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Due libri sulle bande musicali e della loro storia sociale di un fenomeno sociale
di Giuseppe Corvaglia
  Il 2018 ha visto l’uscita di due libri sulla banda davvero interessanti, uno di Emanuele Raganato (Le Bande Musicali – Storia sociale di un fenomeno globale – Edizioni Streetlib write) musicista, musicologo, didatta, esperto di sociologia, ed un altro di G.M. Paone e D. M. Andriulli (La banda come strumento formativo, educativo e sociale – Edizioni Efesto 2018), entrambe acquistabili su web.
Raganato parte tracciando, in maniera gradevole e completa, la storia della Banda, partendo dall’origine del nome, fino a tracciare una storia delle bande dagli albori delle civiltà in Italia e nel mondo.
Inizia con le ipotesi sul nome, che potrebbe risalire al termine gotico bandwa, che indicava un gruppo di suonatori eterogeneo che animava la vita delle cittadine e accompagnava i banditori, o a quei gruppi musicali militari che suonavano e accompagnavano i vessilli che distinguevano gli eserciti (bandiere, bande) o ancora alla fascia (banda) che indossavano i trombettieri che annunciavano il corteo regale (pensate ancora oggi alle processioni che con le bande annunciano l’arrivo del simulacro dei santi o alle parate o alle manifestazioni civili…).
Segue una classificazione, che si giova di proposte come la distinzione di Fulvio Creux, che le distingue in Bande amatoriali, più diffuse al centro nord, Bande ministeriali o bande militari ispirate alla struttura proposta da Vessella, e Bande da giro, tipiche del sud Italia, o come pure la distinzione delle bande pugliesi di Bianca Tragni, che le suddivide in bassa banda, o bassa musica, banda a servizio interno, simile alle bande amatoriali che limita la sua attività a livello locale, e banda da giro, fenomeno a parte perché erano e sono vere e proprie imprese che da maggio a ottobre suonavano per più di cento giornate e diventavano reddito per molti lavoratori della musica.
Interessante anche il riferimento al termine Concerto, molto usato per le Bande, che deriva dal latino “consertus”, letteralmente “legato insieme”, come lo sono gli strumenti di una formazione, e ad altri termini come Fanfara, formazione fatta di ottoni e percussioni di origine ottomana, e la distinzione in ambito anglosassone fra Brass-band inglesi, composte, come le fanfare, da ottoni e percussioni, e le Wind-band che avevano anche strumenti ad ancia, oltre ad altre interessanti notizie.
Raganato poi fa una analisi storica del fenomeno che parte dall’Egitto dei faraoni e nell’antica Grecia, dove l’uso primitivo di strumenti a fiato e di percussioni era legato principalmente a due ambiti. Quello militare e quello rituale–funebre, specie per i morti in battaglia, aspetti presenti in tutto il mondo antico fino all’Impero romano e che per certi aspetti ancora resistono.
Nel prosieguo del racconto riporta l’opinione di Vessella sulle bande musicali dei popoli barbari, essenzialmente formate da strumenti atti a creare un fragore assordante che incitasse i propri soldati e incutesse paura agli avversari.
Poi passa al Medioevo, dove gruppi musicali scandivano le diverse fasi dei tornei, ma accompagnavano pure i cortei regali, e delinea brevemente una figura importante per la musica popolare, quella del Menestrello (Minstrel), musicista, cantastorie, girovago, spesso autodidatta e senza formazione specifica a livello musicale, figura caratteristica di musica e cultura popolare che, come la banda, portava musica e poesia al popolo, ed era diversa da quella del Trovatore che era più colto, conosceva la letteratura e le tecniche di scrittura ed era bene inserito nelle corti dei nobili. La carrellata sul Medioevo si chiude citando pure le fanfar delle truppe turche.
Dopo questa disamina passa ad analizzare il percorso delle bande popolari in Italia, che prendono forma come tali nel XIX secolo, partendo dalle Bande militari, le più importanti, fino alle bande locali, piccole realtà, ma non meno significative. Artefici di queste bande locali erano sodalizi come le Società di Mutuo Soccorso, le Società Operaie, gli Oratori, specie quelli dei Salesiani, che erano luoghi di incontro, cultura e istruzione quando lo Stato non riusciva a garantire questo. Queste associazioni iniziarono a occuparsi, fra l’altro, della formazione musicale di bambini e degli adolescenti delle classi popolari.
