molto bello lavorare con lui, mise anche dei cori. Lì si è stretto anche di più il rapporto con Fabrizio, siamo cominciati ad entrare più in intimità. Collaborare su una canzone è una cosa molto personale. Per farci mettere le mani a qualcuno ti devi fidare, e inizia a diventare una persona molto vicina a te.” L’invisibile spazio è un album a cui Roberto Maccaroni è davvero molto legato, e per cui sono stati realizzati ben quattro videoclip. Un lavoro accurato e appassionato.
Sicuramente l’inizio della collaborazione come chitarrista di Fabrizio Moro ha stravolto tutti gli equilibri e i tempi, non solo della band, ma anche e soprattutto di Roberto
Quello che era un secondo lavoro, la musica appunto, è diventato il mestiere principale e totalizzante. Il chitarrista infatti lavorava in Rai, per una cooperativa che collaborava con UnoMattina. Un’occupazione che male si accorda con la vita del musicista che va spesso a dormire tardissimo. “La mia vita e quella di Daniele in questi ultimi anni si è un po’ sconvolta. Siamo stati impegnati e abbiamo un po’ allentato con la band e per dedicarci al progetto di Fabrizio. Ho avuto il privilegio di essere coinvolto da lui anche a livello autorale, quindi per me è stata una grossa fortuna e una grossa soddisfazione. Appena sono entrato Fabrizio doveva finire di scrivere Pace. Mancavano due o tre brani per ultimare il disco.”
“Decise di affittare una baita sul Lago di Trevignano e invitò noi della band ad andare ogni volta che volevamo, per passare le giornate insieme e magari scrivere qualche brano. Io ero quello più libero di tutti, perché avevo scelto lasciare il lavoro, e non mi sembrò vero di avere questa possibilità. La cosa più importante per me era conoscerlo e portare tutto il rapporto al livello umano. Tutta la complicità che poi vedi sul palco, l’unione che c’è, nasce proprio da queste piccole cose, dallo stare insieme.” Fu proprio in uno dei momenti passati insieme in quella baita che nacque L’Essenza, uno dei pezzi di Pace.
Un brano scritto di getto: “una facilità di scrittura che ho visto davvero a pochi autori” ci racconta Roberto
Nello stesso modo nacque Intanto. Due pezzi, due magie, come ama definirle Maccaroni. “La cosa più bella di quelle giornate, che non dimenticherò mai, fu vivere la quotidianità con Fabrizio.” Piccole cose, un thè insieme, la spesa, il cucinare, la musica condivisa. Semplici dettagli che uniscono davvero le persone e le fanno sentire più intime e meno bisognose di indossare protezioni e sovrastrutture. Forse anche per questo Pace è un album molto maturo, non solo nei testi, ma anche negli arrangiamenti. “Al di là dei pezzi, che hanno tutti un filo conduttore e sono tutti molto belli – spiega Roberto – credo che questa maturità nel sound sia anche frutto nostro. Quando lui ha scelto di cambiare alcuni elementi della band, lo ha fatto non per un discorso di avvicendamento tecnico, ma proprio di sound, per un approccio meno da musicista e più da compositore. Ha voluto che lo stile di ognuno di noi contaminasse il suo.”
“Fabrizio ci ha scelto ed è stato un leader carismatico. Ci ha dato carta bianca, facendoci tirare fuori la nostra personalità”
Un’unione che traspare ed è evidente sul palco, dove Fabrizio Moro non sembra un solista, ma piuttosto il front man di una band. “Sono contento che arrivi questa cosa alle persone, perché era proprio il nostro intento. Quando ti senti coinvolto in un progetto quella che viene fuori è proprio l’unione di anime e di idee. Si è creata una bella alchimia a livello umano. Sono tre anni che viaggiamo insieme e non abbiamo mai litigato. Andrea è quello pazzerello, senza di lui ti annoieresti a morte. Claudio è il guidatore instancabile. Alessandro è quello più tecnologico. Io e Danilo siamo quelli che hanno sempre le forniture di birra e panini. Ognuno ci mette del suo e ha la sua peculiarità. Io per esempio sono quello più estroverso a livello di look.”
Roberto Maccaroni infatti per tutti i fan di Fabrizio Moro è lo Sceriffo, un soprannome che nacque nel 2008, durante il secondo anno da gruppo spalla
“In Un passo avanti c’è una canzone che si chiama Solo un Dejavù, dedicata a due dei più grandi artisti che abbiamo in Italia, Sergio Leone ed Ennio Morricone. In questo brano abbiamo richiamato volutamente delle sonorità western, grazie a delle chitarre che si usavano negli anni ’60. Quando presentavo questa canzone mi mettevo un cappello da sceriffo. Finito il concerto me lo lasciavo sul collo col laccio, e al termine della performance tutti lo andavano a toccare e mi dicevano “Ehi Sceriffo!” Essendo cresciuto negli anni ’70 mi è sempre piaciuta la teatralità che c’era nei concerti di quell’epoca e che oggi si è un po’ persa. Stile David Bowie, Freddie Mercury, Renato Zero.”