La presenza delle bande era molto diffusa e determinante fu il ruolo educativo, fortemente moralizzante, della didattica musicale che interessò tutti i ceti sociali influenzandone pure i reciproci rapporti, un po’ come le associazioni di soccorso e volontariato che pure comprendevano diverse classi sociali che, nelle operazioni di soccorso, stavano fianco a fianco.
Il ritrovarsi per le prove portava a creare rapporti umani solidi e inaspettati per le differenze sociali, ma anche a ricercare esperienze musicali nuove. Proprio questa voglia di novità portò le bande a rinnovare il repertorio, per cui si passò dal repertorio di marce militari e ballabili a un repertorio più colto, ma sempre popolare, come la musica lirica.
Nel Regno delle Due Sicilie le bande popolari erano caratterizzate da una base popolare imponente costituita da artigiani, bottegai, contadini, operai guidati da Capi-musica, provenienti dai ranghi più bassi dei corpi militari e da maestri formatisi negli ambienti religiosi o nei Conservatori napoletani.
Il sospetto che queste bande potessero essere conniventi con associazioni segrete eversive, specie dopo i moti del 1848, portò i Borboni a controllarle e a regolamentarle, cercando di inglobarle nella Pubblica Amministrazione.
Banda del Regno delle Due Sicilie
  Per questo un Decreto Regio stabiliva che tutte le bande dovevano essere censite, che non dovevano indossare uniformi di tipo militare o non autorizzate, che i musicisti dovevano essere inquadrati nel corpo della guardia urbana del proprio municipio e che il Capobanda doveva avere una patente di riconoscimento con l’elenco dettagliato di tutti i musicanti della sua formazione. Per usare una divisa la banda doveva presentare un figurino della stessa, che doveva essere approvato dall’autorità, e doveva disporre di un abito nero per le ritualità funebri, di una divisa di ordinanza e di una divisa da parata.
Con l’Unità d’Italia le bande militari furono unificate e molte Amministrazioni locali cercarono di dotarsi di una banda civica da gestire con le proprie risorse. I Sindaci, oltre a promuovere le bande, dovevano controllare la moralità dei musicanti.
Secondo il Ministero della Pubblica Istruzione nel 1872 in Italia erano attive 1927 formazioni, di cui nel Meridione 429 bande e 46 fanfare per un numero complessivo di 12.532 suonatori. In questo novero non c’erano le bande non istituzionalizzate.
Figurino per una banda municipale a Spongano di fine ‘800.
  Queste bande si esibivano nelle piazze e nelle ville comunali, spesso su strutture dette “Cassarmoniche”, che erano strutture in ferro o muratura a forma di padiglione o di pagoda che hanno dato origine alle attuali strutture mobili in legno che si montano in occasione delle feste patronali, strutture adorne di lampadine, ma spesso decorate con ritratti delle muse o dei musicisti come un teatro mobile.
Cassarmoniche a Trani nella villa comunale e ad Acquaviva delle Fonti
  Non manca in entrambe i libri il riferimento agli orfanotrofi, che si chiamavano Conservatori, che istruivano gli orfani alla musica e poi li indirizzavano ad arruolarsi nelle fanfare e nelle bande militari. Particolare a Lecce fu l’esperienza degli Spizziotti dell’Ospizio Garibaldi che formarono una banda benvoluta e apprezzata come i loro colleghi Martinitt a Milano.
La banda dei Martinitt – Museo dei Martinitt Milano
  Nel ventennio il fascismo cercò di accentrare e controllare tutto e le bande vennero inglobate nella Opera Nazionale del Dopolavoro (OND, 1925). Le bande che non si iscrivevano alla OND e i musicanti che non si tesseravano al Partito Fascista, non potevano suonare e al regime, che usava abbondantemente la propaganda; le bande servivano in molte occasioni (feste, adunate, manifestazioni…).
Con l’istituzione dell’Opera Nazionale Balilla poi si avviò per i più giovani un programma di inquadramento musicale da affiancare all’attività sportiva e tanti ragazzi appresero i rudimenti della musica.
Nel dopoguerra si cercò di ricostruire l’Italia e riprese stimolo anche la ricostituzione delle bande. Si crearono nuovi complessi che richiamavano le jazz band, ma anche le bande tradizionali ripresero a suonare. Importante in questo periodo fu la fondazione dell’ ANBIMA (Associazione Nazionale Bande Italiane Musicali Autonome), animata da Lorenzo Semeraro, e il ricostituirsi di Associazioni culturali, chiuse dal Regime o inglobate nel Dopolavoro, che promossero l’istruzione musicale e la formazione di bande. Negli anni ’50 e ’60 le Amministrazioni locali cercarono di rilanciare il fenomeno inteso come momento di formazione culturale, istituendo corsi musicali popolari e vennero in questo supportate da ANBIMA che propose musicanti esperti, anche se non diplomati al Conservatorio, a cui venne riconosciuto un titolo dal Ministero della Pubblica Istruzione utilizzabile per insegnare in questi corsi ad orientamento bandistico che fornivano i mezzi per conoscere la musica e per farla concretamente. Così molti giovani tornarono ad essere istruiti alla pratica musicale e a sperimentare concretamente la musica suonando nelle bande (N.d’A. A Spongano in seguito a questi corsi furono in molti ad essere avviati alla musica e 10-15 ragazzi fecero l’esperienza della banda a giornata.)
Raganato ricorda come le bande riprendono il loro ruolo con successo grazie anche a valenti direttori dal gusto e dalla cultura musicale raffinata come Ligonzo, Lufrano, Centofanti e tanti altri.
Negli anni ’70 molti musicanti studiano al Conservatorio e possono ambire a qualcosa di più, per cui si indirizzano o verso le bande militari o verso l’insegnamento nella scuola. Resistono le Bande da Giro, che impegnano i lavoratori per 100 giorni all’anno, ma si cominciano a formare Bande a giornata che si spostano lo stesso per tutto il Meridione, ma fanno una stagione meno impegnativa, intorno alle 50 giornate all’anno, mantenendo una struttura che si ispira a quella delle bande da Giro, con un organico più contenuto, ma un repertorio classico di marce e fantasie d’opera con un occhio anche alla musica moderna (Canzonieri vari).
L’altro libro, di Gregorio M. Paone e Donato M. Andriulli (La banda come strumento formativo, educativo e sociale Edizioni Efesto 2018), è meno analitico sull’excursus storico, ma pone di più l’accento sulla funzione sociale e pedagogica della banda.
Per sottolineare quanto le bande siano state importanti per fare musica, per farla conoscere e farla apprezzare, cita il metodo Orff nel quale il bambino impara la musica creandola assieme agli altri, prima con piccoli e semplici strumenti a percussione e poi approcciandosi a uno strumento vero e proprio, che può suonare in gruppo, misurandosi in una esperienza formidabile. Questo metodo didattico considera la pratica di uno strumento essenziale per l’apprendimento e ci introduce a quella che oggi, sempre più spesso, è la pratica nelle Scuole secondarie di primo grado dove, alla normale educazione musicale, si associa l’esperienza pratica supplementare con uno strumento. Viene, però, posto pure l’accento sulla banda come esperienza di vita, spendibile in tutti i campi della vita stessa, e sulla necessità di educare all’ascolto, perché solo ascoltando si può raggiungere una consapevolezza che porta a migliorare l’esecuzione. L’ascolto degli altri consente poi ad ognuno di collocarsi nella giusta dimensione ed essere parte di una esecuzione perfetta.
Nella musica d’insieme, che sia l’orchestra, una fanfara, un quartetto d’archi, un gruppo rock o la banda, ascoltarsi è essenziale. Chi suona deve saper ascoltare la propria voce e la voce degli altri, ma l’ascolto globale e analitico serve anche ad ognuno di apprezzare un brano che è sempre il contributo di più voci.
Per gli autori l’essere parte di una banda è una esperienza di vita che ti porta, già in giovane età, a maturare, a mettere in pratica la teoria, ad adattarti al rispetto delle regole e a misurarti con le difficoltà vere, al fianco di persone più esperte che ti possono guidare.
Una parte del libro è dedicata al Maestro Direttore che, specie nelle piccole realtà, era una specie di Capobanda con competenza per scrivere le parti e indirizzare i bandisti, ma con il tempo, evolvendosi la tecnica degli strumenti, la competenza dei singoli musicisti, la loro scolarizzazione e i gusti del pubblico, il suo ruolo è cambiato e ha dovuto avvicinarsi sempre più alla figura del Direttore d’orchestra.
In effetti, il Maestro, che è anche concertatore della banda, non deve tenere solo il tempo dei pezzi suonati, ma deve comunicare emozioni, interpretare la pagina stampata, ispirare i musicisti e il pubblico.
Questo hanno saputo fare i grandi Maestri del passato (Piantoni, Ernesto e Gennaro Abbate, Falcicchio…) e del passato recente (Ligonzo, Lufrano, Centofanti…), ma anche del presente (Samale, Schirinzi, Pescetti, Guerrieri, Donateo…) e non a caso molti dei nomi citati sono stati anche Direttori d’orchestra.