“Ho continuato quindi a portarmi questo capello, anche il primo anno in cui ho iniziato a suonare con Fabrizio. Lui stesso, una volta a Civitavecchia, mi disse che avevo un bel look e un bel potenziale. “Centralo ancora di più” mi disse e mi diede una serie di consigli. E lì è tornata questa cosa dello Sceriffo. Uno Sceriffo 2.0, rivisitato.” Un artista particolare, eclettico, con uno stile unico e riconoscibile. Lo stesso stile con cui sceglie le sue chitarre. “Io uso chitarre che non sono usuali. Rispetto alla maggior parte dei chitarristi, non mi è mai importato di avere un bel suono, ma di avere un mio suono. Una cosa riconoscibile, solo mia. Una mia voce. Ho cercato strumenti che si usavano poco o perlomeno che si usavano in un altro genere, per portarli nel mio.”
Roberto Maccaroni sperimenta, azzarda e i risultati sono sotto gli occhi di tutti
Una chitarra degli anni ’60 sul genere di Fabrizio Moro ha sicuramente dato un respiro diverso ai suoi brani, dando loro un taglio unico. Un lavoro lungo e portato avanti con passione, che ha permesso a Roberto e a tutta la band di esibirsi questa estate in un tour stupendo, partito dallo Stadio Olimpico di Roma. Un sogno condiviso tra lui e Fabrizio, così come lo è stato esibirsi nel teatro di Taormina, dove sono passati duemila anni di storia e di musica. Emozioni uniche, irripetibili, rese possibili solamente dalla volontà di farcela, dal grande lavoro e dal talento. “In quei momenti ho pensato ai miei, che all’Olimpico erano in platea, e che hanno fatto tanti sacrifici per me. Questi sogni che realizzo li dedico sempre a loro, che hanno creduto in me fino alla fine.” Un messaggio d’amore e di gratitudine profondo che chiude questa lunga chiacchierata da cui trarre un importante insegnamento: i sogni vanno inseguiti. Vanno afferrati, presi per mano e non mollati mai.
Quando si arriva in vetta sarà valsa ogni ferita, ogni caduta e ogni lacrima versata
Roberto Maccaroni e la musica, un sogno lungo una vita Roberto Maccaroni si racconta in una lunga intervista, dalla prima band formata da ragazzo, fino ai grandi palchi condivisi con Fabrizio Moro.
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Abbiamo tutti bisogno di supporto
Mentre stavo lavorando con il nostro team per preparare il prossimo annuncio # Germinder20 #PowerofPinkHonoree su Manolita Moore, mi ha colpito quante persone con cui ho collaborato nella professione veterinaria che non sono veterinari. Ci vuole un villaggio, un villaggio molto grande per portare la medicina veterinaria al pubblico. In un ospedale veterinario ci sono infermieri veterinari e addetti alla reception, responsabili di studi medici e consulenti affini. Nella medicina veterinaria organizzata e nell'industria, le legioni di veterinari e non veterinari che lavorano insieme diventano ancora più grandi.
A dire il vero, sono stato fortunato a conoscere e lavorare con così tanti brillanti veterinari certificati da bordo extra speciali che si sono distinti come è stato evidente con il dottor Dan Richardson, l'ultimo potere di Pink Honoree, e Drs. Lopbrise, Colleran e Horwitz hanno nominato prima di lui. Ma sono anche andati ben oltre per fare da mentore e riconoscere gli altri intorno a loro che a volte sono veterinari e talvolta no. Quindi, non pensavo che gli sarebbe dispiaciuto, e non pensavo che al loro collega sarebbe dispiaciuto, una svolta nel riconoscere come questa grande professione veterinaria mescola così bene i veterinari e le squadre di supporto. Così bene che posso contare molte persone, incluso me stesso, che entrano nella medicina veterinaria da altri settori, e semplicemente non voglio andarmene! Manolita Moore ed io facciamo parte di quel gruppo e ne siamo molto appassionati.
Ho incontrato Manolita Moore quando abbiamo lanciato Goodnewsforpets.com nel 2000, quando la Western Veterinary Conference (WVC) era un cliente sotto Steve Crane, DVM, DACVS, ex direttore esecutivo, ancora un altro prezioso veterinario certificato dal consiglio che mi ha aiutato a far uscire Germinder + Associates il terreno. Il Dr. Crane ci ha dato l'opportunità di mostrare le nostre cose, gestendo la tradizionale sala stampa del WVC e lanciando anche la prima versione di questo sito, Goodnewsforpets.com e una redazione virtuale per WVC. C'è un'altra persona professionalmente imparentata con lei da riconoscere, ma la salvo per una buona ragione.
Manolita è stata accusata di aver gestito la .com Discovering Zone (e molto di più quell'anno). Abbiamo vinto un premio PRISM capitolo PRSA di Greater Kansas City per il nostro lavoro per WVC quell'anno e il primo premio PRISM per il sito web di lancio. Inoltre, abbiamo guadagnato un collega e un amico per decenni. Grazie dottoressa Crane per avermi fatto conoscere Manolita e per il tuo incrollabile sostegno. E grazie Manolita, la nostra prossima # Germinder20 #PowerofPinkHonoree.
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edicolaelbana · 5 years
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Vent’anni di Foglio Letterario 
Sembra ieri che abbiamo cominciato questa avventura di pubblicare una rivista letteraria e qualche anno dopo siamo passati a editare libri. Sembra ieri ma sono trascorsi vent’anni, così lunghi e intensi da volare via in un batter d’occhio, ché se ti guardi indietro pare tutto un interminabile istante. Eravamo quattro amici al bar, direbbe la canzone, se ne sono aggiunti altri, moltissimi sono cambiati, ma l’anima underground del Foglio Letterario resta quella del maggio 1999, del mitico numero uno di una rivista stampata in parrocchia in uno spartano formato A4. Ne abbiamo fatte di cose in vent’anni: concorsi letterari, pubblicazione di giovani autori, partecipazione a fiere, eventi, presentazioni, senza mai cambiare pelle. Abbiamo cominciato contando solo sulle nostre forze e siamo ancora qui a lottare contro l’editoria a pagamento, contro le facce di bronzo che si fanno grandi con i soldi degli altri, contro il dilettantismo allo stato brado e l’improvvisazione. In questi ultimi tempi abbiamo rivitalizzato la rivista (nostra anima) grazie a Vincenzo Trama, che la dirige con passione, alternando il nuovo con il vintage, ripubblicando perle del passato, numeri storici, supplementi, dando spazio a nuove firme con alcuni contributi selezionati. Trovate tutto su www.ilfoglioletterario.it. Ne vale la pena, credete. Letteratura e approfondimenti a costo zero, senza un inserto pubblicitario, tutto per passione, senza secondi fini. Vent’anni e dieci partecipazioni al Premio Strega, non è un vanto ma è cosa da ricordare: sette autori del Foglio (Virani, Saba, Volpe, Guerri, Altamura, Izzo, Ciccone) e tre mie presentazioni con libri editi da altri editori (Calcio e acciaio, Miracolo a Piombino, Sogni e altiforni). Viste le nostre dimensioni, partecipare significa dire che abbiamo gareggiato alla pari con gli altri, più ricchi e potenti, piccolo Davide che sfida Golia. Abbiamo scoperto e lanciato molti autori nell’olimpo della grande editoria - spesso grande per capitali disponibili, non per spirito di ricerca -, che resta il nostro scopo principale. Basti citare Lorenza Ghinelli, autrice di successo Rizzoli, da me scoperta con Il divoratore e Sacha Naspini, ancora in catalogo con L’ingrato e I sassi, approdato a E/O con Le case del malcontento. Wilson Saba, apprezzato autore Bompiani, è stato il nostro primo giovane di valore: finì undicesimo al Premio Strega con Sole e baleno, nel 2003, subito dopo è entrato in Bompiani e da un po’ di anni fa parte degli Amici della domenica. Farei un torto a tutti i bravi componenti della scuderia del Foglio se citassi altri, perché ogni nostro libro è stato scritto da un autore che ha qualcosa da dire ed è stato pubblicato dopo accurata selezione. Il successo è qualcosa di molto aleatorio, non sempre concorda con la qualità, visto che ottimi scrittori vengono pubblicati da piccoli editori. Possiamo dire con vanto di aver fatto vent’anni di editoria onesta, aggiungendo che non è la stessa cosa di onesta editoria, perché ci siamo impegnati a non scendere mai a compromessi, a non chiedere contributi agli autori, a non scegliere strade facili per ottenere lo scopo perseguito. Il Foglio Letterario pubblica due collane di Cinema - quella storica è diretta da Giovanni Modica - uniche sul mercato editoriale italiano, cercando di valorizzare fenomeni culturali popolari (horror, western, noir …), registi e attori italiani da non dimenticare (Deodato, Fulci, Mattei, Argento, Jacopetti, Di Leo, Gloria Guida, Franco & Ciccio …). Non solo, si occupa di saggistica alternativa in campo musicale (black metal, rock, dark …), traduce scrittori cubani, pubblica narrativa per ragazzi (Antonino Genovese dirige la collana omonima ed è autore di punta) e persino poesia (curata e selezionata da Fabio Strinati). Tutto questo senza aver mai tentato di trasformare un’editoria di pura passione in un mestiere, ché la casa editrice è espressione di compositi amori culturali presenti tra collaboratori e redattori. Forse è per questo che quando partecipiamo a una fiera del libro ci rendiamo conto che in vent’anni abbiamo perso tanti compagni d’avventura. Forse è per questo che noi siamo rimasti e altri hanno abbandonato. Forse è per questo che non abbiamo mai pensato di modificare il nostro spirito underground, che ci ha sempre animati. A proposito di fiere del libro, ne facciamo ancora alcune, solo piccole e medie, più vicine alla nostra realtà, dopo aver sperimentato persino il Salone del Libro di Torino, che lasciamo ai colleghi bisognosi di pubblicizzare la loro vanità. In compenso facciamo da sempre la Fiera del Libro di Pisa - che consideriamo la nostra fiera, visto che siamo nati insieme - e quella di Imperia, senza dimenticare che Antonino Genovese si è inventato una bella realtà a Gioiosa Marea, in provincia di Messina. Patrizio Avella è un collaboratore che fa parte della nostra famiglia da circa cinque anni, viene dalla Francia ma è di origini italiane, si occupa di marketing, scrive thriller ed è esperto di cucina. Grazie al suo camper e alla sua disponibilità ci spostiamo in giro per l’Italia e siamo presenti a eventi che prima non riuscivamo a fare. Inoltre abbiamo ampliato l’attenzione alla nostra realtà locale, curando libri su storia, tradizioni, personaggi, cultura maremmana in generale e piombinese in particolare. Piccolo è non solo bello ma fondamentale; non dimenticare le nostre radici, come diceva il buon vecchio Proust, è non solo basilare ma vitale. Non so se resisteremo altri vent’anni, ma non dubitate che - come i personaggi dei nostri western preferiti - venderemo cara la pelle.  