Quando il Maestro tocca le corde giuste, dirigendo i musicisti, nessuno resiste e si crea una sintonia che ammalia il cuore di chi ascolta e di chi suona e lo cattura per dargli balsamo di piacere.
Questa maestria i musicisti, allievi e non, la apprezzano e sarà una lezione che li guiderà nella vita.
La seconda parte del libro declina in pratica quanto descritto, cioè come la banda sia uno strumento formativo, educativo, e sociale riportando l’esperienza dell’Orchestra giovanile “P. Ragone” di Laureana di Borrello e il lavoro del Maestro Managò che, in una realtà sociale divisa dalle faide, trova nella musica un momento edificante che unisce tutti i giovani a dispetto delle inimicizie e del clima ostile. Questo sforzo sarà ripagato non solo per il risultato artistico, che porterà il giovane Concerto in tutta Italia, ma anche per i riconoscimenti ottenuti. Primo fra tutti l’interessamento di Riccardo Muti che riconosce nel lavoro del Maestro Managò, di tutti gli altri maestri di trincea e dei giovani musicisti l’impegno a costruire cultura, pace, godimento, umanità nel quotidiano e nel concreto, invitando una di queste bande, la giovane banda di Delianuova , ad aprire il Ravenna Festival nel 2006 dirigendola lui stesso.
La banda di Delianuova col Maestro Muti al Ravennafestival
  Banda P.Ragone di Laureana di Borrello
  Libri di nicchia forse, ma sicuramente letture interessanti e facilmente reperibili nei siti del web.
  Siti da consultare sull’argomento
http://www.collezionespada.it/greci1.htm
http://www.salentoinlinea.it/index.php?option=com_content&view=article&id=3649:la-banda-qernesto-e-gennaro-abbateq-citta-di-squinzano-una-tradizione-lunga-135-anni&catid=77&Itemid=689
https://www.youtube.com/watch?v=ranv_CdQZL4
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Fiabe della Terra d’Otranto
Una raccolta di fiabe della Terra d’Otranto curata da Eugenio Imbriani ci arriva dal passato come uno scrigno di preziosi
  di Giuseppe Corvaglia
Un libro per curiosi, vecchi e giovani, è arrivato in edicola con Quotidiano di Lecce, ma si può acquistare anche sullo store dell’editore Del Grifo. Si tratta di Fiabe e Canti dell’antica Terra d’Otranto, 8,00 euro, pp 221.
L’edizione è stata curata da Eugenio Imbriani, che ci ha abituati alle  “chicche” sempre molto interessanti e ora ci regala questa raccolta, accompagnandola con un bel testo introduttivo che ci conduce nel mondo fantastico evocato da questo libro.
Il libro propone alcuni libretti di fine ‘800 e di inizi ‘900 scritti da Pietro Pellizzari e Giuseppe Gigli che raccolgono fiabe, canti e indovinelli.
Imbriani, nella sua introduzione, ci dice che i materiali sono distribuiti in maniera piuttosto disordinata, ma proprio questo rende la pubblicazione particolare e appassionante, perché la si può leggere nell’ordine dato e si può piluccare, cogliendo di fiore in fiore, senza perderne il senso e la gradevolezza. È  come uno scrigno che contiene gioie preziose e la lettura è come un’avida ricerca che quei tesori ci fa scoprire, godere e ammirare.
Il primo gioiello sono fiabe per lo più note ai Salentini, perché alcune di queste fanno parte di rinomate antologie, da Calvino a De Donno a Bronzini, ma soprattutto perché molti le ricordano, in tutto o in parte, dai racconti dei loro maggiori.
Talune, infatti, emergono dalla memoria, altre si ricordano in parte, come è stato per me per quella del Ciucciu cacazzacchini; altre si incontrano per la prima volta, come per me la fiaba de lu Purgineddhru o quella dei Musceddhri, o ancora quella dei Persi, una banda di scapestrati che conquisterà il tesoro di un Regno con l’arguzia e le qualità di ognuno (uno per tutti e tutti per uno e dire che il capo era considerato un buono a nulla).
Talvolta queste storie sembrano dimenticate e talvolta sembrano nuove, ma sempre sono avvincenti ed edificanti con le loro morali, come si addice alle favole.
Una in particolare mi ha attirato, non solo per ragioni campanilistiche, poiché è ambientata nel mio paese, Spongano, e riferita all’autore da Paolo Emilio Stasi, ma perché descrive la storia di molti meridionali (e non solo), a disagio nella loro terra, avara di risorse, che porta i genitori a privarsi del necessario per mandarli lontano a farsi una posizione o a formarsi per affrontare la vita: la Scola de la Salamanca. (Mi preme chiarire che la fiera o paniri, che la fiaba attribuisce a Spongano, è la Fera de Santu Vitu di Ortelle, ma non è un errore, è che a quei tempi Ortelle e Spongano facevano parte dello stesso Comune).
Tutte le fiabe proposte sono godibili e interessanti; quelle di Pellizzari sono particolarmente preziose perché scritte in un dialetto antico, ma fluido, magico, evocativo e sono corredate anche da una felice traduzione e da note anch’esse puntuali ed efficaci. Sono note che non consentono solo di comprendere il testo, ma spiegano, agli appassionati estimatori del dialetto, l’etimo di molti vocaboli e modi di dire, parti integranti del nostro lessico. Anche le favole di Giusti sono gradevoli e pregevoli, ma sono scritte “solo” in lingua italiana.
  Altro dono prezioso sono i canti che raccontano storie d’amore puro, d’amore corrisposto e d’amore contrastato, di devozione e di sdegno d’amante.
Molti di questi sono davvero delicati e struggenti, sono pregni di immagini poetiche elevate, da antologia (Conca cilestra d’oru, unica spera/ quannu te nfacci lu sule se scura/ si fatta comu fiuru a primavera,/ sì fatta cu cumpassi e cu misura./ Ca quannu fice tie, bellezza altera,/l’urtimu sforzu fice la Natura), (Ulia cu aggiu l’arte de Virgilio:/ nnanzi le porte toi nnucìa lu mare/ e de li pesci me facìa pupiddhru, /mmenzu lle reti toi vinìa ncappare;/ e de l’aceddhri me facìa cardillu,/Mmenzu lu piettu tou lu nidu a fare/ e sutta l’umbra de lu tou capiddhru / vinìa lu menzugiornu a riposare.) (Porti li musi russi comu cirasa,/ lu culure ci porti è de na rosa;/ quannu camini tie trema la casa/ Pouru amante tou, comu riposa?/ Se pe sorta iddhru vene a casa / vene cu viscia tie, pumu de rosa/ e se pe sorta se chiga e te vasa,/ dapu vasata, te pija pe sposa).
Dalla raccolta di G. Palumbo, tratta dal libro, Coloni imbacuccati in segno di lutto
  Molto interessanti sono anche altri canti di argomento religioso o narrativo (Na donna me prumise le quattr’ore./ Ieu lu meschinu, me pusi a durmire./ quannu me risbigliai fora nov’ore/pensa se persi tempu allu vestire!/ Nnanti alle porte fui de lu miu amore:/ eccume, beddhra mia, famme trasisire./ Iddhra me disse: va cchianta cicore/ cinc’ama donne no pensa a durmire.) (L’amore m’à rennuttu a malatia;/ m’à rennuttu mme pigliu l’ogliu santu;/m’à rennuttu nnu ramu de paccia,/ quattru medici stane a la miu ccantu./ E lu maggiore medicu dicìa:/ figliu, ci campi, non amare tantu./ e ieu, dintru de mie, rispunnia:/ ieu vogliu amare, e poi o moru o campu ).
In “Uh ci si beddhra”, uno stornello a rime identiche, viene raccontata la storia di due innamorati che cercano un pretesto per vedersi. L’innamorato suggerisce di andare da lui per prendere del fuoco, perché lui ha pietra focaia e acciarino e se la madre dice che la ragazza ha tardato dirà che c’è voluto più tempo per accendere e se si vedono i segni dell’amoreggiare sulle labbra potrà sempre dire che è stata una scintilla. (Uh ci si beddhra! Quantu ulìa tte vasu!/ Pijate na paletta e troa lu focu:/viti ca troi a mie mpuntunatu;/ portu scarda, focile e scettu focu./ Ci mammata te dice ca hai tardatu/ dine ca nu bastai a truare focu./ Se poi te vide lu musu sugatu, / dine ca foe fusciddhra de lu focu.)
Qui il Giusti si “riscatta” e ci propone canti pregevoli in dialetto, come quelli del Pellizzari, e indica pure le diverse aree di provenienza, che vanno da Leuca alla Valle d’Idria. Sono composizioni che talvolta sono arrivate a noi come canti, (Cu l’acqua ci te llavi la matina, Oddiu quantu su erti sti pariti, Sia Beneditu ci fice lu munnu…) o come parti di canti noti (…ci era pintore ieu te dipingeria/ nu litrattu de tie me nn’ìa de fare oppure …lu latte ca te dese la toa mamma/lu teni a mmucca e no lu sputi mai…) che ritroviamo nel repertorio di canti proposti dai tanti gruppi di musica popolare, ma nella maggior parte ci restano come versi, non per questo sono meno musicali e pregevoli.