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pangeanews · 4 years
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L’epopea di “Pulp Libri”: quando il romanzo era rock. Francesco Consiglio dialoga con Fabio Zucchella e Umberto Rossi
La parola scritta tracima, inonda il web, ci fa affogare dentro fiumi di parole, migliaia di blog letterari, milioni di utenti social che scrivono, scrivono, scrivono. Tutti scrivono e l’editoria è in crisi. Sempre meno gente legge i giornali cartacei: gente anziana o di età matura. E quanto alle riviste letterarie, chi si ricorda di essersi recato in edicola a comprarne una? Credetemi, siamo in pochi, anche perché quel tipo di riviste non ha mai potuto godere di una distribuzione capillare. Ieri, all’edicola sotto casa, ho contato sedici riviste di gossip e due letterarie: L’indice dei Libri e La Lettura, la testata culturale del Corriere della Sera. Anche la rivista Poesia, fondata nel 1988 da Nicola Crocetti (80 anni questo mese), abbandona le edicole. Finita sotto il controllo della Feltrinelli, verrà distribuita nelle librerie.
Ciò significa che di letteratura si scrive poco? Nient’affatto. I migranti della scrittura hanno trovato i porti aperti del web e sono sbarcati a frotte: giornalisti licenziati o in cassa integrazione, critici senza lavoro, poeti senza lettori, aspiranti scrittori rifiutati perfino dalla Pizza&Fichi Editrice, ma anche tanti appassionati (mi ci metto anch’io, scrittore perennemente in cerca di uno ius soli letterario). Il web accoglie tutti, viva il web!
Oggi per Pangea ho intervistato Fabio Zucchella, caporedattore di una mitica rivista letteraria, Pulp Libri, e Umberto Rossi, uno degli articolisti più attivi e colti della redazione.
Pulp Libri apparve in edicola nell’aprile 1996, nata come inserto di Rumore, una delle più importanti riviste italiane di cultura musicale, e i suoi primi collaboratori provenivano dal mondo dei critici e degli appassionati del rock e della musica alternativa. Fin dalla grafica, Pulp Libri era un unicum, almeno in Italia, poiché richiamava alla mente riviste statunitensi di letteratura popolare che trattavano di fantascienza, racconti polizieschi, western, guerra e splatter. Tuttavia, non fu mai univocamente dedicata al genere pulp, ma, numero dopo numero, provò a indagare l’intero fenomeno della scrittura, dal classico al fumetto, dalle canzoni d’autore alle sceneggiature cinematografiche.
Marco Lanterna, ne Il caleidoscopio infelice. Note sulla letteratura di fine libro, ha scritto che Pulp Libri si connotava per “l’assolutezza critica (cioè l’assenza di calcolo o tornaconto), l’anarchia metodologica, il convincimento che si debba combattere per l’idea, anziché lasciar perdere secondo comode nenie fataliste, fosse solo per una questione di stile, di condotta, di etica”.
La versione cartacea ha cessato di esistere con il numero 104, nel luglio del 2013, dopo 17 anni di uscite bimestrali regolari. Oggi è pubblicata on line (www.pulplibri.it).
Pulp Fiction è un film del 1994 diretto da Quentin Tarantino. Pulp Libri nasce nel 1996. Suppongo che il titolo sia un omaggio al regista statunitense…
Zucchella: No, no. Quel nome non è stato un omaggio in particolare a Tarantino.
Ops, senti il glu glu dell’intervistatore? Colpito e affondato. Vorrei però capire se la rivista mirava a spingere scrittori legati a quel tipo di poetica comunque legata a Tarantino: storie sensazionali con venature grottesche, scrittura epidermica, un forte carattere di divertissement citazionistico.
Zucchella: Da lettore accanito dei Gialli Mondadori o di Urania, da parecchio tempo sapevo benissimo cosa fosse la vera pulp fiction, e il citazionismo postmoderno l’avevo già metabolizzato tramite Barthelme o Barth. Tuttavia, ci piaceva l’idea della “polpa della letteratura” da addentare e da gustare anche cruda, grezza (raw power…), quindi senza particolari mediazioni paludate. Da lettori (certo, un po’ specializzati) per lettori. Volevamo parlare degli autori che ci piacevano, all’epoca spesso dimenticati dall’editoria, degli eterodossi, dei cani sciolti, di quelli confinati nel ghetto delle riviste da edicola, perché pensavamo che in mezzo a quella cosiddetta spazzatura ci fossero cose molto interessanti. Per questo ci accusarono anche di snobismo.