Proprio il Giusti, che aveva pubblicato le fiabe in italiano per renderle fruibili anche ai non Salentini, ci fa un dono raro, inserendo nel suo libretto una dotta disquisizione del Maggiulli sui dialetti della Terra d’Otranto.
Dalla raccolta di G. Palumbo, tratta dal libro: vecchia di Martano (1907)
  Ci sono poi degli indovinelli intriganti  e un’antologia di fotografie di Giuseppe Palumbo, il “fotografo in bicicletta”, che ci mostra, con dovizia di particolari, il mondo salentino dei primi anni del secolo scorso, le persone, i mestieri, i luoghi: la vita.
Popolane che attendono il passaggio del corteo nuziale (1907), sempre dall’archivio di G. Palumbo e tratta dal libro
  Potete così comprendere perché ho paragonato questo libro a uno scrigno che contiene gioielli mirabili e la sua lettura al frugarci dentro per trovare le gioie più belle e rare da conservare nel cuore.
L’addobbo di una via a teorie di archi variopinti (1918-1919), dalla medesima raccolta
  Qualcuno potrà obiettare che alcune di queste fiabe o di questi indovinelli o di questi canti sono già comparsi in altre raccolte, ma ritrovarli in questa pregevole edizione, è una gradevole occasione per custodirle e per soddisfare la voglia di meraviglia, le tante curiosità che abbiamo, ma anche per rievocare ricordi sopiti dell’infanzia e per meravigliare quel bimbo che, dentro di noi, non si perde, anche quando diventiamo poveri uomini che si credono celebrità e “…san leggere di greco e di latino e scrivon, scrivon e han molte altre virtù…” che non riescono a fermarsi e ad abbandonare “i rei fantasmi” e invece dovrebbero fare un bagno vivificante in questo mondo favoloso.
La mungitura all’ovile (1909), dalla raccolta di G. Palumbo
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Le Panare di Spongano
ph Giuseppe Corvaglia
  Le Panare di Spongano 2017: il tempo passa e la festa cambia pelle   
di Giuseppe Corvaglia
Le Panare sono una festa dei frantoi di Spongano che, come festa dei frantoi, ha rischiato di scomparire ma che, diventando festa di tutta la comunità, è rifiorita da circa mezzo secolo e oggi è un evento.
Le panare sono ceste di canne tagliate a listarelle e intrecciate a una struttura di polloni di ulivo che servivano a trasportare tante cose, ma che, per l’occasione, i frantoiani riempivano di sansa con una modalità particolare tale da consentire di porre al centro della panara il fuoco.
La festa è stata sempre una gioia della comunità, anche se in origine gli unici che facevano le Panare erano i frantoi: tanti frantoi tante Panare.
E a Spongano di frantoi ce n’erano tanti, come si evince da una ricerca di prossima pubblicazione sul Delfino e la Mezzaluna, ma anche quando le panare le facevano solo i frantoiani era sempre una festa della comunità, sia perché molte famiglie del paese avevano frantoiani che in quel giorno uscivano dalla “nave”, che era il frantoio, e potevano godere della loro presenza, sia perché la maggior parte della popolazione era parte del processo di produzione dell’olio, dalle olive al frantoio.
I frantoi erano tanti e chi non lavorava nei frantoi lavorava negli uliveti per la raccolta dei frutti. Poi c’erano i “ccatta e binni”, mediatori che compravano e vendevano olive per consentire a chi non ne avesse abbastanza per una molitura di realizzare in soldi il raccolto o di completare la quantità di frutti per fare una “vascata” (4 tomoli o 160 Kg di ulive). C’era chi raccoglieva la morchia, residuo dell’olio, per rivenderla ai saponai; c’era chi nelle Saponiere ci lavorava e c’erano le famiglie che vivevano dei proventi di tutti questi lavori.
ph Giuseppe Chiarello (2006)
  La festa poi consentiva per quel giorno di ascoltare musica, ballare, cantare, stare in compagnia e in allegria, sfidando il freddo e il buio dell’inverno.
Nei tempi andati oltre alle fiammelle delle Panare si allestiva anche un falò che scaldava la piazza e consentiva ai paesani di portare a casa, in recipienti di metallo o terracotta, della brace, partecipando a quel fuoco comune che rinsaldava i legami comunitari.
Intanto, tra le note dei musicanti e i balli dei giovani, le Panare si consumavano lentamente, sotto la sorveglianza dei frantoiani che “governavano” il fuoco facendolo durare anche fino al giorno dopo.
ph Adriano Rizzello (1983)
  Circa quarant’anni fa ci fu la prima vera rivoluzione: un gruppo di amici realizzarono la prima Panara che non partiva da un frantoio. Era gente che nei frantoi aveva lavorato e sapeva cosa erano e come si realizzassero le Panare, le quali, con l’avvento di nuove tecnologie, diventarono più rare, come accadeva per i frantoi.
Da quel momento la panara fatta al di fuori dei frantoi fu sdoganata e paesani, gruppi di amici, famiglie, associazioni, si sono cimentate a creare la lpropria Panara, ognuno mantenendo la struttura tradizionale e addobbandola come meglio sapeva e poteva. La tradizione vuole che gli ornamenti siano combustibili, perché la panara deve consumarsi lentamente, ma deve anche bruciare completamente.
L’aumentato numero delle Panare è una bella cosa, ma porta, talvolta, a qualche inconveniente specie quando la gestione della fiamma non è adeguata: infatti se si alza troppo deve essere domata con pezzuole bagnate di acqua e se tende ad affievolirsi con pezzuole bagnate di un combustibile lento, come olio o nafta. La benzina potrebbe avvampare tutto e l’acqua sulla sansa che arde provoca un fumo denso e fastidioso. Oggi non è che l’esperienza dei conduttori delle panare sia aumentata, ma ognuno si attrezza perché nel centro della panara, al posto dello spurtiddhru, con il fuoco vivo ci siano i più sicuri lumini o lanterne che mostrano la fiamma, certamente meno rischiosi.
Dalle poche Panare di un tempo oggi se ne contano fino a 40 o 50, e qualche anno di più, disposte in uno scenografico serpentone colorato e vivace che si forma a partire dalla Casa Cranne, il Palazzo Bacile, da dove è sempre partito il corteo.
ph Giuseppe Chiarello
  Nel primo pomeriggio la banda parte dalla piazza e va al citato Palazzo, dove prende la prima delle Panare e da lì andrà a prendere tutte le altre, secondo un percorso stabilito dal Comitato dei festeggiamenti e dalla Polizia Municipale.
In passato la banda raccoglieva tutte le Panare e i frantoiani pretendevano che ognuna di esse fosse accolta nel corteo con una marcetta e tutti gli onori. La bandicella che le aveva accompagnate si rifocillava alla fine del percorso nel Palazzo baronale con stuzzichini e l’ottimo vino di casa Bacile; oggi imprenditori o privati cittadini generosi apprestano dei piccoli rinfreschi in itinere.
ph Giuseppe Corvaglia (2003)
Se quarant’anni fa la gestione dell’evento era possibile con due membri del comitato e un vigile urbano, oggi necessita di una vera e propria macchina organizzativa che studia il percorso, i punti di raccolta, la gestione del traffico, col coinvolgimento anche della Protezione Civile per domare eventuali incendi.
Anche la Panara delle Scuole è una iniziativa lodevole e ormai consolidata, con il coinvolgimento delle diverse classi cittadine.
1991. Prima Panara della scuola: la acconciano Pippi “Scorcia” Rizzello e Luigi Stefano Rizzello (ph Giorgio Tarantino)
  Un altro piccolo, ma significativo, cambiamento avvenne trent’anni fa quando un gruppo di amici decise di riproporre la Panara come si faceva una volta, prima dell’avvento di carri motorizzati.
Gli amici, da sempre attenti alla cultura e alle tradizioni popolari, decisero di proporre la panara ponendola su un carretto rigorosamente trainato a mano. Un altro elemento della festa sono, infatti, i mortaretti e qualsiasi bestia al loro scoppio potrebbe imbizzarrirsi con effetti imprevedibili.
La Panara partì da via Torquato Tasso, proprio da quello che era stato negli anni ’50 un frantoio della famiglia Casarano, e l’impresa riuscì grazie alla collaborazione di Arcangelo Corvaglia che allestì la struttura della Panara e di Salvatore Bramato che ci prese per mano e avviò un percorso che sembrava estemporaneo e dura ancora.
All’epoca la festa si concludeva con la deposizione delle Panare nel punto di raccolta . La banda, dopo essersi rifocillata, andava nella piazza principale e suonava ancora qualche marcetta e poi una coda fatta di ballabili con i pochi musicanti che si fermavano, ma poi la festa finiva.