Rossi: Spesso mi chiedevano per quale rivista scrivessi, e quando rispondevo Pulp Libri qualcuno storceva la bocca e rispondeva: “Ma a me non piace il Pulp!”, ovviamente pensando a Tarantino. In realtà la rivista parlava di tutto e il contrario di tutto. È vero che andavamo a trattare gli scrittori trascurati o ignorati o dimenticati sia dall’editoria che dalle pagine culturali dei grandi quotidiani, che già allora correvano appresso alle mode o erano impegnati in scambi di favori. Scrissi due articoli piuttosto sostanziosi su Steve Erickson e John Hawkes, che non sono mai stati autori di moda. E poi c’era sempre l’attenzione per le piccole, anche piccolissime case editrici, che per questo ci si erano affezionate. E poi in ogni numero c’era la rubrica di Renzo Paris che rileggeva i classici; non ci facevamo scappare neanche quelli…
Molti autori che scrivevano per Rumore, cominciarono a scrivere recensioni librarie con lo stile e l’approccio con il quale scrivevano quelle dei dischi. Il target di riferimento erano gli appassionati di rock che occasionalmente leggevano romanzi?
Zucchella: L’idea fu dell’editore di Rumore (e prima ancora di Rockerilla), Claudio Sorge, che mise in piedi una piccola redazione guidata da Claudio Galuzzi e coadiuvata inizialmente da me e da Marco Denti. Da tempo tutti, a vario titolo, scrivevamo di musica, avevamo un passato più o meno anche punk. Sapevamo che il lettore di Rumore sicuramente leggeva romanzi e guardava film: così provammo per un paio di numeri, se non ricordo male, con un inserto di libri e l’esperimento ebbe molto successo. Le cose partirono così. Dopo un paio di anni purtroppo Galuzzi venne improvvisamente a mancare, e il timone passò in mano al sottoscritto. In seguito la redazione comprese Claudia Bonadonna e Marco Philopat. L’approccio diciamo così ‘pop’ era complessivo, quindi riguardava anche il progetto grafico, realizzato da Giacomo Spazio. Poi naturalmente con il passare degli anni la rivista è cambiata (si è evoluta?), ma senza mai perdere di vista la sua natura essenzialmente “pratica”: un bimestrale da edicola che potesse fornire una guida ragionata e affidabile ai libri, a certi libri, cercando di presentare autori o filoni che ritenevo interessanti.
Rossi: Devo aggiungere che la rivista s’era fatta conoscere. S’era fatta un nome. Nel periodo in cui la versione a stampa non esisteva più e quella online ancora non era stata attivata mi capitava ogni tanto di incontrare persone, fisicamente o su Facebook, che dopo un po’, quando mi facevo sfuggire che facevo il critico letterario, mi chiedevano dubbiosi: ‘Ma non sarai mica quell’Umberto Rossi di Pulp?’. Mi resi conto allora che le nostre cose erano lette, e con attenzione. Pensa che ci sono diversi affezionati lettori che hanno la serie completa della rivista, e altri aficionados che, nel periodo in cui feci le funzioni di caporedattore, ci scrivevano per chiederci dove potevano trovare i numeri che gli mancavano. Quando con Gallo facemmo partire la pagina Facebook di Pulp che poi si sarebbe trasformata nella versione online attualmente in attività, non faticammo affatto a convincere gli uffici stampa a mandarci le copie per le recensioni. Erano tutti contentissimi che la rivista fosse tornata. E tutti la conoscevano. Tra gli addetti stampa Pulp Libri era una presenza familiare e tutto sommato rispettata. Specialmente negli uffici stampa della piccola editoria.
Una giovane redazione è un crocevia di speranze, illusioni, utopie e voglia di emergere. Ricordi qualche nome importante che ha scritto su Pulp e successivamente si è affermato come scrittore e come giornalista?
Zucchella: ‘Giovane’ non più di tanto, visto che quasi tutti avevamo superato abbondantemente la trentina. Per quel che riguarda speranze etc, non ti saprei dire: quasi nessuno di noi era un professionista; hanno collaborato soprattutto lettori, certo molto forti e un po’ ‘particolari’, che nella vita facevano altre cose: insegnanti, medici, fotografi, bibliotecari, traduttori, librai, pubblicitari, ricercatori universitari. Inevitabilmente non sono mancati personaggi (pochissimi, per fortuna) in cerca di visibilità e di appigli per costruirsi una carriera, ma sono stati più o meno cordialmente messi alla porta. Tra i collaboratori ci sono stati anche dei professionisti, con i quali c’erano (e ci sono) rapporti personali di stima: ad esempio Severino Cesari, Giuseppe Culicchia, Valerio Evangelisti, Paco Ignacio Taibo, Paul Virilio, Carlo Lucarelli, Niccolò Ammaniti, Tiziano Scarpa sono i primi che mi vengono in mente. Roberto Saviano, il Saviano pre-Gomorra, è stato un collaboratore molto presente e propositivo.
Rossi: Alla lista di mestieri elencati da Fabio andrebbero aggiunti anche un dirigente della sanità regionale e un tecnico di una ASL. Era un’umanità assai variegata quella che collaborava, anche se guardiamo solamente a chi scrisse per la rivista per anni, e non occasionalmente. Volendo riassumere, i collaboratori di Pulp si dividevano grosso modo in quattro gruppi: c’erano gli scrittori e i poeti; c’erano gli operatori dell’editoria (traduttori, editor, talent scout, etc.); c’erano quelli, come me e altri, di formazione accademica, con una laurea in lettere o lingue e letterature straniere in tasca; e c’erano i lettori forti se non fortissimi. E per me proprio la compresenza di queste tipologie così differenziate di recensori faceva della rivista qualcosa di unico.