Oggi la serata fredda è riscaldata dal fuoco, ma anche dal buon vino e da buona musica con un palcoscenico che, negli ultimi anni, ha visto gruppi di rango della musica salentina, ben diversa da quel rimorchio di trattore e da quei musici pieni di buona volontà, e la festa diventa una buona occasione per stare insieme all’aperto anche in una serata invernale.
Anche il piccolo rinfresco offerto dai Comitati fatto di taralli e lupini per “appoggiare” un buon bicchiere di vino nel tempo si è evoluto con aggiunta di pittule prima impastate e fritte dalle donne della Fratres, poi con la Confraternita dell’Immacolata, che alle pittule ha associato vin brulè, poi il brudinu di pipirussi e cucuzze siccate e dopo i pezzetti di cavallo…
La festa, insomma, si è evoluta, come è giusto che sia, mantenendo il connotato di festa comunitaria e diventando un evento che accoglie un discreto pubblico che di anno in anno va aumentando.
ph Giuseppe Corvaglia (2009)
  Anche l’atteggiamento della Chiesa è cambiato. In passato non riconosceva questa festa, tant’è che la messa di Santa Vittoria con il bacio della reliquia era contemporanea al corteo e anche il titolo di Panare de Santa Vittoria era sbagliato, attribuito solo perché il Comitato della festa della Santa organizzava anche le Panare, oltre al fatto che parte delle Panare fra gli addobbi avesse anche una immaginetta della santa. Oggi c’è un’attenzione diversa e il parroco partecipa alla festa con una benedizione delle Panare e del fuoco.
Quest’anno il programma sarà davvero ghiotto e stimolante.
Ad accompagnare gioiosamente con la musica le Panare sarà la banda Città di Racale che alle 15,30 partirà dalla piazza per raccogliere le Panare, prima fra tutte quella di Palazzo Bacile.
Sarà presente fra le tante associazioni, istituzioni e gruppi di privati cittadini, anche l’Associazione Panara Antica con la tradizionale Panara trainata a mano e il variegato gruppo che ormai da trent’anni non manca mai all’appuntamento, così come non mancheranno partecipanti di vecchia data e giovani che per la prima volta si misurano con questa esperienza.
Il corteo si prevede partecipato e allegro con le Panare adornate al meglio con addobbi che bruceranno con esse, ma che le rendono belle come altri ornamenti e che ravvivano il carro che le trasporta.
A fine corteo, mentre le Panare si consumano riscaldando l’ambiente col fuoco, Spongano festeggerà e accoglierà gli Ospiti.
Il Comitato offrirà , come da tradizione, lupini, magari sponzati e salati nell’acqua di mare, mentre la Confraternita dell’Immacolata proporrà pittule e vin brulè, il Comitato dei Rioni proporrà patatine fritte normali e a spirale e sarà presente uno stand di carne arrostita, ma non mancherà vino buono e buona birra artigianale.
La musica che farà pulsare il cuore della festa quest’anno sarà quella degli Aprés la Classe già noti al pubblico sponganese per uno strepitoso concerto di una notte bianca rimasta nei ricordi di molti, ma prima del concerto alcuni amici e compagni di cantate renderanno omaggio a Pippina Guida con quei canti che l’hanno vista gioiosa protagonista che sarà pure un momento per ricordare quei Cantori che con lei hanno saputo restituirci un patrimonio di suoni, voci, ricordi, cuore e memoria.
La Pro loco, sempre attenta e partecipe, organizzerà un mercatino dei prodotti artigianali e locali che si prevede interessante e stimolante specie in un periodo che fa pensare ai doni.
Altra attrattiva della serata sarà una percorso multimediale curato da Ada Manfreda che valorizza foto e video provenienti da archivi o da collezioni private, che darà un’idea della festa in tutti i suoi aspetti.
Una ideale prosecuzione delle Panare sarà Il viaggio del Nachiro il 23 e il 24 dicembre, evento teatrale itinerante che ha fatto il giro del Salento e si conclude proprio nel frantoio ipogeo di Palazzo Bacile con Fabio Bacile di Castiglione, medico e scrittore, nachiru d’eccezione, che parlerà dei segreti del frantoio.
E quei giovanotti, ora un po’ attempati, che da trent’anni tirano una panara sul carretto come “somarelli”, pensando che l’esperienza sia faticosa, che possa finire a ogni anno che arriva, alla fine si ritroveranno circondati da altri formidabili giovanotti che sentono come propria l’esperienza, che la rendono viva , godendo del vino buono che sul carretto non manca, gustando le pittule e il brudino, mozzicando alli panini, assaggiando le purpette e vivendo un’esperienza autentica.
Finche dura l’avventura … ce piacere ci nci sta.
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