Un vostro collaboratore mi ha detto: “Se anche massacravi un libro, ma argomentando la tua valutazione negativa, Zucchella non si faceva problemi a pubblicarla. Mai successo che un pezzo venisse respinto perché si osava criticare qualche nome illustre”. Eravate così fuori dal giro da non temere nessuno?
Zucchella: Sinceramente la questione di essere o meno nel giro – o di volerci entrare – non si è mai posta, almeno per il sottoscritto e per molti dei collaboratori. La stroncatura di per sé non mi interessava più di tanto, alla fin fine preferivo usare quello spazio per recensire un buon libro (o che comunque ritenevo tale). Ovviamente la rivista non era così ingenua né sprovveduta, certe storture del sistema erano un po’ sotto gli occhi di tutti, anche degli involontari addetti ai lavori come noi (ad esempio, credo che l’unica recensione negativa a un libro di Baricco la si poté leggere sul New York Times, a firma di Nick Tosches). Per qualche anno sulla rivista c’è stata una seguitissima rubrica intitolata “I ritratti dell’editoria italiana”. Daniele Brolli è sempre stato particolarmente lucido – o feroce, a seconda dei punti di vista – nel descrivere certi tic ‘culturali’, un certo mondo (o demi-monde) popolato di editori, agenti, autori, giornalisti, editor. Naturalmente i suoi “Ritratti” hanno causato problemi, sia a lui che a me. Ma era inevitabile.
Rossi: Di Brolli mi piace ricordare la sua serie di elzeviri sulla Pivano. Come ha detto Fabio, feroci. E secondo me, tutto sommato, giustamente. Comunque, se uno va a leggere un numero scelto a caso di Pulp Libri scoprirà che di stroncature non ne uscivano poi molte. Si cercava sempre di valorizzare il libro per quello che valeva; non si sparava il cannone per antipatie o per guerra di bande, come capita altrove. Diciamo anche che, dando spazio a chi veniva deliberatamente ignorato dalle pagine culturali e dalle rubriche mediatiche monopolizzate dalle grandi case editrici, di fatto operavamo, implicitamente, una critica all’andazzo del sistema. Questo non va trascurato.
Con il gran numero, sempre crescente, di book influencer, le miriadi di blog e un accesso sempre più facile ai palcoscenici del web, scrivere recensioni librarie è diventato un campo minato. Se stronchi un autore mezzo conosciuto, i suoi aficionados ti scatenano addosso una shit storm.
Zucchella: Da questo punto di vista seguo poco il web, e spesso vedo cose che eufemisticamente non mi piacciono granché. Di ciò di cui mi parli non so praticamente nulla – anche se mi pare il corrispettivo, ingigantito, di quello che accadeva vent’anni fa. Presumo sia l’inevitabile corollario dell’information overload connaturato alla rete, e della sua accessibilità.
Rossi: Quando facemmo ripartire Pulp Libri in forma digitale nell’estate del 2017 io mi misi d’impegno a contattare i vecchi collaboratori. M’ero segnato i nomi dei recensori su un quaderno, prendendoli da vecchi numeri della rivista, e li cercai caparbiamente con Google. Alcuni accettarono di tornare a scrivere e ancora scrivono per la rivista online; altri avevano mollato completamente libri ed editoria, per cui declinarono. Qualcuno, come Fabio Donalisio, lavorava per un’altra rivista. Alcuni mi dissero che ormai s’erano fatti il blog, che le case editrici i libri glieli mandavano comunque per le recensioni, e grazie per averli chiamati. Ecco, questo dei blog è stato il grande cambiamento, e non sempre da disprezzare. Ci sono blog validi, come ad esempio quello di Tommaso Pincio. Poi ci sono gli influencer: quelli che postano su Instagram la foto del libro con una composizione più o meno artistica intorno. E non siamo neanche sicuri che l’abbiano letto davvero. Tutte queste modalità nuove di fare critica (sempre che critica si possa chiamare, e non sia semplicemente pubblicità fai-da-te) hanno cambiato il quadro della situazione. Non è solo questione di essere attaccati dai tifosi del dato scrittore se lo valuti negativamente, o dai seguaci del blogger se contesti qualche sua esternazione; il problema è che ora c’è una grossa concorrenza derivante da questi nuovi canali di comunicazione, che in certi casi sono tenuti in gran considerazione dagli uffici stampa…
Tra tanti giovani, c’era Renzo Paris; che a tutti gli effetti potremmo definire il Grande Vecchio di Pulp. Come c’era finito?
Zucchella: Paris fu un contatto di Galuzzi, se non ricordo male. Obiettivo della sua rubrica (“Il tempo ritrovato”) era quello di togliere un po’ di polvere dai Sepolcri Imbiancati della Letteratura, di far rivivere l’attualità di certi classici.
Rossi: Fu Renzo a dirmi, un paio d’anni fa, che su Pulp Libri si recensivano i libri come fossero dischi. Diciamo che lui costituiva un contrappeso allo stile talvolta dadaista e talvolta rockettaro, di alcuni recensori. Come ha detto giustamente Fabio, lui rileggeva i classici. Ma non solo. All’inizio della collaborazione aveva destato interesse un libro che Renzo aveva scritto allora dove cercava di fare una panoramica della letteratura italiana del 2000, nel quale aveva trattato anche nomi e tendenze nuove. Insomma, Renzo teneva d’occhio anche i giovani leoni. E devo dire di aver letto ben pochi articoli su Houllebecq come quello che Renzo fece uscire su Pulp. La classe non è acqua.
Secondo te avrebbe senso oggi un ritorno di Pulp in versione cartacea?
Zucchella: Le condizioni sono drasticamente cambiate rispetto a 25 anni fa, com’è ovvio, sotto tutti i punti di vista. Cambiate molto in peggio, se possibile. Comunque penso di sì, avrebbe un senso.
Rossi: La vedo difficile. Stanno chiudendo le edicole. Parafrasando Bianciardi, la vita è agra per tutte le riviste. Per me la via giusta è quella della rivista online, magari gestita in modo più adeguato ai tempi. Pulp Libri sul web avrebbe ancora molto da dire e da fare, e per questo spero che continui a vivere. Ma per farlo deve giocare meglio la partita sui social, che piaccia o non piaccia sono uno spazio che va presidiato. Mi auguro che si comprenda questo.
Francesco Consiglio
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andreainthailandia · 6 years
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Parco Nazionale di Kaeng Krachan: 6 cose che ho fatto e qualche consiglio pratico!
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Phetchaburi e il Parco Nazionale di Kaeng Krachan:
se solo penso che pochi giorni prima dalla partenza per Phetchaburi  le notizie dei telegiornali e le immagini di alluvioni e straripamenti trasmesse dalla TV stavano per farci cambiare programma, mi ritengo fortunato perché alla fine al parco nazionale di Kaeng Krachan ci siamo andati, siamo stati benissimo e di pioggia ne abbiamo beccata relativamente poca!
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Vi dirò di più: anche se gran parte dei quasi 3.000 km² del parco in questa stagione sono chiusi al pubblico, andare a Phetchaburi durante il periodo del passaggio dei monsoni significa ritrovarsi padroni assoluti di un intero resort, trovare zero traffico e mischiarsi al turismo locale senza sgomitare con cinesi schiamazzanti o russi alticci (sempre che poi ci vadano da quelle parti visto che preferiscono di gran lunga Pattaya). Partiamo dal perché della scelta di Phetchaburi . Un paio di settimane prima eravamo andati al mare. Tempo fantastico, spiagge deserte. Potevamo bissare ma invece abbiamo deciso di passare la Festa della Mamma a contatto con la natura. E cosi ci siamo messi a tavolino a spulciare il sito in inglese con i Parchi Nazionali Tailandesi e quello forse con una grafica meno accattivante ma pur sempre interessante del Dipartimento dei parchi nazionali, della fauna selvatica e della conservazione delle piante. La mappa della Thailandia con appuntati quelli non ancora visti e non impossibili da raggiungere con il poco tempo a disposizione ha fatto il resto. DESTINAZIONE:  IL PIÙ GRANDE PARCO NAZIONALE DELLA THAILANDIA!
Il Parco Nazionale di Kaeng Krachan è stato dichiarato parco nazionale nel 1981e con una superficie di ben 2.914 km² è in assoluto il parco più grande di tutta la Thailandia. Si estende a cavallo delle province di Phetchaburi e Prachuap Khiri Khan, lungo il confine con la Birmania e fa parte del Western Forex Complex che copre ben 18.730 km² attraverso 19 siti protetti tra Birmania e Thailandia. Per decidere di partinre queste poche informazioni ci sono state più che sufficienti! Il Parco Nazionale Kaeng Krachan è famoso per la sua fauna selvatica, per le nebbie mattutine e per i suoi due fiumi principali, i fiumi Phetchaburi e Pran Buri, e il bacino artificiale della diga Kaeng Krachan.
Il picco più elevato, che si trova lungo il confine birmano e sfiora i 1500 metri, lo abbiamo visto solo da lontano perché come molti altri sentieri per il trekking segnalati nel parco, il percorso che ne consente la scalata è chiuso al pubblico da oramai oltre 4 anni (e le guardie non sanno se verrà riaperto o meno visti i problemi che nella zona ci sono).
All’interno del parco vivono 57 specie conosciute di mammiferi, ben 420 specie di uccelli e circa 300 specie di farfalle. Noi però orsi, tigri, macachi dalla coda mozza, cervi ed elefanti selvatici non ne abbiamo visti nonostante abbiamo passato gran parte del tempo nei boschi.
Scelto il parco abbiamo dovuto scegliere dove soggiornare e cosa vedere.
Bell’inghippo. Non conoscendo affatto la zona ci siamo affidati ai consigli di un’amica e, per la prima volta, ce ne siamo pentiti. Non che il resort consigliato non fosse comodo, accogliente, pulito e carino, anzi. Per quello che abbiamo pagato abbiamo decisamente avuto più di quanto aspettato! Il problema è che si trova fuori dal parco, a una 25cina di chilometri.
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Il The Canal Garden Resort (cliccando qui il sito ufficiale) è a metà strada fra il mare e il parco, immerso nel verde con tanto di lago e torrente, circondato da piantagioni di banani e ananas. Una piscina molto bella e camere spaziose e pulite. Offre inoltre molte attività ricreative – compresa una parete artificiale per le arrampicate. Ma quei 25 chilometri verso il lago o verso l’ingresso del parco o gli oltre 30 verso le sorgenti calde sembrano interminabili da quelle parti dove il segnale GPS è debole e i cartelli stradali sono esclusivamente in tailandese nel 90% dei casi. Sinceramente, se lo scopo è vedere il parco scegliete una struttura più verso le montagne (come ad esempio il Boathouse Paradise Resort o il Wang Won Resort – che se anche meno belli sono decisamente più adatti allo scopo).
Ed eccoci finalmente all’elenco di quello che siamo riusciti a fare noi, a parte starcene a poltrire in piscine o a leggere in giardino:
Delle sorgenti termali calde di Nong Ya Plong ve ne ho parlato qualche tempo fa ma non mi stanco di dire che sono state una piacevole (ri)scoperta del piacere di divertirsi e stare bene con il nulla e facendo nulla.
  Wildlife Friends Foundation Thailand (WFFT): oltre alle sorgenti abbiamo cercato di trascorrere una giornata nel centro del Wildlife Friends Foundation Thailand (WFFT), senza però riuscirci. Colpa nostra che siamo andati senza avvisare e al nostro arrivo una volontaria (decisamente scontrosa e poco disponibile) ci ha detto che senza prenotazione non si può accedere, non si possono fare foto, non si possono fare domande e non si po’ neppure parcheggiare fuori dai recinti dove sono tenuti gli animali.
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Diga Kaeng Krachan Dam: venne ufficicialmente inaugurata da Re Bhumibol (Rama 9) e da sua moglie nel 1966. Si tratta di una diga terrestre lunga 760 m e alta 58 m, con un bacino di 46,5 km. Oltre a produrre elettricità, serve come riserva per l'irrigazione, l'approvvigionamento idrico e la pesca. Oltre alla passeggiata panoramica dalla cima della diga parte un bel sentiero che si addentra nei boschi. Noi ci abbiamo trascorso una giornata intera ma solo il punto panoramico si visita in un apio di ore scarse.
Farfalle del Ban Krang Camp: come perdersi lo spettacolo di così tante farfalle? Questo punto di osservazione del parco non è facile da raggiungere ma vale la pena organizzare l’escursione perché a me non era mai capitato di vedere così tante farfalle tutte insieme. Non sono un esperto ma credo che ci sia un motivo dietro tale abbondanza. Un consiglio pratico: se non avete un pick-up non avventuratevi oltre il torrente. Parcheggiate e risalite il ruscello lungo il sentiero. La passeggiata è semplice e molto rilassante.
Cascate Thor Thip: sono piccole e ci vogliono 3 ore in salita per percorrere i 9 chilometri la campo Phanoen Thung Camp (che è più ad ovest – verso la Birmania - rispetto al Ban Krang Camp). Una bella passeggiata nei boschi. Il sentiero in certi punti è sdrucciolevole per cui evitatelo se non avete le scarpe adatte – e per di più dicono ci siano diversi serpenti non proprio innocui.
Cascate Guangzhou: nella parte più orientale del parco. Sono piuttosto famose fra i tailandesi essenzialmente per 2 motivi. In primo luogo sono facilissime da raggiungere. In secondo luogo nel fine settimana ci fanno un mercato che in realtà è un ristorante galleggiante che offre la possibilità di mangiare a poco prezzo.
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Ovviamente non posso non darvi almeno un paio di consigli su dove mangiare: 2 ristoranti dove ci siamo trovati così bene (per atmosfera e cibo) che abbiamo optato per tornarci una seconda volta:
- Krua Mee Raphụng Phochna ครัวแม่รำพึงโภชนา che che è la mia translitterizzazione dal tailandese visto che il posto non ha un nome in inglese. Qui ci siamo fermati all’andata e ci siamo ripassati al ritorno perché prezzi stracciati e cibo ottimo. Per praticità ecco la mappa su google
- Raan Maok Isaan Gin Gium ร้านมะกออีสาน จิ้มจุ่ม anche in questo caso al è la mia translitterizzazione. Si trova in un piccolo villaggio (Tha Yang) e lo abbiamo scelto la prima sera perché unico ristorante con un po’ di vita dopo le 9 di sera. La seconda sera siamo tornati perché il cibo e l’atmosfera c’erano davvero piaciute! Prezzi ottimi – menù non disponibile in inglese ma basta lasciarsi consigliare dalle cameriere o guardare le figure. Qui sotto la mappa
In realtà devo ancora parlarvi delle grotte, ma non posso certo dirvi tutto in una sola volta.
Non conosciamo mai il valore dell’acqua finché il pozzo non si prosciuga Thomas Fuller
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infosannio · 7 years
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Il lamento di Sergio Castellitto: "Sono un elettore Pd in pieno disaccordo e con i figli che votano M5S"
Il lamento di Sergio Castellitto: “Sono un elettore Pd in pieno disaccordo e con i figli che votano M5S”
(Antonello Piroso per la Verità) – Ho scoperto Sergio Castellitto, attore e regista pluripremiato in carriera, uomo di forti passioni civili, nel 1990. Al cinema aveva debuttato nel 1981 (Il carcerato, protagonista Mario Merola, non esattamente una commedia, in cui Castellitto veste i panni di Scapricciatiello). In tv nel 1984 (Western di cose nostre, tratto dal racconto di Leonardo Sciascia,…
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